“Il
Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni
città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma
sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi
operai nella sua messe!” (Lc 10,1-12.17-20).
Tutti
gli esegeti concordano nel dire che queste parole non appartengono personalmente
a Gesù, pur riflettendo scrupolosamente il suo pensiero, ma sono di Luca, il
quale, dopo l’ascensione di Gesù in cielo, di fronte a nuove problematiche, avrebbe
fatto risalire direttamente a lui questa “esortazione”, questo mandato
ufficiale, che condensa, appunto, tutte le sollecitazioni da Lui rivolte ai
suoi. Nel particolare momento storico in cui Luca riporta questo testo, dunque,
Gesù non c’è più: spetta quindi ai discepoli (i settantadue) sostituirlo nella
predicazione e nella catechesi, per assicurare a tutto il mondo l’annuncio del
suo messaggio.
Sono
parole, infatti, che esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione
del tutto particolare per la realtà venutasi improvvisamente a creare nella
Chiesa nascente: l’urgente necessità di trovare nuovi apostoli, perché “la
messe è molta, ma gli operai sono pochi”. C’è insomma bisogno di operai, di
uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato al suo commiato
da questo mondo: uomini in grado di mettere in pratica il suo esempio,
soprattutto di parlare in nome suo al cuore della gente. La loro è una missione
particolare: non servono discorsi asettici, dottrinalmente perfetti; non devono
dimostrare la bellezza letteraria, l’importanza, il valore del vangelo; le loro
parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad
amare questo “lieto annuncio”, a seguirne l’autore, Colui che per amore, per la
salvezza dei popoli, ha sacrificato la sua vita sul patibolo della croce. In particolare questi nuovi “settantadue”, ovunque vadano, qualunque sia la loro destinazione, devono semplicemente ripetere quello che Lui, il loro Maestro, ha fatto: guarire i malati e annunciare: “Il regno è qui, in mezzo a voi”. Non devono porsi come giudici intransigenti, ma come consolatori degli afflitti, guaritori delle anime e dei cuori in difficoltà.
Il
mondo è sempre pieno di persone sofferenti nell’anima, persone che sono convinte
di essere malate fisicamente, che cercano affannosamente dei medici in grado di
guarirle, e non si rendono conto che la loro malattia è diversa, di altro tipo,
non capiscono che per guarire devono affidarsi alle cure di un’altra medicina,
quella dello Spirito.
Ecco perché, soprattutto oggi,
abbiamo bisogno di “medici” dell’anima in grado di far riscoprire la presenza
di Dio in ognuno di noi, che facciano capire che tutti possiamo “guarire”,
perché la Forza guaritrice è dentro di noi, nel nostro cuore, nella nostra
anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano
riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che
alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima
con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per
l’uomo è infatti fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una
psiche malata, è contagiosa, infetta anche il corpo, lo indebolisce, è inevitabilmente
causa di gravi problemi.
Continuando
poi la lettura del testo, c’è un particolare che merita di essere sottolineato:
di fronte alla necessità di questi nuovi operai, Gesù prima di tutto si rivolge
ai presenti con un generico: “Pregate”; ma subito dopo aggiunge: “Andate!”.
Cioè: “Voi tutti siete chiamati”, nessuno escluso!
In
genere però noi ci fermiamo alla prima esortazione, al “Pregate”: siamo infatti
molto bravi con le parole: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda
qualcosa di nuovo nella tua Chiesa! C’è bisogno urgente di operai!”. Arrivati
invece alla seconda, all’“Andate!”, preferiamo fare orecchie da mercante, e
molto elegantemente ci defiliamo da qualunque coinvolgimento personale! Anche
se in giro si fa un gran parlare di responsabilità personale, di
collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione corale ecc. ecc., noi, per
quanto ci compete, ci muoviamo molto bene solo con le buone intenzioni, con i
bei discorsi, con ampi programmi destinati a terzi, molto poco con i fatti
concreti.Ci lamentiamo allora perché la società di oggi fa schifo? Rispondiamo noi per primi; responsabilizziamoci; comportiamoci coscienziosamente, anche nelle piccole cose, diamo il buon esempio. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Nicchiamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri fioretti. Dio ci vuole responsabilmente impegnati, all’opera!
Certo non è una cosa da prendere alla leggera. È un “sì” che non sarà sempre facile onorare. Saremo come agnelli che devono vedersela coi lupi. Nel mondo, infatti, sono accolti bene soltanto quelli che organizzano feste, che offrono pranzi, che ossequiano i potenti, che appoggiano indiscriminatamente qualunque loro iniziativa; in altre parole solo dimostrando di essere accomodanti, simpatici, aperti, senza esporsi mai di persona, senza mai contrastare apertamente le varie ideologie dilaganti. Ma se al contrario proponiamo il vangelo come regola di vita, se denunciamo apertamente ogni opposizione al suo spirito, ogni improponibile stile di vita, allora, automaticamente, ci troveremo in mezzo a lupi rapaci che tenteranno di sbranarci in tutti i modi. È sempre stato così, anche con Gesù; e noi dobbiamo metterlo in conto e prepararci!
Del resto va bene così. Perché è solo combattendo che emerge la nostra autenticità, lo Spirito di Verità che ci spinge da dentro; in altre parole, se siamo mossi da motivazioni false, deboli, umane, alle prime difficoltà lasciamo subito perdere (“Ma chi me lo fa fare?”), desistiamo immediatamente. Ma se abbiamo motivazioni forti, se abbiamo il fuoco nell’anima e la passione nel cuore, allora affrontiamo “il nemico” e andiamo avanti sempre, con determinazione, per la nostra strada.
Una strada che è lunga e faticosa da percorrere. Ecco perché dobbiamo essere “leggeri”. Se abbiamo troppi interessi personali da difendere, diventiamo troppo impacciati, troppo pesanti: dobbiamo liberarci dalla zavorra. Quando andiamo in montagna, ci carichiamo di uno zaino il più leggero possibile; perché se pesa troppo, ci rallenta e finiamo per non riuscire più ad andare avanti. “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Abbiamo una missione da compiere, uno scopo ben preciso da raggiungere, con indicazioni molto impegnative; dobbiamo procedere dritti per la nostra strada, senza “salutare nessuno”: se ci fermiamo a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarà anche bello, ma non arriveremo mai alla nostra meta.
Dobbiamo essere “liberi e leggeri”: solo così potremo viaggiare spediti. Se il benessere materiale è l’arte di avere il più possibile, il servire Dio, la spiritualità, è l’arte contraria: avere il minimo indispensabile. Dobbiamo essere rispettosi, caritatevoli, non imponiamo niente a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno loro poi a doversi giustificare con Dio.
Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare due volte”. Rispettare vuol dire allora tenere in considerazione soprattutto le esigenze e le scelte dell’altro, anche se sono diverse dalle nostre; rispettare è accettare che nella vita, oltre noi, ci siano anche gli altri. Dovunque andiamo, portiamo la pace: “Pace a questa casa”. Pace, in ebraico “shalom”, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente; pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento. È tradotta in greco con “eirène” che indica appunto benessere, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro di sé non ha pace, non è serena, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.
Comportandosi come suggerito da Gesù, i “settantadue” vanno e tornano entusiasti: “È proprio vero, Signore! Anche noi siamo riusciti a fare quelle stesse cose che tu hai fatto!”.
Ecco: se anche noi ci fidassimo più di Lui che di noi stessi, se camminassimo per le strade della vita ascoltando i suoi consigli, scopriremmo di non essere mai soli, di agire con la sua stessa forza: perché Lui è dentro di noi, con il suo Spirito, e con Lui possiamo arrivare a tutto, nulla ci è impossibile. Lo sottolinea Gesù stesso agli apostoli: “Non siate felici per il potere che scoprite di avere, per quelle cose che riuscite a fare. Non siete voi, non è merito vostro, ma è la Forza che è in voi che compie i vostri prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi saranno comunque scritti nei cieli”.
L’uomo passa, per quanto benemerito il suo nome ben presto verrà dimenticato. Dopo pochi anni dalla sua morte, nessuno più si ricorderà di lui. I nomi scritti sulla terra, quaggiù, svaniscono con il vento. Ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. Amen.