venerdì 1 marzo 2019

3 Marzo 2019 – VIII Domenica del Tempo Ordinario


“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (Lc 6,39-45).

Anche questa domenica proseguiamo nella lettura del “Discorso della pianura” di Luca.
Gesù anche oggi continua a puntualizzare quella che deve essere la fisionomia del cristiano, cogliendo, purtroppo molto bene, lo sbandamento tipico della società contemporanea, che ha definitivamente cancellato i fondamentali valori morali dell’uomo.
Una società alla deriva, in cui, cosa ancor più grave, i pastori, le guide, che dovrebbero contrastare tale situazione, sono invece cieche e mute, non offrendo più alcuna sicurezza al gregge, esposto in questo modo al costante pericolo di finire fuori dal retto cammino.
Lo sport seguito dai cristiani di oggi, per esempio, non è tanto l’innocuo calcio, ma quello di criticare il prossimo, comunque e a prescindere, a ragione o a torto.
Siamo tutti solerti nell’individuare “la pagliuzza” nell’occhio del vicino, e non ci accorgiamo delle travi che ci impediscono qualunque visuale corretta e serena.
“Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello!”, esclama Gesù.
Sono parole dure, ma estremamente vere, realistiche, che ci mettono di fronte al nostro non voler riconoscere e correggere i nostri errori personali, che al contrario siamo sempre pronti a giustificare e ad attenuare.
Siamo molto comprensivi e benevoli con noi stessi, mentre con gli errori degli altri siamo spietati, li giudichiamo sempre con estrema durezza. Basterebbe ascoltarci quando parliamo delle altre persone, dei vicini, dei colleghi, dei nostri capi, del parroco…
In ogni famiglia, in ogni comunità ci sono dei problemi: ma niente ci autorizza a sentirci superiori agli altri e ad esprimerci come se Gesù avesse parlato solo “per loro” e non anche e soprattutto “per noi”.
Ci comportiamo troppo spesso come dei bambini: sempre attenti a proteggerci, a far apparire il meglio di noi, per paura che gli altri vedano il peggio. Impariamo invece a vedere noi stessi e gli altri così come Dio ci vede. Non è che dobbiamo astenerci dal giudicare le situazioni, di esprimere pareri, ma di cambiare il nostro criterio di riferimento, di vedere le cose con lo sguardo pieno di speranza del Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Siamo tutti peccatori, siamo tutti figli: non abbiamo bisogno di fare bella figura davanti al Padre.
Una prima verità che possiamo infatti ricavare dal vangelo di oggi è che uno solo può giudicare: nostro Padre che è nei cieli. Noi infatti, chi più chi meno, siamo tutti “ciechi”, e nessun cieco può ergersi a guida di altri ciechi. Giudicare il prossimo equivale mettersi al posto di Dio.
E allora, come comportarci con le persone che sbagliano? Pretendere di imporci per correggerle è pura ipocrisia: spesso infatti, al posto di una correzione fraterna, esercitiamo una buona dose di superbia e di egoismo: pretendere di autonominarci “guide”, nonostante la nostra personale “cecità”, equivale infatti a quel “giudicare”, che è contrario alla carità.
Altro discorso invece è se la nostra correzione si basa sulla carità fraterna e sulla comprensione. È una soluzione che sicuramente aiuta noi e i nostri fratelli.
Noi infatti dobbiamo “vedere” soprattutto il lato buono degli altri, e di farne tesoro, cercando di imitarlo: il lato cattivo, invece, va prima di tutto analizzato nel nostro intimo, per evitare di cadere anche noi con loro. In questo modo il “guidare gli altri” si trasformerà in “coscienza sincera” dei nostri limiti
Mettere in pratica il nostro battesimo, senza rifornirci di carità e amore, significa fallire in partenza: è come il viaggio del carro pieno di vasi di terracotta: ad ogni scossone uno sbatte contro l’altro, finendo spesso per ridursi in cocci.
Purtroppo questa è la realtà con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente all’interno delle nostre comunità. Per questo dobbiamo essere cristiani “dal buon tesoro nel cuore”: dobbiamo avere cioè il cuore sintonizzato sul cuore di Dio, essere “buoni discepoli”, lasciarci forgiare dalla scuola dalla sua scuola di Vita: perché quando è veramente la carità a guidare la delicata opera fraterna di pulitura delle pagliuzze nel prossimo, non ci sarà più spazio per alcun giudizio di condanna. Sarà invece la “festa” piena di speranza, di vita risorta; sarà finalmente il “culto gradito” a Dio perché sarà Lui a manifestare attraverso i nostri cuori, la misericordia, la solidarietà, l'uguaglianza, la dignità ed il rispetto. Amen.


giovedì 21 febbraio 2019

24 Febbraio 2019 – VII Domenica del Tempo Ordinario


“A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male”.
(Lc 6,27-38).

Siamo ancora nel “Discorso della pianura” di Luca: è l’importante discorso programmatico di Gesù sulle “beatitudini”, collocato da Luca appunto in quel “luogo pianeggiante” scelto da Gesù per parlare alla folla, una volta disceso dal monte su cui si era ritirato a pregare.
Nel brano di oggi, che segue immediatamente quello di domenica scorsa, Gesù si spinge oltre, ponendo a quanti vogliono seguirlo, delle condizioni ancor più impegnative e difficili da praticare: amare, benedire, pregare, porgere l’altra faccia, donare, fare del bene a tutti, essere misericordiosi, perdonare, non giudicare, non condannare, ed altri verbi simili, richiedono effettivamente un comportamento “superiore”, un comportamento che, per la nostra mentalità tiepida ed egoistica, deve essere supportato da una dedizione cieca e assoluta, un eroismo, una particolare vocazione alla santità, un livello notevolmente avanzato, in quell’ascesi mistica che si specchia soltanto in Dio, sorgente di amore, bontà e tenerezza.
Ma non è questo il pensiero di Gesù: per lui sono azioni alla portata di tutti, indispensabili anche per chi sceglie di vivere semplicemente da buon cristiano, per quanti decidono di seguire gli insegnamenti del Signore, conducendo una vita normale.
Per questo le proposte del vangelo di oggi ci mettono in crisi profonda, perché nonostante ci suonino come un imperativo categorico, finiamo per leggerle e rileggerle senza viverle!
Abbiamo come l’impressione che siano dirette ad altri, forse più capaci, più buoni, più cristiani di noi. Per noi sono condizioni troppo difficili: ci vuole infatti una autentica padronanza di sé per arrivare ad amare i nemici, a benedire coloro che ci maledicono, a porgere l’altra guancia, a non riprenderci con gli interessi quello che ci è stato tolto…
Tuttavia, a guardar bene non è tanto la nostra incapacità ad accostarci con amore al nemico, a chi ci fa del male; noi entriamo in crisi perché ci sentiamo colpevoli, sul banco degli imputati, in quanto ci rendiamo conto di essere degli ingrati approfittatori non volendo usare verso il nostro prossimo quella stessa condotta amorevole che Dio usa continuamente con noi.
In pratica le parole di Gesù di oggi propongono esattamente la visione fedele di come Dio si è comportato e continua a comportarsi con noi.
Ed è proprio così: a noi sembra assurdo amare i nemici, eppure Lui ha continuato a rincorrerci quando Gli abbiamo girato le spalle; ha continuato a bussare alle nostre barriere, a tapparsi le orecchie alle nostre maledizioni, a sorridere ai nostri maltrattamenti, ad attendere pazientemente che sfogassimo la nostra rabbia sbattendogli la porta in faccia.
Non l’abbiamo mai trovato sordo alle nostre richieste, anzi, lui è stato ed è sempre pronto a donarci in abbondanza perdono, amore, accoglienza e comprensione.
È la storia di questa sua comprensione ad oltranza che ci sconcerta, ci confonde; e, mentre ammiriamo il Suo volto misericordioso, mentre ci rendiamo conto dell’amore con cui ci insegue, dobbiamo tornare in noi, dobbiamo tornare ad essere Sua immagine, a fare tutto quello che ci dice. Non possiamo infatti rimanere insensibili a tanto amore!

Allora capiamo che quella che prima ci sembrava un’assurda imposizione, è semplicemente la risposta logica e obbligata di quanti come noi hanno già beneficiato di tanto amore, di tanta pazienza e misericordia.
E a questo punto la nostra storia personale cambierà; scopriremo finalmente la nostra vera vocazione di “guariti”, di persone cioè, che hanno recuperato gratuitamente, nel perdono e nell’amore di Dio, la loro forza, la loro dignità interiore. E così, guariti dalle nostre miserie, dalle nostre inimicizie, diventeremo a nostra volta “guaritori” della miseria e dell’inimicizia dei nostri fratelli.
C’è però chi soffoca ancora nelle paure. Paura di soffrire. Paura di pagare di persona. Paura di non essere ricompensato, capito, gratificato a dovere. Paura – in realtà - di andare oltre tutti i parametri, le aspettative, dettate dal suo piccolo “ego”. È un passaggio piuttosto frequente anche per noi. E solo se scendiamo in profondità, possiamo andare oltre.
Perché solo se ascoltiamo con grande umiltà la Parola di Dio, solo accogliendo nel nostro cuore la forza dello Spirito, ci sentiremo rassicurati, capiremo di non aver nulla da temere.
Impariamo allora a chiedere perdono al nostro prossimo da subito, in casa, nel lavoro, nella vita sociale, in parrocchia; e se subiamo un torto, sappiamo di avere in mano una grande occasione: di poter cioè disorientare con la bontà coloro che non sono buoni con noi; di poter spiazzare con la mitezza i violenti; di poter fermare con la pazienza gli arroganti.
Allora capiremo perché S. Francesco sia arrivato a chiamare perfetta letizia il momento dell’offesa e della provocazione.
Sì, perché è l’offesa che ci offre la possibilità di amare senza alcuna ricompensa, senza nulla ricevere in cambio (“se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avete?”); è l’offesa che ci offre l’occasione di perdonare come Dio ci perdona. E questo ci darà una grande gioia.
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”.
Allora capiremo finalmente cosa significa diventare una cosa sola con Lui. Amen.



giovedì 14 febbraio 2019

17 Febbraio 2019 – VI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente… Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…” (Lc 6,17.20-27).

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una moltitudine di persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate.
Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, indicando il percorso preferenziale per entrare a far parte del suo Regno.
Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: come l’antico liberatore e legislatore di Israele, sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna a quella folla di “poveri” la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
“Povero”, in greco “ptòkos”, termine che traduce l’ebraico “ani”, non vuol dire come in italiano, essere sprovvisto di beni materiali; ma indica uno che è “piegato” in sé stesso, sottomesso, afflitto, provato, uno che ha perso ogni entusiasmo, un rinunciatario, uno che non ha più voglia di reagire alla sua situazione.
Tutta quella gente che circonda Gesù, è “povera”, vulnerabile, debole, è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita, che sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire” anche solo ascoltandolo, toccandolo.
Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra; in pratica, con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non vive come voi l’amarezza del pianto; se non prova e non accetta umilmente il dolore dell’emarginazione, la rassegnazione per essere stati privati di soluzioni straordinarie e vitali”.
Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non cede mai alle disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: una mentalità “vincente”, lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini. 
Ma attenzione: il senso delle beatitudini non è: “Si è felici soltanto se si piange, se si soffre, se si è poveri derelitti” ma “si è felici solo se si è in grado di partecipare alla Vita di Dio, di vivere sempre la vita come suo dono, qualunque essa sia, nei suoi momenti esaltanti e in quelli di estremo dolore”.
Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, ci sarà impossibile capire il senso della vita, viverla: ed è allora che diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti. È allora che ci chiuderemo nel nostro rancore, ignorando e rifiutando Dio.
“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche l’uomo che diventa “divino”, che si “divinizza”, che fa di tutto per ridiventare immagine di Dio, capolavoro del creatore, come ci dice la Genesi all’inizio della Bibbia. “Elohim” allora è il nostro marchio, il soffio divino di Dio, di quando eravamo ancora creta, ciò che siamo in profondità, nella nostra essenza, nella nostra anima.
L’uomo, creatura di Dio, è un amalgama di terra e di Spirito: scopo della vita è di spogliarsi della sua fragilità di creatura provvisoria, per raggiungere nuovamente la sua immortale dignità divina originaria.
Invece cosa ha fatto Adamo? Ha tradito il suo compito, il suo essere, il suo nome, la sua missione; ha voluto essere immediatamente Dio, “da subito”, magicamente. Ha voluto saltare il cammino doloroso e faticoso della vita: ma questo non si può fare, dice la Bibbia, non è possibile. Perché l’uomo che vuole evitare il suo cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore, irrimediabilmente “si perde” nel peccato, nella superbia, nella ribellione, nell’egoismo: si condanna cioè ad una vita squallida, ad un cammino di morte, di sangue, di alienazione.
Lo stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è commisurato al grado di adesione alla volontà di Dio, con cui l’uomo conduce la sua vita su questa terra.
Solo se antepone questa sua unione col divino, davanti a tutto e a tutti, il suo sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione già su questa terra della bontà e dell’amore del Padre.
Purtroppo noi moderni nutriamo altre aspirazioni più immediate: facciamo dipendere la nostra felicità esclusivamente dal raggiungimento egoistico dei molteplici traguardi che ci poniamo: “Quando avrò ottenuto quella cosa, quando avrò raggiunto quell’obiettivo, quando sarò ricco, allora sicuramente sarò felice!”.
Ci illudiamo che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo tutto, il meglio di noi stessi, il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità.
Solo che una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende un’amara sorpresa: non ci basta più, c’è dell’altro; davanti a noi si impone un nuovo traguardo, ancor più attraente, più indispensabile, più importante: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Purtroppo siamo schiavi del consumismo: consumiamo non solo le cose ma anche le emozioni. Abbiamo bisogno di emozioni sempre più forti, intense, perché ormai siamo completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle emozioni spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
Tutti abbiamo dentro di noi, due realtà che operano in modo contrastante: quella dell’uomo materiale e quella dell’uomo spirituale. Per il primo la felicità è raggiungere, possedere, conquistare, correre, avere; per l’uomo delle beatitudini la felicità è fermarsi, gustare, percepire, condividere, vivere. Per il primo, la vita è un insieme di rette: è andare sempre avanti, raggiungere, conquistare nuovi, innumerevoli traguardi. Per il secondo la vita è una spirale concentrica: ritorna continuamente in sé stesso per attingere lo Spirito e metterlo a disposizione degli altri.
Felicità, beatitudine, in ebraico è “ascèr”, che significa “progredire, continuare, ripetere”: la gioia che proviamo nel vivere quaggiù lo spirito delle beatitudini, non deve essere pertanto un punto di arrivo, ma una spinta a proseguire, ad andare sempre avanti per quella strada maestra segnata da Gesù; strada che ci porterà al traguardo finale della felicità eterna, la “beatitudine” totale nell’Amore del Padre. Amen.


giovedì 7 febbraio 2019

10 Febbraio 2019 – V Domenica del Tempo Ordinario


“Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano” (Lc 5,1-11).

Luca, nel vangelo di oggi, ci racconta la chiamata dei primi quattro discepoli: sono Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, due coppie di fratelli, tutti pescatori.
Il testo però si concentra soprattutto sulla figura di Pietro.
Siamo presso il lago di Genesaret. Ora, nei vangeli, il simbolismo del “lago” viene collegato molto spesso a particolari situazioni di vita : oltre che a fenomeni di tempesta improvvisa, di cambiamento radicale, di rovesciamento della situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), la sua superficie in genere sempre liscia, immobile, tranquilla, rende molto bene anche uno stile di vita monotona, nel nostro caso dei discepoli, che prima di incontrare Gesù conducevano una vita sempre uguale, ogni giorno sempre le stesse cose, senza sussulti, completamente piatta, come talvolta appunto sono le acque del lago.
Un’esistenza insomma, per alcuni aspetti, molto simile alla nostra vita spirituale: non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, anzi qualche volta anche noi permettiamo a Gesù di usare la nostra “barca”. Siamo convinti che stiamo bene così come siamo, che la vita è tutta in quel che facciamo. Pensiamo che il nostro sia l’unico modo di vivere; ma siamo purtroppo ancora molto lontani dall’immaginare quanto, al contrario, sia più esaltante uscire in barca con Lui! Forse abbiamo anche provato, ma abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!
Val la pena allora di chiederci: Ma noi, che abbiamo aderito alla chiamata di Gesù, ci impegniamo seriamente “nel gettare le reti”? C'è fuoco, c'è passione nel nostro agire? C'è sole nei nostri occhi, luce ed entusiasmo nel nostro cuore? C'è sufficiente “profondità” in quel che facciamo? “Maestro abbiamo provato tutta la notte e non abbiamo pescato nulla”. Come a dire: “Ci siamo occupati di tantissime cose, abbiamo fatto qualunque esperienza possibile, abbiamo sperimentato infinite tecniche, sondato ogni metro d’acqua, ma ci ritroviamo sempre a mani vuote; quando tiriamo le reti in barca, non troviamo mai nulla”.
La realtà è che se continuiamo a vivere con superficialità, a “pescare” senza impegno, è decisamente difficile riuscire a combinare qualcosa di buono: a quel livello, è addirittura impossibile!
Sulle rive del lago, gli apostoli stanno lavando le reti, afflitti anch’essi dai nostri stessi problemi: ma non appena sentono la voce di Gesù, il loro cuore inizia a vibrare; sentono che le sue parole risvegliano emozioni fino ad allora “morte”, emozioni che infondono nuovo vigore, che fanno rivivere; sentono che Egli indica loro nuove possibilità, che li spinge ad osare nella vita.
Gesù parla a tutti, si fa sentire con la stessa insistenza: ha parlato ai discepoli di allora, parla anche a noi, discepoli di oggi, a quanti nel battesimo egli chiama ad essere suoi fedeli collaboratori.
Ma noi, a differenza dei primi, che facciamo? Il nostro cuore non vibra, non si entusiasma? Sembra proprio di no: continuiamo a rimandare continuamente qualunque iniziativa! Eppure prima o poi dovremo deciderci: la barca è pronta, le reti anche. Non abbiamo più giustificazioni: sciogliamo dunque gli ormeggi e prendiamo il largo. È arrivato anche per noi il momento di rischiare, di osare, di andare. Dobbiamo aver fiducia in Lui. “Ma che ne sarà di noi? Che succederà? Ce la faremo? Soffriremo? E se poi ci sbagliassimo?”. Certo, se ascoltiamo la paura, se preferiamo star sdraiati sul bagnasciuga, non prenderemo mai il largo.
Seguire Gesù non vuol dire conoscere alla lettera tutto ciò che lui ha detto: è sufficiente amarlo e credere fermamente in Lui: non lo seguiamo perché conosciamo perfettamente le Scritture, ma perché ci siamo innamorati di Lui, perché sappiamo che con Lui potremo sicuramente diventare migliori.
Le proposte di Gesù sono sempre mirate, di grande respiro, di larghe e profonde visioni: ci permette sempre di scegliere, purché poi ci mettiamo seriamente in gioco.
Ogni sua chiamata, così come quella descritta nel vangelo di oggi, si articola sempre in due momenti, in due richieste semplici e chiare, ma insieme decise e autoritarie.
La prima è: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “esci fuori dalla tua normalità, allontanati dal tuo modello di vita, dal tuo modo di pensare, di agire, lascia tutto ed entra nella Vita vera!”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “È possibile”. Domande e dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, dobbiamo avere il coraggio di decidere.
Quando il padrone della Vita bussa al nostro cuore, dobbiamo dargli una risposta: nessun altro può sostituirci, nessun altro può farlo al posto nostro.
Molti sono quelli che dicono: “Sarebbe bello, ma non ci riesco, è troppo difficile, va troppo oltre le mie possibilità, non fa per me”. Quando invece sarebbe più onesto ammettere: “Ho paura; non mi va; sto bene così come sto; mi basta; è più comodo non fare nulla; io non sono un eroe!”.
Ma di che stiamo parlando? Che cosa ci basta? Di che cosa ci accontentiamo? Di sprecare il nostro tempo senza far nulla? Di vivacchiare con le solite compagnie, col solito gruppetto di amici che ormai non ci offrono più nulla? “Prendi il largo!”. Ci accontentiamo di frequentare sempre i soliti ambienti, i soliti ritrovi, di ascoltare l’esaltato di turno che straparla di politica, di donne, di sport, di soldi, di lavoro? “Prendi il largo!”.
Non ci capita mai di provare disgusto per le nostre giornate senza senso, di sentire alla sera un profondo desiderio di verità, di assoluto, di scoprire e di conoscere il vero motivo del nostro esistere? “Prendi il largo!”. Non succede mai di sentirci arrabbiati, insofferenti, stanchi di risposte preconfezionate, utilitaristiche, di comodo? “Prendi il largo!” ci ordina la voce suadente e insistente di Dio.
La seconda richiesta è: “Getta le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai fino in fondo; entra dentro il mistero di Dio, il mistero dell’Amore, della Vita”. Non possiamo entrare in contatto con Dio stando in superficie, all’esterno, fuori dall’acqua; dobbiamo vivere immersi nel nostro battesimo. Ci sentiamo figli di Dio? “Certo che sì!”, rispondiamo. Ma che importanza, che valore diamo a questo “si”? Perché a parole non risolveremo mai il nostro problema: una semplice risposta non ci cambia la vita: “Getta le reti!”. Siamo consapevoli di avere nella nostra vita una missione da compiere? Certo! Ma qual è la missione che Dio ci ha assegnato? Dobbiamo scoprirlo! Ma per farlo dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). Come si fa? In un solo modo: “Getta le reti!”. Non c'è altra possibilità.
Quando Pietro si rende conto di come può vivere con Gesù (la rete che tira su è piena, stracolma di pesci!), è preso dal panico, ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol dire Pietro con queste parole? Perché allontanare Gesù? Prima di tutto perché non si sente degno: viene assalito dallo sgomento, non si sente adeguato, all’altezza, ha paura per tanta imprevista e imprevedibile fortuna. Poi capisce, e sente il rimorso per aver sprecato a vuoto tanta parte della sua vita. Una delle sensazioni più amare che possiamo vivere è proprio quando, a quaranta, cinquanta, sessant’anni, o quel che è, improvvisamente ci svegliamo, e constatiamo quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Dio e, guardandoci alle spalle, ci rendiamo conto di aver sprecato una vita! “Dio, quanto sono stato stolto! Lo chiamavo vivere quando in realtà vegetavo soltanto”. Abbiamo allora la netta consapevolezza di aver vissuto un grande “bluff”, un tremendo fallimento, un continuo peccato di omissione. “Peccato”, in ebraico, significa infatti “mancare il bersaglio”: nella vita non abbiamo fatto centro, lo stile che avevamo scelto non era quello autentico. Il nostro peccato è stato quello di uscire in mare tutte le notti e non aver mai preso nulla. Abbiamo sprecato il nostro tempo.
“Signore, le tue, sono “parole di vita eterna”: l’abbiamo finalmente capito, l’abbiamo provato. Per questo vogliamo seguirti; per questo vogliamo lasciare tutto, metterci a rischio; vogliamo osare, vogliamo vivere per Te: e finalmente, sulla tua Parola, getteremo le nostre reti. Amen.


giovedì 31 gennaio 2019

3 Febbraio 2019 – IV Domenica del Tempo Ordinario

“In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino” (Lc 4,21-30).

La pagina del vangelo di oggi è il proseguimento di quella di domenica scorsa. Siamo ancora nella sinagoga di Nazaret. Gesù ha appena ultimato la lettura del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”, annunciando ai presenti che l’unto del Signore, l’inviato da Dio, è lui; che, in una parola, essi si trovavano di fronte il compimento di tale profezia: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato. Il Messia, quello che aspettavate, è qui davanti a voi!”. Un profondo silenzio cala tra i presenti, tutti rimangono interdetti, increduli, in preda allo stupore: “Ma come, costui non è il figlio di Giuseppe, il falegname?”. E iniziano a mormorare, a criticare con acredine i suoi comportamenti, dentro e fuori la sinagoga, la sicurezza, il fatto che si prodigasse a favore dei bisognosi di altri villaggi: “Perché, visto che è tanto bravo, non fa anche qui da noi i miracoli che compie altrove?”. E Gesù: “Avete ragione, dovrei fare come dice il proverbio: “Medico, cura prima di tutto i tuoi famigliari, quelli che ti stanno vicino; purtroppo però io conosco un altro proverbio che dice: nessun profeta è bene accolto nella sua patria”. E riprendendo il commento del testo messianico di Isaia, con parole chiare ed esplicite, demolisce le loro aspettative, escludendo in modo categorico che l’azione salvifica del Messia, che essi stanno aspettando, sia un avvenimento di loro esclusiva, un privilegio riservato al solo popolo ebraico, ma, come avvenne per le missioni di Elia ed Eliseo, è un’azione aperta a tutti i popoli della terra. A questo punto, ancor più scandalizzati, passano immediatamente dal disappunto iniziale alla rabbia autentica; sopraffatti dai loro pregiudizi nazionalistici, in preda all’ira, reagiscono a queste ultime affermazioni con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e dalla città, tentando addirittura di ucciderlo; ma Gesù, imperterrito, si fa largo tra quei scalmanati, e riprende il suo cammino, abbandonandoli alla loro mentalità chiusa e rancorosa.
Un’esperienza decisamente amara, questa di Gesù, vissuta oltretutto a casa sua, tra i suoi.
Quelli che lo respingono sono infatti suoi concittadini, gente che lo conoscono bene, che hanno vissuto per anni con lui, che lo hanno visto crescere; sono quelli che ogni sabato si sono riuniti con lui a pregare nella sinagoga: sono persone all’apparenza pie e religiose, ma che nel loro cuore non vogliono conoscere il Dio di Gesù. Vanno a pregare nella “casa di Dio”, ma non si curano di Dio; innalzano preghiere ma non pregano. Hanno a loro disposizione Gesù, ma lo buttano fuori dalla loro vita.
Un fatto che deve farci pensare seriamente, poiché è l’esatta proiezione, è l’“ante litteram”, di ciò che succede puntualmente anche a noi, oggi, a noi cristiani “adulti”.
Come i Nazaretani, anche noi andiamo in chiesa, ma come loro dimostriamo di poter vivere senza Dio. Andiamo in chiesa, condividiamo la Parola, ma all’uscita ci esprimiamo stupidamente contro Dio, la Chiesa, il prossimo.
Anche noi vorremmo un Gesù diverso da come ce lo descrive il vangelo; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo in linea con le nostre idee, con i nostri schemi, con i nostri parametri: e quando vediamo che non è così, lo rifiutiamo.
Rifiutiamo in pratica colui che solo può salvarci, che solo può guarirci; rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante volte vorremmo le persone che ci circondano diverse da quel che sono: le vorremmo simili a noi; fatte tutte in un certo modo, secondo le nostre esigenze; vorremmo che tutto il mondo fosse esattamente come noi lo immaginiamo.
Ma le persone sono come sono. Questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere dalla vita di ogni giorno.
Quante volte rifiutiamo a priori situazioni, incontri, esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Quando invece se avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, potrebbero diventare la nostra salvezza.
Ma che amore può nutrire per il prossimo, per gli altri, chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di amore può nutrire chi accetta Dio, i fratelli, il prossimo, solo fino a quando gli sono utili, fino a quando può ricavarne un tornaconto? Che amore può mai offrire loro, chi pretende di imporre le proprie idee nella loro vita? Purtroppo saranno sempre e solo degli infelici, dei disadattati, dei meschini, perché vivono con un cuore completamente vuoto, senza vita, senza entusiasmo.
È vero, pensiamo: ma “questo a noi non può succedere, queste cose non ci appartengono: noi siamo cristiani, siamo credenti, non ci abbasseremo mai a tanto!”.
Errore! Leggiamo il vangelo: chi ha ucciso Gesù? Non certo i miscredenti, gli atei, i peccatori incalliti; lo hanno ucciso gli osservanti, i religiosi, i servitori del sacro, i cultori delle Scritture, quei credenti che più credenti non si può; talmente credenti, pii, zelanti, ripieni di autostima, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per nessuno; neppure per Gesù. Soprattutto per Gesù: perché per le vie della Palestina, egli predicava e donava a quanti lo avvicinavano ciò che loro apertamente rifiutavano: l’amore, la speranza, la Buona Novella; e lo uccisero non perché quello che insegnava non fosse buono, ma perché era nuovo, un qualcosa di talmente innovativo e rivoluzionario da mandare in frantumi i loro schemi, i loro programmi, le loro sapienti teorie, da stravolgeva le loro idee utilitaristiche di Dio, della Legge, del prossimo. Gesù annunciava un Dio diverso, una Legge nuova, ed essi, i “fedelissimi” della Legge, non glielo perdonarono; annunciava un Dio amico e innamorato di tutti, anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare.
A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la gente si aspettava.
Egli è rimasto sempre e profondamente sé stesso; e soprattutto non ha mai tradito la sua vocazione, la sua chiamata, la sua missione; ha condotto sempre una vita completamente coerente con quanto predicava; non ha mai permesso ai pregiudizi di limitarlo: non gli importava cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere gradito, ammirato, accettato. Era insomma un uomo libero, con il compito di liberare il mondo dal male.
Questo Egli insegnava, questo egli proponeva insistentemente a quanti, schiavi delle leggi e dei pregiudizi di questo mondo, erano costretti ad un sopravvivere alienante, deludente, deprimente. L’uomo veramente innamorato del Dio Amore, fedele a Lui e al suo progetto divino, non sarà mai più tradito dalla vita, grazie a Lui. I suoi passi saranno sempre sicuri, illuminati dalla luce dello Spirito, il suo cuore costantemente sorretto dal suo Amore. Attraverserà il mondo senza essere più ostacolato dai demoni del mondo; semplicemente: “Passando in mezzo a loro”. Esattamente come ha fatto Gesù. Amen.



giovedì 24 gennaio 2019

27 Gennaio 2019 – III Domenica del Tempo Ordinario


“Anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”. (Lc 1,1-4; 4,14-21).

Sono le parole di apertura del Vangelo di Luca. 
Io le rivolgo a te, illustre N.N., sconosciuto visitatore di passaggio, pregandoti di fermarti qualche istante per leggere queste brevi considerazioni.
Fermati e ascolta il tuo cuore: forse Dio ora vuol parlare proprio a te.
Quante volte è capitato nella nostra vita: se ci succede di ascoltare, anche casualmente, un abile oratore, uno che ci colpisce immediatamente per la correttezza nel parlare, per la profondità e la condivisibilità degli argomenti trattati, il nostro primo impulso è di conoscerlo, di informarci da dove viene, di conoscere la sua storia, le sue origini, quali sono i suoi amici, le sue esperienze, i suoi studi, l’ambiente in cui vive, in una parola ci interessiamo alla sua vita.
Ebbene: noi che ci definiamo persone religiose, che ci professiamo cristiani, noi che ascoltiamo anche frequentemente in chiesa la sua Parola, che la troviamo giusta, consolante, piena di amore e speranza, non siamo per niente interessati a conoscere la persona di Gesù, ad approfondire la sua vita, i suoi insegnamenti. La sua figura non ci interessa, non ci appassiona; ignorare tutto, o quasi, di lui, non ci crea alcun imbarazzo.
Eppure noi diciamo di avere “fede”: si, certo, noi abbiamo fede, ma fede in chi? Su che cosa? Su cosa poggia la nostra fede? Possibile che Dio sia l’ultima delle nostre preoccupazioni? Siamo onesti con noi stessi; non riempiamoci la bocca di surrogati, tanto per far bella figura. Riconosciamo a noi stessi di non avere le idee chiare, quando le abbiamo, su fede in Dio, sul soprannaturale, sulla vita eterna, su come dobbiamo comportarci col prossimo, su come dobbiamo pregare e chi pregare. La nostra fede non è una fede solida, cosciente, granitica: non poggia su cognizioni incrollabili; al massimo si basa su quanto abbiamo sentito e sentiamo dire nelle prediche, su qualche ricordo ormai sbiadito della nostra infanzia, su delle pratiche e usanze che abbiamo continuato a mantenere da adulti, senza magari chiedercene mai la ragione di fondo.
Beh, lo capiamo da noi: questo non è avere fede, non è vivere la propria fede. Non è essere cristiani. Chi cerca di amare Gesù, lo vuole ovviamente conoscere: lo vuole approfondire, vuole entrare nella sua vita, vuole rapportarsi con lui, vuole in qualche modo “sperimentarlo”; vuole entrare nel suo mondo, guardare le cose dal suo punto di vista: anche solo per provare! Perché l'amore è conoscenza, e la conoscenza è amore.
Una delle nostre grandi lacune, che è la stessa anche di molti pastori, è che rischiamo di fare molta morale ma poco vangelo. Siamo molto esigenti con gli altri e molto poco con noi. Non conosciamo e non facciamo conoscere abbastanza il Dio di Gesù. Cerchiamo di insegnare ai nostri figli, agli amici, a chi ci sta a cuore, cosa devono o non devono fare; cosa devono fare per vivere bene, serenamente: ma ci guardiamo bene dal mostrare con l’esempio la figura di Gesù. In compenso facciamo tanta “politica” su Gesù: utilizziamo la sua parola, il suo vangelo, i suoi insegnamenti solo per determinati scopi. Ma non facciamo vedere a nessuno quanto grande sia il suo cuore, quanto la sua anima divina sia presente tra noi, quanto la sua umanità sia sconfinata, e come il suo amore senza limiti sia continuamente a nostra disposizione.
Purtroppo il perché di questo disinteresse è dentro di noi: è evidente che noi per primi siamo tiepidi nei confronti di Dio. E, lo ripeto, non possiamo conoscere e far conoscere agli altri qualcuno del quale noi stessi conosciamo troppo poco, di cui non siamo innamorati. Non possiamo impegnarci, dare la nostra vita a chi, nel profondo del cuore, ci è indifferente. Non possiamo fidarci di uno che consideriamo un nemico, un controllore, un “rompi”, un ostacolo alla nostra felicità. E Gesù, d’altro canto, non ci può guarire se noi non lo vogliamo, se non ci abbandoniamo a Lui, se non crediamo in Lui, se non sentiamo che Lui è la Vita vera, profonda, intensa.
Questa purtroppo è, più o meno, la nostra situazione! Immaginiamo di essere in regola solo perché di domenica continuiamo a frequentare la messa. Oppure ci sentiamo spiritualmente e religiosamente impegnati solo perché ci interessiamo a livello sociale di iniziative umanitarie, perché ci sentiamo sensibili alle problematiche mondiali, o perché simpatizziamo per i vari santoni, oggi tanto di moda; per quei “guru” commerciali, emeriti ciarlatani, per quei veggenti che puntualmente e mediaticamente propongono le loro apparizioni, magari condite da un eccentrico ascetismo orientaleggiante. Seguiamo purtroppo le mode. E abbiamo sempre più paura di guardarci dentro.
E invece dovremmo chiederci il perché di tutto questo. Dovremmo farlo con onestà, senza barare con noi stessi.
Certo, non è che il comportamento dei cristiani di oggi ci sia di particolare aiuto: siamo infatti circondati da tanti credenti, pastori, ministri, laici impegnati, che sono spiritualmente atrofizzati, senza entusiasmi, senza iniziative. Persone che si limitano solo allo stretto indispensabile, senza riuscire a trasmettere nulla. Persone che non si aggiornano, che non si affinano nello studio e nella preghiera, che non sono spinte dall’entusiasmo di vivere e condividere con i fratelli il messaggio di Cristo. Persone che non combattono più per i loro ideali. Persone, in una parola, che non hanno più fede.
Ebbene, non temiamo di conoscere Cristo, non continuiamo a rimanere nell'ignoranza: se abbiamo il coraggio e la forza di chiedere luce al suo Spirito, Egli sicuramente ci illuminerà. Non accontentiamoci di quello che si dice in giro, di quello che i media ci trasmettono: ma, come Luca, cerchiamo la Verità, verifichiamola, studiamola, applichiamola a noi stessi, alla nostra vita, umilmente, con i piedi per terra e con gli occhi fissi in cielo, sul Suo volto. 
Ascoltiamo, oggi, la voce di Gesù che ci legge il rotolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». A seguito del nostro Battesimo, siamo tutti degli “unti” del Signore. Attualizziamo le parole della Scrittura. Tutto quello che Gesù ci insegna nel Suo Vangelo, non è un qualcosa di anacronistico, una bella storia di ieri; ma è un viatico per oggi, un qualcosa di molto importante che ci riguarda tutti da vicino.
Se ci avviciniamo al Vangelo, noi possiamo leggere la nostra vita: l’“oggi” della nostra vita. Quello che troviamo scritto lì, è proprio quello che ci serve oggi. Se veramente sentiamo scandire un suo messaggio dentro di noi, vuol dire che Dio parla a noi di noi. Magari sono parole già udite centinaia di volte, ma forse non le abbiamo mai “sentite”. Non ne abbiamo capito il messaggio: “Ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi”. Sì, Cristo è venuto proprio per noi; perché poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, oggi lo siamo tutti. Lo siamo noi e lo sono tutti i nostri prossimi.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha mandato»: Dio ha mandato anche noi: le sue parole devono essere le “nostre” parole; anche se è difficile, anche se, guarda caso, Dio ci parla proprio oggi, quando abbiamo già troppo da pensare e da fare: figli, famiglia, lavoro, casa, tempo libero ecc.; proprio quando non possiamo sconvolgere, così su due piedi, tutte le nostre certezze, le nostre priorità. Vogliamo una vita serena, noi; una vita tranquilla, senza scossoni, senza imprevisti.
Ma se tutto quello che ascoltiamo dal Vangelo, se i suoi insegnamenti non ci toccano, non entrano dentro il nostro cuore, non ci coinvolgono, non ci commuovono, tutto quanto cerchiamo di benessere, di tranquillità, non serve a nulla: tutto diventa insufficiente, inutile, come inutile sarà la nostra vita.
Non continuiamo a perdere il nostro tempo pensando a cosa sarebbe meglio fare, a come lo dovremmo fare, per quale strada andare: facciamolo e basta. La strada che Egli ci indica è una sola: imbocchiamola oggi, facciamolo subito, perché domani, forse, è troppo tardi. Amen.


giovedì 17 gennaio 2019

20 Gennaio 2019 – II Domenica del Tempo Ordinario


«Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in racconti di feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché Gesù era un uomo di azione, aperto, uno che viveva, che accettava volentieri di mangiare con le persone, che festeggiava con esse: non era un eremita, un solitario, un musone, una persona scostante: era uno che condivideva volentieri i momenti belli della vita con tutta la sua gente. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, della felicità, delle soddisfazioni della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio che vuole per ogni uomo gioia e felicità.
A questo matrimonio di Cana, Giovanni fa partecipare anche la madre di Gesù: doveva ritenerlo un evento molto importante, poiché egli in tutto il suo vangelo annota la presenza di Maria due sole volte: all’inizio del suo ministero, qui a Cana, e alla fine della sua vita pubblica, sotto la croce.
Gesù, per Giovanni, ha vissuto la sua missione pubblica lontano dalla madre: Maria però ha vissuto questo distacco assicurandogli continuamente la sua discreta presenza: per suo figlio lei è stata sempre un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un cuore spalancato in cui Gesù poteva trovare sempre accoglienza e amore.
Durante dunque questa festa di nozze, improvvisamente, viene a mancare il vino. È appunto Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima l’imbarazzo dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”. Parole semplici le sue, ma che contengono l’invito ad intervenire immediatamente, per evitare l’imbarazzo degli sposi.
Sensibilità di madre, che si ripete anche nella “festa di nozze”, in quella avventura “nuziale” di grazia e di amicizia con Dio, che ogni singolo uomo è chiamato a realizzare nella sua vita: è sempre lei, Maria, che si pone appunto come intermediaria tra Dio e la nostra situazione spesso deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare le nostre nozze con Dio, ma spesso non ne siamo all’altezza, siamo “vuoti”, abbiamo esaurito il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Le nostre giornate sono inutili, prive di qualunque sapore, non c’è più gioia nella nostra vita. È proprio allora che dobbiamo dare retta a nostra Madre che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. Fidiamoci di Lei, fidiamoci delle Parole che Gesù ci dirà, e soprattutto mettiamole in pratica. “Fate quello che vi dirà”: a volte non capiamo ciò che Gesù ci propone; anzi lo capiamo benissimo, ma nel nostro orgoglio lo giudichiamo immeritato, irrazionale, illogico, stupido. Capiamo benissimo che Gesù vuole portarci a fare un certo cammino; e poiché non ne condividiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci; ci diciamo che quelle cose sono troppo difficili per noi, troppo dure, faticose, che è irrazionale doverci arrampicare per un sentiero di montagna, quando possiamo tranquillamente fare il nostro percorso in pianura.
“Fate quello che vi dirà”: sì, a volte Lui ci fa vivere esperienze veramente dolorose, momenti di grande sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di ribellione: ma la soluzione di ogni cosa sta sempre lì, nel fidarci di Lui: Egli è il Dio della Vita, conosce perfettamente le nostre possibilità, le nostre forze, e non sbaglia mai. Lasciamoci guidare da Lui, e quando la nostra debolezza è troppa, quando sentiamo di non potercela fare più, abbandoniamoci a Lui, lasciamoci portare in braccio, perché Lui è sempre lì, al nostro fianco, pronto ad intervenire in nostro aiuto.
I contenitori vuoti di Cana, le giare “di pietra”, stanno ad indicare appunto questo aspetto “pesante” della vita, i momenti in cui ci sentiamo rigidi, insensibili, pietrificati; stanno ad indicare che i nostri comportamenti privi di slancio, di amore, di passione hanno ormai sclerotizzato la nostra vita, privandola di quel respiro soprannaturale, ampio, diverso, in grado di alleggerire il nostro cammino. Quelle giare “di pietra” rappresentano, in altre parole, l’indurimento del nostro cuore, della nostra vita spirituale, delle nostre devozioni, delle nostre opere buone, delle nostre preghiere, delle nostre liturgie ormai stantie per la loro sciatta ripetitività: tutte cose che non ci trasmettono più nulla, non ci infondono più alcuna vitalità, nessuno slancio, che non sono più in grado di assicurarci la necessaria comunicazione con il Dio della Vita. 
Diventiamo vittime dell’abitudine, della quotidianità, fenomeni che frantumano i nostri sentimenti, la nostra volontà, le nostre aspirazioni, i nostri sogni. Non avremo più la forza per reagire, per andare oltre, per cercare il “nuovo”, il “bello” della vita, per affrancarci dalla zavorra letale della nostra insensibilità, del nostro disinteresse: e moriremo dentro. È vero: noi sicuramente moriremo nell’anima e nello spirito, se non troviamo il modo per ricaricarci quotidianamente di Dio, se non frequentiamo qualche incontro ecclesiale che ci offra orizzonti più ampi, che ci faccia riscoprire la ricchezza, la vitalità, la bellezza del nostro esistere cristiano. Moriremo inesorabilmente se sperperiamo tempo prezioso davanti ad una tv idiota e inguardabile, in discorsi inutili e chiacchiere da osteria, nella ripetitività di giornate senza costrutto e senza ideali. Moriremo inesorabilmente se non ci specchiamo nell’anima, se continuiamo a mentirci, a raccontarci “balle”, se ci nascondiamo dietro a sembianze di facciata menzognere, se ci appelliamo alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, solo per “incantare gli altri”: appariremo anche bravi, acuti, profondi, ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, a Colui che vorrebbe condividere la nostra vita. Moriremo inesorabilmente se deleghiamo le nostre responsabilità, i nostri doveri, i nostri ideali agli altri, a questo mondo materialista, indifferente, cinico, a questa società ormai depravata. Moriremo inesorabilmente se andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, se preghiamo tanto per pregare, se crediamo solo superficialmente, distratti e disinteressati. Perché così tutto diventa abitudine, tutto diventa “senza vita”, senza calore, insensibile alle vibrazioni interiori, ai sussulti dello Spirito che ci inabita.
Prima o poi, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, finiremo col vivacchiare vuoti, esauriti, finiti, morti. Alcune persone, che si pensano vive, sono già morte dentro; altre sono in fin di vita; altre ancora presentano serie malattie allo stadio finale; la loro anima soffre e geme, ma sono ben pochi coloro che se ne accorgono.
Ogni giorno, ogni mattina quando ci alziamo, spetta pertanto solo a noi decidere se vivere o se lasciarci inesorabilmente morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, “senza più vino” possa al contrario ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere, deve essere pertanto una dimensione irrinunciabile del nostro vivere, un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione spirituale.
In questo senso “Cana” ci invita a cercare in profondità, dentro di noi; ci spinge a penetrare all’interno della nostra anima per irrorarla di “nuovo vino buono”. “Attingete e portatene al maestro di tavola”, ordina Gesù ai servitori. Dio, creandoci, ha già compiuto in noi il suo specialissimo miracolo, elevandoci ad essere sua immagine e somiglianza.
Noi dobbiamo solo credere in questo miracolo, e attingere con forza, abbeverarci continuamente alle sorgenti dello Spirito, per vivere confortati e rinvigoriti dal suo amore. Amen.