“Dal
di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male:
impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza,
invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori
dall’interno e rendono impuro l’uomo”. (Mc 7,1-8.14-15.21-23).
Dopo la
lunga parentesi in cui abbiamo meditato per intero il sesto capitolo del
vangelo di Giovanni, riprendiamo la lettura di Marco che ci accompagnerà fino
alla conclusione di quest’anno liturgico. Per meglio comprendere l’assurdità
dell’episodio che Marco oggi ci propone, dobbiamo necessariamente rifarci ai
fatti che immediatamente lo precedono: Gesù ha appena vissuto tre esperienze
fortissime in prossimità del lago di Tiberiade.
La prima
sulla riva: molta gente lo seguiva perché “erano
come pecore senza pastore” (6,34). Avevano lasciato casa, lavori,
campi e si erano perfino disinteressati del cibo pur di ascoltarlo. E proprio
per loro Gesù opera la moltiplicazione dei pani; Egli si trova dunque di
fronte ad una gran folla di persone assettate, affamate, che vogliono sapere,
che vogliono nutrirsi, che vogliono mangiare cibo di vita. La seconda durante la traversata del lago: i suoi discepoli sono angosciati per il forte vento e non riescono a remare. Gesù va loro incontro camminando sulle acque. I discepoli sono talmente terrorizzati da scambiarlo per un fantasma. Ma Gesù dice: “Coraggio sono io, non abbiate paura” (6,47-52): Gesù sente, percepisce la paura, il terrore dei suoi amici: il terrore di affondare nelle acque impetuose, il terrore nel vederlo, il terrore nel vedere e nel sentire cose straordinarie che non riescono a metabolizzare.
La terza esperienza è dopo l’approdo sulla riva opposta del lago: la gente lo riconosce e lungo tutto il suo passaggio una folla di malati e paralitici, solo toccando il suo mantello, improvvisamente “venivano salvati” (6,53-56): Gesù percepisce in tutta quella gente il dolore della malattia, della sofferenza, dei loro limiti, dei loro condizionamenti.
Gesù insomma si sente immerso nella vita, è attorniato da gente che vive ai margini dell’esistenza umana, dove la miseria scorre, dove si soffre, dove si cerca disperatamente di sopravvivere: dove si piange, ci si dispera, dove ci si rialza, dove, insomma, si vivono intensamente sentimenti di pathos, di dolore, di sofferenza, di angoscia.
E mentre Gesù vive dentro di sé queste esperienze, calandosi nella disperazione della folla che lo pressa da ogni parte, alcuni farisei e scribi si fanno largo e avvicinatolo gli rinfacciano: “I tuoi discepoli non si sono lavate le mani; i tuoi discepoli mangiano di sabato; i tuoi discepoli toccano persone impure; i tuoi discepoli non sono religiosi perché non rispettano tutte le leggi”. Ecco, questo è il loro grande assillo, il loro problema esistenziale! È naturale quindi che Gesù di fronte a tanta stupida superficialità si scateni. Diventa furibondo contro questi ottusi legalisti, questi “ipocriti”, questa gente che rispetta tutti i 613 precetti della legge soltanto per salvare le apparenze, per farsi belli di fronte agli altri. E si rivolge loro ruvidamente, gelidamente, quasi con rabbia: “Sono questi i vostri problemi vitali? Siete senza cuore, non avete anima, non avete ancora capito né percepito chi è davvero Dio, cosa vuole e a che cosa ci chiama tutti. Con le vostre stupide tradizioni e leggi vi fate soltanto compatire. Voi vi preoccupate di essere a posto, bravi, in perfetta regola davanti agli altri; io invece mi preoccupo dell’uomo, della sua anima, dell’amore, della vita. A voi interessano i precetti della legge, a me interessa l’uomo, le sue fatiche, le lacrime, le conquiste, i piccoli passi, le libertà conquistate. A voi interessano queste leggi perché siete prigionieri di voi stessi; a me interessa l’uomo perché sono libero. A voi interessa l’apparire; a me interessa l’essere”.
All’epoca la legge ebraica era ancora scrupolosamente rispettata da tutti. Il favore poi, di cui i farisei godevano tra i loro concittadini, era fuori discussione. Pertanto Gesù, criticandoli, si scaglia non solo contro di loro ma contro un sistema di valori, che era accettato e condiviso dall’intera popolazione. Ciò che Gesù dice è quindi contro la morale comune di allora; le sue parole, agli occhi delle autorità religiose sono altamente scandalose.
Del resto le regole dei farisei originariamente non erano stupide; è che nel corso dei secoli hanno perso il loro valore. Lavarsi le mani o rispettare il sabato aveva sicuramente un senso molto profondo. Era un modo per dire: “Devo avvicinarmi a Dio con le mani e soprattutto con il cuore puro; ritagliare un tempo, il sabato, di preghiera, di silenzio, di pace, per vivere ricordandomi che Dio è il signore del tempo e di ogni giorno. In quel giorno non farò niente non perché Dio voglia che io non faccia niente, ma perché nessun lavoro può essere paragonato a Dio”. Gesti che col tempo hanno perso la loro anima, si sono svuotati. Non hanno più significato, si continuano a fare perché si è sempre fatto così, perché si è stati abituati così.
Quando un gesto perde la sua anima, diventa automaticamente formale o “fondamentalista”. Un gesto esprime (o dovrebbe esprimere) un senso, un’anima, un sentimento del cuore; è la conseguenza di un impulso interiore, di ciò che abbiamo e proviamo dentro. Se perdiamo di vista l’obiettivo, se il nostro gesto non esprime più questa intenzione è inutile, è formale, sicuramente inutile e spesso falso.
I farisei dunque erano perfetti, digiunavano più del necessario e non trasgredivano nessuna regola. Ma questa loro osservanza, questa “purezza” esteriore decretava la loro impurità, poiché si ritenevano gli unici ad essere amati da Dio, e quindi rispettabili: loro soltanto erano in regola, tutti gli altri no!
Dobbiamo purtroppo ammettere che un certo residuo di questa mentalità è ancora oggi abbastanza diffuso nel nostro cristianesimo “moderno”. Ci preoccupiamo ancora molto del lato “esteriore” del nostro credere. Fino a qualche tempo fa i pastori seguivano scrupolosamente la prassi di “quantificare”, di “contabilizzare” tutto ciò che riguardava la vita cristiana, a volte trascurandone lo spirito; per esempio, la domanda classica che veniva rivolta al penitente in confessionale era: “Da quanto tempo non ti confessi?”, “Quante volte hai fatto quell’azione, o mancato ai tuoi doveri?”. Quindi alla fine la penitenza veniva commisurata al numero dei peccati e alla loro ripetitività. In proposito esistevano veri e propri prontuari. Cose che inconsciamente inducevano il credente a preoccuparsi più dei particolari “esteriori” che di provare autentico dolore per le proprie malefatte. I “numeri” imperavano e stabilivano i contenuti della fede: bisognava conoscere a menadito le 7 domande del Padre Nostro, i 10 comandamenti, le 14 opere di misericordia (7 spirituali e 7 corporali), i 7 sacramenti, le 5 parti o condizioni del sacramento della penitenza, i 7 peccati capitali, le 7 virtù teologali, le 4 virtù cardinali, i 5 sensi corporei, i 7 doni dello Spirito Santo e i loro 12 frutti, le 8 beatitudini, i 4 novissimi, i 15 misteri del rosario, ecc. ecc. In una parola era fondamentale conoscere e seguire pedissequamente le prescrizioni del catechismo.
Oggi tutto è stato spazzato via da uno tsunami: conoscenze complementari e mnemoniche al pari di verità dottrinali fondamentali; tutto è sfumato, dimenticato, superato, sparito. Oggi i sacramenti, l’Eucaristia, la Confessione, hanno perduto il loro valore, il loro significato affascinante e salutare. L’individuo è l’unico referente della propria vita cristiana: tutto è stato affidato alla sua sensibilità, alla sua coscienza, per cui tutto è relativo, condizionato, valido solo “ad personam”. Tanto, Dio è misericordia assoluta, e assicura alla condotta di tutti una totale sanatoria postuma.
Una teoria e una prassi non meno ipocrite del legalismo farisaico di allora, tanto condannato da Gesù!
Il vangelo di oggi ci sottolinea pertanto una cosa fondamentale: che il nostro credere non deve mai fermarsi all’esterno, la nostra fede non deve esprimersi mai a beneficio dell’apparire; non dobbiamo preoccuparci dell’esteriorità, perché la bontà, la convinzione, la sincerità, la rettitudine del nostro comportamento dipende esclusivamente dall’interno, dal nostro animo, dall’intenzione, dalla volontà con cui facciamo le cose.
Per questo è importante saper leggere di volta in volta il nostro cuore: sentiamo che è pieno di rancore, di rabbia, di odio, di invidia, di gelosia? Allora dobbiamo fare attenzione, perché il “male” radicato dentro di noi, una volta all’esterno, condizionerà i nostri rapporti con gli altri seminando altro male. Sentiamo invece dentro di noi felicità, voglia di vivere, entusiasmo, fiducia, amore, bisogno di aprirci, di donarci agli altri? Allora tutto quello che faremo non potrà che essere positivo. Il nostro mondo, la nostra vita, saranno sempre pieni di demoni, se dentro di noi avremo demoni. Saranno sempre affidabili, pieni di gioia e di bellezza se dentro il nostro cuore regnerà l’amore. Perché quello che ci rende giusti non è quello che entra dentro di noi, ma quello che ne esce.
Gesù è stato chiaro: “Tutto dipende dal tuo cuore” perché “Ciò che hai dentro è la tua vita o la tua morte”. Amen.