«Essendo
Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta
folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome
Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con
insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché
sia salvata e viva» (Mc 5,21-43).
Il vangelo di oggi ci presenta due miracoli di Gesù, due
guarigioni: quella della figlia di Giairo e quella dell’emoroissa. I due racconti
sono legati tra di loro da un unico filo conduttore, suggerito proprio
dall’iniziale “passare” di Gesù da una all’altra riva del lago.
Una sottolineatura, secondo me, che non intende tanto indicare
un cambiamento di luogo, quanto di offrire al lettore un vero e proprio stile
di vita: “Bisogna oltrepassare”. Dobbiamo cioè andare avanti, dobbiamo
crescere, dobbiamo evolverci; dobbiamo avere il coraggio di abbandonare una
situazione stantia, nefasta, improduttiva, per andare verso nuove prospettive, più
positive, concrete, salutari, perché se non facciamo così ci ammaliamo, ci
atrofizziamo, cadiamo nell’indifferenza più totale, cessiamo di vivere
nell’anima e nel corpo.I nostri problemi più gravi nascono infatti perché non vogliamo “passare dall’altra parte”, non vogliamo “maturare”, non vogliamo toccare l’equilibrio instabile delle nostre abitudini ormai anchilosate, perché non vogliamo abbandonare una fase della nostra vita, ancorché superata, per dirigerci decisamente verso un’altra più appropriata. Rimaniamo sempre lì: ma rimanere sempre lì, immobili, irrigiditi, per partito preso o magari per paura, significa accettare una sentenza di morte. Gli istanti della vita passano una sola volta, non si possono ripetere, né fermare: la vita è un continuo andare avanti. Con noi o senza di noi il tempo passa: fermarci significa inesorabilmente autoescludersi dalla realtà, regredire.
Da giovani è difficile diventare adulti; affrancarci totalmente dall’infanzia è un passaggio impegnativo; a volte scegliamo la via apparentemente più facile, preferiamo rimanere quelli che siamo, acerbi, dipendenti da altri, ostaggi del loro potere, della loro volontà. Una volta adulti, non accettiamo di diventare anziani, di perdere le nostre posizioni di dominio, di constatare che altri ci superano, che altri sanno più di noi, che non abbiamo più la forza di imporci come un tempo. Diventare anziani vuol dire infatti accettare che i ruoli ricoperti nella nostra vita, conquistati con tanta passione, passino lentamente e inesorabilmente ad altri: non è assolutamente semplice sentirsi accantonati, messi da parte, soprattutto se non ci convinciamo che l’anzianità è l’età della saggezza, dell’esperienza: l’età in cui si è chiamati a diventare maestri di vita.
Il vangelo di oggi ci evidenzia appunto per i protagonisti la necessità del “passare oltre”, del maturare, di affrontare cioè quei cambiamenti indispensabili per vivere e per amare in modo corretto. Sì, perché talvolta per dimostrare l’amore e assicurare la vita all’altro, anche se ci è particolarmente caro, è necessario distaccarsi, lasciarlo andare, andare oltre i nostri sentimenti, altrimenti rischiamo di soffocarlo, di ucciderlo.
Ma seguiamo il testo: si presenta dunque a Gesù un uomo, Giairo: è il capo della sinagoga. Osserviamo bene le singole parole: “Si recò da Gesù uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo”. Non dice: “Giairo, un capo della sinagoga, andò da Gesù”. C’è una differenza fondamentale: il testo cioè per prima cosa evidenzia il ruolo, la carica dell’uomo, e poi ne specifica il nome. Che significa? Che nell’immaginario collettivo il ruolo, la carica, la professione che uno svolge, è più importante della sua individualità, della sua persona. In altre parole è l’attività che determina l’importanza di una persona, non la persona in sé. E questo è un male: perché il grande pericolo che corre chi esercita un “ruolo importante” è quello di identificarsi nel proprio ruolo, cessando di essere Tizio o Caio, per essere sempre e soltanto “il” capo, il professore, il politico. In altre parole avviene in lui una spersonalizzazione, diventerà cioè prigioniero del ruolo, di questo vestito che si è cucito addosso: perché sarà lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il suo essere persona, deciderà il suo agire, il suo pensare, il suo pianificare la vita.
Ora, nel caso del Vangelo, la figlia di Giairo è appunto una vittima del “dio-ruolo”: non del suo, ovviamente, ma di quello del padre; nella sua normale crescita di figlia le manca cioè la figura paterna. Giairo è “preso” molto più dal suo ruolo di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su se stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera lontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa di questo mondo.
Gesù, per guarire la figlia, deve pertanto “guarire” prima di
tutto il padre, deve riportarlo cioè nella sua originaria dimensione, deve
ricollocarlo nella realtà del suo essere padre: realtà che lui ha perduto nelle
pieghe del passato, per cui insiste ad avere nel presente una visione della
figlia riduttiva, anacronistica, impropria; continua cioè a vederla, a
considerarla, a chiamarla ancora, come allora, la sua “figlioletta”. Solo
che questa “bimba” ha già dodici anni: un’età in cui, nella Palestina di
duemila anni fa, una donna era già considerata adulta, nel fiore della sua
maturità; per lei quindi è assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata
dal padre ancora una “creatura”, una bimba ancora insignificante come donna. Da
qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna matura, che vuole essere
considerata come tale; lui, padre assente, che non intende accettarla per
quello che realmente è: si rifiuta di vederla cresciuta, terrorizzato
dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro. È un uomo troppo preso
dal suo ruolo sociale, è un padre immaturo, gravemente “infermo”, che si ostina
a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che
questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di ansia, di
profonda insicurezza, di annullamento di ogni slancio vitale. Soprattutto non
capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è già a sua
disposizione, senza dover ricorrere a terzi: farle finalmente sentire tutto il
suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi vai bene, mi piaci così come sei;
apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu
sei mia figlia!”.
A questo punto cosa fa Gesù per guarire il padre, l’unico vero
responsabile dei problemi della figlia? Gli dice solo: “Non temere,
solamente abbi fede”. Cosa significa? Gesù sente la paura del padre, sente il suo terrore davanti all’eventualità di perdere la figlia: Egli sa che l’unico responsabile della malattia della figlia è lui, il padre, che non vuole vederla crescere, non vuole lasciarla andare, non vuole accettarla come donna. E allora gli dice: “Devi aver fede, devi aver fiducia in lei; smettila di aver paura, di avere tutto questo terrore; devi capire che è proprio questa tua mancanza di fiducia in lei, questa assenza del tuo amore che la uccide; è questa tua paura di perderla che le impedisce di vivere. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà guarire e vivere”.
Poi, rivolto alla figlia, la chiama: “Talità”, giovane ragazza, noi oggi diremmo “signorina”; per Gesù lei non è una bimba, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da dipendente, da schiava. Tu sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Ègheire”, svegliati; e la ragazza immediatamente “anèste”, si alzò.
L’evangelista usa qui gli stessi verbi tipici della risurrezione di Gesù. Ciò sta a significare che risurrezione non è solo passare dalla morte alla vita; ma c’è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita statico, amorfo, ad un altro più vitale, più appassionato, più libero, più vero. In pratica per noi è risurrezione quando guariamo, quando cioè diventiamo più consapevoli di noi stessi e liberiamo gli altri dalle nostre proiezioni di morte.
Allora, “Ègheire!”, svegliamoci! Alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci solo eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo” temporaneo? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che continuiamo a confondere l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla? “Ègheire”: il nostro sonno deve finire, le nostre illusioni devono cadere: non lasciamoci trascinare stancamente dagli eventi, non adattiamoci ad essi, non continuiamo a “tirare avanti”. Svegliamoci, “passiamo all’altra riva della vita”, perché solo così riusciremo a vedere in faccia la realtà: dura e terribile all’inizio, in quanto abituati a vedere ciò che non esisteva, ma poi vitale, entusiasmante, eterna. Amen.