“Allora domandavano con cenni a
suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: Giovanni
è il suo nome”.
È il nuovo che ci fa vivi: questo in estrema sintesi il messaggio del vangelo di oggi, scelto dalla liturgia per commemorare la Nascita di Giovanni Battista, il precursore di Gesù.
Per
capirlo meglio dobbiamo necessariamente leggerlo nel suo contesto. È il nuovo che ci fa vivi: questo in estrema sintesi il messaggio del vangelo di oggi, scelto dalla liturgia per commemorare la Nascita di Giovanni Battista, il precursore di Gesù.
Zaccaria, il padre del Battista, è un sacerdote: in Palestina ve n’erano circa 18.000 su 600.000 persone. Si diventava sacerdoti non per vocazione ma per nascita, di padre in figlio.
Zaccaria era sposato con Elisabetta: il vangelo dice che erano “giusti e che osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.
Ma non hanno figli. Sono sterili. Grave cruccio, perché nella Bibbia la sterilità è vista come punizione dell’empio da parte di Dio (Gb 15,34). Ora, non si può certo dire che Zaccaria ed Elisabetta fossero persone empie, anzi inizialmente erano molto religiose: con il passare del tempo, però, questa loro impossibilità di avere figli, era diventato un tormento tale da intaccare la loro religiosità, privandola di qualunque slancio del cuore e dell’anima.
Tant’è che quando un giorno l’Angelo del Signore (Dio stesso) apparendo a Zaccaria gli annuncia che Elisabetta avrà un figlio egli, che avrebbe dovuto essere l’uomo più felice del mondo, gli risponde quasi irritato: “Come è possibile? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni!” (Lc 1,18). Come mai il sacerdote Zaccaria è così scostante con l’Angelo, arrivando quasi a rifiutare il figlio che da sempre lui ed Elisabetta ansiosamente aspettavano? Perché le condizioni che l’angelo gli pone implicano delle conseguenze che per lui sono troppo pesanti e incomprensibili: prima di tutto quel “Lo chiamerai Giovanni!”: Zaccaria capisce immediatamente che questo andare contro la tradizione di Israele che stabiliva per il primogenito lo stesso nome del padre o del nonno in segno di “continuità”, significa per lui l’interruzione della sua linea genealogica, significa mettere fine ad un passato, ancorché sterile ed amorfo ma senza contraccolpi, per cedere improvvisamente il passo alla novità, ad un’era messianica rivoluzionaria in cui, e questo è il secondo motivo del suo disappunto, i “figli” avrebbero avuto il compito di “ricondurre verso di loro i cuori dei padri” (Lc 1,16): cosa veramente impensabile, improponibile. Soltanto pensare che da quel momento i figli avrebbero annullato l’atavico rapporto di dipendenza dal padre, manda in frantumi tutte le sue certezze: se prima infatti i figli erano i continuatori, i trasmettitori alle generazioni future del patrimonio paterno, fatto di storia, di esperienze, di ideali, di valori, adesso improvvisamente sono i padri che devono convertirsi alle novità dei figli, sono questi che assumono il ruolo di maestri nei confronti dei loro padri; l’inesperta gioventù si impone sulla saggezza dei vecchi. È questa la grande novità destabilizzante: l’avvento di una prospettiva storica radicalmente innovativa e rivoluzionaria (il Battista, Gesù Cristo). È dura, è contro i dettami della Scrittura, della Tradizione, della Storia del suo popolo: e questo Zaccaria non lo accetta. E diventa muto (Lc 1,22). Uomo giusto, sempre coerente con la fede dei Padri, dentro di lui tutto era già stabilito, tutto era chiaro e programmato: in lui non c’era spazio per il nuovo: era irrimediabilmente morto nell’anima.
Elisabetta comunque rimane incinta, e partorisce: ed è qui che si aggancia il vangelo di oggi, che ci descrive non tanto la nascita del Battista ma la sua circoncisione (Lc 1,59).
Infatti all’ottavo giorno la Legge prescriveva di circoncidere il neonato. Con questo rito il bambino maschio veniva ammesso alla comunità di Israele e alla Legge. Il rito veniva normalmente compiuto dal capofamiglia, assistito dai parenti e dalla gente del vicinato; ed è in questa occasione che il capofamiglia impone il nome al figlio. Le donne non avevano autorità su tutto questo. Tutti si aspettano che Zaccaria dia a suo figlio il suo nome: è la prassi comune, il segno di una tradizione che continua. Ma interviene Elisabetta: “No, non si chiamerà come suo padre. Si chiamerà Giovanni”.
Ebbene: ogni rottura di rito, di tradizione, di uso, di consuetudine, comporta sconcerto e rifiuto. Diceva Schopenhauer: “La verità, come la novità, passa per tre gradini: dapprima viene ridicolizzata; poi viene violentemente contrastata; infine viene accettata come ovvia”.
Nel frattempo, finché è rimasto muto, qualcosa in Zaccaria è cambiato. Egli cioè ha permesso a quanto gli stava accadendo di cambiarlo, di farlo diverso, di trasformarlo.
E quando gli chiedono come vuole chiamare il figlio, visto che non può parlare, prende una tavoletta e scrive: “Giovanni è il suo nome!”. Zaccaria ha finalmente capito. E proprio perché ha accettato il “novum” di Dio, permettendogli di cambiarlo, di farlo diverso, torna a parlare; e non solo parlerà ma addirittura canterà pieno di Spirito Santo il sublime “Benedictus” (Lc 1,67-79).
Bene: questo è il Vangelo. Il suo messaggio per noi? “È il nuovo che ci rende vivi!”
Qual è infatti la cosa che più ci fa sentire vivi, eccitati, pieni di vita? Sicuramente la novità, l’attesa di una nuova e concreta prospettiva di vita. Quando ci nasce un figlio (il “nuovo” che arriva), ci sentiamo felicissimi; così quando dobbiamo iniziare una nuova attività, ci sentiamo “alle stelle”. Ogni giorno noi mangiamo nuovo cibo perché il corpo rinvigorisca, rimanga in vita. In ogni istante noi respiriamo nuova aria e tutto il nostro corpo si rinnova costantemente: in due mesi tutte le cellule del nostro corpo sono nuove. Noi siamo continuamente immersi nel nuovo anche se non lo sappiamo. Nella vita materiale, insomma, noi abbiamo assoluto bisogno del nuovo. Come pure nella vita spirituale: tant’è che il termine stesso “Vangelo” vuol dire “buona nuova”: e Gesù fu rifiutato e giustiziato non perché il suo messaggio era improponibile, ma perché era nuovo.
Se nella vita sociale ci comportiamo sempre allo stesso modo (bellicoso o accondiscendente), è chiaro che i risultati che otteniamo saranno basati su intolleranza o accoglienza. Ma se cerchiamo di proporci con altri atteggiamenti, nuovi e diversi, avremo sicuramente maggiori possibilità di relazionarci positivamente: se adottiamo infatti dieci nuove strategie, sicuramente avremo dieci possibilità di successo in più.
Così, se basiamo la nostra fede solo su quel poco che abbiamo imparato da bambini al catechismo, non è male, ma è decisamente poco. Se però cerchiamo di imparare sempre qualcosa di nuovo, se ogni giorno cerchiamo di leggere, di studiare, di meditare, sicuramente la nostra fede ne trarrà beneficio, si amplierà, si irrobustirà, permettendoci di capire meglio chi è Dio, chi è Gesù, cosa dice e insegna il suo Vangelo. E personalmente ne trarremo un aiuto più consapevole e meritorio.
L’uomo, insomma, se non c’è il nuovo che lo impegna di continuo, lentamente ma inesorabilmente scivolerà in una monotona staticità psichica, fino al punto da rimanere con il cuore e l’anima completamente aridi, vuoti, morti. Amen.