«Egli prese i cinque pani e i
due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò
e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (Lc 9,11b-17).
Oggi
la Chiesa celebra la festa del Corpo e Sangue di Cristo, la festa dell’Eucarestia:
Gesù non c’è più fisicamente con noi, ma è presente ogni giorno nell’Eucaristia
sotto le specie del Pane e del Vino e nel Tabernacolo nelle Ostie consacrate.
Storicamente
la festa nasce a seguito del miracolo di Bolsena: un sacerdote dubitava della
presenza reale di Cristo nel pane e nel vino che lui consacrava nell’Eucaristia:
un giorno, all’atto dello spezzare il pane, dalla piccola ostia sgorgò
miracolosamente del sangue, che macchiò di rosso il corporale: l’importante reliquia,
insieme all’ostia, sono esposte alla venerazione dei fedeli nel duomo di
Orvieto, costruito per conservare appunto la memoria e la documentazione del
miracolo. Dal 1264, la festa venne estesa a tutta la Chiesa.
Ma
cosa è successo esattamente in quella serata, cui si riferisce il vangelo di
oggi?
Sappiamo
che Gesù durante la sua vita pubblica aveva toccato ripetutamente il tema della
“cena”, del “pranzo” aperto a tutti: puri, impuri, giusti e peccatori; alla sua
tavola c’era posto per tutti, perché essa era il segno dell’amore infinito,
smisurato, illimitato, incondizionato di Dio.
Finché
Gesù è in vita, tutti possono vedere e sperimentare queste sue iniziative: Egli
però sa bene di avere poco tempo da dedicare alla catechesi; deve quindi preparare
con cura la folla per il “dopo”, per quando Lui sarà ritornato al Padre.
Il suo
gesto quindi è preparato, programmato, con un significato ben preciso: la cena
che egli offre alla folla non è una cena come tante altre; è una cena speciale,
una cena “simbolica”, in cui Egli anticipa delle azioni rituali che saranno poi
definite per i discepoli nella famosa “cena pasquale” del Cenacolo, durante la
quale istituirà appunto l’Eucaristia, il sacramento della sua reale presenza
nel tempo. Gli esegeti sono in difficoltà nell’attribuire il “dove” e il “quando”
di questa prima “cena”: ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta
è il suo significato, sono le sue parole. Egli in pratica delinea un rito in
grado di riproporre un banchetto, quando lui non ci sarà più, intorno al quale
tutte le genti potranno cibarsi del suo Corpo e godere della sua reale presenza:
“Quando voi direte: Questo è il mio Corpo
e questo è il mio Sangue io realmente sarò in mezzo a voi, vi nutrirò e la
vostra tavola diverrà e sarà come la mia tavola finché io ero in vita”.
L’Eucarestia
è pertanto l’amore di Dio che arriva a tutti, è la possibilità per tutti di
ritrovare le forze necessarie ad affrontare gli inevitabili disagi della vita.
L’eucarestia è Gesù: tutti hanno accesso alla sua tavola. Tutti possono mangiare
con Lui e di Lui non perché ne abbiano i meriti, ma perché l’amore di Dio vuole
scendere su ogni cuore e su ogni anima. È un amore gratuito, destinato a quanti
ne hanno bisogno. “Sei un lebbroso? Nessuno ti vuole per il tuo caratteraccio?
Tutti ti escludono perché sei soffocante, difficile, insopportabile? Vieni qui,
mangiamo insieme; tu non sai quanto ti amo! Sei un pubblicano? Non sei in
regola con le leggi? Sei lontano da Me? Vieni da me solo per interesse? Non
importa, vieni qui, mangiamo insieme, rilassati e sappi che il mio amore è
garantito e gratuito. Sei una prostituta? Hai tradito l’amore? Hai tradito la
fedeltà? Hai venduto il tuo corpo? La tua anima? La tua mente? Hai perso la tua
dignità di uomo? Vieni qui, mangiamo insieme, rilassati, qui sei a casa tua, io
ti amo; il mio amore sarà la tua forza!”.
Ecco,
l’Eucarestia è questo: un banchetto, un pranzo per tutti, aperto a tutti,
perché tutti hanno fame di Dio e Dio vuol darsi a tutti, perché tutti sono e
saranno sempre figli suoi.
E
allora, quando ci accostiamo alla Comunione e prendiamo sulla nostra mano il
corpo di Cristo, dobbiamo avere fede; dobbiamo essere certi che quel pane,
quella piccola ostia, all’apparenza insignificante, riesce a sfamare milioni di
persone. È il nostro pane, quel pane che placa la nostra fame d’amore, che inonda
il nostro cuore arido, che rianima il nostro entusiasmo spento, che illumina il
nostro buio, i nostri tunnel; è quella forza che ci permette di ritrovare il
giusto cammino nel nostro inutile girovagare senza meta. Quel pane è Dio stesso
che viene in noi; è Lui che vuole venirci a trovare, che non si vergogna di
entrare nella nostra casa in disordine, che vuole incontrarci da soli, che
vuole saziarci, amarci. È Lui che viene per primo da noi, è Lui che ci offre la
sua amicizia, che ci prende per mano così come siamo, rallentati dalle nostre
miserie, e dolcemente ci ripete: “Vai bene così. Mi piace stare con te, quando
sei vero, autentico, umile, spontaneo, senza camuffamenti, senza incrostazioni,
senza maschere, né uniformi, né paraventi. Sii sempre te stesso, vivi nella mia
amicizia”. Allora finalmente ci sentiamo a casa nostra. Perché con Lui non
abbiamo nulla da dimostrare, non abbiamo cambiali in scadenza, non abbiamo
facciate da esibire, compromessi da salvare: con Lui possiamo essere
tranquillamente noi stessi, e godere a piene mani del suo Amore.
Nei
primi secoli della chiesa quando si parlava di “Corpo del Signore” si intendevano
tre diversi “luoghi” in cui Gesù era presente: il suo corpo fisico di uomo, il
pane consacrato nell’Eucarestia, il corpo delle persone, il suo corpus mysticum.
Questo
pensiero mette in luce una grande verità: che Dio è visibile solo attraverso un corpo. Dio ha avuto bisogno del corpo
di Gesù, per incarnarsi e per rendersi visibile al mondo; in ogni Eucaristia rivela
il suo corpo, sotto le specie del
pane e del vino, rendendosi presente a noi; e infine Egli vive nel corpo delle sue creature; vive cioè in
Spirito nell’anima delle persone di ogni tempo. A questo proposito c’è da dire
che per tanti secoli si è fatta una netta distinzione tra il corpo e l’anima dell’uomo. Il corpo era il contenitore dell’anima. Non aveva
valore in sé ma solo perché conteneva la parte nobile della vita, lo Spirito, l’anima.
Per cui tutto ciò che era corpo era insignificante, pericoloso o addirittura
diabolico. Il corpo della donna per molto tempo è stato il simbolo del peccato,
della tentazione; l’affettività è stata negata e repressa come infantilismo e
la sessualità è stata catalogata come strumento del diavolo.
A ben
vedere però non sono cose troppo lontane da noi. Quanti di noi nella loro
infanzia hanno infatti sofferto per la mancanza di affettività: certo venivano
assicurate tutte le attenzioni per il corpo: ma gli abbracci? Le coccole? Le
carezze? Il contatto? I baci affettuosi della mamma? Quante persone sono rimaste
analfabete di emozioni! Quante persone non hanno conosciuto il linguaggio delle
emozioni!. Quante persone hanno poi vissuto con sospetto ogni manifestazione
corporea! Un abbraccio? “Se la vuole portare a letto!”. Una carezza? “Ci sta
provando!”. Un bacio sulla guancia? “Un approccio”. E la sessualità? Guai a
parlarne, il solo argomento imbarazzava i genitori. Quando ne parlavano era
solo per stabilire “cosa si poteva fare e cosa non si poteva fare”. Era vissuta
come un peso, una vergogna, un tabù; e quanti sensi di colpa! Insomma tutto ciò
che era corpo era pericoloso, negativo. Il modello spirituale era il monaco che si disinteressava completamente del
proprio corpo e che notte e giorno era rivolto a Dio. Così il corpo si poteva
fustigare, colpire, umiliare, e tutto questo era santità.
La
festa di oggi ci dice invece, come ho detto, che Dio non è visibile senza un
corpo. Non possiamo avvertirne la presenza. Il corpo non è un optional, un di più, un contenitore. Il
corpo è la realtà visibile di Dio e contemporaneamente di ciascuno di noi. Non
c’è un’anima “dentro” al corpo, una vita “dentro” un involucro di nome corpo;
al contrario è l’anima che è corporea
e il corpo che è animato. Infatti se
l’anima sta male il corpo sta male. Tant’è che Gesù guariva i corpi, guarendo prima
le anime.
Ma
torniamo al nostro vangelo. Quella sera dunque avvenne la moltiplicazione dei
pani e dei pesci. Prima però di iniziare, Gesù vuole testare la fede dei suoi:
essi dispongono solo di cinque pani e due pesci, e le persone da sfamare sono
circa cinquemila: “Dategli voi stessi da
mangiare” (9,13). Bella mossa. Gesù in pratica si defila: devono essere loro,
personalmente, a rendersi conto della potenza dell’Amore di Dio: “Ma Gesù, cosa
dici? Non vedi che abbiamo solo cinque pani e due pesci? Come facciamo?”. Essi
non guardano ancora con gli occhi di Gesù; si fermano al presente, alla
situazione concreta: non credono nelle loro possibilità, non hanno cioè gli
occhi della fede.
Quante
volte succede anche a noi di non credere, di non aver fiducia in noi stessi. Ci
guardiamo e diciamo: “Non siamo capaci, non abbiamo energia, non ne abbiamo il coraggio!”.
Quando ci guardiamo, vediamo soltanto i cinque pani e due pesci: un nulla. “Chi
sono io, di cosa dispongo per poter costruire la mia vita?”.
Gesù ci
insegna come fare: prende quel poco che ha, lo benedice, e avviene il miracolo:
con cinque tozzi di pane riesce a sfamare migliaia di persone, tutti ne
mangiano a sazietà e ne rimangono ancora dodici ceste! Egli sa per certo che partendo
da quel poco, uscirà qualcosa di grande. Egli ha fede, vive credendo nei suoi
poteri conferitegli dal Padre e con Lui condivisi: e così è stato. E così sarà
per chiunque crede.
Il
problema di base è dunque la fede: il problema è credere fermamente che,
condividendo la Grazia di Dio, anche noi possiamo essere grandi, potenti, forti.
E questo ci spaventa: perché la fede ci dimostra che la vita è nelle nostre
mani, nelle nostre scelte, che siamo noi a plasmarla.
Impariamo
allora a credere sul serio in noi stessi, nel potenziale che abbiamo dentro; quel
potenziale inespresso, che noi preferiamo tener sepolto, rinchiuso. Prendiamo
in mano quello che siamo, e invece di lamentarci per ciò che non siamo,
benediciamo, ringraziamo e accettiamo. È il nostro miracolo dei pani.
Infine,
quando andiamo a fare la comunione, sentiamo il sacerdote che ci dice: “Corpo
di Cristo”. Che vuol dire, riferendosi all’ostia:”Questo è il Corpo di Cristo”:
ma lo dice riferendosi anche a noi: perché noi “siamo il Corpo di Cristo”. Se
ci pensiamo un istante, percepiremo un fremito, un sussulto, una potenza
nucleare dentro di noi. E se accettiamo questa forza, questa verità, questa
realtà, veramente possiamo tutto; veramente può accadere nella nostra vita quella
moltiplicazione dei pani, che è la moltiplicazione delle nostre possibilità. Se
accettiamo e amiamo il poco che ci sembra
di essere, e lo mettiamo tutto in gioco, scopriremo improvvisamente di essere
il molto che non conosciamo. Amen.