Gesù non allontana le folle; Egli le ama, le attira sul “monte” perché possano ascoltare (tranquillamente seduti) il suo messaggio. Il monte indica la condizione divina. Non è più come nell’Antico Testamento, dove c’era timore, paura di avvicinarsi a Dio. Adesso avvicinarsi a Lui è motivo di vita.
Inoltre, per gli antichi, i monti erano la dimora degli dei (pensiamo all’Olimpo): Gesù sale e si siede; in greco “kathisantos”: più che sedersi, Gesù si “installa”, si “mette nel posto” riservato agli dei. Gesù, che è il figlio di Dio, si siede sul “trono di Dio” (monte). Questo è il suo posto, è l’ambone che gli spetta di diritto come maestro, la cattedra da cui può tenere la sua lezione.
“Gli si avvicinarono i suoi discepoli”: dopo che li aveva “attirati”, perché è Gesù che li attira, al pari della folla. Dio non è più un Dio da temere ma un Dio che attira, che attrae. Non è più un Dio da cui star lontani ma un Dio da incontrare, da avvicinare. Non un Dio che ci può punire (per cui più lontano stiamo meglio è) ma un Dio che vuole amarci. Un Dio che non vuole qualcosa da noi ma un Dio che è lì per dare Lui qualcosa a noi. Il Dio di Gesù non incute paura: se pensiamo che Dio incuta paura allora non stiamo seguendo quello del Vangelo.
Matteo dice che i discepoli gli si avvicinano: ma Dio, con Gesù, ci è sempre vicino, è costantemente a portata di mano.
Prima di Gesù (e spesso anche oggi!) non era così. Nella religione ebraica per poter incontrare Jahweh nel suo Tempio, gli uomini potevano arrivare soltanto fino a un certo punto: soltanto il sommo sacerdote poteva entrare, una volta all’anno, nella sancta sanctorum, quella stanza in cui si riteneva che ci fosse la presenza di Dio. Quindi tra Dio e il popolo c’era un abisso. Ma ora con Gesù, tutti possono avvicinarsi a Dio. Tutti lo possono incontrare, perché Dio non mette più barriere (meriti; purità; peccato; sacralità, ecc.).
“Prendendo allora la parola li ammaestrava dicendo” (Mt 5,2).
A questo punto Gesù proclama le otto beatitudini: perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo indicava la resurrezione (“l’ottavo giorno”). Gesù infatti è resuscitato il primo giorno dopo la settimana (quindi 7-settimana + 1-il giorno dopo la settimana=8).
Con il numero di otto “beatitudini” Matteo ci fa capire che chi vive così vivrà per sempre, vivrà cioè una vita che non sarà interrotta dalla morte. Mentre l’osservanza dei comandamenti di Mosè assicurava lunga vita in questa terra (ma poi anche i giusti morivano e come tutti finivano nello Sheol) la pratica delle beatitudini assicura una vita che supera la morte. Sia la morte fisica: chi vive così, come Gesù, avrà la stessa fine di Gesù (morte e resurrezione). Sia la morte morale: chi vive così piangendo, commuovendosi, provando felicità, lottando, appassionandosi ad una causa, amando intensamente, è così vivo dentro di sé da non temere neppure la morte.
Le Beatitudini, nel testo greco, sono esattamente 72 parole, lo stesso numero dei popoli pagani cui si riferisce il libro della Genesi: per cui mentre i comandamenti erano per il solo popolo di Israele, le beatitudini sono destinate a tutte le popolazioni della terra, a tutta l’umanità.
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3).
La prima beatitudine, non è solo la prima, ma è la condizione di tutte le altre.
Beati (“ascer”, in ebraico), indica la felicità Divina, una felicità impossibile da raggiungere sulla terra. Ebbene questa felicità, dice Gesù, è qualcosa che possiamo vivere già da ora, sulla terra. Noi cioè possiamo fin d’ora essere terribilmente felici, pieni, gioiosi, in pace, riconciliati.
I primi ad essere definiti beati da Gesù sono proprio i poveri in spirito; cioè quelle persone che liberamente, per amore, entrano in una mentalità di povertà: non per aggiungersi ai tanti poveri che già ci sono e che la società ha creato, ma per eliminarne le cause, per far capire che i beni. Le ricchezze nella vita non sono tutto. Gesù non chiede a noi di spogliarci, ma di vestire gli altri. Egli chiede cioè di abbassare il nostro livello di vita per permettere a quelli che ce l’hanno troppo basso di innalzarlo un po’. Non si tratta di fare elemosina (rimangono sempre un ricco in alto che da, e un povero in basso che riceve) ma di diventare fratelli. Perché l’altro, mio fratello, ha gli stessi miei diritti.
“Di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Gesù usa un verbo al presente: “Felici quelli che liberamente, volontariamente, per amore, sono disposti a condividere: di essi è il regno dei cieli”. Gesù non dice “sarà” ma “è”: il regno dei cieli, il regno di Dio, è già a loro disposizione.
Oggi è la festa di tutti i Santi del Cielo: ma è la festa anche di coloro che sono “beati” già fin d’ora su questa terra, perché vivono la loro vita donando se stessi; è la festa di quelli che, sull’esempio di Gesù, vivono per amare, per far del bene al prossimo, per confortarlo nelle difficoltà, per guarirlo nelle ferite dell’anima, per sostenerlo nelle contrarietà della vita.
Perché amare è come creare: è dare agli altri un qualcosa di noi stessi; un qualcosa che li faccia sentire accolti, apprezzati, valorizzati, compresi, supportati; un qualcosa che li faccia “rinascere”, un qualcosa per cui anch'essi possano riconoscere nel loro cuore quanto è grande l’amore di Dio per ognuno di noi. È così che si diventa santi; è così che anche noi possiamo diventarlo, è così che ci sentiremo completamente realizzati, fecondi, umili ma instancabili dispensatori dell’amore di Dio; è così che raggiungeremo infine, già su questa terra, quella gioia vera, quella gioia divina, promessa da Dio a quanti mettono in pratica i suoi consigli.
È esattamente questo che ci dice il Vangelo delle beatitudini: “La vera gioia sta nel dare, meglio ancora, nel darsi; nel creare, con la nostra abnegazione, motivi di vita, di gioia, di riconoscenza a Dio, a chi è nello sconforto, nella solitudine, a chi è bisognoso di aiuto materiale e spirituale. Donarsi vuol dire essere utili, vuol dire riconoscere alla nostra vita il suo significato più profondo; vuol dire che quel poco che facciamo, è pur sempre un bene per il mondo; vuol dire che siamo importanti non per la fama, per la cultura, per i nostri averi, ma per il nostro amore, per la nostra umile e sincera dedizione.
Le beatitudini infatti sono una proposta di felicità: “Vuoi essere felice? Vivi così”. Mentre per il mondo felicità è avere cose, titoli, possedimenti, fama, gloria, per Gesù felicità è essere, è vivere, è intrattenere con gli altri autentiche relazioni. Per il mondo felicità è possedere; per Gesù felicità è essere liberi. Per il mondo la felicità è fuori di noi: “Se avrò quella cosa; se avrò quella persona; quando sarò così, ecc.”. Per Gesù è dentro di noi: “Se ti libererai dai tuoi demoni, dai tuoi mostri, se sarai trasparente, ti conoscerai”.
Le beatitudini dicono: “Vuoi essere veramente felice, vivo?”. “Vivi così!”.
Le beatitudini non sono un comando, “Devi essere così”, ma una scelta: “Se vuoi essere vivo dentro, sentire la Vita, l’energia che ti pulsa nel cuore, la vera felicità, vivi così”. Possiamo insomma dire che le beatitudini sono la guida per condurre una vita sana per il corpo e soprattutto per l’anima.
Vediamone brevemente il significato.
Dunque, “Beati i poveri in spirito”: se facciamo il contrario, se dipendiamo dalla ricchezza, non possiamo essere “beati”. Ma non è tanto la ricchezza ad essere dannosa, quanto il possesso, la dipendenza, l’esserne schiavi. L’uomo che dipende dalla ricchezza sostituisce con essa la propria autostima, il proprio valore. Non è la sessualità ad essere pericolosa, né la birra e neppure la sigaretta: il vero pericolo è la dipendenza, il non poterne più fare a meno, l’esserne schiavi.
Una madre, per assioma, non può essere considerata pericolosa: ma se siamo dipendenti in tutto e per tutto da lei, se la nostra personalità continua ad essere il riflesso della sua, se non gestiamo autonomamente la nostra vita, ma viviamo succubi di ogni sua personale valutazione, allora sì. Il padre, la moglie, i figli, il capo, non sono pericolosi, ma se noi viviamo per loro (cioè in funzione loro), se non riusciamo a starne senza, a distaccarci, se siamo dipendenti da quello che pensano o vogliono da noi, allora non solo sono pericolosi ma mortali. Quindi, beati i poveri in spirito: rimaniamo cioè liberi, non dipendiamo da niente e da nessuno: facciamo in modo che la nostra vita sia rivolta solo a Dio e che solo Lui sia il nostro Dio. Sì, perché Gesù ci chiede anche una povertà più alta, più difficile, più meritoria: il distacco anche dai beni morali e perfino da quelli spirituali. Chi pretende infatti di essere stimato e considerato dagli altri, chi è attaccato alla propria volontà, alle proprie idee o è troppo dipendente dalla propria autostima, dalle lodi, dagli apprezzamenti del mondo, o addirittura chi si rinchiude in un proprio benessere “spirituale”, non è “povero nello spirito”, ma ricco possessore di se stesso. “Se qualcuno vuol venire dietro di me – dice il Signore - rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24 ).
Beati gli afflitti: il contrario è il non saper piangere, il non sentire il dolore che viviamo. Cosa succede se non piangiamo mai, se non ci commuoviamo mai? Succede che col tempo il nostro cuore si sclerotizza, fa la crosta, indossa una corazza e diventa insensibile. Noi non sentiamo più nulla. E quando non sentiamo più nulla, perdiamo ogni sensibilità, cadendo facilmente nelle malattie dello spirito.
Beati i miti: il contrario è essere duri con se stessi . Cosa succede se irrigidiamo il nostro cuore? Lo stesso di quando irrigidiamo oltre misura i muscoli per raggiungere qualcosa: mal di schiena, tensioni, strappi, ecc: non siamo troppo duri con noi stessi: affidiamoci a Lui. Lasciamo fare a Lui.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: il contrario è vivere in superficie, senza ascoltare la “fame” di cose giuste, di passione, di “vita vera”, di profondità. Praticamente diventiamo ciò che viviamo. Se parliamo solo di materia, diventeremo tali.
Beati i misericordiosi: il contrario è essere spietati. Perché avere pietà degli altri? Non guardiamo in faccia nessuno, giudichiamo sempre, “tagliamo in due” gli altri; ma poi non lamentiamoci quando avremo lo stesso trattamento. Perché ciò che facciamo agli altri, prima di tutto lo facciamo a noi.
Beati i puri di cuore: il contrario è vedere “cattive intenzioni dappertutto”. Vedere sempre il male; vedere sempre il lato negativo, l’imbroglio dietro ogni cosa; mettere sempre in evidenza l’unica cosa negativa invece di guardare il tanto positivo che c’è; vedere nemici e pericoli dappertutto... però poi non chiediamoci perché viviamo nell’ansia, nel controllo e nella paura. Ciò che si vede fuori, altro non è che quello che siamo dentro.
Beati gli operatori di pace: il contrario è vivere nel rancore, nella rabbia, nell’odio: coltivare rancore per ogni piccolo sgarbo; perdonare, ma senza mai dimenticare; legarcela al dito; vivere nella rabbia... ma poi non lamentiamoci se viviamo male, se ci viene un’ulcera, una colite, una gastrite, ecc. Vivere nella rabbia è il modo migliore per essere sempre in guerra: e la guerra fa solo morti.
Beati i perseguitati per causa della giustizia: il contrario è sentirsi perseguitati ingiustamente. “Tutti ce l’hanno con me; nessuno mi vuole; non mi ami; non mi vuoi; con tutto quello che faccio per te, cosa ti ho fatto di male?”. Vediamo tutto nero, ci sentiamo vittime del mondo, degli eventi; ci sentiamo perseguitati ingiustamente... ma poi non chiediamoci perché siamo depressi o così tristi, o perché le cose non cambiano mai.
Le cose non cambiano mai perché siamo noi a non voler far cambiare la prospettiva alla nostra vita.
Le beatitudini: un semplice manuale per vivere felici, per vivere da santi: viviamo così e la nostra casa sarà piena di gioia, di amore, di serenità.
Amen.