«Sono venuto a portare il fuoco
sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!... Pensate che io sia venuto a
portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. (Lc 12, 49-57).
Il
vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente
dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i
concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non
sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al
solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali,
risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”,
diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell'uomo vecchio, quello incentrato su se
stessi, e la nascita dell’uomo nuovo,
quello che ci fa vivere da figli di Dio.
Un cambiamento
che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo
di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono
sempre stati considerati all’opposizione,
“dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno
scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il
mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza
delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza,
le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare
né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano
proprio questa situazione di ostracismo e di divisione.
Scegliere
di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una
decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù
stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti
sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente
si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando
facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo
terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”,
segno di “contraddizione”; in una società dell'immagine e del consumismo come
quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico,
difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di
successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”!
Le
parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma
la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo
delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a
rotolarsi nelle ingiustizie e nelle perversità di sempre; Egli è venuto a
portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha
portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che
non va bene, di ciò che ferisce l'uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta”
necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per
quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori).
Le
persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano solo questo; questo
ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “Pensate attentamente a Cristo
che ha sopportato da parte dei peccatori una così grande ostilità contro la sua
persona, proprio perché voi non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete
ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato…”. È
chiaro? “Resistere fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i
primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto, come succede a noi!
La
Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana
dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in
grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o
ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come
se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo
timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque
altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questo nostro tempo, di
“salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”,
di “principi morali inalienabili”. Ci nascondiamo: un po’ come vediamo fare
certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi
di indossare una veste, “una divisa”, che li distingue dagli altri, li
identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento
“superiore”, “convinto”, da “consacrati”, luminosamente “coerente” con la fede
che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non
è questo che Gesù vuole da noi: perché noi, come tutti gli uomini, siamo i
“chiamati”. Ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in
prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: proprio
perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono
verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si
scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non tacciamole
queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente,
in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione
che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato.
Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, professori di
religione, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul
serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede
e della morale cattolica! E in questo modo la verità ci farà liberi.
In un
ambiente sociale, in cui la verità è causa di schiavitù e di servitù, perché
ignora o disprezza sia la sua stessa natura, che quanti la professano, noi
cristiani dobbiamo essere convinti che è la verità, particolarmente la verità
della nostra fede, che ci affranca, che ci rende assolutamente liberi.
L'uomo
non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere la verità del suo
essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per se
stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c'è verità c'è libertà, e dove non c'è
verità, c'è inevitabilmente qualche forma di schiavitù. Cerchiamo la verità?
Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la
verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo
rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale
inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità,
della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità
assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di
questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è
aver paura di essere se stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi
dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità umana, la
propria personalità. La verità ci farà liberi. Non dubitiamone. È l'esperienza
degli uomini grandi.
Il
Vangelo nasce dunque sotto il segno della contraddizione: e sotto il segno
della contraddizione cresce e si diffonde. È questo il dramma dell'alleanza fra
Dio e il suo popolo, dramma che continua a riproporsi nella storia: Dio si
racconta, si svela, si avvicina all'uomo, si offre di aiutarlo; ma l'uomo sistematicamente
gli risponde “no, grazie”.
Siamo
discepoli di un Dio che crea divisione, di un Dio che non ci lascia tranquilli,
indifferenti, adagiati nelle nostre certezze, trincerati dietro le nostre
tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri gruppi esclusivi di
spiritualità; siamo discepoli di un Dio che ci scuote, che ci infiamma, che ci brucia
dentro, che ci spinge fuori, nel mondo.
Chiediamoci
allora: veramente sentiamo dentro di noi questo Dio che brucia il nostro cuore,
la nostra anima? Ci brucia sul serio, al punto da non poter fare a meno di
annunciarlo, di parlare di Lui a tutti quelli che avviciniamo? Lo difendiamo nelle
discussioni con quanti lo negano? Di conseguenza: siamo mai stati derisi per le
nostre convinzioni? No? Allora i casi sono due: o viviamo segregati in un limbo
virtuale, tagliati fuori, avulsi dalla realtà, oppure viviamo molto poco da
autentici cristiani: la nostra testimonianza è talmente insignificante e priva
di mordente che nessuno si accorge di noi. Viviamo da “tiepidi”; ma proprio per
questo nostro essere “né caldi né freddi” rischiamo di essere “vomitati” da
Dio, come scrive l’Apocalisse.
Noi siamo
discepoli di Cristo: non dimentichiamolo mai! E come tali siamo chiamati da Lui
per essere dei rivoluzionari, degli incendiari: gente che scuote, che infiamma tutto
il mondo; gente che predica e professa apertamente l’Amore di Dio per le sue
creature. Amen.
«Vendete ciò che possedete e
datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei
cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro
tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai
fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro
padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli
aprano subito» (Lc 12,35-40).
Ci
sono cose che nessuno può portarci via: la serenità di una vita spesa bene, un
ideale per cui combattiamo, soffriamo, resistiamo; la commozione provata nei
momenti più importanti e toccanti della vita, come la nascita di un figlio; la risposta
d’amore che scorgiamo negli occhi delle persone che amiamo; i colori della
natura, il profumo dell'erba appena tagliata, il suono del vento, il canto
degli uccelli; la gioia del nostro cuore, quando ci sentiamo vivi, vita in
mezzo alla Vita. Questo nessuno ce lo potrà mai portare via. Tutto questo rimarrà
sempre in noi. Ma ci sono anche tante cose inutili, zavorra che ci rallenta nel
cammino. Cose superflue, a ben vedere nocive, deleterie, cose che abbiamo
stoltamente raccolto lungo il corso della nostra vita. Ebbene, liberiamocene,
buttiamole via: stiamo soprattutto attenti a non attaccarci ad esse; non facciamo
di esse il nostro “tesoro”, il nostro riferimento, l'oggetto dei nostri
pensieri quotidiani.
Riempiamo
le nostre “borse” di cose vere, procuriamoci beni che non passano, che durano,
che non invecchiano, ai quali la ruggine, i ladri e le tarme non possono arrivare.
Il
denaro può esserci rubato. Le ricchezze possiamo perderle. L'auto può essere distrutta
in un attimo. Gli oggetti più belli e preziosi si possono rompere. Le persone più
care possono morire improvvisamente. Tutto ciò che è “materiale” passa. Solo i
tesori dell'anima, del cuore, quelli spirituali, celesti, nessuno ce li potrà
mai sottrarre. Impariamo a tenere tutto nella nostra anima e non avremo più
bisogno di possedere altro. Impariamo ad arricchire la nostra anima, e non
avremo più bisogno di ricchezze. Tutto ciò che è temporale, aleatorio, prima o poi
lo perderemo. Tutto ciò che non appartiene a questa vita provvisoria (Dio, l’anima),
deve costituire la nostra vita piena, adesso e in futuro.
Perché
dov’è il nostro “tesoro”, là c’è anche il nostro cuore.
Noi
cristiani, proprio perché ci chiamano con questo nome, siamo convinti che Dio
sia il centro della nostra vita: come pure l'amore, la famiglia, la vita dei
nostri cari, i valori morali e sociali, la ricerca costante del bene. Ma è
veramente così? Facciamo una piccola prova. Analizziamo bene ciò che durante il
giorno assorbe di più la nostra attenzione: perché è quello che costituisce il nostro
“tesoro”. Se il nostro esame sarà onesto, ci renderemo conto che non Dio è il
nostro polo di attrazione, ma tanto altro: i soldi? i beni materiali? le ricchezze?
il sesso? la voglia di emergere? il pregiudizio sugli altri? l'odio? la
vendetta? Ecco: noi siamo esattamente ciò che interessa la nostra mente. Se la nostra
mente è pervasa sempre da pensieri negativi, da paura, da una critica
distruttiva; se vediamo intorno a noi solo dei nemici da combattere, un mondo disgustoso
da dominare; se ignoriamo tutto e tutti e affoghiamo i nostri giorni nei
piaceri, nei godimenti della vita, nell’egoismo, nella sopraffazione, vuol dire
che noi siamo diventati tutto questo. Vuol dire che siamo diventati così,
perché dov'è il nostro “tesoro” (i pensieri, i nostri interessi) lì è anche il nostro
cuore (noi stessi). Altro che pensare a Dio!
Non possiamo
quindi continuare così: dobbiamo pensare seriamente a cambiare, a disciplinarci,
a sostituire quello che è il “nucleo” della nostra vita, il centro dei nostri
pensieri.
“Siate
pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese…”. Il tempo a nostra
disposizione è limitato. Non facciamo l’errore di pensare che il presente sia eterno.
Le parole di Gesù hanno un senso ben preciso: “Siate svegli, non dormite, siate
consapevoli, state attenti a non prendere sonno”, perché il sonno della ragione
genera mostri, perché il sonno dell'anima genera solo morte.
Purtroppo
nell’uomo vi sono due tendenze contrastanti: quella del soprassedere, del
rimandare, dell’adattarsi, del fermarsi, e quella al contrario dell’andare
sempre avanti, del progredire, dell’evolversi, del perfezionarsi. Quante volte
capita anche a noi di pensare: “Va bene così; sono abbastanza religioso, amo il
prossimo più di tanti altri, faccio le mie elemosine, vado in chiesa la
domenica; insomma, penso di essere un buon cristiano e quindi mi fermo qui; che
mi serve crescere ancora, continuare a sacrificarmi: in fin dei conti non sono
un prete, un frate, una monaca”. Nulla di più sbagliato: la strada da
percorrere è in costante salita, pericolosamente sdrucciolevole; fermarsi,
significa scivolare giù. Il tempo della vita è sempre mutevole, un costante
divenire: il domani non sarà mai uguale all’oggi. Solo ciò che è morto rimane
immobile, smette di andare avanti, di crescere, di svilupparsi. Tutte le nostre
crisi esistenziali sono causate proprio dallo scontro tra queste due inclinazioni.
In pratica una ci dice: “Basta, sta qui; fermati, lascia fare; è difficile; è
doloroso; dopo tutto anche così non stai affatto male!”. L'altra, invece, ci
sprona: “Non fermarti qui, la vita ti chiama ad una nuova tappa, ad una nuova avventura,
devi affrontare anche questo nuovo ostacolo, va avanti, devi progredire”. Ed è
quanto praticamente ci insegna il vangelo di oggi. Non dobbiamo dormire sugli
allori: nella vita o si va avanti o si torna indietro; o si progredisce o si
regredisce. Non esiste una posizione di compromesso.
Quelli
che pensano di essere svegli, quando invece dormono, avranno un risveglio molto
duro. Sarà una sberla in faccia, un pugno allo stomaco: dovranno fare i conti
con una nuova impostazione della vita; dovranno affrontare quella che si chiama
“conversione”, cioè il cambiare strada, cambiare vita; si renderanno conto che quella
che pensavano fosse vita era invece un letargo, una sterile sopravvivenza, un
brancolare nel buio; era solo illusione e falsità.
A
proposito del dover prendere in mano la propria vita, c'è una storiella che racconta
di un padre che al mattino bussa alla porta del figlio: “Antonio, svegliati,
devi andare a scuola”; e Antonio: “Non voglio alzarmi papà; non voglio andare a
scuola”. “E perché mai?” esclama il padre. “Per tre motivi”, risponde Antonio. “Prima
di tutto, è una noia; secondo, i ragazzi mi prendono in giro; terzo, odio la
scuola”. E il padre di rimando: “Bene, adesso ti dico io tre ragioni per cui
devi invece andare a scuola: primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai
quarantacinque anni, e terzo perché sei il preside”.
Una
storiella che farebbe sorridere, se non riflettesse in pieno la voglia che
tutti abbiamo di scrollarci di dosso le nostre responsabilità, la realtà della
nostra vita, i nostri doveri: una tentazione comune fin troppo frequente.
Dunque,
svegliamoci, fratelli; apriamo gli occhi, prendiamo coscienza di chi siamo, da dove
veniamo, dove siamo diretti, come viviamo; affrontiamo la realtà che ci
circonda. Molte persone purtroppo continuano a trastullarsi con i loro
giocattoli (soldi, auto, vestiti, fama, il sentirsi importanti). Dicono che
hanno intenzione di crescere, di avere un serio desiderio di Dio, di volere,
insomma, uscire definitivamente dall'asilo nido in cui si trovano; ma poi nei
fatti non dimostrano alcuna affidabilità, non sono credibili. Vogliono procurarsi
invece sempre nuovi “giocattoli”: “Voglio un'altra moglie; voglio altri soldi; voglio
divertirmi, voglio solo comodità e benessere; non voglio soffrire, non voglio
cose mortificanti e impegnative!”. È una malattia molto frequente. Le persone
non accettano di sottoporsi a cure radicali e risolutive: preferiscono un palliativo,
un sollievo temporaneo, provvisorio. Meglio qualche compressa, qualche
soluzione facile facile, già “pronta all'uso”.
Se
durante la nostra vita, invece di vegliare, abbiamo preferito dormire, è questa
l’ora di svegliarci sul serio. Certo, svegliarci da un sonno comatoso e
invalidante, è sempre doloroso: perché improvvisamente tutte le nostre
illusioni svaniscono, tutto ciò in cui credevamo, quello che pensavamo fosse vita
e verità, quello che era il nostro riferimento, il nostro appoggio, tutto si
dissolve nel nulla. In quell’istante ci accorgiamo di non avere più nulla di
concreto; non abbiamo più strade conosciute, ci troviamo completamente spogli
di tutto, nudi con noi stessi. Unica consolazione è pensare al grave pericolo
scampato: potevamo continuare a vivere la nostra non vita, potevamo
impastoiarci sempre più nelle nostre illusioni; invece ci siamo svegliati
appena in tempo dallo stato di catalessi in cui vivevamo; ed è stata la nostra
salvezza.
Ora,
completamente svegli, dobbiamo vedere le cose per come sono, nella loro realtà;
perché tutto ciò che esiste è realtà, tutto ha un valore di cui siamo chiamati
a rispondere: desideri, sentimenti, pregiudizi, ricordi, traumi, complessi,
idee giuste e sbagliate; guerra e amore; vita e morte; potere e impotenza. Dobbiamo
cioè responsabilizzarci, essere finalmente “consapevoli” di noi stessi, poter
chiamare tutte le cose per nome, guardandole in faccia; significa classificare,
individuare la vera natura di tutto ciò che c'è in noi e fuori di noi: “Tu sei
violenza: questo è il tuo nome. Tu sei trauma: questo è il tuo nome. Tu sei
paura, terrore, soffocamento: questo è il tuo nome. Tu sei fallimento,
abbandono, tradimento: questo è il tuo nome. Tu sei energia, forza,
possibilità: questo è il tuo nome”. Chiamare ogni cosa per nome, come faceva
l'uomo all'inizio della creazione, è la forza della vita. Perché chiamare per
nome, significa far esistere una cosa, renderla reale, dirle: “Mi piaccia o no,
tu ci sei”.
Allora
con i termini “vegliare, consapevolezza, lucerna accesa”, il Vangelo oggi ci
raccomanda di vedere bene tutto ciò che c'è da vedere, di stare all’erta, di non
nasconderci nulla, di chiamare tutto per nome, con il suo nome.
La
nostra deve essere un’attesa vigile: non sappiamo quando verremo chiamati all’appello.
Sicuramente quando meno ce l'aspettiamo. E allora perché aspettare senza far
nulla? Perché sprecare il tempo dell’attesa?
È
vero, noi siamo per le comodità. Minimo sforzo, massimo rendimento. Vorremmo poter
programmare la nostra fede, sapere in anticipo quanto tempo ancora ci rimane,
per poter gestire la nostra vita spirituale con tutto comodo, con calma; per poter
camminare senza affanno, avendo davanti a noi, si una salita, ma molto lieve, con
gli ostacoli, il percorso, il traguardo, sempre bene in vista. Ma non è così! Noi
non sapremo mai come sarà il nostro viaggio, il modo in cui finirà, quale la
data esatta della sua fine. È un dono di Dio e Dio non è controllabile.
Tutti
noi siamo semplici “amministratori” della nostra vita; il tempo non è nostro, ne
abbiamo solo una piccola quantità da gestire. E di come lo avremo impiegato, saremo
chiamati a darne conto a Lui. Inutile illuderci. Se dicessimo in cuor nostro: “Beh,
sicuramente il padrone non arriverà oggi!”, e ci dessimo alla pazza gioia, a
mangiare, a bere e a ubriacarci, saremmo degli emeriti stolti. Come potremmo
giustificarci se il padrone arrivasse proprio allora? Sarebbe comunque troppo
tardi per piangere sulla nostra infedeltà, sulla nostra stoltezza!
Allora,
lo ripeto, non perdiamo altro tempo, fratelli. Siamo vigili. Trattiamo ogni
cosa, ogni essere, ogni creatura, con tutto l'amore e il rispetto di cui siamo
capaci. Iniziamo soprattutto da noi stessi, dal nostro mondo interiore, dalle
persone che ci circondano, dai più vicini, da quelli che in qualche modo “ci
abitano”. Stiamo attenti a non addormentarci; non viviamo di sogni, non dissipiamo
il nostro tempo, “fregandocene” di tutto e di
tutti. Stiamone certi, il padrone verrà. Non è un monito, una minaccia.
È la constatazione di una realtà. Un ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno,
che prima o poi anche noi dovremo rendere conto di quanto abbiamo avuto in
consegna. Amen.
«E Gesù
disse loro: Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche
se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc
12,13-21).
Gesù
sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo.
Forse centinaia, migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie,
importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare
di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; sarà invece “rinnegato,
portato davanti ai tribunali; tuttavia non deve temere di nulla, perché Dio ha
cura di lui, pensa personalmente a lui; a Dio nulla sfugge di quello che lo
riguarda; perfino i suoi capelli sono contati!
Sono
considerazioni profonde: ma improvvisamente un tale lo interrompe e gli pone un
problema personale, specifico, che riguarda solo lui, di nessun interesse per
gli altri. Un problema di divisione ereditaria. Poveri noi! Ma questo tizio, stava
veramente ascoltando Gesù, oppure pensava solo ai fatti propri? Certo, doveva essere
parecchio concentrato, ripiegato su se stesso, se di fronte a migliaia di
persone e nel bel mezzo di un discorso tanto profondo, se ne esce con una questione
così banale, così terra terra! Evidentemente gli insegnamenti di Gesù non lo
toccavano per niente: ciò che lo assorbiva totalmente erano i suoi problemi, le
sue proprietà, i suoi utili, il suo futuro economico: pensava al raccolto
eccezionale, ai magazzini troppo piccoli, insufficienti a custodirlo; alla
necessità di doverli ampliare, per poter espandere i suoi commerci,
incrementare i suoi utili, e darsi finalmente alla bella vita; ma c’era un
problema: suo fratello non gli cedeva quella parte di eredità comune,
necessaria all’ampliamento.
Egli quindi,
incurante degli altri, cerca di “appropriarsi” di Gesù: “Mio fratello sta
commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”. Ma Gesù gli legge
dentro: “Amico, tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché
sei attaccato ai soldi, perché sei avido, perché invidi chi ne ha più di te,
perché li brami. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi,
non sequestrarmi per i tuoi interessi. Ammesso anche che tu abbia la tua parte
di eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo
raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono
a nulla se il tuo cuore non è libero; non ti servono a nulla, perché tu vivi solo
per i soldi, vivi solo per accumulare, vivi schiavo dell’avere”.
Attenzione:
Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Dice: “Tu, tuo fratello
e tutti quelli che pensano come te solo ad arricchirsi, perderanno la vita; perderanno
la parte più feconda, più creativa, più vera della vita; perdono cioè l'anima”.
Gesù
va oltre la distinzione giusto/sbagliato che gli era stata proposta, e praticamente
dice: “Tutti quelli che vivono così, moriranno così”. Non è possibile infatti
che uno completamente preso dalla smania della crescita esteriore, della sua
immagine, del suo potere, della sua fama, delle sue ricchezze, possa trovare
interesse anche per il suo interno, per la sua anima, per le sue relazioni con
Dio.
La
parabola con cui Gesù spiega il concetto, sembra addirittura una maledizione divina:
“Visto che tu hai accumulato tanto, io ti tolgo tutto!”. Sembra quasi che Dio
se la rida di noi, si prenda gioco di noi, ma il significato della parabola non
è questo. È una triste considerazione, una anticipazione di quanto accadrà a
tutti quelli che durante la loro vita non pensano di “arricchirsi” anche e
soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno nessun interesse per la
propria anima, che svendono la propria esistenza soltanto per le ricchezze, per
i “magazzini”, per l'avere, per il riempirsi di cose materiali: “Chi vive così,
finirà così!” dice Gesù. Le illusioni passeggere devono fare i conti con il
futuro, con la realtà che non conosciamo, con le certezze che non vogliamo prendere
in considerazione.
Ci è
stata regalata una pianta bellissima. Ma ce la siamo dimenticata, non le abbiamo
dato acqua per troppo tempo ed è morta. Poi però ci lamentiamo, pretendiamo,
rivendichiamo “giustizia”; ma cosa possiamo pretendere? Con chi prendercela se
non con noi stessi?
L'uomo
della parabola, interessato solo al possedere, come tutti i ricchi del vangelo,
non ha un nome. È anonimo, perché ha perso la sua vera identità, la sua
personalità. Non ha più un nome perché tutta la sua attenzione è concentrata
fuori da sé, all’esterno, lontano da ciò che di più importante egli possiede,
l'anima; il suo interesse esclusivo è rivolto all’effimero, alle ricchezze, a
tutto ciò che ancora non possiede, e che forse non potrà mai possedere, ma che
egli vuole comunque a tutti i costi. E in questa affannosa ricerca finisce col
perdere l'unica cosa preziosa che già possiede: se stesso. Gesù l’ha detto
chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la
propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se
perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra
creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di
chi amiamo, la graduale crescita dei nostri figli, la forza trainante della
vera amicizia? Si vive, come quell’uomo, in una situazione tragicamente fittizia:
il suo rapporto con lo spazio e il tempo è del tutto sfasato. Parla e pensa sempre
al futuro: “Che farò, farò così, demolirò, costruirò, vi raccoglierò”. Non si
pone il problema “tempo”; per lui non esiste il presente, vive fuori dalla
storia. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, che tutto passerà, che
tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive sempre.
Ogni cosa ha un suo spazio temporale: inizia, si svolge, finisce. Ciò che abbiamo
perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai
più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Anche quell'uomo
si illudeva: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi
darò alla pazza gioia”. Quante persone, anche tra i nostri amici, hanno sempre
“rimandato” le occasioni per “vivere” serenamente, in libertà, con se stessi e
con i loro cari: c’era il lavoro, l’affermarsi, la carriera, la promozione ad
un livello superiore…; aspettavano tempi migliori, aspettavano una maggior
disponibilità economica, la liquidazione, la pensione, aspettavano che i figli
crescessero, aspettavano, aspettavano…; poi in un attimo, tutto si è rivelato solo
una illusione! Una malattia imprevista, dalla sera alla mattina, ha azzerato ogni
loro programma, ha infranto ogni loro sogno.
Ricordo
di un giornalista e commentatore televisivo che, alle soglie della pensione, colpito
da un tumore incurabile, diceva: “Il cancro ci ricorda che siamo legati ad un
guinzaglio corto, molto corto. Volete far ridere Dio? Parlategli dei vostri
progetti accantonati per il futuro”.
Noi,
per natura, siamo portati ad attaccarci a
tutto ciò che non abbiamo: “Devo diventare come lui, devo raggiungere questo,
devo arrivare a quello...” e così lottiamo, combattiamo, spendiamo tutto il
nostro tempo per ottenere queste cose: ma una volta raggiunte, ci accorgiamo che
non ci bastano più, che non sappiamo più che farcene, in quanto già attratti da
altre più grandi; c'è sempre un nuovo traguardo più ambizioso da raggiungere.
Non ci
rendiamo conto della realtà: che cioè in noi abbiamo già tutto quello che
possiamo desiderare, abbiamo già “il nostro tesoro” più grande; l’abbiamo al
nostro interno, siamo noi stessi, la nostra anima. Niente all’esterno può farci
sentire più importanti, se non sentiamo l’importanza di noi stessi; nulla può
farci sentire sicuri se non siamo sicuri di noi stessi; nessun Dio può farci
sentire più vivi se non riusciamo a vivere quella “vita” che già ci ha dato.
Questa è la differenza tra chi “tesorizza” per il mondo (ammassa ricchezze e tesori
esteriori) e chi “tesorizza” per Dio (rinforza la presenza di Dio in Lui, nella
propria anima).
Ebbene:
questo vangelo ci interroga in particolare sul nostro rapporto con il denaro,
con le ricchezze. Quante volte sentiamo dire: “I soldi sono del diavolo!” Eppure
quanti di noi vivono solo per i soldi! Il denaro in sé non è né buono né
cattivo: ci offre la percezione della realtà. Come uno si rapporta con il
denaro, così egli è. Ciò che facciamo con il denaro, riflette esattamente i
valori con i quali viviamo. Il denaro non è la realtà: ma da come lo usiamo, ci
diranno chi siamo realmente. È vero, il denaro cancella in qualche modo l'angoscia
della nostra fragilità umana, il pensiero della morte: con i soldi pensiamo di non
invecchiare: cure cosmetiche, lifting, gioielli, vestiti; il denaro ci dà fama,
ci protegge dalla paura di essere dimenticati, di cadere nell’anonimato, nella
massa; ci dà insomma l’illusione di essere immortali. Se è vero che il denaro ci
toglie dall'angoscia immediata della fine, è altrettanto vero che ci priva della
possibilità di una vita aperta, sensata, vera, vissuta serenamente nella piena fiducia
in Dio. Talvolta siamo noi ad usare i soldi per vivere, ma più spesso sono i
soldi che abusano di noi e della nostra vita; possiamo dominarli, ma il più
delle volte siamo noi ad essere loro schiavi: è infatti il nostro rapporto con loro
che decreta il nostro grado di libertà interiore.
Tutto
quello che possediamo, infatti, non aumenta di un centesimo quelli che siamo.
“Abbà,
cosa pensi del denaro?”, chiede un giovane monaco al suo anziano abate. “Guarda
dalla finestra” - gli risponde questi - “cosa vedi?”. “Vedo tanta gente, uomini
e donne che camminano, bambini che giocano”. “Ora guarda allo specchio. Cosa
vedi?”. “Cosa vuoi che veda? Vedo me stesso, naturalmente!”. Al che il maestro
di rimando: “Bene, ora pensa: sia la finestra che lo specchio sono entrambi fatti
di vetro. Basta però l’aggiunta di un sottilissimo strato d'argento sul vetro, perché
chiunque guarda non veda nient’altro che se stesso. Morale: il di più permette solo la visione di noi
stessi, impedendo totalmente quella degli altri”.
Ecco, è
anche su questo che Gesù oggi vuole attirare la nostra attenzione. Amen.
«Gesù si trovava in un luogo a
pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: Signore,
insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Ed
egli disse loro: Quando pregate, dite, Padre…» (Lc 11,1-13).
«Padre…». Un giorno un bambino chiede a
sua madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prende in braccio, lo stringe forte
al suo cuore e gli dice: “Cosa senti?”. “Sento che mi vuoi bene”. E la mamma:
“Ecco, questo è Dio!”. Ed è vero. Dio è nostro Padre e ci ama così. Se quando
ci rivolgiamo a Dio, non proviamo l’intima sensazione di un amore infinito e avvolgente,
un senso profondo di pace, di tranquillità, di sicurezza, di misericordia, di
perdono, di libertà, di accoglienza, vuol dire che ancora non conosciamo Dio;
vuol dire che non lo sentiamo ancora come “nostro” Padre; vuol dire che viviamo
ancora nell'ignoranza più totale di Dio.
«Sia santificato il tuo nome». Molte persone di fronte a
questa preghiera pensano subito alle bestemmie, al parlar male di Dio,
all'usare in malo modo il nome di Dio. Ma noi bestemmiamo (non santifichiamo)
Dio in maniera ancor più grave, quando viviamo al di sotto delle nostre
possibilità; bestemmiamo Dio, quando ci lasciamo vivere ai margini dell’amore;
quando ignoriamo Dio; quando - per paura, per ignoranza, per egoismo - smarriamo
la strada che ci conduce all’Amore; quando non sappiamo accorgerci della Sua
presenza amorosa al nostro fianco. Certe vite sono un’autentica bestemmia a Dio
perché sono aride, non si costruiscono, si lasciano andare; perché rinnegano
con la loro inesistenza la Vita, perché sono inutili, futili, superficiali,
banali. Allora possiamo anche confessare parolacce e bestemmie, ma dobbiamo soprattutto
chiedere perdono e convertirci, quando la nostra vita è rinnegamento della
grandezza, dell’entusiasmo, dell’amore, della meraviglia e dello stupore di
fronte al bello, che Dio ha immesso in noi; quando cioè la nostra vita è
completamente indifferente a questi valori. Ogni volta che viviamo al di sotto
della nostra grandezza e dignità di figli di Dio, noi non solo non lo “santifichiamo”
per averci creato “grandi”, a sua immagine e somiglianza; ma lo abbassiamo stupidamente
alla nostra visione gretta e ristretta della vita. Dio è infinitamente più
grande; Dio è oltre, Dio è un'esperienza personale che non finiremo mai di
scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare. Questo è il mistero di Dio:
di fronte a Lui non ci resta che inchinarci umilmente e fare silenzio, perché
Lui è Santo, Altro, Oltre...
«Venga il tuo regno»: si realizzi, accada, si
compia in me ciò che tu vuoi. Il regno di Dio è la possibilità che abbiamo di
instaurare in noi la viva presenza di Dio. Noi possiamo trasformare questa
possibilità in realtà: sta a noi fare in modo che ciò si attualizzi, si realizzi,
accada; che cioè Lui sia in noi, sia evidente a tutti; che tutti lo possano
vedere nella nostra vita, attraverso le nostre scelte, le nostre azioni, i nostri
impegni sociali, i nostri progetti. Altrimenti, pur essendo una possibilità
reale, vicina, alla nostra portata, il regno di Dio continuerà a rimanere per
noi un bel progetto, un sogno vagheggiato, una realtà incompiuta, accantonata. Quando
ci impegneremo veramente perché la nostra vita diventi autentica, vera, allora il
regno accadrà in noi; quando il nostro amore diventerà meno possessivo e
condizionante, quando diventeremo più aperti e meno giudicanti, allora il regno
si realizzerà in noi; quando lotteremo per l'ingiustizia nel nostro ambiente di
lavoro, nella società, nella famiglia, quando alzeremo la voce di fronte alle
ipocrisie, quando con il nostro silenzio e la nostra indifferenza non permetteremo
agli altri di umiliarci e di umiliare i nostri sentimenti, la nostra fede, i
nostri principi, allora il regno si realizzerà in noi; quando ci esporremo,
quando non indietreggeremo di fronte alle sfide, alle provocazioni, ai
conflitti, al male invadente, quando metteremo in gioco la nostra vita per la
solidarietà, la comunione fraterna, la verità, allora il regno accadrà in noi. Ecco:
ogni volta che preghiamo “venga il tuo
regno” noi chiediamo a Dio di renderci suoi “strumenti” attivi, in modo che
tutto ciò che Lui vuole per il mondo si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane
quotidiano».
Come il cibo naturale ci fa vivere, ci nutre, ci irrobustisce, oppure ci
intossica, così tutte le cose di cui “ogni giorno ci nutriamo” ci fanno, ci costruiscono,
ci completano, ci formano, oppure ci “de-formano”. Così “mangiare” esperienze
positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, vivere in ambienti
mentalmente aperti e affettivamente ricchi, perdonare, cambiare in meglio, andare
a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, tutto
questo è il “cibo” che, giorno dopo giorno, ci costruisce e ci forma, ci
alimenta, delinea la nostra fisionomia. “Mangiare” esperienze negative,
rimanere in ambienti di chiusura totale, di scelte meschine e ignoranti, di
odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare, vivere stressati, non darsi
occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d'amore; essere sempre rigidi,
controllati e prevenuti; vivere maledicendo la vita, sono le cose che ci “costruiscono”
negativi, che ci “de-formano”, che progressivamente ci distruggono. Non è la
singola domenica che ci fa cristiani ma domenica dopo domenica, un giorno dopo l’altro.
Se continuiamo a privarci dell’unico cibo che ci da sostanza, del cibo vero che
è Dio e tutto ciò che lo riguarda (il canto, la comunità in preghiera, il
vangelo, il clima fraterno, la partecipazione al banchetto eucaristico, il
coinvolgimento) rinsecchiamo, diventiamo sterili e vuoti. Noi diventiamo ciò
che facciamo. Noi diventiamo ciò che mangiamo, ciò di cui ci nutriamo;
diventiamo le persone e gli ambienti che frequentiamo; diventiamo le cose che
facciamo, le esperienze che scegliamo. Tutti siamo condizionabili, tutti sono
condizionati; ma sta a noi decidere da chi e da che cosa farci condizionare.
Tutti devono mangiare, tutti mangiano, ma sta solo a noi decidere cosa
mangiare. Sta a noi decidere da cosa farci nutrire. Per cui una grande e
responsabile scelta, nella nostra vita, è quella di “conservare” coscientemente
il “cibo” che ci fa bene, che ci costruisce, che ci da forza; ed eliminare
quello “guasto”, quello che ci fa star male. Se un cibo ci fa male - è ovvio – noi
non lo mangiamo: eppure ogni giorno continuiamo incoscientemente a cibarci di
robaccia, di cibi avariati, di cibi vecchi, scaduti, malsani. Attenzione:
perché noi, come ho detto, diventeremo esattamente quello di cui ci nutriamo
ogni giorno: teniamolo a mente e non incolpiamo nessuno della nostra situazione.
«Perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Il perdono deve essere il nostro
pane quotidiano (perdono e pane in ebraico hanno le stesse consonanti);
ciò di cui ogni giorno dobbiamo nutrirci, alimentarci, perché le nostre energie
siano libere e vitali e non incatenate nel risentimento e nell'odio. Pertanto ogni
giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri
sentimenti di odio e tutto ciò che ferisce noi e gli altri. Ogni giorno dobbiamo
alzarci sapendo che il pane sostanzioso, quello che ci nutre per tutta la
giornata, sarà il perdono. Dobbiamo perdonare prima di tutto noi stessi per gli
errori che abbiamo fatto, anche per quelli inconsapevoli; dobbiamo perdonare le
persone che ci fanno del male, che esprimono giudizi sommari e falsi sul nostro
comportamento, sul nostro modo di fare, su come parliamo, su come viviamo; le
persone che parlano a vanvera, che non sanno ma calunniano, che malignano su
tutto. Più che reagire, non sappiamo mai dove una reazione vada a parare, dobbiamo
perdonare.
Il
verbo “perdonare” in ebraico significa letteralmente “ricoprire una ferita”. Ecco,
ogni giorno noi dobbiamo ricoprire le ferite nostre e dei nostri fratelli: è
così che vivremo serenamente. Il perdono è il “vestito” che dobbiamo indossare
tutti i giorni per andare nel mondo; il perdono è la nostra unica possibilità
di essere spiritualmente fecondi, propositivi, utili; di essere in una parola
“generatori” di felicità.
Questa
in sintesi è la preghiera che Gesù ci insegna nel Vangelo di oggi. In che modo poi,
e con quali disposizioni dobbiamo pregare, ce lo chiarisce subito dopo, per
mezzo di due parabole.
La
prima ci racconta di un uomo che, nel bel mezzo della notte, riceve la visita inaspettata
di un ospite. Ovviamente, colto di sorpresa, il poveruomo non ha nulla da offrirgli:
cosa molto imbarazzante per un orientale che considera l'ospitalità un onore,
un bene preziosissimo. Si affretta allora, e va a sua volta a bussare dal
vicino, già a letto anche lui: e lo fa pur sapendo di procurargli un grande fastidio:
deve infatti alzarsi, aprirgli la porta già sprangata, rischiando che il
trambusto procurato svegli anche tutti quelli che già dormono. Nonostante tutto
però, egli non rinuncia, lo importuna comunque, perché in questo suo amico
ripone una piena e incondizionata fiducia. Ecco: Gesù ci invita a rivolgerci a
Dio proprio così, come ad un vero amico, anche in modo inopportuno, anche in
modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, sempre, in qualunque momento; possiamo
raccontargli tutto; a Dio possiamo aprirci e mostrarci nella nostra totale miseria,
possiamo far vedere come siamo, cosa pensiamo; tutto, completamente tutto: anche
ciò che è brutto, ciò che è indecoroso, ciò che è meschino, vergognoso; anche i
nostri pensieri più intimi, più nascosti, più cattivi, più ripugnanti, più
aggressivi. Egli, come un vero amico consolatore, ci ascolterà, ci accoglierà. Non
dobbiamo avere timori o riguardi: nella nostra preghiera a Dio, c'è spazio per
tutto.
La
seconda parabola ci spiega poi cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre conosce
(dovrebbe!) cosa è il meglio per i propri figli. Nessun padre, al figlio che
chiede, gli darà mai una pietra al posto del pane, un serpente al posto di un pesce,
uno scorpione al posto di un uovo: è ovvio, è naturale. Allo stesso modo Dio,
che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa farci male, nulla che possa
nuocerci. Questo è molto importante da capire: perché essere convinti di questo,
vuol dire entrare nella giusta “valutazione” della nostra vita; vuol dire
capire e accettare che tutto ciò che ci succede ha un senso, un suo significato,
un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo; o non lo vediamo; o addirittura
lo rifiutiamo perché lo consideriamo un male. Al contrario in tutto ciò che ci
succede, Dio ci parla, ci insegna, ci ammaestra: vuol farci entrare nella sua “logica
divina”. Quando chiediamo, Lui risponde sempre alle nostre domande: anche se lo
fa in maniera diversa da come noi vorremmo. Quando lo cerchiamo, Lui c’è; è
sempre pronto a farsi trovare, anche se spesso non ci accorgiamo di lui. Quando
bussiamo, Lui ci spalanca immediatamente porte e strade, anche se non sempre coincidono
con quelle che vogliamo noi. Una cosa ci deve sempre confortare e rassicurare: che
Lui non ci farà mai del male, non ci ferirà mai: anche quando non lo capiamo, noi
dobbiamo fidarci ciecamente di Lui; perché noi, in realtà, non sappiamo nulla, non
vediamo oltre il nostro io, non sappiamo cosa sia veramente buono per noi, soprattutto
non sappiamo cosa ci riserverà il nostro domani: sarà un domani radioso? Oppure
sarà un domani irto di prove e di contrarietà? Abbandoniamoci allora a lui, e lasciamo
fare a Lui, a Dio. Un mio amico monaco era solito ripetere: “Io so che Dio mi è
padre... questo mi basta”. Amen.
«Gesù entrò in un villaggio e
una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la
quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era
distolta per i molti servizi» (Lc 10,38-42).
Continuando
il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a
casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si
tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai
tempi di Gesù, che in questo modo ha infranto ancora una volta usanze, schemi e
convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene
altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali
e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo
è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una
mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante.
Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con
l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana
ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra
che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo
che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare
che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un
messaggio “nuovo”.
Storicamente
dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania:
è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide quindi di fermarsi a casa delle
due donne.
A
questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli
da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia
in ordine, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica,
“esteriore”.
Maria,
invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta,
ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un
comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo quello di
Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due
diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo
insegnamento.
Marta
non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una
ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a
Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche
Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua
parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è
lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel
momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le
necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con
i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che
fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.;
tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di
stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con
naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo.
Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno?
Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere
accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di
confidarsi.
Marta questo
non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le da una mano.
Marta purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono
sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: ora,
di fronte ad una così, che si disfa letteralmente nei lavori di casa, che lavora
per noi, che ci prepara da mangiare, che lava e stira, che ci fa trovare tutto
in ordine, come facciamo a chiederle ancora qualcos’altro per noi? Quante volte
infatti abbiamo sentito da queste persone lamentele del tipo: “Che volete ancora
di più? Ho dato tutta la mia vita per voi! Ci ho rimesso la salute! Ho vissuto solo
per voi! Ho lavorato anche sedici ore al giorno per farvi stare comodi!”. Hanno
sicuramente ragione, ma sono persone che così dicendo vogliono soprattutto farci
sentire in colpa, vogliono farci pesare tutto quello che fanno per noi. È un
modo inconscio per eludere qualunque tipo di colloquio, per non farsi
coinvolgere su un livello più confidenziale, più intimo, più personale: “Mi
pare di aver fatto abbastanza per voi: non chiedetemi altro, non chiedetemi anche
di accogliervi, di farvi le moine, di ascoltarvi, di esaudire i vostri capricci”.
Marta quindi
si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto distruggendo per
te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di
mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a
Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere
riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non
lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse
contro la sorella e Gesù. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia
per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava
che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di
cuore!”. Ma non succede…
Quante
volte capita anche a noi di non essere chiari con noi stessi e con il prossimo!.
Quante volte diciamo una cosa e ne pensiamo un’altra; vorremmo una cosa, ma non
abbiamo il coraggio di chiederla apertamente. Così, per esempio, quando diciamo:
“Non mi telefoni mai!”, in realtà vorremmo dire: “Avrei piacere di sentirti;
avrei piacere di parlare con te, vorrei che fossi tu a cercarmi qualche volta!”.
Invece di dire: “Non sei mai a casa!”, vorremmo essere più chiari e dire: “Vorrei
che tu ed io stessimo più insieme! Ho bisogno del tuo aiuto. Ho bisogno che tu
ti sieda qui, che mi ascolti, che mi dia un po’ del tuo tempo. Ho bisogno di
te; ho bisogno che tu stia con me; ho bisogno di sentire il tuo amore; ho
bisogno di sentirmi dire che valgo, che sono importante per te”. È chiaro che
troppo spesso ci comportiamo così per paura: perché essere più chiari, più
espliciti, ci farebbe sentire anche più deboli, più vulnerabili. E allora
facciamo come Marta: accusiamo. Spesso è infatti più facile accusare che
manifestare i nostri sentimenti, i nostri bisogni interiori, le nostre
aspirazioni; è molto più semplice attaccare, colpire gli altri, che mostrarci noi
vulnerabili e bisognosi.
Marta
non ha dubbi: Gesù in casa sua deve trovarsi sicuramente bene: è lei che gli ha
messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di
sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di
bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché
non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così
semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua,
per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata,
perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma
tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco
perché, fratelli, dobbiamo imparare a riconoscere i nostri bisogni; a
riconoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle
sugli altri, pretendere che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede.
È evidente che Marta e Maria non si parlano, non si dicono nulla. Perché Marta
non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di
darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù
dalla sua parte contro di lei?
Quante
persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi!
Vanno dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con
gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo
da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un
altro non serve a nulla, se non a farci compatire. Così la moglie si sfoga con
le amiche di quanto il marito sia insensibile, chiuso, egoista, uno che pensa
solo a quello. E il marito dal canto suo si sfoga con gli amici su quanto lei sia
paranoica, una che pensa sempre e solo all'ordine in casa, una a cui non si può
mai dire niente. Parliamone tra noi, invece! Diciamoci ciò che non va! Cercare consensi
dagli altri significa volersi sentir dire che siamo noi dalla parte del giusto,
della ragione; che è l'altro ad avere torto. Bella soddisfazione: non è certo
questo che ci risolve la questione.
Maria,
al contrario di Marta, coglie subito il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei
che decide ciò di cui Egli ha bisogno. Quando arriva, non dice una sola parola,
lo ascolta semplicemente, si fa vuoto, spazio, perché Gesù entri e si senta
pienamente accolto.
Quando
dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci a priori: “Che gli dirò?
Riuscirò a sostenere un discorso? E se mi chiede qualcosa cui non so
rispondere? Riuscirò a capirlo? Sarò efficace?”. Impariamo ad ascoltare. Il
resto viene da sé. Non pretendiamo di cambiare le persone secondo i nostri
gusti.
Facciamo
come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego
onnipresente, creiamo spazio perché possano entrare, portare se stessi, mostrarsi
per quello che sono. Offriamo loro quella stessa ospitalità che tutti noi vorremmo
ricevere.
Il
vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù. Stare a contatto con i piedi,
con la terra (humus), indica prima di tutto un atteggiamento di umiltà
(humilitas). Ed è così, come Maria, che dobbiamo accogliere i nostri fratelli;
dobbiamo far capire che siamo lì completamente per loro. Essi lo sentono, lo
percepiscono: e in quel nostro spazio d'amore essi potranno esprimere le loro
paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro
contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni
impossibili; lì avranno uno spazio dove piangere e dove ridere; uno spazio dove
disperarsi ed essere abbracciati; uno spazio dove sentirsi al sicuro, protetti,
dove rifugiarsi. Perché incontrare noi, per loro, deve essere come per Gesù incontrare
Maria: incontrare cioè l'amore vero, l’amore autentico.
Invece
di costruire case e palazzi, costruiamo invece “amore”, e tutto il mondo diventerà sicuramente
migliore. Perché soprattutto di amore noi abbiamo bisogno. Poi verrà anche Marta,
con il lavoro, la casa, il cibo, le cose da fare, i problemi, le pulizie, il riordinare
e quant'altro. Ma prima di tutto c’è la carità, l’amore, c’è Maria: questa è
l'unica cosa di cui il mondo ha veramente bisogno. Questo è l'essenziale, è ciò
che non può esserci tolto; altrimenti soffriremo e moriremo tutti dentro,
accartocciati nella nostra aridità. Amen.
«Maestro, che cosa devo fare
per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25-37).
È la
domanda classica del cristiano quella che il dottore della legge rivolge a Gesù.
Una domanda che tutti, prima o poi ci poniamo: ma è anche una domanda
tendenziosa, provocatoria: “Che cosa devo fare per andare in Paradiso? Come
devo comportarmi per essere un buon cristiano? Io so già cosa mi dicono le
regole, ma tu, Gesù, tu cosa mi dici?”. È chiaro che si tratta di una domanda
comunque inutile, perché tutti sappiamo perfettamente come dobbiamo comportarci,
cosa dobbiamo fare, cosa evitare.
Certo,
in questi ultimi anni le cose sono molto cambiate: da un comportamento
cristiano rigido e severo, regolamentato da norme e prescrizioni, si è arrivati
ad un lassismo preoccupante: tutto è permesso, tutto lecito; è l’individuo stesso
che determina la moralità dei suoi atti. Tanto, ci troviamo di fronte ad un Dio
“super” misericordioso: la sua bontà infinita, il suo amore smisurato, la sua compassione
senza limiti, hanno avuto decisamente la meglio sulla sua severità di giusto giudice.
Entrambe le posizioni sono ovviamente sproporzionate. La virtù come al solito sta
nel mezzo. Ed è questo che Gesù intende dirci tra le righe.
Non so
se ricorderete, ma una volta le persone arrivavano addirittura a trasferire su
Dio lo stesso ruolo inquisitore e vessatorio, tipico di gran parte dei “genitori”
e dei preti vecchio stampo: si era in regola, si andava bene solo se il “Grande
Genitore” (Dio) era contento di noi. Per questo abbiamo obbedito, ci siamo
piegati a regole che oggi definiremmo assurde, abbiamo (forse?) svenduto la nostra
“gioia” di vivere spensieratamente, pur di “essere in regola” con Dio. Insomma
i tempi avevano contribuito a trasformare Dio in un “Grande Fratello”, la trasmissione
voyeuristica che tutti abbiamo criticato: quel Dio (che decisamente non è il
Dio del vangelo) era un po’ “guardone”, uno che spiava sempre tutti, vedeva e
sentiva ogni cosa; sapeva quindi perfettamente quando uno sbagliava, perché tutto
era registrato chiaramente sul suo “monitor”. Una visione angosciosa che
terrorizzava la gente di allora: aveva paura di sbagliare, di non essere in
regola, di far peccato, di essere esclusa, di non essere ammessa in paradiso,
insomma di non andare bene, di essere sbagliata. Lo scopo primo della vita non
era pertanto quello di “vivere”, non era amare, non era entrare nelle relazioni
interpersonali con la forza piena dei sentimenti, con tutta l'intensità
possibile dell’amore, con tutte le vibrazioni possibili del cuore. No, lo scopo
primario della vita era “la regola”. Per questo nessuno cercava veramente Dio,
nessuno cercava di vivere serenamente la “propria” vita. Ciò che contava era vivere
“in regola”, da “bravi cristiani”. Pensare diversamente, scostarsi appena dalle
“regole”, significava essere decisamente dei cattivi cristiani.
Bene: colui
che si rivolge tendenziosamente a Gesù è intriso di questa mentalità, è un “esperto
in regole”: «Cosa devo fare per ereditare
la vita eterna?». Ma Gesù, sapientemente, elude il tranello, e gli rivolge
una contro domanda (nasce quasi una sfida tra i due!). «Che cosa sta scritto nella Legge?». Come a dire: “Ma come? Proprio
tu che sei un esperto della legge chiedi a me una cosa del genere? Dovrei
essere io a chiederlo a te!”. E in questo modo Gesù lo smaschera: “Visto che tu
conosci perfettamente le leggi fondamentali dell’amore verso Dio e il prossimo,
osservale e basta!”. Ma il dottore della legge non demorde: dopo la brutta
figura, cerca di “rimettersi in piedi”. E gli fa un'altra domanda: «Chi è il mio prossimo?». È chiaro che questo
tizio non arriverà mai a capire la nuova mentalità di Gesù: viaggia su un
livello diverso, è sintonizzato su una stazione diversa. È limitato,
impastoiato nelle sue prescrizioni. Con Gesù non ci sono limiti all’amore: non esiste
più il “fino a dove”, il “fino a quando”. Se uno ha un cuore, deve seguirlo
pienamente. Chi ama non fa distinzioni su chi ha davanti: chi ama segue solo il
proprio cuore. Chi pone delle differenze, dei distinguo - “tu sì” e “tu no” - è
ancora “fuori”, è condizionato dall'esterno, da regole esteriori, umane, spesso
di convenienza.
Il
dottore della legge non può capire. Perciò Gesù gli propone la parabola: «un uomo scende da Gerusalemme a Gerico...».
Gerusalemme distava ventisette chilometri da Gerico, con un dislivello di mille
metri. Era una strada conosciuta soprattutto per la sua pericolosità, piena di
agguati, rapine e imboscate. Beh, a tutti nella vita capiterà, prima o poi, qualche
imboscata. Tutti avremo a che fare con dei predoni e dei briganti: qualcuno ci
bastonerà, qualcuno ci spoglierà, qualcuno ci lascerà mezzi morti. Ora, il punto
non sta tanto sul “come evitare i briganti”, visto che l'unica soluzione è quella
di starsene sempre rintanati “in casa”, chiusi nel nostro io, rinunciando a
vivere; il punto sta piuttosto su come programmare la nostra vita: cioè se “vivere
o non vivere”; se rimanere a “Gerusalemme” (all’ombra delle sacrestie, delle
parrocchie) o provare ad uscire, andare incontro agli altri, a quelli che sono
più bisognosi, più feriti, più bastonati di noi.
D’altronde
Gesù nella parabola è chiaro: se qualcuno non interviene immediatamente, quell'uomo
muore. E chi l'ha ucciso? I briganti? Solo loro? O non l'hanno ucciso anche coloro
che, potendo fare qualcosa, non l'hanno fatto? Eppure quante persone si
giustificano con la famosa frase: “Io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in
certe situazioni, non fare nulla, non intervenire, vuol dire condannare.
Nel
racconto di Gesù emergono dunque tre personaggi diversi, ognuno soffocato dal proprio
ruolo specifico; compaiono tutti “per caso”, come del resto tutto (o forse
niente?) avviene per caso nella vita: si tratta prima di tutto di un sacerdote,
un addetto al culto e quindi di uno che viveva ad un livello superiore, un
livello cui non competeva “istituzionalmente” il doversi preoccupare di un
“ferito”, di un “moribondo”. Poi un levita, un sacrista diremmo oggi, anche lui
un uomo di chiesa: e anche lui convinto di essere al di sopra, estraneo alla
situazione. È sintomatico: quando non vogliamo fare qualcosa, tutti abbiamo
sempre una scusa pronta: il problema di questi due “ecclesiastici” è che sono così
presi dal loro “status”, da non accorgersi che la loro anima, il loro cuore, ne
sono rimasti soffocati: “Sei un sacerdote, non spetta a te fare queste cose!”, il
ruolo dice al primo. “Sei un levita, uno che è vicino alle cose di Dio; devi
comportarti in maniera adeguata”, dice al secondo.
C’è anche
un terzo personaggio, più defilato, ma non per questo meno arroccato nel
proprio ruolo: l'albergatore:. Quando il samaritano gli consegna il pover’uomo,
mezzo morto, si guarda bene dal dirgli: “Ma sì, non ti preoccupare per i soldi!
In una situazione del genere non se ne parla neppure: vai tranquillo, tu hai
fatto già fin troppo; ora mi prendo io cura di quest'uomo e non voglio
assolutamente nient’altro da te”. Nossignori, quando arriva, lui se ne sta
zitto e incassa tutto: incassa i due denari e, fiutato l'affare, gliene
chiederà di sicuro anche altri. Anche lui è vittima del suo ruolo distruttivo: “Io
non guardo nessuno in faccia, mi faccio gli affari miei”. Il suo ruolo gli
impedisce di provare amore, compassione, di sentire la vita.
È
così, dunque: anche nella nostra esistenza il ruolo può uccidere il nostro cuore,
può distruggere la nostra anima, la nostra vita. Quando noi ci identifichiamo
in un unico ruolo, costringiamo la nostra sensibilità su di un solo canale. È
come mangiare solo dolci tutto il giorno. Sì, buoni, ma a lungo andare ci producono
repulsione. Se non stiamo attenti il ruolo ci distacca da noi stessi, dal nostro
sentire, da ciò che abbiamo dentro; per cui di fronte ad una situazione improvvisa,
completamente diversa, non ascoltiamo il nostro cuore, ormai atrofizzato, e diamo
sempre la stessa risposta, preconfezionata, già fatta, già stabilita dal nostro
“ruolo”. Non siamo più noi che sentiamo e che agiamo, ma è lui, il nostro ruolo,
che agisce autonomamente e automaticamente.
Ebbene,
in questa parabola – ed è il più importante - c'è anche un uomo libero, un uomo
non imprigionato dal suo ruolo: il samaritano. È lui che ci viene proposto come
esempio da seguire. Il samaritano non ha maschere o ruoli da difendere: in lui,
nel suo cuore, la vita circola libera e vibrante. Sono in tre che passano per la stessa strada (sacerdote,
levita e samaritano); tutti e tre vedono l'uomo. Ma solo del samaritano il
testo dice qualcosa che non dice degli altri due: che ne “ebbe compassione”. Tutto
ciò che fa dopo, è solo la conseguenza di questo suo sentimento.
Compassione:
in greco, con la stessa radice, si indica “l'utero materno”: è quell'emozione
che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare: è l’amore di una madre
per il proprio figlio. Come poteva allora il samaritano tirare dritto? Come
poteva far finta di niente? Il sacerdote e il levita si sono appellati alle
loro regole: la “regola” giustificava il loro comportamento. Sì, ma il loro
cuore? La verità è che “non lo sentivano” più. Non “sentire” il cuore, significa
essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il
nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe
chiedere loro: “Sensibili come? a che cosa?”. Perché sentire suonare una cassa
di 500 watt di potenza, non è “essere sensibili”; significa non essere sordi
del tutto. Come la mettiamo sotto i 10 watt? Davanti a noi ci sono due tipi di
morte: quella del fisico e quella dell'anima. Con quella del fisico moriamo
dentro e fuori. Con quella dell'anima viviamo al di fuori, ma siamo morti
dentro. Facciamo in modo allora di “sentire” sempre; di essere sensibili in
ogni caso, per non correre il rischio di essere morti, prima ancora che arrivi la
nostra morte fisica. Amen.
«In quel tempo, il Signore
designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e
luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi
gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella
sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate
borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la
strada». (Lc 10,1-12.17-20).
Ci
troviamo dunque di fronte ad una impellente necessità: «La messe è molta, ma
gli operai sono pochi». Di fronte ad una “materialità” dilagante, di fronte ad
un progressivo allontanamento da Dio da parte del mondo, l’uomo ha bisogno sempre
più di nuovi inviati che gli offrano spiritualità, fiducia, amore. Nel nostro
immaginario, pensiamo spesso che – se avessimo tanti soldi, tanta ricchezza, tante
auto, tante possibilità, tanti amici - sicuramente staremmo bene; ci sentiremmo
completamente appagati, a posto di tutto.
Ma poi
ci accorgiamo che non è così, perché più abbiamo, più vorremmo avere. Più la
materialità, le cose caduche, effimere, ci assorbono, più cadiamo nello
sconforto; sentiamo il bisogno vitale di un altro tipo di ossigeno, di “spiritualità”,
di entrare in un rapporto interiore con Dio, poiché tutto quello che ci accaparriamo
in questo mondo, non influisce minimamente sulla nostra “anima”, non ci porta quella
linfa vitale, generatrice di autentica felicità e serenità. Siamo tutti “messe”
incolta, in attesa di essere curata, coltivata: una “messe” bisognosa
dell’intervento determinante di veri operatori di felicità.
La
cronaca nera ci riporta sempre più frequentemente di persone che, ricche e
fortunate, sterminano improvvisamente la loro famiglia, i loro cari, per poi uccidersi.
Avevano
tutto! Ma tutto ciò che avevano non li rendeva felici, non dava loro la voglia,
l’entusiasmo di vivere, di combattere per quella felicità vera e duratura, che
trascende le cose di quaggiù. Perché questa è una ricchezza che non si compra,
non è in vendita, non è di questo mondo: appartiene allo spirito, all’anima!
Guardiamoci
attorno: tutti si lamentano, tutti sono arrabbiati, tutti sono nervosi. Eppure oggi
economicamente stiamo molto meglio dei nostri nonni: c’è un maggior benessere, possiamo
permetterci vacanze, divertimenti, vestiti eleganti, ogni sorta di cibo e tanto
altro ancora. Se qualcuno ci chiedesse cosa ci manca, sinceramente non potremmo
che rispondere: “Niente”. Ma non è vero. Ci manca invece proprio quella voglia
di vivere che avevano i nostri nonni; ci manca il loro gusto del vivere, del
combattere; ci mancano le loro convinzioni profonde, la loro religiosità, i
loro ideali, nei quali trovavano veramente la forza per vivere e combattere.
Ecco
perché oggi in particolare, di fronte a tanta “messe” in sofferenza c'è tanto bisogno
di “operai”, di “uomini di Dio”, di preti “convinti”, che parlino al cuore
della gente, che indichino loro la strada che conduce a Dio; non servono “funzionari”,
“impiegati” della chiesa gerarchica, ma “inviati” innamorati della loro missione divina, fieri di
essere stati scelti da Lui, e completamente disponibili a fare la sua volontà. Non
possiamo avere tipi, magari culturalmente preparatissimi, ma in totale asfissia di
amore e di divino. Assomiglierebbero in qualche modo ad una dotta dichiarazione della Congregazione della
Fede o ad un articolo del Catechismo o del Codice: dottrinalmente perfetti, ma incapaci di riscaldare il
cuore, inadeguati a metterci in contatto diretto con l’amore del Signore, a
farci sentire che siamo i suoi “benvoluti”, quelli che per Lui hanno valore, quelli
importanti. Spesso finiamo per essere un “numero” anche per gli operatori di Dio,
per la Chiesa di Dio, oltre che per una società tritatutto come quella di oggi.
Eppure,
Dio vede la sua “messe” che langue, e manda continuamente nuovi operai: ma
questi operai, come si comportano?
I
settantadue del vangelo andavano, guarivano le malattie e annunciavano: “Il
regno è qui, in mezzo a voi; datevi da fare!”. Non andavano a dire: “Tu devi
fare così; tu sei in peccato, sbagli continuamente; il Signore di sicuro ti
punirà, perché non sei un bravo cristiano”. Dicevano invece: “Tu sei ammalato
nel cuore, ma se lo vuoi, puoi sicuramente guarire, perché il Signore ti ama e
ti aspetta nella sua casa”.
La gente
purtroppo è piena di malattie, ma non riesce a trovare dei validi “dottori” per
guarire. Forse anche perché continua a credere nell'onnipotenza del medico e
non si rende conto che la Vera Forza per guarire è dentro di lei, nel suo cuore.
Allora più che di cattedratici, ha bisogno di “medici” esperti di anima, capaci
di farle “riprendere conoscenza”, di infonderle fiducia, di iniettarle la consapevolezza
che Dio, la Forza vitale, è dentro di lei. “Medici” che la facciano pregare,
che tirino fuori il suo spirito, che la alimentino del pane celeste, dell’acqua
sorgiva che disseta.
Il
male che affligge l’umanità, la malattia che più la debilita, proviene
dall’anima, dallo spirito, dal suo interiore. Gran parte delle malattie
fisiche, provengono proprio dal fatto che è lo spirito ammalato, che è la
psiche che sta male. Ora, da dove viene la malattia, proviene sempre anche la
guarigione: il problema pertanto non è di trovare la pastiglia giusta, ma di guarire
il nostro spirito contaminato, di cambiare, di ritrovare ciò che abbiamo perso,
di riscoprire la sorgente vera della salute.
È in
questo modo infatti molti “mali” sparirebbero: l'odio, la collera, l'ira, la
paura, la vergogna, il senso di colpa che corrode…; che ce ne facciamo di
queste malattie che appestano l’anima? Ci va di guarire veramente? E allora,
fratelli, tiriamo fuori la grinta: il regno è qui, ora, diamoci da fare.
Gesù
prima di tutto dice: “Pregate”; ma subito dopo aggiunge: “Andate”: in altre
parole “Vai tu, muoviti!”. Invece noi normalmente ci fermiamo alla prima parola,
alla preghiera: “Fa' Signore che succeda qualcosa; manda qualcuno a guarirmi:
aspetto”. E sulla seconda, si tira indietro! Non vuole responsabilità.
Oggi in
giro si fa un gran parlare di “responsabilità”, che bisogna essere
responsabili, ecc. Ma responsabilità, da “respondeo”, comporta necessariamente
un “rispondere”. C'è la chiamata (“vocatus”, vocazione) e c'è la risposta
(responsabilità). Noi diventeremo grandi, adulti, quando alla chiamata della
vita risponderemo di sì: quando cioè assumeremo le nostre responsabilità. Altrimenti
rimarremo gli eterni bambini che delegano in tutto la mamma. L'adulto si fa
coinvolgere. Il nullafacente chiama sempre in causa gli altri.
Ci
lamentiamo perché la politica fa schifo? Rispondiamo noi in prima persona, facciamo
le nostre scelte con coscienza, secondo i nostri principi, la nostra fede. Ci
lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare di più? Rispondiamo in prima
persona: “Eccoci”, siamo disponibili: siamo pronti a fare il messaggero,
l’animatore, il catechista, e perché no, anche a pulire per terra. Ci lamentiamo
perché le cose non vanno come dovrebbero? Andiamo avanti! Insomma noi, oltre
che criticare e lamentarci, cosa facciamo? Vogliamo un mondo migliore?
benissimo, diamoci da fare!
La
vita, Dio, ci interpella continuamente, ha bisogno di noi. Egli ci ha “chiamati”
all'esistenza, per consentirci di dargli una risposta. Appena ci ha visto, ci ha
detto: “Tu! Ho bisogno di te!”. E noi che facciamo? Continuiamo a trastullarci
con i nostri inconcludenti teoremi mentali? Dio non sa cosa farsene delle nostre
teorie, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri “fioretti”. Egli vuole
noi. Punto. Ed è ovvio: un innamorato, una innamorata, non sa che farsene dei
regali, dei fiori, dei biglietti, delle telefonate, delle promesse, se poi non ottiene
l’amore. Dio è innamorato di noi, vuole il nostro amore, la nostra risposta.
Tutto il resto non conta!
Bene:
noi cosa “portiamo” in questa chiamata? Cosa diamo, cosa trasmettiamo, quando incontriamo
le persone, i fratelli, la messe? Alcuni si dicono soddisfatti: “Io sono sempre
pronto per gli altri; io do tanto”. Sì, è vero, ma cosa diamo? Non basta dare;
l’importante è “cosa” diamo; “cosa” trasmettiamo, quali sono i “messaggi” che portiamo!.
Sarebbe
interessante andare dalle persone che frequentiamo e chiedere loro: “Senti
dimmi la verità, quando stai con me, cosa ti passo?”. Mah!
Un
fiore non ha bisogno di “portare” profumo: ci inonda di fragranza perché lui è
così. Così siamo anche noi. Se nel nostro cuore abbiamo la pace, dovunque andremo
ne lasceremo il profumo. Se abbiamo guerra, lasceremo macerie.
I
settantadue inviati vanno, e tornano entusiasti: “È proprio così, Signore! Come
hai fatto tu così riusciamo a fare anche noi!”. È solo questione di fiducia in
Lui, nelle sue Parole: se solo ne abbiamo un briciolo, scopriamo
improvvisamente che quello che Lui ha fatto lo possiamo fare anche noi:
l’importante è credergli e avere la sua forza dentro di noi.
Gesù è
felice nel vedere lo stupore, la gioia, dei suoi discepoli; ma raddrizza subito
il tiro: “Non siate felici per il potere che avete, per quello che potete fare.
Non siete voi ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi. Siate invece
felici per aver fedelmente risposto alla chiamata: non importa se non riuscite
a fare miracoli, a guarire gli ammalati, a resuscitare i morti; quello che
importa è che per la vostra “risposta”, i vostri nomi sono già scritti in cielo”.
Gli
uomini, noi, passiamo tutti: tempo qualche anno e i nostri nomi saranno
completamente dimenticati. Più nessuno si ricorderà di noi. Così è per i nomi
scritti sulla terra, quaggiù; svaniscono nel nulla.
Ma i
nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State tranquilli” ci dice Gesù: “voi
mi avete seguito, avete risposto alla mia chiamata: non sarete abbandonati;
state tranquilli, nessuna paura, voi siete protetti, salvati; voi siete nel
palmo della Mano di Dio. Nessuno da lì potrà mai rapirvi”. Ebbene: nel cuore di
Dio nessun nome passa, nessun nome viene dimenticato. Nel cuore di Dio vivremo
per sempre. Amen.