«Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni
burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose
diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di
Dio!» (Lc 3,1-6).
Giovanni Battista e la vergine Maria sono le due figure che ci accompagnano in questo
nostro percorso verso il Natale. Il
Verbo, Parola di Dio, incontra Giovanni nel deserto. È un incontro vivo, che
trasforma, che rigenera, che porta a produrre nuovi frutti. Quando la Parola di
Dio all'inizio della storia scende sulla creazione, nasce il mondo e ogni
essere vivente. Quando la Parola di Dio attraverso l'angelo scende su Maria,
nasce Gesù. La Parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa
profetizzare. L’'incontro con Dio, anche per noi, deve essere quindi un
incontro che crea, che cambia, che invia, che implica cioè un nostro movimento
in avanti. Ci crea: eravamo infatti ben poca cosa, ma dopo aver ascoltato, nel
senso di “mangiato, assimilato, gustato,
fatta penetrare” la sua Parola, non siamo più gli stessi. Ha prodotto un
cambiamento radicale in noi, una nuova visione della vita e del mondo si apre
improvvisamente davanti ai nostri occhi. Quante
parole ascoltiamo durante una giornata! Ma la Parola di Dio è diversa. Quante
parole, anche pie e religiose, abbiamo detto e ascoltato nella nostra vita! Ma
la Parola di Dio non è di quel tipo. Quante volte abbiamo udito leggere il Vangelo!
Ma anche quelle parole ci sono scivolate addosso: non è così che si ascolta la
Parola di Dio. La Parola di Dio è quella Parola che penetra in profondità, che ci
scuote (quindi è sempre destabilizzante), ci tocca violentemente, ci colpisce
nell’intimo. È quella Parola che ci torna sempre in mente, anche se non ne conosciamo
il perché; che ci risuona insistentemente nel cervello, che ci fa vibrare il
cuore, che ci riguarda da vicino; una Parola per la quale sentiamo un persistente
richiamo, un bisogno forte e irrinunciabile. È dunque quella Parola che non ci può
lasciare indifferenti. È quella Parola che fa comunque succedere qualcosa. Molte parole
degli uomini hanno il potere di bloccare la nostra vita, di distruggerla, di
ucciderla, di chiuderla: al contrario la Parola di Dio, se la lasciamo
penetrare dentro di noi, ci infonde sempre sicurezza, carica, ci conduce alla
salvezza: “Esci fuori; alzati; ti amo; va bene così; non avere paura; ci sono
io; slegati…”. Il
Battista dunque predica nel “deserto”.
Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa
vegetazione, inospitale, frequentata solo da pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto). Nella Bibbia il “deserto” è quel luogo attraverso cui tutti
devono necessariamente passare. Non si può arrivare in nessuna parte, in
nessuna terra promessa, se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il
proprio deserto. Per
gli Israeliti il deserto è stato infatti
un passaggio obbligato sia dopo la liberazione dall'Egitto che per quella
babilonese; è stato un luogo necessario per Mosè, per Elia. Nel nuovo
Testamento anche per Gesù, per Paolo, per migliaia di cercatori di Dio. Il
deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Arriva, cioè, un
momento in cui bisogna smettere di continuare a fuggire fuori da se stessi,
smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di
imbottirci di idee, di filosofie e di ragionamenti vari, e guardarci per
davvero in faccia senza mentirci. Dobbiamo entrare nel nostro deserto, dove non c'è nessun altro, dove
finalmente ci siamo solo noi. Molte
persone hanno il terrore di stare sole con sé. C'è chi trova sempre qualcosa da
fare; si adatta a fare di tutto pur di non rimanere da solo con la sua anima. C'è
chi parla sempre, in continuazione, riempie tutti gli spazi vuoti; ma non si ferma
mai ad ascoltarsi. C'è chi non riesce a stare solo e deve stare sempre in
compagnia di qualcuno, perché ha paura di sé stesso, della sua solitudine
interiore. C'è chi non riesce neppure ad ascoltare le proprie emozioni, che le
evita di proposito perché le teme troppo. Si ubriaca di esteriorità. Ci sono persone
peraltro che nella loro vita trovano questi spazi, questo “tempo per sé”: si
riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno,
insomma, quello che di solito non fanno mai. Ma questo “stare con sé” è tutta un'altra
cosa. Per avere un’idea di come vivere sul serio nel “deserto”, facciamo una prova: cerchiamo di stare un giorno intero
senza niente e nessuno: niente libri, niente giornali, niente radio e televisione,
niente telefono, niente cose da fare, niente da scrivere, pochissimo da
mangiare, nessun passatempo. All'inizio proveremo il vuoto, il disorientamento
e cercheremo il modo più rapido per scappare. Ma se avremo la forza e la
costanza di continuare così per tutto il giorno, giungeremo a scoprire
l’esistenza della nostra anima; una importante scoperta, una esperienza
singolare, unica, assolutamente mai provata prima. Scopriremo così il lato
positivo del deserto. Un deserto che non ci incuterà più paure,
un deserto che diventerà un amico
fidato. Provare per credere. Nel deserto il Battista predica un battesimo
di conversione per il perdono dei peccati. Predicare,
in greco kerysso, vuol dire “urlare,
dire ad alta voce”; la radice ker
indica il “cuore”. Giovanni quindi nel deserto non fa una dotta catechesi,
lunghe disquisizioni o prediche interminabili; comunica semplicemente dei brevi
messaggi carichi di amore, che portano al cuore, che arrivano al cuore;
messaggi appassionati, diretti e incisivi, che producono nell’ascoltatore
riflessione della mente e adesione del cuore. Il suo
è un battesimo di conversione per il
perdono dei peccati. Il senso del verbo greco “metanoèo, convertirsi, implica un “fare inversione di marcia, tornare indietro sui propri passi”;
indica cioè un cambiamento radicale nel pensare e nell’agire. Se percorriamo
una strada e ci rendiamo conto di aver sbagliato direzione, che facciamo?
Ovvio, invertiamo la marcia. Lo stesso dobbiamo fare quando ci accorgiamo che
la condotta che stiamo tenendo procura solo del male a noi stessi e agli altri. Siamo per
caso arrabbiati col partner, con un fratello, con chi ci sta vicino, perché ci
ha offesi, perché ci ha riservato un comportamento che non abbiamo gradito? Ebbene,
che facciamo noi d’impulso? Lo escludiamo immediatamente da noi, lo ignoriamo; gli
chiudiamo per ripicca qualunque porta di comunicazione, ostentiamo silenzio e
portiamo il muso. Vogliamo cioè “punirlo”, in qualche modo vogliamo vendicarci.
Dobbiamo far pagare al malcapitato la pena per lesa maestà. Ebbene, fratelli,
non è questa la strada del nostro deserto
di conversione: non alziamo muri, non ergiamo barriere, torniamo invece sui
nostri passi, cambiamo comportamento; lasciamo perdere, non fossilizziamoci sul
chi ha ragione o chi ha torto, andiamo noi incontro al nostro fratello e spieghiamoci
con lui. Quando
ci accorgiamo di aver detto qualcosa che non volevamo dire, di aver esagerato o
di aver ferito qualcuno, pentiamoci, torniamo indietro (metanoèo). Andiamo dalla persona e diciamogli: “Guarda, ho
esagerato; ti chiedo scusa, mi sono lasciato prendere la mano; mi rendo conto di
non averti ascoltato o di aver tentato di manipolarti; volevo aver ragione a
tutti i costi”. A che serve il nostro orgoglio se non a nascondere a noi stessi
di aver sbagliato? Non è forse una prova d’amore ammettere i propri torti? “Quello
che ho detto ho detto, e non torno indietro”: intransigenza inutile; convertiamoci, invece, torniamo indietro
dalle nostre posizioni. Il ricredersi è una grande conquista del saggio, dell’intelligenza,
oltre che della carità. “Battesimo”,
dal greco baptizein, significa immergersi, indica l'immersione nelle
acque. L’acqua,
oltre che elemento di distruzione, è stato anche l’elemento vitale che ha
portato salvezza al popolo ebraico. Di esempi ne è piena la Bibbia. Per
noi è il presupposto della nostra vita cristiana: per conoscere Dio, la Vita, dobbiamo
immergerci nelle acque che contengono la luce del Risorto, la salvezza sicura; e
ciò nonostante i nostri lati oscuri, le nostre ataviche cattive inclinazioni. Rigenerati
infatti dal battesimo, dopo aver riconquistato il nostro equilibrio e aver sanato
la nostra disarmonia con Dio e con le creature, dobbiamo necessariamente confrontarci
con i nostri mostri interiori, quelli che noi chiamiamo “male”, per isolarli,
eliminarli. L’intera storia della nostra salvezza personale sta appunto nell’affrontare
nel deserto queste zone buie, di
non-luce, zone tenebrose, di peccato, per uscirne, attraverso l’acqua rigeneratrice,
finalmente vincitori, e spaziare nella luce della carità e della grazia. Il
mondo, fratelli, non è un Eden meraviglioso, in cui godere passivamente dell’amore
divino; è un territorio sì di luce, condizionata però al superamento della nostra
non-luce; è insomma il nostro deserto di
conversione, in una alternanza faticosa di gloria, di amore e di tenebre: in
tutto questo siamo facilitati dall’elemento acqua:
con la nostra nascita, con l'uscita dalle acque
materne, abbiamo iniziato il nostro cammino di confronto con la luce e con il
buio che vive dentro di noi (battesimo
d'acqua); ma solo con le nostre buone azioni (battesimo di sangue) riusciremo a instaurare nella nostra vita la
salvezza di Dio. Infatti,
solo per mezzo delle nostre opere possiamo far emergere il Figlio dell'uomo che è dentro ciascuno di noi. Siamo un piccolo seme
(figli di uomo); ma un seme che può
diventare una pianta forte e rigogliosa (figli
dell'Uomo). L'opera è insieme semplice e complessa. Ma non lasciamoci
intimidire. Facciamolo invece, fratelli, questo miracolo nella nostra vita: raddrizziamo
i nostri sentieri, riempiamo i nostri burroni, abbassiamo i monti, evitiamo i
passi tortuosi e i luoghi impervi. Perché solo attraverso questo miracolo noi
vedremo la salvezza; solo in questo modo torneremo ad essere quelli che
realmente eravamo, nella nostra bellezza originaria, pura, naturale, specchio
delle sembianze divine. Quello che siamo ora, lontani dalla luce e dal calore
amorevole di Dio, non assomiglia neppure lontanamente a tale immagine divina. Ecco
dunque il tempo favorevole, l’occasione propizia: attraversiamo con coraggio e
determinazione questo nostro deserto; perché solo facendo così incontreremo
Dio, e potremo contemplarlo faccia a faccia. E allora tutto ci sarà chiaro: non
ci saranno più dubbi o domande. Non dovremo temere più nulla, perché potremo
vedere distintamente tutto com'è. Ricordiamoci
che da soli non siamo nulla; egli ci tiene tutti - uomini, mondo, universo,
bene e male – sul palmo della Sua mano; e ci avvolge tutti con il suo sguardo
dolce e amorevole; e mentre noi ci affanniamo per cercare chissà cosa, per
conquistare chissà chi, Lui sorride e continua, nonostante tutto, a proteggerci.
Amen.
«State attenti a voi stessi,
che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni
della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc
21,25-28.34-36).
Oggi inizia
l’Avvento, tempo liturgico che ci prepara al Natale. Sul piano personale,
l'avvento è quello spazio di tempo particolarmente adatto perché un “Figlio”,
una “nascita”, si possano realizzare in noi. Ogni anno il 25 dicembre
festeggiamo la nascita di Gesù; l’occasione non deve ridursi a un dato rituale,
di bontà posticcia, cronologico, tradizionale. Deve essere un fatto reale,
sentito: Dio continua a nascere in noi, per noi; perché Dio, dove c'è spazio e
disponibilità, sicuramente continua a venire. Dobbiamo quindi considerare l'avvento
non tanto come un qualunque periodo dell'anno ma come una dimensione della nostra
vita che si rinnova continuamente, con la certezza che l'Oltre, l'Altissimo, il
Nuovo, una nascita speciale, sta per avvenire ancora una volta in noi. Quello
che non è certo, e che ci deve preoccupare, è se noi siamo pronti ad accogliere
questi grandi doni. L'avvento,
da advenio, non si limita al
presente, ma crea “avvenire”, si proietta nel futuro proprio perché si apre
ora, nel presente; genera una novità verso cui andare, una novità che da sempre
ci attrae e ci richiama. È un intervento di Dio che vuole far nascere qualcosa
di nuovo in noi, sorprendendoci, meravigliandoci, portandoci lontano, molto
lontano dalle nostre personali rive di sicurezza. È un tempo di attesa, di un’attesa
dinamica e attiva. Attenzione:
ho detto attesa non aspettativa: non confondiamo i due
termini; indicano situazioni diverse, da non confondere. L'attesa
infatti non ha oggetto: è apertura del cuore e della mente all’accoglienza
totale. L'attesa accetta tutto ciò
che le viene incontro (adventus). L'aspettativa
invece no: è un “voglio questo”, “questo e questo solo”; ha ben chiaro cosa
vuole e cosa non vuole; accetta solo
ciò che rientra nei suoi piani; il resto lo rifiuta. Solo l'attesa quindi può
portarci a progredire, a rinnovarci, ad evolvere; in una parola ad aprirci al “novum” che ci viene proposto. L'aspettativa
invece è circoscritta entro i parametri del nostro giudizio: siamo noi che
decidiamo, in base ai nostri criteri personali, cosa ci serve o cosa non ci
serve, cosa è buono o non è buono per noi, cosa Dio ci deve mandare, come devono
comportarsi gli altri nei nostri confronti; cosa e come noi dobbiamo o non dobbiamo essere. L'aspettativa non ha tempo: vuole tutto e
subito, tutto e presto. Non si ha più il piacere dell’attesa: oggi non abbiamo
più tempo: tutti i mezzi di comunicazione sono progettati per ridurre sempre
più i tempi di attesa: per parlare non serve più l’incontro personale, c’è il
telefono; per comunicare velocemente, c’è internet; per muoversi in fretta, abbiamo
auto sempre più potenti. L'aspettativa
ci porta a ignorare il presente, per vivere continuamente proiettati nel
futuro: “Quando succederà quella cosa, allora finalmente sarò felice, allora mi
sentirò realizzato, allora sarò qualcuno…”. E così corriamo, corriamo e corriamo,
per raggiungere con affanno un qualcosa che continuamente ci sfugge; un
traguardo inarrivabile che accresce in noi ansia, tensione, sconforto, depressione. L’attesa,
al contrario, conosce molto bene il tempo. Attesa, è vivere il presente: “Sento
che mi manca qualcosa, sono aperto e disponibile a quello che verrà. Ma intanto
vivo oggi il mio momento felice; se verrà dell’altro, tanto meglio”.Ogni evento
infatti richiede il suo tempo di preparazione; come la gravidanza per il parto.
L'attesa genera pace, tranquillità interiore, non confusione: facciamo le nostre
cose, viviamo la nostra vita e lasciamo la porta aperta. Se qualcosa deve
arrivare, vedrete che arriverà sicuramente. Questa,
a gradi linee, deve essere la nostra attesa,
fratelli; questo, il senso del nostro “avvento”. Il
vangelo di oggi, riproponendo il clima apocalittico della fine dei giorni, allude alla distruzione materiale di questo nostro
tempio corporale. Un evento che
merita tutta la nostra “attesa”. Il
testo parla esplicitamente di vegliare,
di non dormire (21,36). Una
raccomandazione che abbiamo sentito diverse volte da Gesù: “Tenete gli occhi
aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Nessun evento,
anche quelli più imprevedibili, accadono senza prima anticipare dei segnali
premonitori. Sta a noi saperli cogliere. Dobbiamo dotarci per tempo di una
buona scorta di olio per le nostre lampade. Non comportiamoci da sprovveduti. Quante
persone dicono di star male nell’anima, di soffrire, di essere insoddisfatte
della loro vita spirituale: è un segnale che dovrebbe scuoterle, farle correre
ai ripari; ma cosa fanno per uscire da questa loro situazione? Alcune dicono
che non hanno tempo; che cambiare, prendere nuove strade, sono soluzioni troppo
impegnative, difficili. E continuano a dormire! Altre invece dicono di voler
cambiare, e lo fanno anche, ma a modo loro. Sono i “convertiti super”, gli
affamati della novità del “divino, quelli che non si perdono più nessuna cerimonia,
nessuna devozione a santi e madonne, nessuna conferenza, nessun incontro,
nessun tipo di cammino spirituale: salvo poi a ritrovarsi sempre nelle loro identiche
posizioni di partenza, a non fare un benché minimo passo in avanti. Perché?
Perché dimenticano che non è la quantità, ma la “qualità”, la convinzione, l’autentica volontà di fare la volontà
del Signore, con spirito aperto e tanta umiltà; dobbiamo stare attenti, perché una
distorta spiritualità è come la droga: anche se assunta in dosi massicce, non porta
mai all’appagamento totale. Dobbiamo
invece “vegliare” sul serio,
fratelli; perché se non ci mettiamo veramente in gioco, se non scaviamo dentro
di noi, se non mettiamo “mano all’aratro” come si deve, non succederà mai niente:
spesso una breve preghiera detta a Dio col cuore, nel silenzio, con
riconoscenza, vale sicuramente più di cento rosari biascicati con la bocca, ma
col cuore e la mente lontani, occupati in altre faccende: allora a che servono tutte
le nostre preghiere distratte e superficiali, tutti i nostri raduni, tutte le
nostre liturgie, le nostre conferenze, la nostra caccia al miglior predicatore,
all’indirizzo spirituale più alla moda, più “in”, più frequentato da una certa “elite”?
Si riducono a pie illusioni; peggio, a forme deplorevoli di sterile esibizione,
a soluzioni che non servono assolutamente a nulla, miseri palliativi, inutili fughe
dalle nostre oggettive responsabilità. Non
comportiamoci, fratelli, come i farisei che dicevano: “Noi abbiamo Dio per
Padre”, e giustificandosi in questo modo, continuavano con tracotanza a fare i
comodi loro. Questo
modo di pensare e di comportarci, individualista ed esclusivista, è un
paravento, una droga, un'ubriacatura. Perché seguire Dio, non consiste sentirsi
“rapiti” da una improbabile estasi divina,o sentirsi “calati” nei più impensati
carismi; seguire Dio vuol dire più semplicemente essere noi stessi, esattamente
come Lui ci vuole. Fare sempre la “sua volontà”, in tutti i momenti della
nostra giornata. Praticare la carità, rimanere svegli, all’erta, vigili. Capita
invece che noi spesso dormiamo e non vogliamo in alcun modo scuoterci perché,
lo sappiamo, “svegliarci” vuol dire vedere
qualcosa che non vogliamo vedere. Magari per non scoprire i veri motivi del dolore
che proviamo dentro; magari per non scoprire di aver sbagliato tutto nella vita;
magari per non scoprire di essere ignorati e sopportati; magari per non scoprire
di essere nella solitudine più totale; magari per non scoprire le nostre serie carenze,
le nostre difficoltà, i nostri blocchi nell’anima. Diceva
il saggio: “Il sonno delle coscienze, genera mostri”: quando l'uomo dorme tutto
è possibile, tutto può succedere, qualunque soluzione può prendere piede senza
che lui se ne accorga. Non a
caso il vangelo conclude con le parole: “Vegliate
e pregate”. In questo caso già il vegliare,
non prendere sonno, non dormire, è una forma di preghiera. In greco, questo “pregate”, sta per “avere bisogno,
necessitare, desiderare”. Ecco perché abbiamo
bisogno (preghiera) di non prendere sonno, di non alienarci (vegliare), per
evitare di calarci in un mondo che non c'è. Non dobbiamo permettere che il
nostro cuore prenda sonno, dimenticando la gioia per la vita, l'entusiasmo per
le cose nuove, la passione per ciò che si ama, lo stupore di fronte alla
bellezza; non dobbiamo permettere cioè che la nostra anima si assopisca e non
senta più il richiamo di Dio, quel richiamo della vita che ci chiama a
definirci e a diventare “Figli dell'uomo”. Vegliare
significa non permettere che la nostra mente venga plagiata da filosofie o da
idee ingestibili, senza alcun fondamento cristiano, ancorché molto apprezzate
dal mondo di oggi. Pregare vuol dire stare
attenti che ciò che chiamiamo “Dio” sia Dio, ciò che chiamiamo “amore” sia
amore, ciò che chiamiamo “famiglia” sia veramente famiglia e non un volgare e
sguaiato surrogato. Perché, fratelli, se noi dormiamo, c’è chi ha tutto l’interesse
di sovvertire i valori essenziali e intoccabili della nostra vita. Allora pregare vuol dire vegliare, perché dobbiamo essere noi i protagonisti che
contrastano con la loro vita la squallida deriva morale di questo mondo; dobbiamo
essere noi, innamorati di Dio, a lasciare un segno, una traccia, un'impronta, perché
dobbiamo dimostrare agli altri e a noi stessi, con la nostra vita, con il
nostro esempio, che non siamo assenti, ma che siamo lì, vigili, in prima linea. Il “Figlio
dell'uomo” (la nostra realizzazione, l'essere noi stessi,il perseguire
quell’ideale di vita che Dio ha impresso nella nostra anima col Battesimo) non
potrà mai emergere, non potrà mai uscire, concretizzarsi, prendere vita, se noi
dormiamo, se noi continuiamo ad essere indolenti, svogliati, disinteressati. Fratelli
miei, dobbiamo avere la forza di «sfuggire
a tutto ciò che sta per accadere», perché un giorno tutti dobbiamo comparire
davanti al “Figlio dell'uomo”. Tutti un giorno ci spegneremo: ma guai a coloro
che non si sono mai accesi. Tutti ci
addormenteremo nel sonno della pace, ma guai a chi non si è mai svegliato dal suo torpore. Per tutti la
vita ha una fine: ma guai a chi non l’ha mai neppure iniziata. Che non succeda a noi, fratelli! Tu
verrai, Signore, noi lo sappiamo: ed è sulla tua Parola che noi costruiamo oggi
la nostra casa sulla roccia. Perciò, non permettiamo mai che la nostra
coscienza si addormenti: restiamo svegli. Non permettiamo che la facciata, ciò
che sembra e che appare, nasconda agli altri il cuore e l'anima che non si
vedono: restiamo svegli. Non permettiamo di avere così tante cose da fare e vie
da seguire, da non percepire più cosa realmente vogliamo, proviamo, sentiamo:
restiamo svegli. Non permettiamo mai che ciò che fanno gli altri diventi ciò
che facciamo anche noi, solo perché lo fanno loro: restiamo svegli. Non permettiamo
che l'odio, la rabbia, il cinismo inondino il nostro cuore, così da non provare
più meraviglia e stupore per ciò che vive e palpita: restiamo vivi. Non permettiamo
che il “duro quotidiano” cancelli i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro
desiderio di infinito: restiamo vivi. Non permettiamo a nessuno di manipolarci,
di gestirci, di toglierci la nostra vita interiore, così da perderci o da
annullarci: restiamo vivi. Non permettiamo al dolore e alla sofferenza di
eliminare dalla nostra memoria la gioia, la fiducia e la fede nel Padre: restiamo
vivi. Non permettiamo alla società “laica” contemporanea di soffocare l’avvento di un mondo nuovo, migliore, con
più fede, un mondo meno alienato e ottuso: stiamo attenti. Non permettiamo alle
chiacchiere stupide e senza senso dei media di convincere il nostro cuore, né
alle loro facili soluzioni, di sedurci
e ingannarci: stiamo attenti. Non permettiamo che qualcosa o qualcuno zittisca
ciò che abbiamo dentro di noi, la forza, i sentimenti, la tenacia, la voce
dello Spirito: restiamo vivi. Non permettiamo alla disperazione di vincerci, né
all'angoscia di smarrirci, né alla paura di azzerarci: restiamo sempre fiduciosi.
Nulla deve distoglierci da Lui. Nulla deve mai staccarci dalla nostra sorgente
di Vita: perché il nostro vivere è tale,
solo se viviamo nella Vita. Amen.
«Allora Pilato gli disse:
«Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono
nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» Gv 18, 33b-37.
Siamo
arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima
entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Cristo Re
dell’universo, e il vangelo ci presenta un dialogo tra re: tra Pilato e Gesù.
Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio
davanti a Pilato. Pilato è “il re” della Palestina: un governatore brutale, ci dicono
gli storici. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo
punto Roma dovette richiamarlo! Pilato, nella sua carriera politico militare,
ne ha visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli sta ora davanti è
davvero affascinante: si definisce re! A lui non interessa affatto la questione
di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di
uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto per lui ha una importanza irrisoria;
l'unica sua attenzione è di non andare al alterare i già delicati equilibri
diplomatici con i focosi ebrei. Nelle
scene del processo a Gesù, descritte dai vangeli, Pilato infatti continua ad
entrare e uscire. Da una parte egli è attratto da Gesù (entra), perché ne sente
la verità e la bellezza. Ma dall'altra teme i Giudei (esce); teme le
conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio,
l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo: è l’indeciso per eccellenza. Un po’
come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il
fascino della meta, ma sappiamo che seguirlo vuol dire abbandonare le nostre
sicurezze, le nostre abitudini. A questo punto che facciamo? Sentiamo la verità
di una cosa, ma sappiamo che aderirvi è diventare impopolari; sentiamo la
passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo
che dovremmo aprirci su certe questioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci;
sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le
conseguenze. Insomma noi, di fronte a queste situazioni che facciamo? Come ci
comportiamo? Per quanto riguarda Pilato il vangelo più avanti ci dice che “se
ne uscì” dalla situazione. Preferì non approfondire la questione; preferì
rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere. Ebbene,
non è anche il nostro stesso comportamento? Gesù ci dice: “se vi accontentate delle
carrube dei porci (Lc 15,15) e non
cercate, non desiderate qualcosa di più e di meglio, io non posso farci niente.
Se vi basta il superfluo, le cose terrene, l'auto, la tv, la macchina, le sigarette e non
cercate qualcosa di più, io non posso farci niente. Se vi basta vivacchiare,
mangiare e bere, e non sentite il richiamo di qualcos'altro, se non sentite la
voce interiore che vi invita a darvi da fare in questa vita, a desiderare di
più, io non posso farci niente. Se vi accontentate e non desiderate qualcosa di
più nobile, di più grande, io non posso farci niente. Da ciò che desiderate vi
dirò quanto valete come uomini”. Allora,
se dobbiamo farci un augurio, fratelli, auguriamoci quello che soleva ripetere
un santo prete: “Che Dio ci tormenti, che ci perseguiti, che non ci lasci
stare, purché non ci permetta di risolvere banalmente i nostri problemi, di
lasciarci vincere dalla paura e dal rispetto umano, di addormentarci, di
raccontarci frottole”. Pilato
chiede a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?»
(v. 33). La domanda ha il tono di una
presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della
Palestina, tu di chi sei re?”. Pilato ragiona pensando al suo ruolo sociale: “Sei
per caso un nobile, un dirigente, un personaggio importante, un dottore, uno scriba,
uno che ha studiato molto?” Egli non può capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi
ha potere. Ma Gesù parla di un altro mondo! Pilato non può neppure lontanamente
immaginare a cosa alludano le parole di Gesù. A
certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso
alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si
parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti. Gesù
gli risponde: «Dici questo da te oppure
altri te lo hanno detto sul mio conto?»(v.
34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in
tutti i modi di salvare lui. Gesù tenta in tutti i modi di farlo uscire dalla
spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, una buona volta; che
desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla
paura, condizionato dalle conseguenze di una sua scelta veramente libera.
Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non
è così. Pilato,
re della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e
della ragion politica. E gli risponde in maniera banale, distratta,
superficiale: «Sono forse io Giudeo? La
tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?»(v. 35). Gesù aveva tentato di
riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e
che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé,
a porsi domande vere, a fermarsi. E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24). Ma «chiunque è dalla verità»(v. 37), non può
far finta di niente per stare tranquillo. Non lo possiamo più neppure noi. E allora bisogna
cercare; allora bisogna aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni
di vita; anche quando ci accorgiamo che “la verità fa male”; quando ci
accorgiamo che la verità va oltre la realtà che conosciamo; perché è facendo così che riaffiorano
quelle emozioni e quei sentimenti che tenevamo segreti e nascosti, perché
pericolosi. Non
esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano. Non esiste la libertà
in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché
liberate. Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo
Lui è essenzialmente l'Amore, la Verità, la Libertà. Pilato
si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi:
trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle,
risolverle magari con la violenza delle parole, ma senza rimanere coinvolti nei
fatti. E Gesù
risponde: «Il mio regno non è di questo
mondo…»(v. 36). Gesù e
Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari
diversi. Per Pilato “regno” vuol dire
esercito, armi, potenza e territori. Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio su di sé, essere liberi di amare,
di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non
dipendere passivamente dagli altri. A
volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche
noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e camminando su
due piani diversi è impossibile incontrarlo. È quello che succede spesso anche tra padre e figlio. Uno esclama: “Non sono felice!”. E l’altro:
“Ma cosa vuoi di più dalla vita? Non ti manca niente, di ho dato tutto! Sapessi
come ho vissuto io!”. Però l’uno parla dell'amore, dell'affetto, della presenza
paterna nella sua vita; l'altro, il padre, per “tutto” intende i soldi, il lavoro, potersi permettere il superfluo,
gli sfizi, i divertimenti. E così tra fidanzati: “Ti amo”. Solo che lui con
queste parole vuole portarsela a letto; lei invece lo vuole sposare. La madre
dice continuamente: “Lo faccio per il tuo bene”: ma lui, il figlio, si sente
sempre comandato a bacchetta. Quando torna da scuola la prima domanda che gli viene
rivolta è: “Come è andata?”, che per i genitori è: “Ci interessa sapere cosa ti
è successo”. Ma lui dice dentro di sé: “Ancora domande! Ancora interrogazioni!
Ma lasciatemi un po' in pace, per favore!”. Pilato
chiede dunque a Gesù: «tu sei re?» (v. 37). E dentro di sé avrà sorriso di
commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi
politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare,
e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e
tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, può e vuole
salvarti? Sei proprio senza ritegno!”. E Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto
al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità
ascolta la mia voce» (v.37). Pilato
si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo che
ritiene innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una
folla assetata di sangue: pur di salvare la sua“ragione di stato”, si
sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma, non
sapendo come uscire da questo imbroglio, se ne lava le mani. “Chi
è, allora, il vero re?”, ci chiede Giovanni. La risposta è ovvia: Gesù! Ma è
una verità non facilmente comprensibile per chi guarda solo con occhi umani. Gesù
è un Re singolare. Sulla croce è affisso un cartello: «Costui è Gesù, il Re dei Giudei» (Mt 27,37). E la gente si fa beffe
di lui: «Se tu sei il re dei Giudei,
salva te stesso» (Lc 23,37). Per i Romani arrogarsi il titolo di re è
motivo valido per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei, un pretesto per
schernirlo, per umiliarlo. Gesù non corrisponde in nulla alla loro idea di re. Ma
Gesù è realmente re: solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettano.
Gesù è re perché nel suo regno immateriale è l’unico, in assoluto, che regna;
Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono
forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della
morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro
Salvatore, il nostro Maestro. È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re”
di noi stessi, della nostra anima: impresa ardua; non è cosa facile essere re
del nostro cuore, se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri nemici: paura,
dubbio, disperazione, angoscia, odio, rabbia, dolore, vergogna, aggressività,
male. Come
possiamo dirci re, infatti, se siamo condizionati dal giudizio della gente, da tutto ciò che ci circonda? Come
possiamo dirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo
dirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più
debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se non riusciamo a controllare
i nostri comportamenti? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare
meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo in continuazione di non
fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se
sistematicamente ci inganniamo per paura, nascondendoci la verità? Ma chi
comanda nel nostro regno? Chi è il re? Siamo noi che decidiamo e guidiamo la
nostra vita, o c’è qualcun altro che lo fa per noi? È vero, la nostra vita è
tutto il nostro regno. Ma perché dimostriamo così poco interesse per viverla bene?
Chiudiamo
per un istante gli occhi, fratelli, e pensiamo a Gesù; Re innalzato sul patibolo,
inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo
vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e
nemici. Privato della sua reputazione: eppure la nostra mente ricorda scene di
entusiasmo per lui, gente che lo acclamava, gente guarita che parlava bene di
lui, piena di ammirazione. Lo vediamo spogliato della credibilità: non scende
dalla croce, non è in grado di salvare se stesso, quindi è un impostore, un
simulatore. Addirittura privato del suo Dio, abbandonato dal Padre, dal quale sperava
aiuto, salvezza. Lo vediamo, infine, privato della vita, di quella esistenza
qui sulla terra a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente, riluttante ad
abbandonarla. E fissando quel corpo senza vita capiremo a poco a poco di ammirare
in Lui il simbolo della liberazione totale, della vittoria estrema sul mondo. Appunto
perché inchiodato e morto sulla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua vita è
un crescendo di conquiste, non di sconfitte. Suscita invidia, non
commiserazione. Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero,
maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione
di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che
distrugge la nostra felicità. Fissando quella libertà, fratelli, guardiamo
tristemente alle nostre schiavitù, che ancora resistono in noi. Sì, fratelli, perché
noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della
nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e
pensare di noi. Siamo schiavi
del successo; ma evitiamo qualunque sfida del bene, per paura e ignavia. Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle
lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine
interiore. Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di un Dio fasullo
che ci siamo costruito noi su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al
nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci
sicura, tranquilla e indolore la vita; un Dio che soprattutto non deve interferire con noi, porre sul nostro
cammino ostacoli e antipatiche condizioni. Ecco
fratelli, questi siamo noi. A fine anno liturgico, facciamo un bilancio serio e
onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste
schiavitù, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col
cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, il Crocifisso; Colui che ha
conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che
una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore ha
attirato a sé tutto e tutti. Amen.
«In quel tempo, Gesù disse ai
suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che
sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire
sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13, 24-32).
Quando
fu scritto questo testo i cristiani vivevano le terribili persecuzioni di
Nerone e Domiziano. Erano momenti molto difficili, duri, drammatici: sembrava
che l'annuncio evangelico potesse finire, che si potesse chiudere, sembrava
veramente la fine del mondo o di un mondo. Tutti i riferimenti validi cadevano addosso
ai cristiani che si sentivano sconvolti e persi. La
loro fede era sconvolta. Eppure un barlume di speranza li confortava: vivevano
nell’ansia, ma dentro il loro cuore sentivano chiaramente l’invito a non
temere, ad essere certi che Dio c’era, che Dio non era sparito, che Dio non li
avrebbe mai abbandonati. Perché il cielo, la terra, come pure ogni cosa, ogni
certezza, ogni vita, possono passare, finire: ma Dio no. Nei momenti più bui
della storia, quando sembra che tutto cada, che tutto finisca, proprio in quei
momenti, Dio interviene con tutta la sua potenza, con la sua gloria immortale. «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la
sua luce, le stelle cadranno» dice Gesù: parole che noi possiamo
sicuramente adattare al corso della nostra vita: quella di veder crollare tutte
le nostre sicurezze è infatti una delle esperienze più terribili; e penso che
più o meno tutti avremo avuto modo di provarlo nel nostro piccolo mondo
personale. Ognuno
di noi ha i suoi “astri”, le sue “stelle” in cielo; punti di riferimento, che
ci aiutano nel nostro peregrinare; ma non solo in cielo: anche attorno a noi,
abbiamo i nostri punti fermi, i nostri riferimenti, molto più vicini, più accessibili,
più misurabili e riscontrabili, che ci danno maggior sicurezza: sono il padre,
la madre, le persone che ci hanno aiutato a crescere, a maturare, sono le
persone che con il loro amore continuano a darci sicurezza e serenità. Ora, cosa
succede quando questi riferimenti, quando nostro padre, nostra madre, le nostre
guide vengono improvvisamente a mancare, quando cessano di essere un
riferimento per la nostra vita? Un disastro, fratelli. Fino
ad un certo giorno della nostra vita essi erano i nostri riferimenti fermi,
fissi, stabili. Poi di punto in bianco, di fronte ai nostri occhi “cresciuti”,
sono crollati: li abbiamo guardati e ci siamo accorti dei loro limiti; li abbiamo
guardati e abbiamo visto i loro difetti; li abbiamo visti umani, impegolati anche
loro nei problemi e nella fatica di vivere. Non erano più i nostri miti. E noi
ci siamo sentiti in qualche modo “traditi”, ci siamo sentiti persi, disorientati,
senza certezze; e ci siamo rivolti a guardare a destra e a sinistra in cerca di
nuovi riferimenti. Qualche
volta li abbiamo cercati dove non c’erano, dove non poteva arrivarci nulla di
concreto: li abbiamo cercati tra le “stelle” del momento, dello spettacolo,
della cultura, nei cantanti, nei calciatori, nei personaggi televisivi. Ci
siamo adattati a qualunque compromesso pur di ricreare in noi quelle certezze
che ci davano nuovi impulsi, sicurezza e tranquillità. Ma ci
siamo accorti che niente di questo genere tiene; sono case costruite sulla
sabbia, senza alcun fondamento; alla prima pioggia, al primo vento, crollano
inesorabilmente. Per
questo, ad ogni esperienza di questo genere, cadiamo nella tristezza, nello
smarrimento, nello sconforto: perché nulla di ciò che ci circonda, nulla di ciò
che è al di fuori di noi stessi, può costituire un riferimento valido, fisso e
certo. Sembra la fine di ogni speranza, nessun progetto sembra realizzabile, e
ci sentiamo cadere nel pessimismo e nella rassegnazione. Ma invece no! Perché allora
il “Figlio dell'uomo” verrà sulle nubi “con grande potenza e gloria”:
improvvisamente, dal nostro più profondo, sentiamo riemergere le nostre energie,
le nostre risorse, le nostre forze. Con Lui, con il “figlio dell'uomo”, riusciremo
allora a trovare in noi stessi la sicurezza; la nostra personalità si
rafforzerà, conosceremo in maniera chiara chi siamo e cosa vogliamo. Quando
cadono tutti i nostri riferimenti esterni, noi avremo a disposizione quelli
interni, più forti, più veri, più duraturi. Possiamo paragonare questa
esperienza di vita alla fine del mondo, del nostro piccolo mondo personale: ma è
una fine che ci ha permette di rinascere in un altro mondo, più autentico, più
profondo e più nostro; è in questi momenti, infatti, che ritroviamo sempre la
forza di cercare la nostra strada, quella che ci conduce alla vera casa, al nostro
nido, al luogo dove possiamo sentirci noi stessi; un luogo dove ci sentiremo
sempre accolti, amati e accettati. Qualche
esempio? Sono casi di normale storia quotidiana: ci siamo sposati e credevamo
ciecamente nel matrimonio; pensavamo: “Ci ameremo per sempre, comunicheremo
bene e non ci saranno contrarietà nella nostra vita di coppia”. È nato un primo
figlio e poi un secondo. Pensavamo tutto sommato di essere sulla strada giusta,
una strada tutta in discesa. Ma poi ci siamo accorti che il nostro partner è
diverso da noi; ci siamo accorti che non siamo uguali, che ognuno di noi ha sue
esigenze e sue aspirazioni; abbiamo scoperto insomma che la pensiamo in maniera
diversa. I nostri figli non sono come noi li pensavamo, come noi li avremmo
voluti; e questa cosa, anche se non lo diamo a vedere, ci infastidisce
parecchio. Scopriamo poi che l’aver scelto quella donna non è stato proprio per
vero amore, ma per un motivo ben più meschino: da spiriti liberi e indipendenti,
avevamo bisogno di una come lei, docile e remissiva, per continuare a fare egoisticamente
quello che ci pareva (e non ci piace scoprire questo!). E scopriamo ancora che,
sotto sotto, condizioniamo i nostri figli, li manipoliamo costringendoli a fare
quello che piace a noi. Ebbene, quando ci rendiamo conto di questa triste
realtà, le nostre sicurezze vengono meno, i nostri riferimenti cadono, ci sentiamo
persi e disorientati. Dovremo affrontare momenti dolorosi, momenti di radicale
trasformazione, di turbamenti profondi; ma saranno anche momenti che ci
obbligheranno a risanare la nostra esistenza, a ristabilire la nostra vita su
fondamenta più solide e sicure, su relazioni più sincere e trasparenti. Andavamo
in chiesa: pregavamo, vivevamo convintamente i nostri ideali religiosi; ma ad
un certo punto tutto è crollato. Ci siamo accorti che la vita non era come ci avevano
insegnato una volta, che alcune delle nostre convinzioni erano indefinibili, sospese
in aria, senza fondamento. Allora siamo entrati in crisi, la fede non aveva più
senso per noi; non avevamo più voglia né di pregare né di cercare. Anche qui un
disastro: eppure ci ha offerto la nostra grande possibilità: trovare e scoprire
un’immagine di Dio più vera, più reale, più biblica e forse più vicina
all'umano, meno giudicante e colpevolizzante. Abbiamo
obbedito alla chiamata di Dio di servirlo nella vita religiosa: tutto era
bello, tutto facile, tutto meraviglioso. Eravamo felici di sentirci vicini a
Dio, di essere tra gli “eletti”, di sentirci importanti e fortunati rispetto a
tanti altri. Gli esempi delle persone “sante” ci erano di guida e di conforto. Poi
abbiamo incontrato la bufera: l’intolleranza nei confronti dei superiori, la
fatica di obbedire, l’irrinunciabilità alle nostre vedute, il rifiuto di dire
sempre “si” soprattutto quando dentro di noi era un “no”; la vita comune, un
tormento, i confratelli e le consorelle, insopportabili; tutto era diventato inutile,
insignificante: l’umiltà, la povertà, la castità. Allora abbiamo cercato di
scrollarci di dosso questo mondo divenuto invivibile: e non abbiamo capito che era
invece l’occasione buona per incontrare “il Figlio dell’uomo”, per rafforzare cioè
le nostre difese, purificare la nostra fede, sgombrare il campo dalle false
certezze e guardare con rinnovata gioia e serenità alla nostra chiamata. Questa
è la vita, fratelli. E questo è il messaggio del vangelo di oggi: perché anche
per noi prima o poi verrà il giorno in cui ci verrà detto, o ci renderemo conto,
(oppure ci sorprenderà): “Amico, stai per morire”. Allora le gambe ci
tremeranno veramente, la testa ci andrà in completa confusione, e tutte le
angosce mai sentite prima si scateneranno in noi. In quel giorno capiremo di
essere soli, anzi, di esserlo sempre stati: non abbiamo proprio niente a cui
attaccarci, nessuno a cui ricorrere. Tutti gli amici, tutte le nostre certezze,
non ci serviranno più; ci sentiremo persi e abbandonati da tutti e da tutto. Le
nostre buone azioni, la nostra vita corretta, la nostra carità, tutto il nostro
amore, ci sembreranno un nulla. E in quel momento tragico incontreremo “il Figlio
dell'uomo”. Lo scopriremo per davvero, questa volta; lo vedremo in volto e gli
saremo davanti faccia a faccia. E ci accorgeremo che il poco che abbiamo fatto,
il poco che abbiamo accantonato per Lui, sarà l'inizio di tutto. È allora che l’esperienza
del tragico abbandono di questa vita, del salto nel nulla, diventerà invece
l'esperienza più consolante e meravigliosa, l’esperienza che ci introdurrà in
una nuova vita. Il
nostro cammino verso l’eterno è fatto di un continuo “cambiare”, di un continuo
abbandonare; passo dopo passo lasciamo sempre la posizione di prima per assumerne
una nuova. Ogni momento è un lasciare qualcosa indietro per iniziare qualcosa
di nuovo. Evolvere vuol dire lasciare, separarsi, andare. La vita và, non si
può fermare. Ogni nuovo passo in avanti è una crisi: lasciamo il certo per
l’incerto; anche nelle cose più insignificanti: cambiamo modo di vestire perché
cambiano i nostri gusti; cambiamo gli amici perché le esigenze cambiano; cambiamo
gli hobbies perché cambiano i nostri desideri; insomma noi cambiamo di
continuo: nel modo di amare, di educare, di rapportarci con noi stessi e con
gli altri. E ogni cambio è un po' come morire; in ogni cambio c'è qualcosa da
lasciare, perché qualcosa di nuovo possa nascere. Il
vangelo oggi ci riporta dunque a questa realtà. E dice: «In verità non passerà questa generazione (= il genere umano) prima che
tutte queste cose siano avvenute»; in altre parole, “questi fenomeni accadranno
prima che tua vita finisca”; ossia “tutte le attuali certezze verranno meno, cadranno;
sarai tu da solo ad incontrare Dio”. Ma questo, fratelli, per noi credenti sarà
la nostra grande occasione: è il dato confortante della nostra fede: il Dio dell’amore,
il Dio della misericordia, il Dio della Vita, ci verrà in soccorso e ci offrirà
di entrare nella vera Vita, di godere la Vita. «Quanto all'ora o al giorno
nessuno lo sa»:
per questo dobbiamo essere pronti, fratelli; ogni giorno, ogni ora, ogni minuto
può essere quello buono. Questo lo sappiamo: allora perché rimandare continuamente
la nostra conversione? Perché non cogliere le occasioni, i segnali che Dio ci
manda, per rivedere a fondo la nostra esistenza? Vogliamo essere colti
impreparati? E concludo.
«Dalla pianta di fico imparate la
parabola». Come ci
accorgiamo dal fiorire della natura che l’estate è in arrivo, così certi
particolari della nostra vita ci devono mettere in allarme, ci devono far
correre ai ripari: non comportiamoci da stolti e da ciechi. Così,
se vediamo che il rapporto con il nostro partner non è più quello di una volta,
dobbiamo sapere che il nostro matrimonio è in pericolo. Quando le nostre giornate
sono sempre tristi e senza sussulti, dobbiamo sapere che non stiamo reagendo
alla Vita, che ci stiamo lasciando andare. Quando non cerchiamo più incontri,
momenti di silenzio, di preghiera, di profondità, di ricarica dell'anima, dobbiamo
sapere che il nostro cuore sta inaridendo. Quando il nostro spirito si ribella
e inizia a mandarci messaggi di malessere e di insofferenza, dobbiamo sapere
che la nostra vita interiore si sta inaridendo. Ebbene:
non sottovalutiamo la percezione di questi segnali di disagio; dobbiamo essere
pronti ad agire di conseguenza. Se dobbiamo evitare una mina posta sul nostro
cammino, e ci hanno fornito le indicazioni della sua posizione, prendiamo
subito le nostre precauzioni, non aspettiamo di calpestarla: perché in quel
caso, sarebbe troppo tardi! Non facciamo finta di niente. Non sottovalutiamo i
campanelli d’allarme. Perché “l'estate” arriverà comunque dopo l’inverno: sia
che lo vogliamo o non lo vogliamo, sia che siamo pronti oppure no: Amen.
«Guardatevi dagli scribi, che
amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi
seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle
vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più
severa» (Mc 12, 38-44).
Gesù
si trova nel tempio. E guarda, osserva quello che gli accade intorno. E commentando
ciò che vede, insegna. «Gli scribi amano esibire le
loro lunghe vesti».
Al tempo di Gesù, tutti indossavano il tallit
(una specie di scialle), era un normale accessorio di abbigliamento; quello
degli scribi però si distingueva dagli altri perché era molto ampio, lungo e
sontuoso. Era impossibile non notarlo e ammirarlo. Un simile vestito, da solo, qualificava
già la persona che lo indossava, ne stabiliva l’alto grado sociale, ne sottolineava
le cospicue possibilità finanziarie. Camminavano lentamente tra la folla, avvolti
nelle loro ricche vesti, per “ricevere
saluti nelle piazze”, per essere ammirati, riconosciuti, temuti; incutevano,
nella gente comune che incontravano, un senso di inferiorità, di soggezione, di
sudditanza. Nelle
sinagoghe avevano un posto riservato, un posto d'onore, di fronte a tutta
l'assemblea. Nelle feste e nei banchetti erano sempre a capotavola, nei posti
più avanti e più vicini al festeggiato. Promettevano
preghiere e sostegno spirituale alle vedove, che nella società di allora
costituivano l’elemento più debole, più sfruttato. In realtà era solo un
pretesto per spillare loro quattrini, spogliandole dei loro miseri averi, con
la scusa di difenderle. Insomma erano delle persone poco raccomandabili, questi
scribi: pieni solo di sé stessi, tutta e sola apparenza, anche nei momenti di
preghiera, che dovevano essere i più sentiti e autentici. “Essi riceveranno una condanna
più grave”. Gesù
non ha pietà per questo genere di falsari della religione e del culto, per
questi amanti dell'esteriorità, della vanità, dell'esibizione personale, del proprio
tornaconto. Ebbene,
fratelli, ci ricorda nessuno questo genere di persone descritte da Gesù? Proprio
nessuno? Eppure chi è oggetto della nostra ammirazione? Chi guardiamo noi con
invidia? Chi è importante ai nostri occhi? Chi sono i personaggi che fanno
notizia, che fanno alzare gli indici di ascolto televisivo, che sono sempre
sulle prime pagine dei giornali, facendone aumentare la tiratura? Sono gli
“scribi” del ventunesimo secolo; sono i “fortunati”, quelli che possono, quelli
che girano con le scorte… Quanti
vip, quanti politici, quanti attori e attrici, quanti ammalati di “divismo”, spendono
centinaia di migliaia di euro per un vestito, una giacca, per poi ostentarli esibendosi
nei salotti televisivi, pavoneggiandosi nelle prime teatrali, nelle manifestazioni
mondane, cercando ad ogni costo l’ammirazione e il consenso del pubblico. E la
massa li guarda estasiata, ammaliata; si lascia condizionare dal
loro fascino, arrivando a sostenere viaggi e attese snervanti pur di poterli avvicinare
un solo istante, al loro passaggio, o assistere a qualche loro esibizione! Del
resto loro presenza determina il successo di qualsiasi avvenimento; per questo sono
gli ospiti d’onore fissi, gli opinionisti ricorrenti in ogni salotto televisivo;
sono ammirati e applauditi, sempre e comunque, anche quando dimostrano grande superficialità
e una preoccupante carenza di cultura. Ma non
basta: quello che preoccupa ancora di più è il numero impressionante, soprattutto di giovani, che pur di imitarli, pur
di provare anche solo per un attimo l’ebbrezza della notorietà, non esitano a
calarsi in spettacoli e trasmissioni degradanti (Grande fratello), a
sostenere prove demenziali o umilianti (Isola dei famosi). Purtroppo il “gossip” per
tanta gente è diventato l’unico nutrimento culturale e spirituale. Siamo
proprio caduti in basso, fratelli! Siamo letteralmente abbagliati non dalla Luce
vera, ma da fuochi fatui. Soprattutto non ci rendiamo conto, o meglio non
vogliamo rendercene conto, di quanto squallido sia il rovescio della medaglia
di questo stile di vita; non vogliamo vedere cosa si nasconda realmente dietro
certe facciate di lusso e notorietà: un abisso di solitudine, un cumulo di cattiverie,
di vuoto, di violenze, di lacerazioni interiori. Ma di ciò nessuno se ne fa un
problema! Noi
scribi di oggi, siamo disponibili a tutto purché la nostra immagine esteriore
sia sempre affascinante, luminosa, attraente; purché in nessun modo trapeli agli altri il
nostro nulla, il nostro vuoto di personalità, di amicizia vera, di
amore. Siamo uomini di cartapesta, dei pupazzi, fenomeni da baraccone. Ce ne
rendiamo conto, ma ci sta bene così: non vogliamo cambiare, non vogliamo metterci
veramente in gioco. Dimostriamo di non aver capito che essere individui
veri, genuini, protagonisti aperti alla vita, non vuol dire stare sopra gli
altri, apparire, essere osannati; ma vuol dire essere se stessi, essere i primi
in basso, nell’umiltà; vuol dire fare il bene nel silenzio, senza guardare ai
riconoscimenti, agli applausi degli altri; vuol dire primeggiare nella carità,
nell’amore. Solo questo basso profilo ci renderà primi, vincitori della
buona battaglia, benvoluti agli occhi di Dio, fruitori della Vita. Essere
vivi vuol dire avere gli occhi luminosi, i sentimenti fluidi; vuol dire che
ascoltiamo gli altri con interesse, che ciò che diciamo ha un senso e non è
banale; che c'è spazio per noi e per gli altri, che ci sentiamo a nostro agio con
le persone più umili; che non abbiamo bisogno di attaccare il prossimo, né di
difendere la nostra reputazione; in una parola vuol dire non avere il bisogno di
elevarci sopra i fratelli. Soprattutto vuol dire non inseguire il successo
ricorrendo a mezzi meschini, come giudicare e sparlare del prossimo. E invece noi giudichiamo, sparliamo, demoliamo: sulle rovine del prossimo
costruiamo la nostra gloriosa facciata. Che tristezza, fratelli, cercare con
tanta meschinità onori, gloria, consensi! L'egoista
(lo scriba, il narcisista) è uno che si preoccupa soltanto della propria
immagine; l'uomo di fede invece si interessa della vita. L'egoista crede nella
magia dell'apparire e del buon nome; l'uomo di fede invece crede nella vita
dello Spirito che lo inabita. La sua preoccupazione non è risultare gradito ad
ogni costo, ma sviluppare il divino e lo Spirito che abita nella sua anima. Agli
scribi Gesù dice: “Guai a voi, guai a
voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi
all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di
ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini,
ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità” (Mt 23,27-28). Ciò che fa infuriare
maggiormente Gesù è che queste persone false, non sono persone anonime, insignificanti;
sono “scribi”, sono gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio, i custodi e amministratori della legge. Sono
persone che parlano continuamente di Dio, che hanno sempre il consiglio pronto
su come ci si deve comportare, su cosa si deve fare; persone che si vantano di saper interpretare
la volontà di Dio, ma che lo fanno soltanto per gli altri. Hanno sempre in bocca il nome di
Dio, ma il loro cuore è vuoto, arido. Lo conoscono benissimo con la mente, ma lo
ignorano totalmente nel cuore. Un po’
come talvolta capita anche a noi, fratelli. Possiamo infatti sapere tutto di
Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e
confessarci ogni mese, essere insomma “uomini di chiesa”; ma se il nome di Gesù
non ci fa sussultare l'anima, se le sue parole non ci fanno vibrare il cuore,
se il suo pensiero non ci trasmette desiderio di verità e di ricerca, in una parola non ci “prende”,
non ci appassiona l'anima, a che ci serve tutto quello che sappiamo, che ce ne
facciamo di tutte le nostre conoscenze? Ebbene,
sono proprio questi sedicenti “uomini di Dio”, questi “scribi e farisei”, le persone
che Gesù considera false, senza fede, eretiche e ingannatrici. E a tutti noi dice:
“State attenti”, non fatevi ingannare: chi ama Dio, non si vede dal vestito
o dalla talare; da come appare nel tempio o da quanto sa di Dio; da come
predica bene, o dalla carica che occupa. Chi ama Dio si riconosce dalle opere, dalla coerenza con cui vive, dalla forza d'animo, dall'amore e dalla bontà
che gli traspare luminosa dagli occhi e dal cuore. Concluso questo sfogo contro gli scribi, nauseato, irritato dal loro comportamento,
Gesù va a sedersi in prossimità dell'ingresso del tempio, dove stazionavano gli
incaricati alla raccolta delle offerte libere. Era lì che i ricchi contrattavano con i sacerdoti
l'entità delle loro cospicue donazioni, accolte da soddisfatti sorrisi di compiacimento; ed era sempre lì che i poveretti, in particolare le
povere donne, disponendo di somme molto esigue, erano costretti a subire da loro biasimo e disprezzo. Essere
vedove, all’epoca, significava essere senza reddito, senza un minimo di sostentamento:
le donne non lavoravano, erano costrette a vivere di elemosina, di
carità, di quel poco che altri donavano loro. Le vedove vivevano mendicando.
Non avevano niente di niente se non due tre figli sempre affamati da nutrire. Probabilmente
i pochi spiccioli offerti dalla vedova notata da Gesù, costituivano l’intera
somma della sua giornata di elemosina. Agli occhi superficiali e boriosi degli
addetti, quella donna non offre praticamente nulla, una cosa irrisoria, un'inezia.
Ma agli occhi profondi e misericordiosi di Gesù, quella donna offre il massimo,
tutto quello che possiede, tutto quello di cui dispone, tutto di tutto. Il criterio
di valutazione di Dio è molto diverso dal nostro. Dio non vuole mai “qualcosa”
di noi; Dio vuole “tutto” di noi. Dio non vuole da noi “cose”; vuole noi. Dio
vuole stare al centro della nostra vita. Egli vuole che noi, per Lui, ci
mettiamo in gioco del tutto. Vuole che noi per Lui, cambiamo radicalmente il
nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di credere; vuole
che diamo un ordine diverso alle nostre priorità. Se dunque
non fosse stato per lo sguardo di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa
donna. Quello che per gli addetti al culto era dozzinale, insignificante, senza
valore, per Lui non lo era affatto. Perché anche le cose più misere, più
insignificanti, alla sua luce acquistano valore, lucentezza, splendore! Gesù ha
sempre amato gli umili; ad essere suoi discepoli non ha certo chiamato i
sacerdoti del Tempio, né i ricchi farisei, né gli scribi, i sapienti di allora.
Gesù scelse al contrario persone di poca cultura, dei pescatori un po’ rozzi, a
volte di testa dura e ostinati (come Pietro). I “grandi” maestri dell’epoca lo
avranno sicuramente commiserato per questa sua scelta così scombinata. Ma Lui sapeva
quel che voleva, Lui vedeva dentro: quelle persone avevano poco o nulla, è
vero; ma erano pronte a dare tutto quello che avevano. Ai
tuoi occhi, Signore, tutto si trasforma: il mio buio per te è luce abbagliante;
la mia povertà, per te è inestimabile ricchezza, il mio poco, per te è un
tesoro prezioso; perché il tanto di uno, ai tuoi occhi è nulla; il niente di un altro, ai
tuoi occhi è tutto. Amen.
«In quel tempo, si avvicinò a
Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?»
(Mc 12,28-34).
E Gesù
di rimando, come al solito, senza esitazioni: «Shemà Israel, ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è
uno solo; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua
anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza». Una risposta che
soddisfa anche l’interrogante, “hai detto
bene”; una risposta che contiene il cuore palpitante della fede biblica. Il
primo e più importante comandamento. I rabbini avevano condensato la Legge di
Mosè in 613 comandamenti: 365 in forma negativa (“non devi…”), considerati
lievi, e 248 in forma positiva (“devi…”), che erano invece ritenuti gravi. Una
giungla di prescrizioni, tra le quali anche i più esperti studiosi della Torah,
si muovevano con difficoltà. Il “sapiente”
di turno, dunque, uno scriba che forse vuol saggiare la preparazione di Gesù, o
forse mosso anche da sincera voglia di sapere, gli rivolge una domanda secca: fra
tutti questi precetti, qual è il primo, quello più importante? Gesù
lo lascia perplesso, lo prende in contropiede, ripetendogli prontamente quella stessa
professione di fede deuteronomica che lui, da buon israelita, ha il dovere di recitare
tutti i giorni, più volte al giorno. Una professione di fede chiara,
intoccabile, intramontabile. È come il Padre Nostro per noi Cristiani. Sono
parole semplici, ma di grande interiorità, con le quali si proclama e si
riconosce la stretta relazione del popolo con il suo Dio, la sua appartenenza a
Lui, anzi l'appartenenza reciproca: siamo del Signore e il Signore è nostro: «Il Signore è il nostro Dio». È per
questo che Israele rinuncia a rendere qualunque forma di culto alle divinità pagane,
inesistenti, dedicandosi interamente al suo Dio e all'osservanza della sua
Legge. Perché solo affidandosi esclusivamente a Lui, egli sa di non aver
bisogno più di nulla da nessun altro. Ma nonostante
la validità e l’universalità della risposta, Gesù non si ferma qui. Egli va
oltre; vuole integrare l’antica legge, completandola, mettendosi sulla linea
della grande tradizione profetica e rabbinica: «Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di
questi». Il
comandamento dell'amore è fondamentale, unico: prima di tutto l’amore a Dio, indiscutibilmente;
poi l’amore verso il prossimo. Il primo non può esistere separato dal secondo. Pur
rimanendo distinti, i due comandamenti si intrecciano, si richiamano a vicenda.
Non possiamo amare Dio, se non amiamo anche quelli che Egli ama. Se ci
impegnassimo ad amare Dio soltanto, escludendo il nostro prossimo, la nostra
relazione con Dio sarebbe semplicemente falsa, inesistente e quindi illusoria.
Se investissimo ogni nostra energia nell'amare gli uomini, fossero pure i più
bisognosi, i derelitti, gli abbandonati, escludendo espressamente Dio dal nostro
orizzonte, il nostro rapporto con loro sarebbe semplicemente esibizionismo, voglia
di emergere, amore non genuino. Ogni nostro gesto di amore nei confronti del
prossimo è autentico soltanto se è mosso anche dall’amore verso Dio. L’amore è
unico, inscindibile. «Shemà
Israel, ascolta Israele». Da questa solenne esortazione Gesù prende lo spunto
per rivelarci quel rapporto totalizzante con Dio e con il prossimo, che Egli
condensa in un’unica parola: amore. «Amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima,
con tutte le forze; amerai come stesso». Non c’è possibilità di
fraintendimenti: il “cuore, l'anima, le forze” non sono tre facoltà separate,
ma costituiscono l'uomo nella sua completezza: il “cuore” è il centro profondo
della sua persona, dove nascono gli affetti e maturano le decisioni; l' “anima”
indica la sua intera esistenza permeata dal divino soffio vitale; le “forze”
dicono anche il coinvolgimento della totalità del suo corpo vivente, di tutte
le sue energie e risorse fisiche. In
pratica Dio non si accontenta di una parte: o solo quella spirituale oppure
solo quella materiale. Egli vuole che l’uomo sia interamente, completamente, esclusivamente
suo. Non gli basta di essere servito, onorato, pregato dall’uomo: Egli vuole
essere amato, e non di un amore qualsiasi, ma di un amore esclusivo, completo. Ecco:
la novità e l'originalità di Gesù sta nell'avere rivelato e insegnato l'unità,
l’inscindibilità dei due comandamenti dell'amore; e sta anche nel fatto, che
nessuno è mai riuscito a viverli in maniera così perfetta di come ha fatto Lui.
La novità sta anche nel fatto che un tale amore, impossibile alle sole nostre forze
umane, ci viene comunicato gratuitamente da Gesù e dal Padre attraverso il dono
del loro Spirito. Implorare da Dio il dono dello Spirito Santo significa chiedere
proprio tale capacità d'amare. La
religione di Gesù, dunque, è la religione dell'amore, non della paura; la
religione della fiducia, non del timore; la religione del cuore e non delle
pratiche esteriori. È soprattutto la religione dell'amore, in quanto in essa
noi scopriremo sempre di più che Dio ci ama di un amore infinito, pieno di
tenerezza, di bontà, di misericordia, di fiducia. Perché Dio è Amore; e anche
noi, nel nostro piccolo e con tutti i nostri limiti, siamo chiamati a diventare
amore. Gesù, infatti, nella pienezza della sua missione, non si accontenta di
dire: Ama il prossimo come te stesso, come puoi o come vuoi; ma ci invita ad
amare secondo la misura del suo Cuore: “Amatevi
gli uni gli altri, come Io vi ho amati”. E Lui non ha posto limiti, ci ha
amati offrendo tutto se stesso per noi, fino al sacrificio della sua vita. Ecco,
questo deve essere “il nostro” comandamento, il comandamento “nuovo” omologato
da Gesù stesso. Certo,
fratelli, parlare di amore è abbastanza facile. Ma l'amore non lo si dimostra
con le parole, con i grandi discorsi, con programmi grandiosi: l’amore si
pratica con i fatti. Anzi dobbiamo imparare a parlare poco, a non esibirci, a
non pubblicizzarci in iniziative straordinarie, ma a compiere invece molte piccole
azioni di amore autentico, generoso, disinteressato; verso tutti, ma con
particolare attenzione verso le persone che hanno più bisogno, anche quelle che
non ci sono simpatiche o verso le quali non ci sentiamo portati. Gesù ci ha
detto di amare perfino i nemici... “perché se amate coloro che vi amano, che
merito ne avete?” Se
vogliamo intraprendere la strada dell'amore, non dobbiamo riempirci la bocca di
belle parole, ma dobbiamo riempire la nostra vita di fatti concreti. Dobbiamo prendere
coscienza che, nonostante tutto ciò che ci ha detto Gesù e che noi stessi
conosciamo quasi a memoria, è molto facile sbagliare e peccare contro la carità
e l'amore del prossimo. È infatti soprattutto verso il prossimo che noi siamo
peccatori. Basti pensare alle mancanze che facciamo con le persone che ci sono
più vicine, in casa nostra, nel lavoro, nelle relazioni con gli altri: egoismo,
parole, giudizi, critiche... Basti pensare anche ai peccati tra noi cristiani:
le divisioni, le critiche, i personalismi, le incomprensioni... In fondo anche
le divisioni, i giudizi malevoli, i protagonismi all’interno della chiesa,
della parrocchia, sono peccati contro la carità, contro l'amore. E dire che
Gesù ci aveva raccomandato solo questo! Lo aveva anzi posto come nostro “distintivo”:
«Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per
gli altri». Allora,
fratelli, non basta la preghiera, non basta la messa domenicale, la comunione,
le elemosine, la caritas... Dobbiamo amare veramente! Ma è possibile amare
veramente? Sì è possibile, fratelli! Ed è la cosa più bella, più facile, più
vera: basta provarci ogni giorno. E la preghiera, la messa, la comunione ecc.
saranno non il punto esclusivo di arrivo, ma il punto di partenza per chiedere
a Dio di aiutarci a diventare sempre più cristiani in grado di amare con tutto
il nostro cuore Lui e il prossimo. Questo ci porta pertanto ad essere umili, a
chiedere perdono, a essere molto concreti nei nostri propositi. Se noi
chiediamo umilmente a Gesù: “Qual è il senso ultimo della nostra vita?” Sono
certo che la sua risposta sarà: “lasciatevi amare, amatevi, amate”. Prima di
tutto “lasciatevi amare” da Dio; Dio ci ama tantissimo, fratelli, quando lo
capiremo? Ci ama senza condizioni, senza possesso, senza fragilità. Ci ama non
perché siamo meritevoli, ci ama non perché siamo buoni; è Lui che, amandoci, ci
rende buoni. Capisco
che a volte è difficile, fratelli. So bene che il nostro cuore talvolta è
indurito, rinchiuso in una gabbia di dolore, non riusciamo a vedere questo Amore
perché la rabbia di non essere stati amati ci ha intossicato il cuore e la
mente. Fidiamoci di Lui, lasciamoci andare. Dio sul serio ci ama, sul serio
desidera per noi il bene; davvero: Gesù è morto per affermare questa certezza,
ci ha creduto e ne è morto. La
seconda condizione per cui vivere è “amarci”. Accettarci cioè così come siamo, con
i nostri limiti, le nostre parti oscure. Un falso cristianesimo ci impedisce di
gioire di noi stessi, vedendo in questo atteggiamento un atto di egoismo da
parte nostra. L'egoismo è, invece, non accettare i propri limiti, voler accaparrare,
prendere, impossessarsi, piuttosto che fare della propria vita un dono.
L'egoista appare, si sforza di vendere un'immagine di sé che gli impedisce di
rientrare in se stesso e gioire. Ci amiamo, fratelli? Ci perdoniamo? Siamo
convinti che possiamo trasformare ciò che siamo in un capolavoro di amore? Certo,
per imparare ad amare ci vuole tutta una vita, tutta la nostra vita. Ma possiamo
farcela, sul serio; guardarci come ci vede Dio, non come il mostro delle nostre
paure e neppure come l’eroe dei nostri sogni, ma come la persona che Dio ha
pensato e amato. Allora possiamo amare dell'amore che abbiamo ricevuto e che ha
trasfigurato il nostro cuore, allora possiamo davvero vivere, riconciliati nel
profondo con i nostri fratelli. Infine
la terza condizione è: “amate”. Amiamo Dio perché ci scopriamo teneramente amati,
amiamolo perché ce ne innamoriamo, amiamolo come riusciamo, ma tutto,
interamente. Non potremo amarlo in maniera assolutamente pura, non avremo forse
mai la forza di un gesto totale; il nostro amore, spesso, è vincolato, fragile,
appesantito. Non importa, fratelli, amiamolo con tutto ciò che riusciamo, come
riusciamo, amiamo senza paura. È questo il segreto, fratelli: scoprire di
essere amati, di essere amabili, di diventare capaci di amare nel nostro modo
un po' grossolano e fragile. Dio ci rende capaci di amore, di luce, di pace, di
essere segno e dono, di donare, di contrastare la logica di questo mondo. È difficile,
vero. Abbiamo l'impressione di nuotare controcorrente. Ma l'esempio di tanti
santi ci conforta. Come loro, anche noi, entro le nostre possibilità, possiamo
vivere l'amore; molti di noi già lo fanno: basti pensare alle mamme e ai papà
accanto ai loro figli, le famiglie accanto ai propri anziani, i cristiani
accanto a chi nella società è malato, povero, emarginato, solo. E
allora coraggio: ciascuno di noi, in questo momento, può certamente offrire a
tante persone atti di bontà, di generosità, di incoraggiamento, di aiuto, sia
morale che materiale. Facciamolo col cuore, con disinteresse, anche con
sacrificio, ma soprattutto con amore sincero. Perché alla fine della vita,
saremo giudicati proprio su questo, sull'amore. E
concludo. Esaminiamoci spesso, fratelli; chiediamoci con tutta sincerità,
nell’intimo del nostro cuore: “In questo momento, sto amando veramente o mi sto
illudendo di amare? Amo realmente Dio più di tutto il resto? Dio è realmente il
mio tesoro più caro? Amo concretamente il prossimo, vale a dire voglio il suo
bene e lo compio, direttamente o indirettamente?” Ecco, cerchiamo
di ricordare ogni sera se abbiamo compiuto durante la giornata qualche atto di
amore genuino a Dio e al prossimo. Proviamo a recitare lentamente l’«atto di
carità» (ce lo ricordiamo ancora?), cercando di coglierne il significato; esaminandoci
se siamo sinceri nel fare a Dio una tale dichiarazione d'amore: «Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra
ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità…; per amor tuo amo
il prossimo mio come me stesso…, perdono le offese ricevute… Signore, che io ti
ami sempre più». Facciamolo, fratelli: così, umilmente, semplicemente, come
l’hanno fatto e come ci hanno insegnato i nostri genitori, i nostri nonni.
Perché la cosa più bella che possiamo fare nella nostra vita è amare Dio e
tutti i nostri fratelli: questo ci rende persone di luce, di gioia, di pace;
persone che fanno trasparire anche dal proprio volto una pallida sembianza della
bontà di Dio. E la gente, fratelli miei, ha proprio bisogno di questo! Solo di
questo. Amen.
«Egli, gettato via il suo
mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: Che cosa vuoi
che io faccia per te?. E il cieco gli rispose: Rabbunì, che io veda di
nuovo! E Gesù gli disse: Va', la tua fede ti ha salvato» (Mc 10, 46-52).
Abbiamo
visto nel vangelo di domenica scorsa come i discepoli si siano dimostrati ciechi
nei confronti di Gesù e della sua missione. Ebbene: oggi Marco torna sul tema
della cecità ponendo l’incontro con il cieco Bartimèo immediatamente prima
dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: come a dire che per comprendere il senso
della Sua vita e della Sua sofferenza, dobbiamo avere gli occhi penetranti della
fede, dobbiamo vedere perfettamente e soprattutto dobbiamo saper cosa vedere;
perché non basta avere gli occhi, anche se buoni, per dire “ci vedo!”. E sono
i lontani, quelli con cui Gesù ha che fare occasionalmente, che riescono a “vederlo”
nella maniera giusta: è il cieco del vangelo di oggi, che riacquistata la vista,
si mette spontaneamente come discepolo al suo seguito, unico a seguirlo ad
occhi aperti e consapevoli nel cammino della passione e della croce; è il
centurione sul Golgota che, subito dopo la morte di Gesù ci vede improvvisamente
chiaro quando esclama: «Veramente
quest'uomo era Figlio di Dio» (15,41); il giorno dopo la morte, saranno delle
pie donne “a vederci” e a capire tutto. Al contrario i più vicini, gli apostoli,
i prescelti, i chiamati per nome, arriveranno “a vedere” dopo, molto dopo. La
loro “storia” della passione è la storia di uomini che “non hanno visto
niente”. Non sono riusciti, cioè, a penetrare il mistero, sono rimasti ciechi. Esattamente
come succede nella nostra vita quando rimaniamo indifferenti, quando ci
fermiamo alla superficie delle cose e degli eventi Gesù dunque
sta per lasciare Gerico quando improvvisamente, al suo passaggio, un uomo si
mette a urlare: è Bartimèo, un cieco che chiede l’elemosina ai margini della strada.
Dal suo nome gli esegeti risalgono alla sua personalità (Bar-timeo = figlio di Timeo; ora “tìmeo” = aver paura; quindi: figlio
della paura); si tratta cioè di uno che è cieco nell’anima più che negli occhi; è uno
che ha paura, che teme di affrontare la vita, che non crede più in sé, che si
ritiene incapace di affrontare da solo la vita: e questa sua insicurezza,
questa sua paura, lo costringe a fermarsi lungo la strada, a mendicare, a
chiedere l’aiuto degli altri. È cieco, è vero. Ma un cieco che non vuol vedere. Né più
né meno di come siamo anche noi quando non vogliamo affrontare la realtà: chiudiamo
gli occhi, rimuoviamo gli ostacoli; siamo convinti di vedere, ma brancoliamo
nel buio. Ci comportiamo irrazionalmente: se non vediamo una cosa, pensiamo che
non ci sia. Soltanto, fratelli, che questo metodo non funziona. Lo sappiamo che
non funziona: eppure di fronte a certi dolori, a certe sofferenze della vita, alle
quali non possiamo sottrarci, continuiamo a chiudere gli occhi. E non c’è niente
che ce li faccia aprire: così ci lasciamo andare, diventiamo preda della
depressione, ci diamo all'alcool, alla droga, agli eccessi: ci alieniamo, mendicando
la carità altrui. Abbiamo paura di conoscerci, fuggiamo da noi stessi, dalla nostra
anima. Ma il problema rimane, perché non potremo mai sfuggire a noi stessi. Diventare “ciechi”,
per paura della sofferenza, della vita, è perfettamente inutile! Il cieco è seduto lungo la
strada: è
ovvio perché quando non sappiamo chi siamo realmente, non sappiamo neppure dove
andare, cosa fare. Allora chiediamo ansiosamente a destra e a sinistra: “Chi
sono? Cosa devo fare? Come devo vivere?”; ci sentiamo persi, ci sentiamo
impossibilitati a vedere; se guardassimo dentro di noi, non avremmo certo bisogno di elemosinare
opinioni e consigli. Non volendolo fare, ci accontentiamo di
vegetare: non abbiamo una direzione da seguire, siamo senza una meta precisa, non
sappiamo come muoverci nella vita; ci accasciamo e vaghiamo stupidamente di qua
e di là. Il cieco mendica: quello che non vediamo in noi,
lo chiediamo agli altri. Abbiamo bisogno di continue conferme, ci serve che qualcuno
si sostituisca a noi. In questo modo gettiamo via quello che siamo e accettiamo
supinamente qualunque soluzione gli altri ci propongano. Ci
accontentiamo delle briciole, ci svendiamo, scendiamo a compromessi terribili. Siamo
convinti di trovare fuori di noi, quello che invece abbiamo già dentro e non
vogliamo vedere. Quando
passa Gesù il cieco comincia a gridare: «Figlio
di Davide, Gesù, abbi pietà di me». Il
cieco sa di aver sbagliato; si rende conto che se è finito in quella condizione
è perché non ha voluto vedere certe cose e chiede perdono: “Abbi pietà di me”. E lo fa gridando; non
si rassegna, non demorde. Gridare aiuto, indica la volontà di uscire da una
certa situazione negativa, vuol dire che uno è disposto a tutto pur di venirne
fuori. Significa avere fede. E sarà proprio la fede che salverà Bartimèo. Al suo urlare la folla lo zittisce. Talvolta proprio chi è più
vicino a noi ci distoglie dai nostri propositi, dal nostro desiderio di
guarigione. Per questo dobbiamo “urlare”, dobbiamo far sentire a tutti la
nostra voglia di vivere; per fare questo, dobbiamo però credere nuovamente in
noi, nella nostra fede; dobbiamo cioè “riconoscere” il passaggio di Gesù nel
nostro cuore. Perché è lui che ci sentirà e ci salverà. Dobbiamo avere la forza
e il coraggio di sfidare il giudizio della gente “perbene”, dobbiamo creare
scompiglio nella “folla” che ci rallenta; insomma dobbiamo fare di tutto per bloccare
il passaggio di Gesù. Se non siamo convinti di poterlo fare, se non ci crediamo
noi stessi con tutte le forze, non succederà mai nulla. Noi infatti riusciamo ad ottenere solo ciò che siamo convinti di volere, ciò in cui crediamo fermamente: se non crediamo di guarire, non guariremo; se
non crediamo di poter cambiare, non cambieremo; se non crediamo al nostro
sogno, non arriveremo mai a realizzarlo; se non crediamo nella forza del nostro
cuore, non arriveremo mai ad amare. Se non crediamo nel Dio che abita in noi, non saremo mai
felici. Insomma, se non crediamo in noi, non realizzeremo mai niente. Bartimèo
vuole riottenere la vista con tutte le sue forze, a tutti i costi; lo vuole
così tanto che non gli interessa di fare brutta figura, di essere ripreso dai
presenti, di essere deriso o di sfigurare. Non chiediamoci mai, fratelli, se vogliamo
una cosa; chiediamoci piuttosto quanto la vogliamo; quanto siamo disposti a giocarci,
quanto siamo disposti a rischiare; fino a che punto siamo disposti a lasciarci
coinvolgere. Invece
purtroppo noi vorremmo tutto, ma senza privarci di nulla, senza faticare; vorremmo
guarire dai nostri difetti, ma continuando a vivere con le nostre abitudini. Vorremmo
conoscere Dio, ma senza troppi coinvolgimenti, senza sconvolgere la nostra quieta
esistenza. Vorremmo conoscere noi stessi, ma senza correre il rischio di capire che così non va, senza soffrire,
senza provare delusioni. Vorremmo amare, ma senza esporci, senza sbagliare, senza
perdere, senza cadere. Allora Gesù si ferma e lo
chiama. È
l'unico caso del vangelo in cui Gesù viene fermato da qualcuno: Egli non si
lascia condizionare dalla folla, non ascolta i giudizi della gente: in questo
caso forse non lo aveva neppure visto o sentito, il cieco; o non aveva intenzione di
fermarsi; ma di fronte al suo gridare, di fronte a un desiderio così grande,
non può che cambiare i suoi piani. E si ferma. La fede dell'uomo cambia
il destino, sconvolge la vita. Appena
si sente chiamato da Gesù, il cieco Bartimèo si comporta come se avesse già riacquistato
la vista, come se ci vedesse da sempre: getta via il mantello, balza in piedi e
corre da Gesù. Diverso è invece il comportamento della folla: prima lo sgrida (10,48), poi, all’invito di Gesù, si fa
in quattro per agevolarlo, per farlo avvicinare (10,49).
All'improvviso tutti diventano gentili, bravi, caritatevoli e santi. Prima fanno
di tutto per scoraggiare il pover'uomo; poi tutti ad incitarlo ad avere
coraggio, a farsi avanti, a congratularsi con lui per essere stato notato da Gesù. Le famose “pacche” sulle spalle! Di fronte al prete o al vescovo tutti diventiamo buoni
cristiani. Davanti al capo tutti i dipendenti sorridono. Quando invece
c’è da esporsi, da dire come le cose dovrebbero andare, tutti si dileguano. Quando Gesù si accorge di lui e “lo guarda”, Bartimèo trova improvvisamente la
forza di fare ciò che non aveva mai fatto prima: scatta e corre. È umano: quando ci sentiamo
importanti per qualcuno, anche la nostra vita cambia di prospettiva. È per questo che abbiamo
bisogno di sentire che per qualcuno siamo veramente importanti, che valiamo. Sappiamo di essere importanti, ma se nessuno ce lo dice, se nessuno ce lo fa
vedere, se nessuno ce la fa sentire, ci sentiamo comunque inutili, pensiamo che tanto, esserci
o non esserci, è la stessa cosa. E allora, tanto vale non esserci. Almeno è più
comodo. Il cieco si alza in piedi (letteralmente “si lancia”):
adesso trova la forza di contare sulle proprie gambe, ritrova la piena fiducia in
sé. Butta vita il mantello da mendicante: ora non è più tale, non deve più occupare il suo tempo a elemosinare
amore e rispetto. Anche
a lui, come domenica scorsa ai due discepoli (Mc 10,36), Gesù riformula la stessa identica domanda: «Cosa volete che io
faccia per voi?» - «Cosa vuoi che io faccia per te?». I suoi discepoli, i più vicini, avevano chiesto cose materiali
(gloria, potenza, successo, fama); Bartimèo chiede solo la Luce, chiede di
vedere. Grande lezione anche per noi! E
allora smettiamo, fratelli, di chiedere a Dio solo cose materiali, cose
terrene: non ce le può dare. Dio non può darci i soldi; Dio non può darci la
ricchezza, Dio non può darci questa o quella cosa preziosa, questa o quella
persona. Dio può concederci la fiducia, la consapevolezza, la luce, la verità,
il senso della nostra strada, la fiducia nella Vita. Il resto dipende da noi. Ma molti, purtroppo, non
sanno cosa farsene di tutto questo. «Cosa vuoi che io ti faccia?». La domanda di Gesù, a noi
superficiali, fa un po' sorridere: l’uomo è cieco; sa che Gesù opera miracoli,
cosa vorrà mai? È ovvio, vuole guarire! Ma la domanda di Gesù non è affatto superflua.
Perché non è importante sapere ciò che Gesù deve o non deve fare, egli lo sa perfettamente;
Gesù invece vuol sapere ciò che l’uomo “vuole” esattamente: quanto cioè egli voglia
guarire dalla sua cecità. E
l'uomo senza esitare risponde: «Fammi
vedere». Il verbo greco “anablepo”
indica l’azione di “vedere in su, alzare
lo sguardo”. Quest'uomo nella sua vita ha sempre abbassato lo sguardo per
paura. Ora vuole poter finalmente guardare in alto, senza timore. Quante volte
anche per noi basta una semplice osservazione per farci guardare in basso, per
toccarci sul vivo, per farci chiudere in noi stessi, per farci sentire senza
valore, in colpa. Siamo succubi dell'opinione altrui. Dobbiamo invece “alzare lo sguardo”, avere un altro punto di
riferimento, un riferimento ben più alto; dobbiamo cioè “guardare” solo a come
Lui “ci vede”, non a come ci vede il mondo. Dobbiamo guardarci con gli occhi di
Gesù, perché solo negli occhi di Dio possiamo vedere il nostro vero volto. Solo fissando il suo volto. Perché
se giriamo le spalle al Sole, non vediamo altro che la nostra ombra! Un’ultima
annotazione: «E lo seguiva per la strada».
In realtà anche i discepoli, gli apostoli, la gente, tutti, seguono Gesù: ma il
vangelo per nessuno di loro si è mai soffermato a sottolineare che “lo seguivano”:
lo fa solo per quest'uomo. Perché? Perché quelli che lo seguono abitualmente ci
vedono tutti ma si comportano da ciechi. Quest’uomo invece, già completamente
cieco, è l’unico che dimostra di vedere benissimo come seguire Gesù. Amen.