«Maestro buono, che cosa devo
fare per avere in eredità la vita eterna?» Mc 10,17-30.
Il
vangelo di oggi racconta di un uomo. Un uomo, ricco, che non ha un nome: così
come tutti i ricchi del vangelo, che non hanno mai un nome; del resto anche
nella vita essi dimostrano, in genere, più interesse per le loro ricchezze che preoccupazione
per non essere riconosciuti con la loro identità!
L'uomo
dunque va da Gesù. Anzi: gli corre incontro; prova nel suo cuore un grande
desiderio, è molto motivato. L'uomo è alla ricerca di qualcosa che gli manca,
sente che nella vita c'è un di più da raggiungere. Fosse stato felice, soddisfatto
di come viveva, sicuramente non si sarebbe dato così tanto da fare, non avrebbe
corso. Ma egli sente un grande vuoto dentro di lui.
E quest'uomo
s'inginocchia come si faceva una volta con i personaggi illustri, con i maestri
di vita: inginocchiarsi fa capire infatti il sincero desiderio di sapere, di
imparare, mette in luce l'umiltà e la disponibilità dell’animo a ricevere
consigli. Chiama Gesù “buono”, e non si accorge che tale complimento tradisce
in lui il desiderio di farsi subito benvolere, tanto che Gesù quasi si indispettisce:
“Perché mi chiami buono?”. “Non adularmi, non farmi troppe moine, troppi complimenti
gratuiti”. Gesù si schermisce di fronte a tanto entusiasmo. «Nessuno è buono, se non Dio solo». La sua
risposta potrebbe però essere fraintesa: non è anch'Egli Dio? mette forse in dubbio la sua
bontà? No, le sue sono parole che vanno oltre l’immediato significato; egli
vuole qui metterci in guardia dalla nostra faciloneria di dare troppo credito
al primo arrivato; di affidarci acriticamente a qualunque “predicatore di
verità”: «Nessuno è buono…». Gesù, in
altre parole, ci apre gli occhi: “non dovete prendere per oro colato tutto ciò
che i vari “guru”, i vari santoni vi predicano; non dovete dipendere completamente
da gruppi “speciali”, da leader invasati, da movimenti, associazioni, che propongono
idee più sante del vangelo stesso. Dovete essere adulti; non comportatevi da
neonati deboli e fragili, che dipendono in tutto dalla mamma. Avete un
cervello, conoscete me e i miei insegnamenti, ragionate e agite di conseguenza”.
Noi
invece siamo naturalmente portati ad attaccarci a qualcuno o a qualcosa; e lo facciamo più per indolenza,
per pigrizia, che per convinzione: lo facciamo per evitare responsabilità
dirette, per non far la fatica di essere noi a dover esaminare, valutare tutto
ogni volta, e quindi dover scegliere; molto meglio andare a ricasco degli altri.
Salvo poi, se ci accorgiamo di aver preso una cantonata, a scaricare immediatamente
su di loro ogni responsabilità: “Me l'hai detto tu! Mi avevi garantito che…! Il
prete mi aveva detto che … nel catechismo c'era scritto che…”. “No, amico mio -
ci dice Gesù – non trovare scuse, la vita è tua, soltanto tua. Gli altri
possono dirti qualunque cosa, tutto ciò che vogliono, ma tu, tu solo, sei
responsabile delle tue scelte”.
Gesù
dunque, di fronte a tanta foga, propone a quest’uomo la cosa più semplice e
ovvia: “osserva i comandamenti”; ma la risposta che si sente dare è che egli lo
fa già, li osserva tutti fin da bambino. E non lo dice per vantarsi: è uno che
parla seriamente, onestamente, con umiltà. Non si tratta di un megalomane, di
uno sbruffone; è una persona che sta cercando veramente qualcosa di più, che vuole
veramente placare la sua sete di vita, di vivere ad alta quota; è uno con una
grande anima, e se si butta ai piedi di Gesù per avere un consiglio, vuol dire
che non è soddisfatto di quanto gli altri maestri gli hanno trasmesso, detto,
insegnato; non lo hanno convinto nel cuore. Lui vuole cose vere; è deciso ad andare
al centro delle cose.
Gesù stesso
rimane colpito da tanta determinazione: si ferma e lo fissa (il verbo greco “em-blepsas” dice letteralmente gli “penetra
dentro”, lo scruta nel profondo, per sincerarsi della sua buona fede.
E qui
il vangelo sottolinea un particolare stupendo: Gesù “lo amò”. Perché Gesù lo
ama? Perché quest'uomo è uno di quelli che fanno sul serio, uno di quelli che
non si accontentano di osservare solo esteriormente regole, norme, precetti:
vogliono andare oltre, oltre i comandamenti, oltre la normalità; perché sentono
nel loro cuore una speciale “chiamata” a dare un qualcosa “di più”. Persone,
insomma, che non cercano il riconoscimento umano, l’approvazione della gente, ma
vogliono entrare sinceramente nel grande mistero della Vita.
Gesù “lo
amò” perché aveva capito che quell’uomo era spinto veramente e convintamente
dal cuore. E proprio perché lo ama, gli offre la possibilità di realizzare in
pieno queste sue aspirazioni, dedicandosi al totale servizio di Dio: “Va',
vendi quello che hai, e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”. Sconvolgente. Una
doccia fredda. Il nostro uomo rimane di stucco, perplesso, sorpreso. Non se
l’aspettava: se Gesù si fosse fermato a qualcosa di ragionevole, di attuabile,
certo, egli era prontissimo a fare di più. Ma quando gli chiede di fare una
scelta così radicale, di dare un taglio netto al suo presente, quando gli
propone di fare un salto nel vuoto, decisivo e senza ritorno, non se la sente;
rinuncia, e se ne va triste. Ma perché Gesù è stato tanto severo ed esigente con
lui, pur amandolo? Perché questo, fratelli, è l'amore del Maestro. È l’amore speciale
con cui Egli tratta i suoi discepoli, coloro che lo seguono senza voltarsi
indietro, quelli che lavorano tutto il giorno nella sua vigna, sopportando il
caldo torrido, senza avanzare alcuna pretesa. Gesù scorge le potenzialità che
queste persone hanno dentro, e le chiama non a divertirsi, ma a prestare un faticoso
servizio; le “advocat”, le chiama a
sé, le “convoca” una per una; le ama dando loro la grazia speciale della “vocazione”: “Tu
hai qualcosa di grande, di speciale – dice loro -. Abbi fiducia in ciò che hai
dentro. Tu puoi volare molto in alto, non accontentarti di strisciare per terra;
rischia, buttati, segui di slancio ciò che io ti suggerisco, lascia il facile,
scegli il difficile, entra tra i chiamati a lavorare esclusivamente per me,
vivi nel mio amore e il mio amore ti trasformerà”.
Troppo
spesso leggiamo questo vangelo in maniera riduttiva; come: “Se sei ricco non
puoi seguire Gesù”; oppure: “Se non dai ai poveri tutto quello che hai, tutti i
tuoi averi, non puoi seguire Gesù”. Ma Gesù qui non si riferisce tanto ai beni materiali:
per Lui qui la “ricchezza” è qualsiasi nostro attaccamento morboso; credere fermamente
cioè che una determinata cosa, e solo quella, sia in grado di darci la felicità:
anche se sappiamo bene che niente al mondo, può renderci felici, all’infuori
del regno di Dio.
L’uomo
del vangelo dunque se ne va triste; perché si rende conto che quello che gli
chiede Gesù è troppo rischioso; la paura lo frena.
E
questo può capitare anche a noi, fratelli: perché un conto è lavorare tranquillamente,
senza farci mancare nulla, magari cercando di migliorarci, di fare le cose per
bene; ma tutt’altra cosa è fare un salto decisivo; smettere improvvisamente di
fare quel poco di bene che facciamo, e di operare scelte decisive, spesso
traumatiche. E se all’invito di Gesù anche noi rispondiamo “no”, come quell’uomo,
anche noi proveremo la stessa profonda tristezza: la tristezza per aver detto “no”
anche a noi stessi, per esserci dichiarati inadatti alle cose sublimi, al
servizio di Dio .
Gesù aveva
visto qualcosa di grande in noi, aveva fatto dei progetti. Per questo ci ha
chiamati. Noi abbiamo sentito il suo richiamo, ma non abbiamo avuto il coraggio
di prendere il largo. Più che a Gesù, ripeto, abbiamo detto “no” a noi stessi: ci
siamo accontentati dei nostri sogni mediocri. Potevamo vivere al Suo fianco alla
grande; potevamo vivere esprimendoci “divinamente”; potevamo volare ad alta
quota, ma per paura, per ignavia, abbiamo scelto la polvere.
È questo,
fratelli e sorelle, che ci rende tristi: quando cioè rinunciamo a ciò che potremmo
essere, a ciò che potremmo diventare, a dare corpo alla forza divina che abbiamo
dentro, e che col nostro “no”, blocchiamo sul nascere.
Una grande tristezza allora accompagnerà la nostra scelta; una tristezza che non
passerà mai; una tristezza che ci segnerà per tutta la vita. Una spina costante
che ci logorerà l’anima: potevamo essere aquile, seguire il richiamo delle vette immacolate,
librarci liberi incontro al sole. Abbiamo preferito invece il basso profilo, molto
meno impegnativo, nascosti tra le aride pietraie.
Ci
sono cristiani che pensano ancora di garantirsi il Regno di Dio facendo carità,
facendo sostanziose offerte alla Chiesa, tante buone azioni, tante preghiere, una vita onesta.
Un po' come sono soliti fare con la raccolta dei punti ai supermercati o dal
benzinaio: se raggiungono un numero tot di bollini, hanno diritto al premio. Ma
non è così, fratelli. Entrare nel Regno dei cieli è un’altra cosa. Questo “non solo è
difficile - dice Gesù - ma è più facile che un cammello passi per la cruna di
un ago” (a proposito: cammello in
greco è “kàmelon”; alcune trascrizioni usano invece “kàmilos”, che significa “grossa fune, gomena da barca”, rendendo le
parole di Gesù più comprensibili al suo pubblico di pescatori). Ora che un “cammello”,
oppure se si preferisce una “gomena”, passi per la cruna di un ago, non solo è
difficile ma impossibile. Qui non dice “è molto raro, ma possibile”; vuol
dire proprio: “È impossibile!”.
È quindi categoricamente
impossibile pretendere il Regno, se non ci sbarazziamo delle nostre “ricchezze”,
dei nostri “amori” morbosi, dei nostri attaccamenti maniacali alle persone e
alle cose. Dio ci offre continuamente la possibilità di affrancarci: e lo fa gratuitamente.
Del
resto questo attaccamento smodato alla mentalità, alla vita, ai piaceri di
questo mondo, questa forma di “ricchezza” per dirla col vangelo, non solo non
ci salva, ma non ci fa neppure vivere. Perché diventa una forma di schiavitù. Una
dipendenza totale che inibisce ogni nostra iniziativa. Diventiamo succubi del
pensiero altrui, delle usanze, delle abitudini, delle apparenze.
Sentite
questa: ogni sera, un guru indiano si sedeva con i suoi discepoli per pregare; il
gatto dell'ashram ne approfittava e si cacciava fra i piedi degli oranti, distraendoli.
Perciò il guru ordinò che il gatto venisse legato durante l'adorazione serale.
Dopo la morte del guru, il gatto continuò ad essere legato tutte le sere durante
l'adorazione. E quando il gatto morì, un atro gatto fu portato nell'ashram per
essere puntualmente legato durante l'adorazione serale. Qualche secolo più
tardi, gli ammiratori del guru, scrissero dei libri e dei dotti trattati sul
profondo significato liturgico dell'usanza di legare un gatto durante l'adorazione!
Vi fa
ridere? Eppure c'è da piangere se pensiamo a tutto quello che facciamo semplicemente
perché lo abbiamo sempre fatto o perché non ci domandiamo se ciò che facciamo abbia
ancora un senso.
E
concludo: non attacchiamoci all’apparenza; non lasciamoci sopraffare dall’ansia
del risultato: sono anche queste delle “ricchezze” che non portano a nulla. Ci sono
persone che passano da una “ricchezza” all'altra: prima era quella donna; poi quell'auto;
poi quel posto di lavoro; poi la casa in montagna o al mare; poi quell'altra
posizione sociale più affascinante. E così passano ad inseguire, traguardo dopo
traguardo, qualcosa che non c'è e che non raggiungeranno mai.
Non
cerchiamo affannosamente di possedere tutto, non attacchiamoci alle persone e
alle cose, perché non potremo mai possederle, non potranno mai essere
completamente “nostre”, non ci daranno mai la felicità.
Facciamo
in modo di non essere mai “posseduti” dal desiderio di “possedere”: perché solo
così saremo pronti a seguire Gesù; e con Lui troveremo la felicità e la pace del cuore, quelle
vere, quelle che non avranno mai fine. Amen.
«Alcuni farisei si avvicinarono
e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito
ripudiare la propria moglie… Per la durezza del vostro cuore [Mosè] scrisse per
voi questa norma. Ma dall'inizio della creazione [Dio] li fece maschio e
femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola
carne. Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10,2-16).
In
questo vangelo i farisei vanno da Gesù per tendergli una ennesima trappola. Ad
essi in realtà non interessano affatto le questioni matrimoniali, se sia lecito
o no il “divorzio”; vogliono semplicemente sapere se Gesù condivide e
giustifica il loro comportamento. Ancora una volta invece di mettersi in
discussione, cercano giustificazioni. Vogliono cioè far passare per giuste e
corrette le loro inique azioni.
A quel
tempo in Israele era pacifico che un uomo potesse ripudiare la propria moglie. Era
un non-problema, qualcosa ormai di tacito, qualcosa che non meritava più alcuna
attenzione. Se qualcuno ne parlava ancora, non era certo sulla liceità o
meno di ripudiare la propria moglie, quanto piuttosto sul motivo per cui
cacciarla: era cioè necessario appellarsi alla sua infedeltà o bastava molto
meno?
Si era infatti arrivati al punto di cacciare la moglie anche per i motivi
più banali: perché usciva con i capelli sciolti; perché scambiava qualche
parola con un estraneo; perché le era capitato di bruciare la cena, ecc.
Insomma, se un maschio voleva, poteva “scaricare” la propria moglie quando e
come voleva.
Ma anche
questa volta Gesù, come sempre, non accetta la provocazione: risponde a tono, e
le sue parole si scontrano con la loro mentalità maschilista, condannando
apertamente l'abitudine ormai istituzionalizzata di ricorrere al “ripudio” matrimoniale: “Mosè ce l’ha permesso”, dicono. “Sì – risponde Gesù –
ve l’ha permesso, ma non perché sia giusto, ma perché voi siete di testa dura, avete
un cuore di pietra, arido e insensibile. Ve l’ha permesso perché altrimenti trasformate
il vostro matrimonio in un inferno, spingendo vostra moglie alla follia, ad uno
squilibrio mentale insanabile. Ve l’ha permesso solo per non crocifiggere ulteriormente
le persone che vi stanno accanto. Ma non perché questo sia il piano di Dio”.
Il “piano” di Dio. Ecco: Gesù sull'argomento rimanda proprio a questo principio innegabile e insopprimibile,
che è l’intenzione originaria di Dio. In sostanza, possiamo così tradurre il suo insegnamento; che vale anche per noi: “Ve lo spiego meglio:
nel piano di Dio, maschio e femmina sono due entità distinte, ma di pari
dignità. Lo scopo del loro incontro è che lascino le loro famiglie, i loro affetti,
le loro sicurezze, per diventare una carne sola. Ma attenzione: non può
esserci unione dei corpi, se non c’è unione delle anime; non c’è unione fisica, se
non c’è l’unione dei cuori. Quindi se la legge vi permette di cacciare le
vostre mogli è solo perché voi - che non le amate, voi che le dominate, che le maltrattate,
che le considerate al pari di un oggetto - rendete la loro vita un autentico inferno.
La legge ve lo permette, è vero, ma non è questo il piano di Dio. Il piano di
Dio è che i due nel matrimonio siano per sempre una “carne sola”, cioè
un’unione di cuori, un’unione di anime, un'unione di vita, di amore, in una reciprocità
(maschio e femmina), in cui nessuno domina, nessuno si sente superiore”.
È
evidente che Gesù si schiera qui in maniera decisa contro quella superiorità maschile,
capricciosa e insensata, che calpestava impunemente i più elementari diritti
delle donne. Egli si scaglia contro lo strapotere dei maschi nei confronti
delle donne; una prepotenza considerata purtroppo naturale, ovvia; era un diritto
acquisito di cui addirittura vantarsi; quando invece divorziare equivaleva abbandonare la donna al suo
destino, privandola di tutto, figli compresi, esponendola ad una vita
miserabile, ad una fine certa.
Gesù
sa che pronunciando queste parole, introduce per quel tempo, una novità rivoluzionaria. Egli cioè riconosce apertamente dignità e diritti alle donne; eleva
cioè la donna allo stesso livello sociale del maschio: incredibile! Forse anche
per questo le donne lo hanno così tanto amato. Con Lui si sentivano considerate,
accettate. In Lui trovavano speranza, fiducia, carità.
Noi pensiamo che situazioni simili siano oggi improponibili, ben lontane dalla nostra civiltà; pensiamo che il pensiero maschilista sia ormai un fatto anacronistico, un fenomeno d’altri tempi, universalmente
superato: ma non è proprio così, fratelli. Non dimentichiamo infatti che
le donne, per esempio nella nostra civilissima Italia, hanno iniziato a votare
soltanto nel secolo scorso! Che la violenza sulle donne, in questa nostra
società del 2000, uccide più del cancro e più degli incidenti stradali. Che un
miliardo di donne, cioè una su tre, sono picchiate o stuprate o mutilate o
assassinate per mano del marito, del fidanzato, di un familiare o di un amico. Che
le donne sottoposte a mutilazioni genitali sono più di 120 milioni. Che in
India, solo nel non lontano 1998, sono state bruciate almeno 6000 donne per
questioni di dote. Che in Russia l’anno successivo ne sono morte 14.000 per
violenza domestica. Che negli Usa viene violentata una donna ogni 90 secondi. Che
sempre in Italia sono 715 mila le donne che hanno dichiarato di aver subito uno
stupro o un tentato stupro, nel corso della loro vita. E allora con che
coraggio andiamo orgogliosi quando parliamo di “pari opportunità” per le donne?
Non è
vero, anche oggi non siamo tutti uguali: aveva ragione George Orwell quando, nel 1984, scriveva:
“Tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”. C’è ancora
chi va fiero di appartenere al “sesso forte”. Ma, se ci pensiamo bene, quanta
insicurezza, quanta debolezza, quanti complessi ci devono essere nella mente di
chi ha bisogno di un simile riconoscimento! Essere considerati “forti”,
superiori! Rispetto a chi? Nessuno è più forte, fratelli; nessuno è migliore degli
altri, tutti siamo mortali, tutti siamo deboli, indifesi, peccatori. Tutti abbiamo
la stessa identica dignità! Quella che ci è stata data da Dio. Perché siamo tutti sue
creature.
A
conferma di tale principio, Gesù rimanda alla Genesi (1,27) dove si dice chiaramente
che «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e
femmina li creò». Entrambi
dunque, maschio e femmina, sono immagine di Dio; entrambi hanno la stessa impronta
divina, la stessa “divinità”. Se poi approfondiamo meglio le parole, notiamo
che in ebraico “uomo” (jsh) e “donna” (jswha) sono due lessemi che concorrono a
formare il tetragramma divino (jhwh): in altre parole, è nell’unione, nella
fusione, di “maschio” e “femmina” che Dio si fa presente. Potrebbe sembrare un
giochetto esegetico, ma se ci pensiamo bene è una intuizione che ci indica come
il matrimonio – unione, fusione, tra uomo e donna - abbia come fondamento Dio stesso. Non per niente la donna è l’altra “vita” del maschio (è questo
il significato di “costola”). L’uomo, per essere pienamente se stesso, per
realizzarsi completamente, deve integrarsi, confrontarsi, diventare un tutt’uno
con l’altra sua “vita”; e così per la donna.
“Essere
uno”, però, non significa “fondersi”, uni-formarsi, nel senso di fare le stesse
cose; l’unione vera è tutt’altro, è “com-unione”, alleanza con l’altro
componente della vita. È compenetrazione di sentimenti, di cuore. Perché solo
così, maschio e femmina, potranno entrambi realizzare e completare la propria vita. Questo è il
progetto di Dio. Ogni elemento è predisposto anche morfologicamente a questa
unione e integrazione. E questo elimina automaticamente qualunque sostituzione
di identità, qualunque confusione di ruolo e di immagine: il maschio deve essere
maschio, la femmina deve essere femmina. Ognuno ha il suo ruolo preciso, secondo le leggi immutabili iscritte
nella natura.
Pensate
per esempio all’educazione dei figli: il papà non può essere la mamma e la
mamma non può essere il papà. È quindi assurdo ipotizzare una
“famiglia” con due “genitori” dello stesso sesso. La donna, nella famiglia, è colei che c’è,
che è presente, che avvolge, che custodisce, che ama, che protegge. L’uomo è invece colui che fa', che costruisce, che ha il compito di mettere il
figlio davanti alle proprie decisioni, alle proprie responsabilità, alla
gestione della propria libertà. Il padre inserisce il figlio nella società e
lo costringe a confrontarsi con gli altri suoi pari; gli insegna le
regole, il confronto, il rispetto per gli altri.
Sono ruoli diversi; richiedono due entità diverse. Ecco perché in casa, in
famiglia, non possono esserci confusioni: né due papà né due mamme; ecco perché
le pretese di riconoscimento legale in questo senso, avanzate oggi anche da molti
cristiani e cattolici, sono puro squilibrio, coercizione della natura, incoscienza,
un “accostamento”, mai una “unione”. Inutile girarci intorno: il papà è il papà
e la mamma è la mamma: nessun surrogato, nessun miscuglio contro natura, perché
la differenza c’è, eccome!
Poi Gesù
pronuncia questa frase solenne, che incute quasi paura: «L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». Che sarebbe: “Questo
è il progetto di Dio, questo è ciò che fin dall’inizio Dio ha pensato per
l’uomo e la donna. Non allontanatevi mai da questo progetto. Non dividete, non
separate, non isolate mai l’amore, la comprensione, la carità, nelle vostre relazioni
di coppia, in quel matrimonio maschio-femmina che Dio ha istituito per voi”.
Gesù praticamente ci rimanda all’essenziale, al significato più profondo del
matrimonio, a come Dio l’ha pensato e voluto. Queste sue parole non sono un rimprovero,
un avvertimento terribile, una minaccia. Vogliono dire semplicemente: “Se
vengono meno le condizioni essenziali, prime, insostituibili, non c’è più “matrimonio”, non c'è più “comunione”.
I due possono stare insieme, condividere una stessa esistenza, essere anche
reciprocamente fedeli, ma la loro unione non è più alimentata da linfa
vitale.
La
fedeltà nel matrimonio non è tanto “non fare” qualcosa. Ridurre la fedeltà a
non tradire l’altro, è banalizzarla. La fedeltà intesa da Dio non è solo uno
“stare insieme”, un non separarsi; non è negativa, proibitiva, coercitiva; ma
al contrario è positiva, concreta, propositiva: significa credere e vivere in
un valore superiore, in un qualcosa di grande, di vivo, di soprannaturale.
Essere fedeli nell’amore è molto più difficile che essere fedeli
nel corpo. Se, per esempio, proviamo nel più profondo dell'anima, sentimenti come questi: “Mi è difficile raccontarti quello che ho dentro, perché mi vergogno; eppure
ti sono fedele. A volte mi è difficile non dare per scontato il mio
amore: non te lo dico, non lo dimostro, me ne dimentico. A volte mi è difficile
fermarmi e guardarti negli occhi e guardare il tuo cuore, ciò che sei dentro. A
volte mi è difficile ascoltarti, soprattutto quando ce l’hai con me, o quando
sono stanco. A volte mi è difficile parlare di certe cose: dei miei e dei
nostri problemi, delle nostre incomprensioni, delle in-attenzioni; preferisco
tralasciare. A volte mi è difficile vincere la pigrizia. A volte mi è difficile
dire di “no” a me, per dire di “sì” a noi. A volte mi è difficile non
pretendere l’impossibile da te o quello che tu non mi puoi dare. A volte mi è
difficile accettare che tu mi dica di “no”. A volte mi è difficile rendermi
conto che non mi sono ancora staccato da mia madre, dopo tanti anni, e che continuo
a confrontarti a lei. A volte mi è difficile parlare di questioni spinose,
sapendo che se sto zitto tu non le saprai mai. A volte mi è difficile sentire
che ti amo e commuovermi per te, perché mi dico che non ho più l’età per certe emozioni.
A volte è difficile non scaricare su di te le tensioni che accumulo altrove. A
volte è difficile arrivare ad un compromesso tra i miei bisogni e i tuoi. A
volte è difficile vedere che tu hai ragione e che io sbaglio. A volte è
difficile accettare che abbiamo bisogno di aiuto reciproco, altrimenti la
fiamma del nostro amore lentamente ma inesorabilmente muore”.
Ecco,
riconoscere queste debolezze, significa “fedeltà”; soprattutto rimediare, mettere in pratica ciò che ci suggerisce il cuore, è onestà
verso di noi e verso l’altro: perché questo è amore. Questo è curare,
alimentare, rendere un rapporto vero, solido, sincero, trasparente, dove ci si
dona e ci si accoglie. Perché non è l’unione e la fedeltà materiale che genera
l’amore, ma è l’amore che genera l’unione.
Un’ultima
riflessione: «Lasciate che i bambini
vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il
regno di Dio».
Dopo
la catechesi sul matrimonio, a Gesù portano dei bambini. Forse è un caso, o
forse no, ma l’aver inserito a questo punto il discorso su di essi, acquista un
significato molto particolare: perché, fratelli miei, quando la simbiosi marito-moglie
si spezza definitivamente, sono sempre i figli, i bambini a subirne le più drammatiche
conseguenze. Checché ne dicano gli esperti, sono i bambini che subiscono in
profondità, un trauma difficilmente superabile: perché – nonostante le mille
assicurazioni, nonostante le dimostrazioni d’affetto, essi comunque si sentono
rifiutati, messi da parte, tagliati via, estirpati dal loro habitat naturale
che è la famiglia.
I
bambini, ci fa capire qui Gesù, sono infatti l’immagine emblematica della fiducia,
della speranza, del bisogno di accoglienza, del potersi abbandonare tra quelle braccia
che offrono attenzioni incondizionate, sicurezza, tranquillità, amore vero. Ecco
perché per essere accolti da Lui dobbiamo essere bambini: è questo che vuole Gesù;
e lo vuole per tutti: anche per noi adulti, ormai scettici, provati dalla vita,
sofferenti, stanchi, delusi. Dobbiamo accogliere questo suo invito,
per poterci sentire nuovamente accolti tra le sue braccia, protetti,
amati, al sicuro. Con Lui non c’è da aver paura, non c’è da temere; con Lui siamo
a casa, non abbiamo da dimostrare nulla, perché siamo accettati per quello che
siamo.
E noi
lo sappiamo questo; lo sentiamo, lo percepiamo distintamente soprattutto quando
ci rivolgiamo a Lui nella preghiera, nel silenzio, nella meditazione. È allora
che avvertiamo il nulla che siamo, tutta la nostra debolezza, la nostra fragilità;
è allora che ci rendiamo conto di essere, in fondo al nostro cuore, dei perenni
bambini, impacciati e sprovveduti; è allora che sentiamo con commozione di aver
bisogno del calore delle sue braccia; è allora che, con sincero sgomento, ci rendiamo
conto che il bilancio della nostra esistenza è fallimentare; una esistenza la
nostra, troppo spesso sorda e insensibile ai suoi continui richiami d’amore.
Ce ne
rendiamo conto: Lui, anche ora, è sempre lì, con le sue braccia spalancate, e
ci aspetta. Braccia che danno Vita, le sue; braccia che proteggono, che danno
sicurezza, che allontanano ogni pericolo, ogni male, ogni nemico, braccia sempre
pronte a sorreggere, a rialzare dopo le cadute, braccia tra le quali è
possibile finalmente ritrovare la pace, l’Amore eterno. Ridiventiamo dunque
bambini, fratelli, e corriamo tra quelle braccia. Amen.
«Maestro, abbiamo visto uno che
scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva… Non
glielo impedite, perché… chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi
darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in
verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa»( Mc 9,38-43.45.47-48).
Per
inquadrare bene le proteste che Giovanni rivolge a Gesù, anche per conto degli
altri discepoli, dobbiamo fare un passo indietro rispetto al testo del vangelo
di oggi: solo qualche giorno prima, infatti, proprio loro, i discepoli più
vicini a Gesù, non sono riusciti a scacciare il demonio da un ragazzino.
Figuriamoci come ci rimangono quando si accorgono che un tizio qualunque, uno
che non è neppure dei loro, ci riesce, eccome! Capite? Cosa non fa la gelosia!
Cosa non fa pensare l’invidia: “ Ma come, noi che siamo suoi discepoli, i “chiamati”,
gli “addetti ai lavori”, non ci siamo riusciti; e questo qui, che nessuno sa
chi sia, che neppure segue Gesù alla lontana, invece sì; il minimo che possiamo
fare è di farlo smettere!” Giovanni e gli altri sono ancora fuori dalla logica
del “servizio”, sono ancora succubi della mentalità del settarismo, che
pretendeva il monopolio della salvezza.
Esattamente
come ci comportiamo anche noi, oggi, dopo oltre duemila anni: Non vi sembra di riascoltare
le nostre petulanti lamentele? “Ma come, noi andiamo sempre in chiesa, ci
sforziamo di osservare le leggi di Dio, non rubiamo, non uccidiamo, eppure
siamo considerati come tutti gli altri; anzi Dio ci ama allo stesso modo di quelli
che ne combinano di tutti i colori! Non è giusto!”.
Ebbene,
fratelli, questo vangelo mette veramente in crisi il nostro modo di pensare.
Un
modo di pensare che ci poneva al di sopra degli altri: lungo i secoli infatti, la
chiesa ha finito col sentirsi un po’ come l’arca di Noè: fuori di lei non vi
era possibilità di salvezza. Soltanto chi vi faceva parte, chi era cioè dentro la
chiesa, aveva la possibilità di salvarsi. Soltanto chi era battezzato. Ci
sentivamo un po’ onnipotenti, molto esclusivisti. E in proposito si citava il
vangelo: “Chi non è con me è contro di
me”. Parole sacrosante: ma altrettanto sacrosante sono quelle di oggi: “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40)
con cui Gesù, in sostanza, ci mette in guardia dal lanciare giudizi
preconcetti, proprio perché un conto sono quelli che combattono, che sono ostili,
che si schierano decisamente contro il Maestro, e un altro quelli che non fanno
nulla di tutto questo, anzi che lo ammirano pur non appartenendo apertamente al
“gruppo” dei discepoli.
L’appartenenza
ad una “élite” esclusiva, non deve mai condizionare i criteri di giudizio. Dio
non è questione di appartenenza, ma di spirito, di anima, di amore. Gesù
abolisce decisamente il criterio: “Non è dei nostri”. Non è dei nostri, e allora?
Gesù non guarda “con chi”; non ci chiederà mai a quale associazione
apparteniamo, in quale movimento carismatico siamo impegnati; bensì cosa facciamo
di buono per gli altri, come siamo dentro, nella nostra anima; con quanta
carità trattiamo i nostri fratelli. Gesù non ha mai chiesto: “Tu sei dei miei? Sei
cristiano? Da dove vieni? Di che nazionalità sei? Se non sei “dei nostri”, vattene,
fuori, via. Sei un infiltrato maledetto!”. Al contrario non si stancava di
insegnare: “Fa il bene, ama, sii disponibile, sii accogliente, ascolta, e Dio è
sicuramente in te: tu sei benedetto”.
Quanto
lontani siamo ancora da Gesù, fratelli miei: pensiamo solo per un attimo a cosa
succede oggi intorno a noi: la corruzione dilaga, non esiste più la verità, non
esiste più l’ascolto, il rispetto. Esiste solo l’egoismo, la corsa al potere, la
faziosità, il preconcetto assoluto. Se chi parla appartiene ad uno schieramento
diverso dal nostro, qualunque cosa dica, non ci va bene. Non ci interessa neppure
sapere cos’ha da dire: ci basta sapere che è dell’altra corrente, che non è “dei
nostri”. Viceversa se qualcuno della “nostra parte” delinque, ne combina
qualcuna di veramente grossa, non ci tocca più di tanto, lo difenderemo sempre
e dovunque ad oltranza, perché “è dei nostri”. Ma questa, fratelli, è legittimazione
della falsità, del crimine, della delinquenza. E di esempi ne conosciamo a
migliaia! Le pagine di cronaca di questi giorni ce ne offrono un triste e
desolante florilegio.
È vero
che l’attaccamento al proprio clan è un retaggio tribale; fondamentale, al pari
dell’unione che si crea tra una madre e i suoi figli. Se una madre non sentisse
come “suo” il figlio, il figlio non potrebbe sopravvivere. Solo se sentono “propria”
la loro creatura, una madre e un padre affronteranno coraggiosamente ogni
difficoltà e controversia per difenderlo da ogni pericolo. E in questo modo il
piccolo si sentirà di appartenere a quella famiglia, si sentirà in qualche modo
inserito nell’autorevole “proprietà” dei genitori. L’istinto di possesso, di
attaccamento, di appartenenza è sicuramente fondamentale per la vita; senza di
esso non ci sarebbe vita. Ma poi arriva il momento in cui ci viene chiesto di
crescere. E sarà l’individuo che deciderà a quale gruppo, a quale famiglia, a
quale comunità aggregarsi.
Gesù
dice: “Anche se non è dei nostri, ma fa le nostre stesse cose, agisce cioè come
noi, è comunque dei nostri”. Non apparterà fisicamente al nostro gruppo ma ha lo
stesso nostro spirito. È comunque spiritualmente “uno” con noi; “Dio” e “Spirito”,
in effetti, sono Uno.
Si
può, allora, essere uniti a Gesù pur non appartenendo alla comunità dei
discepoli.
Dio è
anche fuori. Dio è anche negli altri, tanto quanto in me. Dio è anche in chi
non si definisce cristiano. Il Bene è anche fuori della chiesa. Chiunque fa il
bene viene da Dio: “Chiunque vi darà da
bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa” (9,41).
Non esiste
un unico modo di vivere. Non esiste un unico sistema per essere religiosi, né
per salvarsi, né per arrivare a Dio. Esistono molte vie. Ciò che conta non è se
le persone “sono come noi” ma se trasudano di verità, di sincera ricerca di Dio,
di amore. Se sono così, anche se non si fregiano del nome, sono comunque “cristiane”.
“Il vento soffia dove vuole e
ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato
dallo spirito” (Gv 3,8).
Dio è più grande dei nostri schemi e delle nostre regole. Dio fa sorgere
cristiani anche fra i non cristiani. S. Tomaso diceva: “Da qualunque parte
venga, la verità è originata dallo spirito”. Dovunque c’è il bene; dovunque c’è
qualcuno che ama; dovunque c’è un’anima grande e uno spirito profondo e onesto,
lì immancabilmente c’è Dio.
“Ovunque
tu incontri la verità – affermava Erasmo da Rotterdam - considerala sempre cristiana”.
Troppo
spesso succede invece che noi ci comportiamo come dei bambini capricciosi: solo
quello che facciamo noi va bene; solo come lo facciamo noi è fatto bene; solo
il nostro pensiero è quello valido; solo il nostro Dio è vero. Solo noi, solo
io, solo così, ecc. Il nostro punto di vista è soltanto la vista da un solo punto!
Eppure
non è detto che le vedute degli altri siano tutte sbagliate; a volte semplicemente
non sono come le nostre. Ecco perché dobbiamo innanzitutto ascoltare tutti,
capirli, avvicinarci con rispetto e confrontarci. La religione (etimologicamente
“legare insieme strettamente”) dovrebbe aiutarci proprio a questo: a legare
insieme tutte le esperienze di vita, a trovare ciò che abbiamo in comune, a
trovare ponti,collegamenti, riferimenti, a illuminarci su ciò che ci unisce e su
ciò che ci divide, per farci finalmente incontrare.
Dobbiamo
imparare a dire: “Non è migliore o peggiore di noi; è solo diverso”. Dobbiamo arrivare
a pensare che le stesse cose possono essere fatte in molti modi e in modi completamente
diversi dai nostri. La vita, la giornata, il lavoro, l’educazione dei figli,
l’impostazione della vita, sono tutte cose che possono essere concepite in
molti modi. E non è detto che un modo sia migliore o peggiore dell’altro; che
uno sia giusto o sbagliato; che uno sia buono e uno cattivo. È un modo semplicemente
diverso.
Poi il
vangelo parla dello scandalo, di essere – come dice altrove – una pietra d’inciampo.
Lo scandalo è come quel sassolino che entra nella scarpa e ci impedisce di
camminare. “Scandalo” per il vangelo non è tanto qualcosa che ha a che fare con
il sesso; è tutto ciò che non ci fa vivere, che ci soffoca, che ci impedisce di
procedere nel nostro cammino.
E Marco
qui riporta alcune situazioni estreme, riservate a ciò che è causa di scandalo:
esempi molto semplici e chiari che comunque non vanno presi alla lettera, ma
capiti nel loro senso profondo. Vogliono dire: “Se c’è qualcosa che ti fa male,
che ti impedisce di continuare il tuo cammino di vita, che non ti fa libero,
che ti paralizza, che ti blocca, è meglio per te toglierlo, tagliarlo,
eliminarlo, anche se ciò ti è difficile e doloroso”.
Sono
indicazioni, quelle di Gesù, che mettono comunque l’accento sulle caratteristiche che devono contraddistinguere le nostre scelte:
1. La
scelta comporta un “taglio”; bisogna cioè cambiare rotta, modificare,
recidere nettamente per neutralizzare ciò che ci fa male; da qui nasce l’importanza del discernimento, dell’esame
personale, del chiarire con grande onestà intellettuale che cosa vogliamo in
realtà, se quello che vogliamo è veramente un bene per noi.
2. La
scelta è dolorosa; certe decisioni non sono certo facili, non si fanno a cuor
leggero; ci possono far soffrire al punto da maledirci per averle prese. Esperienza
insegna che le scelte indolori non sono importanti, fondamentali, non sono
essenziali e di assoluta necessità per poter conseguire un risultato certo. Sono
normalmente dei palliativi. Le scelte vitali straziano invece il cuore e l’anima.
3. La
scelta è radicale. Non si può transigere. Non si può giocare. Quando bisogna
operare, incidere, bisogna farlo. Senza anestesia. Non è bello, non è
piacevole, anzi è maledettamente doloroso. Ma è vitale. Bisogna essere
risoluti, decisi e fermi, altrimenti si muore. «Meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con
due occhi essere gettato nella Geenna…». “Chi ha orecchi da intendere,
intenda”. Amen.
Insegnava infatti ai suoi
discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli
uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà... Chi
accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,30-37).
Gesù è
stato un uomo che durante tutta la sua vita aveva ben presente l’idea della
morte; in particolare la” sua” di morte: un evento drammatico, l'estrema
dimostrazione del suo amore per l’umanità. Nel Vangelo di Marco, per ben tre
volte, Egli torna esplicitamente sulla tragica conclusione della sua vita
terrena, introducendo comunque la visione della sua vittoria finale sulla morte stessa. E
puntualmente i discepoli reagiscono in maniera ottusa, dimostrando di non aver
capito nulla: domenica scorsa Pietro si preoccupava di rimproverare Gesù,
insegnandogli a fare il messia; oggi i discepoli discutono tra loro su chi sia il
più grande; al terzo annuncio, Giacomo e Giovanni si avvicineranno a Gesù e gli
chiederanno una cosa incredibile: “Di stare uno alla destra e uno alla sinistra
nel suo regno”. Poveretti, sono ancora lontani anni luce dallo stravolgimento
della loro vita e delle loro idee per opera dello Spirito, per cui ogni volta danno
prova della loro impossibilità di capire e di immedesimarsi nelle parole di Gesù.
Purtroppo
quello della morte è un discorso che anche noi non amiamo molto; cerchiamo in
tutti i modi di evitarlo; è tabù. Eppure verrà un giorno in cui non ci saremo
più; un giorno in cui dovremo abbandonare i nostri cari, il lavoro, le nostre attività, le
nostre passioni, le cose più care; saremo costretti a fare un salto nel vuoto, verso
l’ignoto, assolutamente da soli.
Per questo la morte ci crea angoscia. Molte persone credono di risolvere il
problema non pensandoci: si ubriacano di presente, per non pensare al futuro
inesorabile. Ma anche così non funziona. Questo continuo lavorare, questo
continuo affannarsi per tutto e per niente, questo continuo aggrapparsi in ogni
cosa all’attimo fuggente è il loro inefficace antidoto contro la paura della
morte.
Possiamo
ricorrere ad ogni mezzo per non pensare, ma questo non cambia la realtà. Perché
questa è la vita, la “nostra” vita, che deve fare i conti con una indiscutibile
realtà: “Tu ora vivi ma prima o poi morirai”.
La
morte purtroppo è angosciante, è una realtà che non vorremmo esistesse, ma c’è!
E non possiamo vivere senza confrontarci con essa. Dobbiamo essere consapevoli
che vivere giorno dopo giorno è avvicinarci alla fine, è un po’ come morire a
piccoli passi. Il celebre psicologo Carl Gustav Jung diceva: “Un uomo che non
si ponga seriamente il problema della morte, e non ne avverte il dramma, è un
uomo che ha bisogno di essere curato”.
Un
confronto profondo e onesto con la morte ci farà vivere in maniera più intensa,
più vera: è un confronto che sviluppa in noi la saggezza del vivere. Il
filosofo Montaigne diceva: “Insegnando all’uomo che deve morire, gli si insegna
soprattutto a vivere”.
Viviamo
dunque l’essenziale: che senso hanno infatti tutte le nostre “paranoie”, le nostre
“fisime”, dal momento che dobbiamo morire?”. Lavoriamo e diamoci da fare. Ma
ricordiamoci sempre che un giorno “lasceremo qui tutto!”. Evitiamo allora,
fratelli, di vivere solo per lavorare, perché è da stupidi. Accumulare denaro e
ricchezze per il piacere di possedere, è l’atto più insensato che un uomo possa
fare: che senso ha? Non porterai nulla con te dopo la morte. Lavoriamo invece per
vivere onestamente e dignitosamente.
Se
oggi fosse l’ultimo giorno della nostra vita, cosa faremmo? Forse che sistemeremmo
la casa? Puliremmo il bagno? Ci preoccuperemmo dei nostri soldi in banca? O
cercheremmo piuttosto di stare con le persone che amiamo? Di gustare fino in
fondo le ultime ore, apprezzando ogni singolo minuto di vita?
Dobbiamo
pertanto individuare quelle che sono le cose essenziali nella nostra vita, e
tenerle sempre presenti ogni giorno e ogni ora.
Sulla
tomba di Alessandro Magno fu scritto: “Questa piccola fossa basta ora all’uomo
cui non bastava il mondo intero”. Di fronte a certe ambizioni, a certe
competizioni irrefrenabili, a certi orgogli, viene proprio da ridere. La morte
è la “grande livella”, come scrisse il comico Totò, che rende tutti uguali, che
tocca a tutti, ricchi e potenti, poveri e inermi.
Viviamo
oggi le piccole cose che rendono felice la nostra vita. Se non lo facciamo oggi,
domani forse non lo potremo più fare. Chi vive intensamente tutte le emozioni
del suo cuore non teme di morire. È solo chi è sterile, chi conduce una vita
arida e inutile che ha paura di morire, che non vuole morire. Ed è ovvio: perché
la morte gli preclude qualunque possibilità di cambiare. Ecco perché, fratelli,
tutto quello che dobbiamo fare, lo dobbiamo fare oggi: il tempo passa, meglio
non sprecarlo.
Sistemiamo
oggi tutte le questioni che abbiamo in sospeso, domani potrebbe essere tardi. Diciamo
oggi ai nostri figli quanto siano preziosi per noi e quanto sia bella la loro
presenza, cosa sarebbe la nostra vita senza di loro. E ringraziamoli per tutto
ciò che ci hanno dato, soprattutto per la felicità che hanno portato nel nostro
cuore e nella nostra casa. E non ci importa nulla se a volte è stato faticoso!
Diciamo oggi al nostro sposo, alla nostra sposa: “Ti amo. A volte non lo faccio
capire, ma ti amo tanto”. Diciamo oggi ai nostri amici, ai nostri fratelli, a
quelle persone che ci sono vicine, che sono state importanti per noi, che ci
hanno in qualche modo aiutato a crescere: “Grazie: perché tu hai contato molto
nella mia vita”. Cosa aspettiamo? Aspettiamo di non avere più tempo? La vita
passa.
Cominciamo
a vivere per qualcosa che abbia veramente senso. Ma facciamolo in fretta,
facciamolo già da oggi, perché il tempo a disposizione è limitato. E allora più
che preoccuparci di “quanto” dobbiamo vivere, preoccupiamoci di “come” dobbiamo
vivere! Vivere tanto per vivere, senza pensare il fine per cui si vive, significa
sprecare inutilmente il dono del tempo che ci è concesso.
Se i nostri
giorni finiscono, dobbiamo trovare un significato profondo da dare alla nostra vita.
La nostra vita deve essere un dono da lasciare ai nostri cari, ai nostri fratelli.
Se siamo un frutto che nessuno vuol mangiare, allora non serviamo a nulla;
allora vivere o non vivere è la stessa cosa. Dobbiamo essere invece un frutto appetibile
e gustoso, che altri potranno mangiare; e allora ci sentiremo utili, importanti,
necessari. Allora anche se moriamo, non moriremo invano.
Vale
la pena di osare, fratelli. Salire sulla barca della nostra vita e dire: “Duc in altum, Prendi il largo”. Poter dire al termine della vita, con Paolo: “Bonum certamen certavi, cursum consummavi,
fidem servavi. Ho combattuto la buona
battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (2Tm 4,7)”. In
altre parole potremo dire: “Ho vissuto”.
Allora
non avremo rammarichi per quello che avremmo potuto fare ma che non abbiamo
fatto, per quello che avremmo potuto essere ma che non abbiamo neppure provato
a diventare, per quello che avremmo potuto realizzare ma che, per paura, non
abbiamo fatto. Non lasciamoci condizionare dal rischio di sbagliare, di morire,
di essere deriso o giudicato; pensiamoci bene: non è forse maggiore il rischio di
non vivere? E non è forse vero che chi non vive, è già morto dentro?.
Dio ci
ha fatto un dono preziosissimo: la vita. Non ci ha chiesto di preservarla, né
di salvarcela (lo fa Lui!). Ci ha chiesto solo di viverla, di non sottrarci
alle sfide e alle avventure che incontreremo: “Sei un essere vivente, vivi!”.
Quante
persone per paura di sbagliare lavoro, di innamorarsi, di perdere
l’approvazione della gente, di fare una cosa e poi accorgersi che si era
sbagliato, di perdere il controllo, di rimettersi in gioco, non hanno vissuto,
non ci hanno mai provato.
Ricordate
la parabola dell’uomo con un solo talento (Mt
25,14-30)? Il padrone lo punisce perché non ci ha provato. Ha avuto paura e
l’ha nascosto (si è nascosto). Al padrone non avrebbe importato se l’avesse
perso, perché l’importante era che ci avesse almeno provato.
Abbandoniamoci
e abbiamo fiducia. La morte è incontrollabile. Siamo impotenti, deboli,
vulnerabili. È una lotta impari: vince sempre lei. Allora dobbiamo imparare a
fidarci. Dobbiamo imparare che non possiamo controllare tutto; che non possiamo
gestire tutto; dobbiamo fidarci senza avere garanzie, non possiamo avere
certezze o assicurazioni. Dobbiamo solo fidarci.
Penso
che ogni uomo, sul punto di nascere, abbia detto tra sé: “Oddio che sta
succedendo? Dove sto andando? No, no, no, non voglio uscire da qui, non voglio
lasciare questo mondo, sto così bene qui dentro! Fuori è la fine!”. E invece
no, fratelli miei: fuori era non la fine ma l’inizio della vita. Ci fidiamo e
sentiamo che sarà così.
Ma
torniamo al nostro vangelo di oggi. Dunque: mentre Gesù sta parlando della sua
morte – e capite che angoscia doveva avere dentro – che fanno i suoi amici, i
discepoli? Discutono su chi fra di loro potrà sedersi nel Regno al posto d’onore,
su chi sarà il più grande, il migliore.
A
questo punto a Gesù cadono le braccia, si deve sedere; deve cioè interrompere il
suo cammino, il suo andare, perché i suoi discepoli, pur seguendolo, di strada
ne hanno fatta ben poca; sono ancora molto indietro e belli fermi. E deve spiegare
loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”.
Poi prende un bambino e lo abbraccia: “Quando accoglierete un bambino,
accoglierete me e mio Padre”.
Il
bambino (dobbiamo calarci nel contesto culturale di quel tempo), non aveva
nessun diritto. Il bambino era l’ultimo di tutti. Dietro ad un bambino non
c’era nessuno. Non aveva potere, non poteva parlare, non poteva dire la sua,
doveva solo ubbidire. Il bambino era l’ultimo in assoluto.
Allora:
“se tu accogli un bambino”, che è l’ultimo, tu accogli tutti (gli altri che
stanno più avanti). Se tu sei l’ultimo (così come il servo è a servizio di
tutti) non sei superiore a nessuno, non ti metti più al di sopra di qualcuno,
non ti ritieni di più o migliore di nessun altro: sei l’ultimo. Ma essere gli
ultimi non vuol dire sentirsi inferiori, né rifiutarsi, né denigrarsi o
disprezzarsi, né essere quelle persone servizievoli che si umiliano per gli
altri e che si ritengono indegni di tutto. Gesù era l’ultimo, ma non era
inferiore a nessuno. Essere ultimi vuol semplicemente dire avere rispetto per
tutti cioè non sentirsi superiori, avanti a nessuno.
I
discepoli per il fatto di essere famosi, conosciuti, o anche semplicemente
vicini a Gesù (e Gesù era molto famoso!) si considerano più dei altri,
superiori agli altri. Essi cercano cioè lo stesso potere del loro “padrone”.
Il padrone (dominus: signore, padrone, proprietario) domina. Il padrone (dominus)
gestisce, controlla, dispone, perché si sente di più, superiore agli altri, che
considera chiaramente inferiori. Il padrone si sente legittimato a umiliare, a
decidere per gli altri, a stabilire, a condurre, ecc. In quanto padrone, decide
lui, perché lui si sente “di più”.
Ma noi
non dobbiamo essere di questi padroni: dobbiamo essere servi perché nessuno ci
è inferiore (né superiore). Il servo è colui che rispetta tutti, che lascia
liberi, che non vuole gestire gli altri per i propri interessi. Il servo non è
colui che si umilia, ma colui che si può chinare su tutti perché non si sente
superiore a loro.
Noi tutti
siamo in qualche modo padroni: abbiamo cioè il potere di gestire, di dominare
sugli altri. Dobbiamo quindi stare molto attenti quando esercitiamo questo
potere. Pensate al potere che hanno i genitori con i propri figli; di un capo
con i suoi operai; di un dirigente con i suoi dipendenti.
Ci
sono persone che si sentono autorizzate di infierire sugli altri, fanno fare
loro quello che vogliono: sono dei padroni e non dei servi. Ogni volta che noi anche
solo iniettiamo un senso di colpa nell’altro, stiamo facendo una mossa subdola
e malevola: stiamo tentando di prenderci in maniera oscura e nascosta ciò che
non riusciamo a prenderci in maniera chiara e trasparente.
L’amore
non ha bisogno di dominare, perché dominare è possedere. Se abbiamo bisogno di
mettere in rilievo la nostra superiorità, vuol dire che stiamo nascondendo la nostra
inferiorità e che la camuffiamo con il bisogno di superiorità. Quando facciamo
pesare e “notare” agli altri quello che abbiamo fatto per loro, stiamo tentando
di dominarli. Cerchiamo di gestirli, di aver potere su di loro.
Quanta
gente incontriamo che “se la tirano”, fanno i preziosi, non ci danno mai una
risposta o devono essere pregati per darci una mano? Quante persone ci fanno
notare che loro “hanno”, che “sono laureate”, che possono permettersi questo e
quell’altro: sono tentativi di dimostrare la loro superiorità facendoci notare
la nostra inferiorità. Sono padroni. Si domina anche facendo notare sempre all’altro
i suoi difetti, i suoi sbagli e i suoi limiti. Così facendo lo si tratta sempre
da inferiore, da incapace.
E allora
concludo: il nostro comportamento è da “signore”, o siamo dei “signori”? Abbiamo rispetto per tutti,
o ci sentiamo “più” degli altri? Siamo come il Signore che non gestiva nessuno, che
non chiedeva niente a nessuno, che non accampava diritti, o siamo signori,
padroni, che vogliono, pretendono, decidono per gli altri, li manipolano?
Dunque: Signore o signori? Amare o possedere? Riflettiamo. Amen.
«Gesù partì con i suoi
discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada
interrogava i suoi discepoli dicendo: La gente, chi dice che io sia? […] E
Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo» (Mc 8,27-35).
Gesù sta
andando verso Cesarea di Filippo e strada facendo parla con i suoi discepoli.
Del
più e del meno. Sa di essere qualcuno per la gente; sa di essere sulla bocca
delle persone; sa che si parla di lui; ed è naturale quindi che il discorso
cada anche su questo, sull’opinione cioè che la gente ha di lui, chi dicono che
egli sia. Ognuno riferisce il sentito dire: qualcuno dice Giovanni il Battista,
chi Elia, chi un altro profeta. Ma Gesù non si accontenta e riformula la richiesta:
Ma “voi chi dite che io sia?”. Bella domanda. Anche per noi. Tu che leggi, cosa
dici? Chi è Gesù per te?
Nella
vita arriva un momento in cui tutto ciò che abbiamo imparato, che sappiamo, che conosciamo, non
conta più nulla; l’unica cosa che conta è una nostra risposta. Risposta che nessuno
può dare al posto nostro.
Nelle
questioni essenziali della vita siamo sempre soli, soli con noi stessi e con le
nostre decisioni prese o rimandate. Nelle questioni essenziali non conta più
niente ciò che ci circonda, ciò che fanno o non fanno gli altri: la domanda inevitabile
e improrogabile è rivolta solo a noi e la risposta che conta è solo quella nostra.
L’episodio
evangelico di oggi segna una svolta decisiva, un momento cruciale nel vangelo
di Marco: Gesù capisce che è arrivato il momento di lasciare tutto e di andare
a Gerusalemme; Egli sa bene che laggiù non può contare né sui capi religiosi,
né sull’appoggio della gente; e neppure su quello degli apostoli. Quello che lo
attende a Gerusalemme è una questione sua, solo sua.
Pietro
però comincia proprio qui a capire chi Lui sia veramente. E decide di buttarsi
per Lui. Egli improvvisamente percepisce, sente che lì, al suo fianco, c’è la Vita,
c’è l’ebbrezza della Vita, c’è il sapore della Vita, e si butta a capofitto, anima
e cuore. Da questo momento in poi, pur facendo errori non da poco (lo rinnegherà
per ben tre volte!) Pietro non tornerà più indietro su questa decisione. Ha trovato
la Vita: come può lasciarla?
Ma
veniamo a noi; tocca anche a noi rispondere, fratelli, con altrettanta
franchezza e onestà; chiediamoci ancora: “Ma io cosa provo per te, Signore? Chi
sei tu per me? Quanto sei importante nella mia vita? Quanto sono disposto a
giocarmi per Te?”.
Pietro
non ha avuto esitazioni: “Tu sei il Cristo!”; “Tu sei per me la vita, la luce,
la sicurezza, la via, il faro, il mettermi in gioco, la verità; tu sei qualcosa
che mi ha cambiato la vita, che l’ha resa diversa, piena, intensa, pericolosa”.
Ma noi?
Gesù a
questo punto ordina ai suoi il silenzio; raccomanda “severamente” di non parlarne
con nessuno, di non farne parola con altri. Perché questa raccomandazione? Perché
sono risposte private, che riguardano solo Lui e noi, non si possono buttare in
pasto alle chiacchiere della gente: sono strettamente personali, ciascuno le
deve rispondere per sé. Ciascuno deve scoprire dentro di sé chi è per lui il
Cristo. Ciascuno deve trovare da sé la propria risposta.
Nel
nostro cammino di apostoli, sapere che Gesù è stato l’amore di tutti i santi,
non ci fa avanzare neppure di un millimetro; tocca solo a noi dare spazio alla
passione che dorme dentro di noi. Sapere che Gesù è stato la fiamma che ha
incendiato il cuore di tutti i mistici, non ci serve a nulla se anche noi non ci
lasciamo contagiare da quel fuoco, se non lasciamo bruciare dentro di noi
quella fiamma!
Questo
è il punto. Pure Pietro non si limita alle belle parole, a fare una bella professione di fede, ma prende una importantissima decisione: economicamente non
stava certo male (aveva una famiglia, le sue barche, i suoi garzoni); ma ora decide di lasciare il sicuro, di lasciare le certezze, per un ideale, per quello che Gesù
gli offre. E quindi rischia tutto.
È il
momento che prima o poi arriva puntualmente anche per noi, fratelli: anche noi,
quando avremo trovato la Vita, colui che ci riempie l’anima, dobbiamo
deciderci. Dobbiamo seguirlo, dobbiamo abbandonare i nostri dubbi, le nostre
paure. Deciderci. E andare.
“Decidere”
significa indirizzare le nostre energie e le nostre scelte verso un obiettivo; vuol
dire “tagliare, tagliare via, far accadere” (dal latino de-caedo). “Decidere” è fare un taglio netto: una volta fatto, non
si può più tornare indietro. Sono le decisioni che ci guidano, che determinano le
svolte alla nostra vita. Le nostre decisioni trasformano il caso in destino. È
con il nostro decidere che iniziamo a costruire la nostra vita. Perché quando
decidiamo, scegliamo di seguire solo una strada. Quando invece non decidiamo,
non ne scegliamo nessuna; anzi, peggio, ci facciamo andar bene quella che altri
hanno scelto per noi; e poi, anche il non voler decidere è pur sempre una
decisione; discutibile, ma una decisione.
“Decidersi”
implica sempre una rinuncia. È la rinuncia consapevole di chi sa che non può
fare tutto, e quindi rinuncia a ciò che potrebbe fare di non importante, vitale,
e sceglie ciò che per lui è fondamentale, ciò per cui merita veramente di
vivere.
Quanta
gente si lamenta della sua situazione, fratelli miei: ma chi si lamenta, lo fa
perché non ha deciso. Non vuole o non sa decidersi. La nostra vita non ci va
bene? Cambiamola! “Ma è difficile! È impegnativo, pieno di imprevisti, di
pericoli!”: e allora stiamo come stiamo, ma smettiamola, non lamentiamoci, non
facciamoci compatire.
Desiderare
di cambiare non vuol dire volerlo: una preferenza, un desiderio, non è una
decisione. Decidersi è scegliere e agire in quel senso. Senza ripensamenti.
Le
grandi decisioni nascono dentro: “Come voglio vivere? A che livello, a che
profondità? Voglio o no faticare per finalmente trovarmi e andare avanti? E
poi, soprattutto, quanto lo voglio? Quanto sono disposto a lottare, a soffrire,
a cercare? Quanto lo voglio?”.
È la
risposta a queste domande, fratelli, che genera le decisioni, nascoste e
invisibili, ma che cambiano la nostra vita e ne determinano la qualità.
Anche
Gesù fa la sua scelta: sceglie “Dio”. E decide di andare a Gerusalemme. Eppure
sa che questa decisione comporterà pericolo, lotta, scontro e, perfino, la
morte. Lo sa, e lo dice anche chiaro chiaro ai suoi discepoli.
Ma
essi non capiscono ancora. Di fronte alle sue parole, Pietro quasi lo
rimprovera. Egli ha altre idee su Gesù. Ha intravvisto la sua divinità, la sua
messianicità. Gli dice: “No Signore. Abbiamo tanto successo qui, tanta gente ti
segue, sei amato da molti. Perché rischiare così tanto? Se tu muori finirà
tutto: che senso ha che tu vada a morire?”. Ma Gesù lo zittisce seccamente:
“Via da me satana. Questi sono i tuoi calcoli ma non quelli di Dio. Io devo
rimanere fedele a me stesso. È vero, potrei guarire tantissima gente, vivere ancora
per tanti anni, essere utile a tante persone. Ma a che serve tutto questo se
non sono fedele alla mia missione, a ciò che ho dentro? A che serve tutto
questo se tradisco ciò che sono, la mia strada, il mio mandato?”. E nel versetto
successivo (che oggi non leggiamo) spiega meglio: “ A che serve all’uomo guadagnare
il mondo intero se poi perde la propria anima?” (8,36). Già; a che serve?
A che
serve voler “salvare”, cioè fermare, cristallizzare, immobilizzare la vita, quando
così facendo la perdiamo? È la legge della vita, fratelli. Se non vogliamo
cambiare, se non vogliamo crescere, se non vogliamo svilupparci, automaticamente
moriamo. Se non vogliamo ascoltare le esigenze profonde, le chiamate della Vita,
abbandoniamo la Vita, ci stacchiamo dalla Sorgente della Vita, ci perdiamo,
moriamo.
La
vita non si può fermare. Non ci possiamo attaccare né alle relazioni umane né
alle grandi idee, ai grandi progetti. Chi vuol seguire Gesù, deve dire
semplicemente “no” a quell’atteggiamento naturale dell’uomo che vorrebbe
fermare le cose; chi vuol seguire Gesù deve invece muoversi, librarsi in alto, mettere
in gioco le proprie idee, le proprie convinzioni, e seguire il Signore della
Vita là dove vuole portarci.
Dobbiamo
cambiare mentalità, fratelli. Una mamma rimprovera il suo bambino: “Lo sapevi
che quando hai rubato i biscotti dalla dispensa, Gesù ti vedeva?”. “Sì”,
risponde lui. “E cosa pensi che ti stesse dicendo?”. “Visto che non c’è
nessuno, prendine un po’ anche per me!”.
Ecco,
dobbiamo fare come quel bimbo: dobbiamo essere creativi, pieni di iniziative,
dobbiamo cambiare prospettive, cambiare idee, non possiamo rimanere attaccati
sempre alle convinzioni degli altri! Dobbiamo essere critici, aperti e onesti con
noi stessi.
La linfa
vitale scorre continuamente, va e viene, è Vita; ma nel momento stesso in cui noi
blocchiamo questo scorrere, iniziamo irrimediabilmente a scivolare verso la morte.
Non possiamo bere acqua putrida, ristagnante; solo l’acqua che scorre, viva e zampillante, è in grado di dissetarci. Amen.
«… E subito gli si aprirono gli
orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò
loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano
e, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa
parlare i muti!» (Mc 7,31-37).
Dopo
aver constato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei
confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica, Gesù
volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende
farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente
libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione
sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti
del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo
seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce,
non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha
dentro di sé. Di fronte pertanto ai meschini attacchi degli “eletti”, Gesù cambia
territorio, e va in terra pagana, a Tiro e Sidone.
E
proprio qui, non tra gli eletti ebrei, Egli incontra una fede esemplare. Un fenomeno
abbastanza usuale anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e
profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: la
religione infatti può essere seguita anche solo attraverso pratiche di pietà
esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore; la fede no: la
fede è la convinzione interiore e profonda che guida il nostro agire, determina
le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo
nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore
che pulsa e scorre nelle nostre vene.
E dunque
qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima
guarisce la figlia di una donna “siro-fenicia”, quindi pagana, non di origine
ebraica; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la
parola al sordomuto, come ci racconta oggi Marco.
Un
sordomuto è dunque oggi il beneficiario della bontà divina. In che modo
possiamo ritrovarci noi in quel sordomuto? Che riferimenti per la nostra vita possiamo
trarre da questo episodio? Dobbiamo leggerlo soltanto come un esempio della bravura
di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale
invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci
prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due
termini: κωφος (kòfos) che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo,
insensibile, stolto, pazzo; e μογιλαλος
(moghilàlos) che invece indica uno con
difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha
difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto
ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la
sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”.
Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto: perché solo se “ci
sentiamo” possiamo esprimere qualcosa di noi. Non possiamo esprimere quello che
non sentiamo. E allora? Se non ci sentiamo più, fermiamoci, fratelli: cerchiamo
di riscoprire quello che abbiamo dentro, ascoltiamoci con maggior attenzione,
scrupolosamente. Fuggiamo il “rumore” assordante del mondo. Il silenzio, cioè
smettere di ascoltare i rumori esterni per ascoltare le voci e i suoni interiori,
è la base di ogni crescita spirituale, di ogni conoscenza, di ogni progresso
umano.
Alcuni
pagani portano dunque davanti a Gesù questo sordomuto: e lo pregano di “imporgli
la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo:
a loro basta che Gesù lo tocchi. Ancora una volta dei pagani dimostrano più
fede dei religiosi ebrei. E Gesù premia la loro fiducia. Come tante altre
volte, Egli interviene con la sua grazia laddove trova la giusta
predisposizione, sia nei confronti di persone religiose, che di chi non viveva secondo
la religione del Tempio.
Confortati
da tale certezza, fratelli, guardiamo anche noi con rinnovata fede e umiltà all’Amore
divino: anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri
rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita abbiamo
avuto esperienze negative, anche se siamo “tiepidi”, non praticanti, anche se ci
siamo allontanati magari decisamente da Lui, Gesù ci può sempre e comunque guarire.
Se ci avviciniamo e ci fidiamo di Lui, Lui può cambiare la nostra vita. Non dobbiamo
coltivare pregiudizi o diffidenze. Gesù ci salva, ci guarisce non perché esibiamo
l’etichetta di “cristiani” ma perché crediamo nel suo amore infinito, confidiamo
totalmente in esso, perché siamo certi che se Lui vuole può guarirci,
nonostante i nostri demeriti. Soltanto questo dobbiamo credere fermamente; solo
in questo dobbiamo porre la nostra fiducia.
Succede
però che a volte siamo così sordi, così “ostruiti”, da non percepire neppure la
gravità della nostra situazione, non ce ne rendiamo neppure conto. Abbiamo
bisogno che qualcuno, con più fede di noi, “ci porti”. Ecco perché è tanto importante
avere una “guida” spirituale che ci accompagni nel nostro andare verso Gesù.
A
questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina lontano
dalla folla. È una cosa che Gesù fa spesso (Mc
5,40; 8,23); la folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, è
il giudizio impietoso delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimaniamo
succubi del loro giudizio, delle loro valutazioni, non possiamo guarire.
La “folla”
ci dice: “Tu devi fare così; devi fare come dico io”. Ricordate? Quante volte
abbiamo sentito la frase: “No, così non va bene”; che poi vorrebbe dire: “Non
fai come va bene a me”!
La
folla cerca di condizionarci, di determinarci, di dirigerci, di farci fare
quello che vuole lei. E finché non ci sottraiamo al suo influsso, non ne usciamo,
non ne veniamo fuori, non possiamo ascoltarci, non possiamo essere noi stessi.
La folla in altre parole è quel “condizionamento” interiore che ci impedisce di
agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre ispirazioni per
paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di
farci rifiutare da qualcuno.
Ma non
possiamo seguire due padroni, dice Gesù: o seguiamo noi stessi, la nostra
coscienza, o seguiamo gli altri, la “folla”. O facciamo felici noi stessi o gli
altri; o realizziamo noi stessi o quello che gli altri vogliono per noi stessi:
dobbiamo scegliere!
La “folla”
è tremenda, fratelli, ha un potere enorme. Noi, per una legge naturale, siamo
attratti dalla “maggioranza”. Cioè: noi pensiamo che quello che fa la
maggioranza sia giusto e, proprio poiché lo fanno tutti, sia sicuramente lecito.
Quindi, se facciamo qualcosa di diverso dagli altri, pensiamo subito che sia
sbagliato. La maggioranza ha il potere di influire in maniera categorica su di
noi. E, credetemi, c’è bisogno di una grande maturità, di una forza interiore
enorme, per affermare noi stessi, la nostra coscienza, e staccarci da una maggioranza
che agisce in maniera diversa dalla nostra.
Una
volta che i due si sono appartati, Gesù inizia il trattamento di guarigione del
sordomuto. Prima di tutto gli tocca le orecchie con le dita; deve cioè aprirgliele
materialmente,deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli
un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale.
Infatti,
se noi non “sentiamo”, non percepiamo la nostra malattia, come facciamo a
guarirla? Se non sentiamo la nostra insoddisfazione, come facciamo a eliminarla?
Se non sentiamo il nostro dolore interiore, come facciamo ad uscirne? Se non
sentiamo che stiamo morendo, in che modo possiamo intervenire per continuare a vivere?
Non è un caso che la nostra società sia zeppa di anestetizzanti e psicofarmaci;
non è un caso che la gente corra sempre e che non si fermi mai; non è un caso
che non si sappia più fare silenzio e che il rumore sia il nostro compagno di
sempre. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire”, a non farci pensare:
perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di sentire, di pensare.
Poi
Gesù gli tocca la lingua con la saliva. Deve cioè renderla fluida, deve insegnargli a parlare, ad
esprimersi, a “dirsi”. In altre parole Gesù gli dice: “Devi tirare fuori tutto quello
che hai dentro. Devi dare un nome a ciò che provi. Devi definire la tua gioia,
la tua rabbia, il tuo dolore, la tua emozione. Devi raccontarti. Devi vincere
la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Devi tirare fuori da
te chi veramente sei”.
Quindi,
guardando in cielo, Gesù emette un forte sospiro; si può dire che urla quasi al
sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”. Ora, se i primi due gesti erano
riservati alle orecchie atrofizzate del poveretto, l’ordine “Apriti” è rivolto direttamente
e unicamente all’uomo. Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato,
gli urla addosso perché si è caparbiamente rinchiuso in se stesso e non vuole
fare nessuno sforzo (ha tanta paura!) per “aprirsi”, per tornare a vivere. Gli va
bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per
svegliarlo dal suo torpore, per spaccare quella corazza in cui si è rinchiuso.
Quante
volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal
nostro torpore!
E quante
altre volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto dentro di noi l’urlo
di Gesù: “Apriti… apriti… apriti!”.
E il
sordomuto guarisce. E nessuno può trattenere i presenti dal gridare al mondo l’entusiasmo
e la gioia per quanto Gesù ha operato. Neppure Gesù: perché più egli cerca di
zittirli, più essi proclamano al mondo le meraviglie di Dio: “Ha fatto bene
ogni cosa…”.
Aprirsi,
fratelli, significa dare una dimensione alla nostra vita. Aprirsi vuol dire far
entrare e incontrare il nuovo. Aprirsi è vivere. Aprirsi è cantare e proclamare
Dio Amore. Chiudersi significa ignorarlo, è morire.
Apriamo
dunque il nostro cuore. Evitiamo di ripetere “Non ce la faccio!”: non è vero; abbiamo
soltanto paura di soffrire. Non ci rendiamo conto che chiudendoci preferiamo
tenerci dentro sofferenze ben più gravi? “Apriti”.
Perché
condannarsi a portare certi pesi e certe pietre? Perché privarsi della gioia e
dell’intensità dell’Amore solo per paura di soffrire? “Apriti”. Apriamo la nostra
mente. Leggiamo, impariamo, frequentiamo nuovi corsi e nuove esperienze. Non diciamo:
“Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee,
di doverle cambiare, di doverle verificare. “Apriti”.
Apriamo
i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi,
la salute, il mangiare, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo
di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo
le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo
e impariamo. Non dobbiamo temere di non essere all’altezza di altre esperienze
di vita.
Ci sono
ragazzi che sono perennemente assorti nei giochetti elettronici, smanettano convulsamente la consolle dei loro minuscoli apparati, come se al mondo non ci fosse null'altro da vedere, da pensare o da fare: non possono che sclerotizzarsi. Non esiste solo quello: frequentate gli amici, i gruppi, conoscetene di nuovi; se possibile uscite dal vostro paese,
andate alcuni mesi all’estero, accostatevi a nuove esperienze. “Apritevi”!
C’è
una coppia di giovani sposi che tutti i sabato sera si ritrovano con gli stessi
amici nella solita pizzeria; tutte le domeniche sono a pranzo dai genitori di
lei e la sera dai genitori di lui. Non dite: “Li amiamo!”. È che avete paura di
sperimentarvi diversamente. “Apritevi”!
C’è
una famiglia che da ventisette anni va in vacanza sempre nel solito posto. Non
dite: “Qui è bello”. È un'abitudine pigra bella e buona, è non voler affrontare la
fatica di cambiare. “Apritevi”!
Quanti
di noi, fratelli, facciamo sempre le solite cose, i soliti incontri, i soliti
riti fatti sempre alla stessa maniera. “Apriamoci!”.
Ecco: a
questo invito costante e quasi assillante di Gesù, dovremmo sempre rispondere:
“E perché no?”. Di fronte ad un nuovo progetto di vita, di fronte ad una nuova
esperienza, ad una nuova idea, ad un nuovo incontro, prima di rifiutarlo
chiudendoci a riccio, chiediamoci: “E perché no?”. Se rimaniamo aperti, la Vita
entrerà dentro di noi e ci colmerà con la sua forza. “Io sto alla porta e
busso” (Ap 3,20), ci dice Gesù: apriamogli
dunque!
Vedete,
noi siamo come un forziere. Un forziere nascosto. Conteniamo un tesoro
preziosissimo, disponiamo di perle preziose, gioielli, monete d’oro. Ci
scopriamo ad immaginare lo stupore e la gioia di chi ci scoprirà, di chi riuscirà
a forzare la nostra serratura. Ci perdiamo a fantasticare su tutte le cose che
il fortunato potrebbe fare o diventare grazie alle nostre ricchezze.
Immaginiamo, fantastichiamo… Ma se non accogliamo l’invito di Gesù nessuno, anche
trovandoci, potrà mai aprirci! Siamo un tesoro di indicibile valore, ma
rimaniamo un tesoro inutile.
Si,
fratelli: perché se non siamo noi ad aprirci, nessuno potrà mai farlo, nessuno
potrà mai conoscerci, confrontarsi con noi. Se non ci apriamo, chi ci potrà amare?
Chi potrà condividere i suoi progetti, le sue aspirazioni con noi? Se non ci
apriamo, è come se vivessimo tutta la vita con un altro nome! Rischiamo di
venire amati per una persona che non siamo! Se non ci apriamo, non saremo mai
niente: viviamo come se fossimo già morti. Amen.
«Ascoltatemi tutti e
comprendete bene! Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa
renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro». E
diceva ai suoi discepoli: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini,
escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità,
malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall'interno e rendono impuro l'uomo» (Mc
7,1-8.14-15.21-23).
Dopo
la lunga parentesi in cui abbiamo meditato per intero il sesto capitolo del vangelo
di Giovanni, riprendiamo la lettura di Marco che ci accompagnerà fino alla conclusione
di quest’anno liturgico. Per meglio comprendere l’assurdità dell’episodio che
Marco oggi ci propone, dobbiamo necessariamente rifarci ai fatti che immediatamente
lo precedono: Gesù ha appena vissuto tre esperienze fortissime in prossimità
del lago di Tiberiade.
La
prima sulla riva: molta gente lo seguiva perché “erano come pecore senza
pastore” (6,34). Avevano lasciato casa,
lavori, campi e si erano perfino disinteressati del cibo pur di ascoltarlo. E
proprio per loro Gesù opera la moltiplicazione dei pani (6,34-43); Egli fa esperienza di una gran folla di persone
assettate, affamate, che vogliono sapere, che vogliono nutrirsi, che vogliono mangiare
cibo di vita.
La
seconda durante la traversata del lago: i suoi discepoli sono angosciati per il
forte vento e non riescono a remare. Gesù va incontro a loro camminando sulle
acque. I discepoli sono terrorizzati e credono sia un fantasma. Ma Gesù dice:
“Coraggio sono io, non abbiate paura” (6,47-52). Gesù sente, percepisce la
paura, il terrore dei suoi amici: il terrore di affondare nel vento, il terrore
nel vederlo, nel vedere cose straordinarie che non riescono a metabolizzare.
La
terza dopo l’approdo sulla riva opposta: la gente lo riconosce e lungo tutto il
suo passaggio una folla di malati e paralitici, solo toccando il suo mantello,
improvvisamente “venivano salvati”
(6,53-56). Gesù sente il dolore della malattia, della sofferenza, del limite,
dei condizionamenti.
Gesù dunque
si sente immerso nella vita, è attorniato da gente che vive ai margini dell’esistenza
umana, dove la miseria scorre, dove si soffre, dove si cerca disperatamente di
sopravvivere: dove si piange e ci si dispera, dove ci si rialza, dove, insomma,
si vivono intensamente sentimenti di pathos, di dolore, di disperazione.
E mentre
Gesù vive e condivide tutto questo, alcuni farisei e scribi si avvicinano e si
lamentano con lui: “I tuoi discepoli non si sono lavate le mani; i tuoi
discepoli mangiano di sabato; i tuoi discepoli toccano persone impure; i tuoi
discepoli non sono religiosi perché non rispettano tutte le leggi”. Ecco, questo
è il loro grande assillo, il loro problema esistenziale! È naturale quindi che
Gesù di fronte a tanta stupida superficialità si scateni. Diventa furibondo contro
questi ottusi legalisti, questi “ipocriti”, questa gente che rispetta tutti i
613 precetti della legge soltanto per salvare le apparenze, per farsi belli di
fronte agli altri. E Gesù si esprime nei loro confronti ruvidamente, gelidamente,
con rabbia. “Sono questi i vostri problemi vitali? Siete senza cuore, non avete
anima, non avete ancora capito né percepito chi è davvero Dio, cosa vuole e a che
cosa ci chiama veramente. Con le vostre stupide tradizioni e leggi vi fate soltanto
compatire. Voi vi preoccupate di essere a posto, bravi, in perfetta regola
davanti agli altri; a me invece interessa l’uomo, il suo interiore, l’anima, l’amore,
la vita. A voi interessano tutti i precetti della legge, a me interessa l’amore
dell’uomo, le sue fatiche, le lacrime, le conquiste, i piccoli passi, le libertà
conquistate. A voi interessano queste leggi perché siete legati dentro, con voi
stessi; a me interessa l’uomo perché sono libero. A voi interessa l’apparire; a
me interessa l’essere”.
Al
tempo di Gesù la legge ebraica è ancora scrupolosamente rispettata da tutti. Il
favore poi, di cui i farisei godono tra i loro concittadini, è fuori discussione.
Quindi Gesù, che li critica, si scaglia non solo contro di loro ma contro un
sistema di valori, che era accettato e condiviso dall’intera popolazione. Ciò
che Gesù dice è pertanto contro la morale comune. Ciò che Gesù dice è altamente
scandaloso.
Del
resto le regole dei farisei originariamente non erano stupide; è che nel corso
dei secoli hanno perso il loro valore. Lavarsi le mani o rispettare il sabato
aveva sicuramente un senso molto profondo. Era un modo per dire: “Devo
avvicinarmi a Dio con le mani e soprattutto con il cuore puro; ritagliare un
tempo, il sabato, di preghiera, di silenzio, di pace, per vivere ricordandomi
che Dio è il signore del tempo e di ogni giorno. In quel giorno non farò niente
non perché Dio voglia che io non faccia niente, ma perché nessun lavoro può
essere paragonato a Dio”. Gesti che col tempo hanno perso la loro anima, si sono
svuotati. Non hanno più significato, si continuano a fare perché si è sempre
fatto così, perché si è stati abituati così.
Quando
un gesto perde la sua anima, diventa automaticamente formale o “fondamentalista”.
Un
gesto esprime (o dovrebbe esprimere) un senso, un’anima, un sentimento del
cuore. È la conseguenza di un impulso interiore, di ciò che abbiamo e proviamo dentro.
Se perdiamo di vista l’obiettivo, se il nostro gesto non esprime più
l’intenzione è inutile, è formale, sicuramente anche falso.
Quindi,
pur nel loro scrupoloso e formale attaccamento alla legge, le persone che
attorniavano Gesù erano tutto sommato delle brave persone: e tra queste persone
Gesù mette in atto la profonda rivoluzione del suo Vangelo. Purtroppo è che
molti di loro non sono riusciti comunque a incontrare il Dio di Gesù! Anzi, non
l’hanno voluto proprio incontrare!
Beh,
fratelli, quante volte anche noi diciamo: “Sono un bravo cristiano! Vado a
messa tutte le domeniche, non faccio male a nessuno, non rubo, non uccido”. Tutto
questo è una cosa buona, positiva. Ma non è il Dio di Gesù. Il Dio di Gesù è misericordia,
amore, perdono, vita.
Cosa
proviamo nel nostro cuore? Quando trattiamo col nostro prossimo, cosa sentiamo,
cosa avvertiamo dentro? Il nostro cuore vive più di odio o di amore? Nel
risentimento vendicativo, o nella gioia della vita? Se gli altri hanno successo,
proviamo piacere o invidia? Il nostro cuore è isolato, chiuso, o è aperto all’amore
e alla compassione verso tutti? Oppure il nostro cuore non sente più nulla, è
morto, arido, rinsecchito?
Fino a
qualche tempo fa anche nella nostra chiesa cattolica questa mentalità “esteriore” era molto
in auge (e per molti lo è ancora oggi!). C’era la tendenza a “quantificare”, a
“contabilizzare” tutto ciò che riguardava la vita cristiana. La domanda
classica era: “Quante volte?”. Nel catechismo c’era, ad esempio, l’invito a
fare spesso il segno della croce: “Perché tante volte?” (il catechismo era
fatto a domande e risposte). “Perché in ogni tempo e luogo i nostri nemici ci
combattono e ci perseguitano”. Vero, ma pensate che paranoia, che senso di
persecuzione si nascondeva dietro ad una risposta del genere! Un bravo
cattolico inoltre doveva conoscere: le 7 domande del Padre Nostro, i 10
comandamenti, le 14 opere di misericordia (7 spirituali e 7 corporali), i 7
sacramenti, le 5 parti o condizioni del sacramento della penitenza, le 9 cose
mediante le quali si perdonano i peccati veniali, i 7 peccati capitali, le 7
virtù teologali, le 4 virtù cardinali, i 5 sensi corporei, i 7 doni dello Spirito
e i loro 12 frutti, le 8 beatitudini, i 4 novissimi, i 15 misteri del rosario,
ecc. ecc.
Una
edizione del catechismo diceva addirittura che pecca mortalmente: “colui che giura
dubitando se ciò su cui sta giurando sia effettivamente vero ; colui che lavora
più di 2 ore nei giorni di festa senza bisogno; il figlio che non obbedisce ai genitori per
quanto riguarda i buoni costumi; colui che dice o canta cose sconce o le
ascolta con piacere; chi assiste alla messa senza attenzione per un tempo
notevole; chi non digiuna senza legittima causa; chi è obbligato all’astinenza
delle carne nei giorni stabiliti e non la osserva; chi non compie una penitenza
grave o la rinvia per molto tempo, ecc.
Fratelli
miei: di fronte a tutte queste “prescrizioni legali” chi potrebbe professarsi
ancora un “bravo cattolico? Gesù li chiama “ipocriti” i legalisti. “Ipocrita” in greco vuol
dire “colui che recita, che declama”; “ipocrita” indica una falsa apparenza,
una maschera, uno che all’interno è all’opposto di quello che fa vedere all’esterno.
Gesù
condanna questa gente per due motivi. Primo: hanno deformato il comandamento di
Dio, mettendo in bocca a Dio leggi e norme umane. Cioè: fanno dire a Dio quello
che vogliono loro (il loro pensiero). Secondo: non sono le cose ad essere pure
o impure ma è il cuore dell’uomo a renderle tali. Non è ciò che è fuori che
contamina o consacra le persone, ma ciò
che è dentro. “Tutto dipende dal nostro cuore” dice Gesù, e “Ciò che hai dentro
è la tua vita o la tua morte”.
Se ciò
che facciamo non nasce dal cuore, è una semplice “prestazione”, un esercizio meccanico. Noi
possiamo pregare: ma se la nostra preghiera non ha un cuore, non ci coinvolge,
non ci “tocca”, non ci fa vibrare, non ci procura dei sussulti, non potrà mai metterci
in contatto con il Padre.
Se noi
preghiamo e la nostra preghiera non ha un cuore, non sarà mai lode a Dio; lo
facciamo, come i farisei, per altri motivi: per essere bravi, per essere
ammirati, stimati, a posto con la legge e con la nostra coscienza (deformata!).
Noi possiamo
dare un bacio: ma se il nostro bacio non ha un cuore, cioè se non vogliamo bene
alla persona che abbiamo baciato, non proviamo affetto per lei, non proviamo un
sentimento, il nostro bacio è come quello di Giuda. Giuda, un apostolo, bacia
Gesù, ma il suo bacio è impuro. Anche la Maddalena e altre donne, considerate
“donnacce”, lo baciano, ma il loro è un bacio puro, di amore autentico.
Non è il
gesto ma l’intenzione con cui lo facciamo che lo rende decisivo. È ciò che abbiamo
dentro che determina ciò che facciamo fuori; in altre parole è ciò che abbiamo dentro
che determina la nostra vita e diventa il nostro destino.
Cosa
succede allora se dentro abbiamo un vulcano? Cosa possiamo seminare, cosa può
uscire da noi se dentro siamo solo un magma rabbioso? Come possiamo rapportarci
ai figli, al coniuge, ai confratelli, a qualunque altra persona, con tutto quel
livore che bolle dentro di noi? Prendiamoci cura del nostro cuore, fratelli,
perché è da lì, da dentro, che viene ciò che distrugge noi e chi ci sta vicino.
Cosa
succede se dentro abbiamo un cuore superbo, prepotente, tiranno? Giudichiamo
tutto e tutti: bianco o nero; bene o male, giusto o sbagliato, bravo o cattivo.
Il nostro comportamento con gli altri è sempre duro e intransigente. Allora prendiamoci
cura del nostro cuore perché da esso sgorga la vita o la morte.
Cosa
succede se dentro abbiamo una tempesta di dubbi? Non sappiamo ascoltarci, siamo
frastornati dalle nostre fantasie: e non possiamo certamente ascoltare gli
altri. Non siamo felici noi e non faremo felici gli altri. È ora
che ci prendiamo cura del
nostro cuore perché è la sorgente di ogni felicità e di ogni infelicità.
Cosa
succede se dentro non abbiamo amore? Se siamo aridi? Se sentiamo un “vuoto” di
amore? Ebbene, non potremo che essere gelosi, insensibili, egoisti e invidiosi
degli altri. Prendiamoci cura dei “vuoti”, delle voragini del nostro cuore, e così non cercheremo
di riempirli con cose e persone sbagliate. Prendiamoci cura del nostro
cuore, fratelli, e il mondo non potrà
che inchinarsi ai nostri piedi. Se il cuore è libero vive d’amore. Ma se è
pieno d’altro, di questo vive. Amen.