«In quel tempo, venne da Gesù
un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi
purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo
voglio, sii purificato!”».
Oggi
Marco ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso e la sua
guarigione. Tranquilli, la malattia della lebbra è stata ormai quasi
completamente debellata; non dovremmo quindi temere più di “toccare”, di “comunicare”
con gli altri (la lebbra a quei tempi impediva qualunque tentativo di avvicinamento,
di socializzazione). Purtroppo però oggi dobbiamo fare i conti con un’altra malattia
epidemica, altrettanto invalidante: l’incomunicabilità, l’indifferenza,
l’ermetismo, la chiusura totale verso gli altri. In questo senso tutti noi continuiamo
ad essere dei lebbrosi; e ciascuno di noi può immedesimarsi in quel poveretto.
Sì, perché la nostra vita è infestata di questa nuova lebbra, con tutte le sue
variabili di isolamento e solitudine: c’è la lebbra di chi non si sopporta; di
chi non sopporta il proprio fisico, il proprio carattere, la propria vita; e non
si sopporta perché, quando si guarda dentro, non trova niente per cui valga la
pena di impegnarsi. C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare
la propria dignità; c’è la lebbra della vergogna: di quando si viene additati; di
quando ci viene continuamente rinfacciato il nostro errore; la lebbra di chi
non si perdona, di chi confessa sempre la stessa colpa da anni, di chi si sente
sempre colpevole; la lebbra della vergogna di sentirsi inferiore agli altri, per
non aver studiato, per non essere brillante, per non essere fisicamente bello e
attraente; c’è la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti,
insignificanti. Ebbene, fratelli, chi di noi non si è sentito discriminato,
etichettato, evitato, come il lebbroso del vangelo? Ma ci sono anche altre
lebbre che fanno terra bruciata intorno a noi, essendo gli altri a farne le
spese, a pagarne le dirette conseguenze: alludo alla lebbra dell’invidia, della
superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della
lussuria… ; sono tutte lebbre deformanti, che di fronte ai nostri fratelli ci
rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi esente da
queste forme di lebbra? Penso proprio ben pochi. Allora andiamo da Gesù,
supplichiamolo anche noi! Facciamo anche noi come ha fatto il lebbroso del
vangelo.
Riviviamo
per un attimo la scena: il poveretto si butta in ginocchio e supplica Gesù: “Se
vuoi puoi guarirmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che
da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli
dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa
confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver
bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si crede malato
non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Per questo il lebbroso si
abbandona, e chiede a Gesù di fare tutto lui: “Se vuoi puoi guarirmi”.
E Gesù
interviene. Egli prova nei confronti di tanta arrendevolezza qualcosa di forte
ed intenso: è “mosso a compassione”.
Il termine greco, oltre che compassione,
indica addirittura un “amore materno”, un amore che tocca dentro, un amore
viscerale. Un amore che compendia i sentimenti umani più vulnerabili: la
misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando
un uomo è rifiutato da tutti, ha una vitale necessità di questo amore; ha
bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno
di poter sentire che c’è qualcuno che lo accoglie, che lo apprezza, che non lo
evita. Perché questo è un amore che salva.
Gesù guarda
questo relitto umano con occhi diversi da quelli degli altri: “Io ti conosco, credo
in te; so che sotto questo tuo aspetto disgustoso, sopravvive ancora un germoglio
stupendo, un qualcosa di grande e prezioso. Sei così, perché sei stato deformato
dal dolore della vita; ma io vedo la tua bellezza, le tue potenzialità. E voglio
che torni a risplendere”.
E l’amore
“materno” di Gesù, da sentimento, diventa
azione: “Stese la mano”. Il verbo “ekteino” vuol dire proprio “distendere”, un allungare le mani, protenderle:
Gesù lo ama e il suo amore si fa azione, si protende verso di lui e lo tocca.
Immaginiamolo quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno
alla larga, tutti dicono: “Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai
speranze”; mentre Gesù, il maestro - sfidando la religione per la quale chi
toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro – si “distende”, gli va incontro, allunga la mano e lo “tocca”; il verbo greco “apto” oltre che “toccare” indica “afferrare”:
un significato che rende l’azione di Gesù ancora più amorevole: si dirige decisamente
con le braccia protese verso di lui, ma l’uomo, consapevole della sua
deformità, istintivamente si ritrae, tenta di scappare; ma Gesù lo “afferra”, lo trattiene con forza (“lo voglio”), e aggiunge “guarisci”. In altre parole, “sii te
stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha
impresso in te quando ti ha creato. Se ti liberi del rancore, dell’amarezza, della
vergogna, dei rifiuti che ti hanno deturpato, riacquisterai la tua luce
primordiale”.
Ecco,
questo in sostanza vuol dire “guarire”:
ritornare ad essere se stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea che Dio, la
Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni umane hanno gradualmente
deformato, alienato, distrutto. Come a dire “sii ciò che eri; ritorna ad essere
esattamente quello stesso che Dio aveva in testa quando ti ha pensato”.
Perché
c’è tanto scontento sulla terra, tanta infelicità? Perché le persone non vivono
quello che sono: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere continuamente
“altro”. Non si riconoscono in chi sono, e cercano affannosamente di vivere
qualcosa che non sono. La felicità invece è fare esattamente ciò per cui siamo
stati creati. Se vogliamo altre cose, primo, non riusciremo mai a farle e,
secondo, la nostra vita sarà sempre incompleta, vana, non realizzata, inutile.
Se uno non vive la propria “forma” si sforma, si deforma.
Ci chiediamo continuamente: “Che devo fare?”. Domanda più che lecita. Ma non
ci accorgiamo che intorno a noi troppe persone fasulle sono pronte a darci le “loro”
risposte; e ci costringono a vivere vite non nostre, vite di altri. In realtà,
la domanda che tutti dobbiamo porci, è un’altra: “Chi sono io?”. E solo Lui,
sommessamente, può suggerirci la risposta. “Sii te stesso e saprai chi sei; con
il mio “contatto” guarirai dalla tua lebbra e vivrai ammirandomi nella tua
immagine”. Questo vivere è la sorgente della vita, della felicità, del nostro
esserci.
La
risposta di Gesù al lebbroso: “Lo voglio,
guarisci”, stupenda, rassicurante, entusiasmante nella sua essenzialità, merita
bene qualche altra considerazione.
Prima
di tutto Gesù non teme di sporcarsi le
mani, di contagiarsi, e tocca quel
poveretto devastato dalla lebbra. Egli crede in lui. Lo conosce da sempre, lo ama;
si sporca le mani, si lascia coinvolgere da lui, proprio perché lo ama: e
subito l’altro inizia a guarire. Potenza dell’amore.
Un
giorno una suora disse a Madre Teresa: “Madre perché i miei ammalati non
trovano la pace come qui da te?”. “Perché io non lavoro per portar loro la
pace; io la trovo qui con loro”. Sporcarsi
le mani vuol dire condividere:
“Mi metto in gioco con te e ti accompagno nella tua strada”. Questo è l’amore
vero, fratelli, l’amore autentico; un amore fiducioso e lungimirante che dice: “In
te c’è una sorgente pura; io la valorizzerò”.
Può succedere
che anche noi, poveri lebbrosi, perdiamo il senso della nostra origine e del nostro
essere; però se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di calarci
completamente nella nostra anima, scopriremo sicuramente una piccola radice,
una minuscola parte di noi che non è deformata, che non è corrotta, distrutta. È
la nostra sorgente di luce interiore, che può anche essere spenta, offuscata,
coperta, ma non cancellata. È come entrare in una stanza completamente buia: non
si vede nulla, ma la luce c’è, basta girare l’interruttore, aprire le
tapparelle. Con il soffio della vita, tutti abbiamo ricevuto questo dono di
luce: ripeto, può capitare che in qualcuno non sia accesa, non risplenda, ma
c’è (e continuerà ad esserci).
Ecco
perché, fratelli, ogni uomo merita rispetto, onore, accoglienza. Non per quello che fa, ma
per quello che è, per la sua essenza. Possiamo certamente condannare quello che
fa, possiamo rifiutarlo o non accettarlo; ma dobbiamo sempre ricordare che nel suo
profondo vive e sgorga la stessa nostra Sorgente Pura. È per questo che,
davanti a Lui, siamo tutti uguali; è per questo che ogni uomo è mio fratello: e
in questo tempo di decadimento dei valori morali, di chiusura alla religione e
a Dio, di mancanza di validi riferimenti, dobbiamo riscoprire questa realtà e
dare nuovo vigore alla nostra spiritualità: “Tu sei mio fratello. Non temere, camminiamo
insieme, corriamo al Suo passaggio sulle strade della nostra vita, e
chiediamogli a gran voce: Se vuoi, puoi purificarmi!”.
“Io lo
voglio!” risponde Gesù al lebbroso; “Io lo voglio!” è sempre pronto a
rispondere anche a noi. Ma noi, lo vogliamo veramente? vogliamo che Gesù ci
guarisca? È importante chiederselo, perché Dio non può niente se noi non lo vogliamo.
Dio può tutto, ma solo se noi lo vogliamo.
Verrebbe
da dire: “Esiste forse un ammalato che non vuole guarire? Tutti lo vogliono!”. Eppure
non è così, fratelli. Perché “guarire”
vuol dire “rendere puro, luminoso”,
portare luce nel nostro buio, ridare forza al nostro fisico stremato, fare
pulizia, eliminare le impurità della nostra lebbra. Tutte cose che ci
coinvolgono in prima persona, che costano fatica. Tutti vogliamo guarire, ma
non tutti siamo disposti a faticare, a collaborare, a metterci del nostro, ad
accettare le conseguenze della guarigione. Non possiamo guarire senza
trasformarci radicalmente. Non siamo più noi, non siamo più l’originale; e dobbiamo
essere noi a voler “guarire”, ad abbandonare questa nostra falsa e deformante
identità per ritornare alla purezza originale. Tutti vorremmo guarire senza far
nulla; senza cambiare idee; senza cambiare le nostre certezze, i nostri pensieri,
il nostro modo di vivere. Ma guarire così è impensabile! Se il nostro modo di
vivere e di pensare non ci guarisce, vuol dire che dobbiamo cambiare mentalità
e modo di vivere: insistere sulle nostre posizioni significa ammalarsi sempre
più gravemente. “Io lo voglio” continua a ripeterci Gesù. E noi che aspettiamo
ancora? Affrettiamoci, “tocchiamolo”. Amen.
«La suocera di Simone era a
letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece
alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva».
Il
vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni.
Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù ha fissato la
sua provvisoria dimora; e qui passava i suoi giorni “insegnando” e “guarendo”.
A
questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata.
Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente
informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una
innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di
Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire
Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa, in
cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto
con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente
naturale correre a casa di Simone e guarire la sua parente. Un normale fatto di
vita quotidiana che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per un
particolare che mi ha incuriosito e che mi ha spinto ad andare oltre: la “malattia”
della suocera.
Marco
parla di “febbre”: una febbre così
alta da costringerla a letto. Ora, leggendo il testo, penso che sarà successo anche
a voi di domandarvi quale fosse in realtà la vera causa di questa “febbre”. La risposta è facilmente
intuibile: se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo
di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva piantato reti, barca e lavoro,
distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro
esistenza, arrivando addirittura a togliere materialmente, a lei e a sua figlia,
il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa
povera suocera, li aveva proprio tutti. “Ma che sta facendo questo scriteriato
di Simone? È diventato matto? Come facciamo noi ora? Non siamo mica ricche noi!
Non può certo permettersi una cosa del genere! Come camperemo? Sarà per caso questo
Gesù che ci darà da vivere? Non si rende conto che si sta esponendo alle
critiche della gente e della sinagoga? Questo Gesù per il quale lui stravede, si
è già messo contro la sinagoga, e molti dicono che fa cose “pericolose”; dicono
addirittura che guarisca i malati in nome del “demonio”. Possibile che quel
credulone di mio genero si lasci abbindolare da un tizio come questo? Io mi
vergogno perfino ad uscire di casa! Qui le cose si mettono veramente male!”. E
questa poveraccia, angustiata continuamente da tali preoccupazioni, peraltro
giustificabilissime, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene
colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La
parola greca “pir” (da cui “pirèssusa”
nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore,
alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”,
è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera una testa
calda, un credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante
di tale situazione.
La sua
“febbre” non è altro che un segnale della
sua lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare
delle ore; è un cartello che dice chiaramente “qui c’è guerra; state attenti!”;
è il segno esteriore di quella sofferenza interiore che gli sconquassa l’anima
e che ancora non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque
la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa
povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la
situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far
finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me,
venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate
invece cosa ci dice Gesù? “Seti ricordi
che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,lascia lì il tuo dono davanti
all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad
offrire il tuo dono” Mt 5,23s). E questo è esattamente il comportamento coerente
di Gesù: egli corre e va subito da lei.
Primo
insegnamento: nutriamo rabbia, risentimento, odio, nei confronti di qualcuno? Non
perdiamo tempo; andiamo noi da questo qualcuno, chiariamoci, confrontiamoci con
lui. Perché, fratelli miei, l’odio genera altro odio e il fuoco della rabbia dissecca
il cuore e acceca l’anima.
Gesù,
ci dice il vangelo, «si accostò, la
sollevò e la prese per mano».
“Si
accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era
distanza, ma Gesù si fa vicino, riduce la distanza, prende lui l’iniziativa e
la incontra. “La sollevò” (egheiro, “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”):
la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le
sta vicino, finché la donna gli dà ascolto e “si solleva” dalla sua paura che
la domina e dalla preoccupazione per ciò che sta accadendo.
“La
prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi,
impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole
che questa donna “senta” chi è lui, che possa “farne esperienza” di persona,
che lo possa “conoscere”, “impadronirsi” di lui. Da questo verbo deriva anche
la parola “cratere”: la donna è un
cratere pieno di fuoco e nella sua debolezza potrebbe esplodere; Gesù, invece,
è un cratere di energia, la sua “lava” è vitale, non rimane dentro covando odio,
ma si espande benefica, trasformandosi in amore, in tenerezza, in attenzione
per l’altro; riducendo, annullando, la distanza che esiste con lui. A questo
punto cosa accade tra Gesù e la suocera di Simone? Non sappiamo cosa si siano
detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo capiamo
che Gesù, sentito il risentimento della donna, ha preso l’iniziativa è andato
da lei, piano piano le si è avvicinato, le ha parlato; finché la donna ha capito
che quell’uomo non è né un pazzo, né un fuori di testa. E lo ha accolto. Anzi, come
sottolinea il vangelo, si è subito alzata ed ha iniziato a “servirli”.
Tutta
la sua rabbia, il suo astio, improvvisamente sono scomparsi. Appena incontra
Gesù, in lei avviene una trasformazione radicale: il suo è un passaggio simultaneo
dall’ignorare Gesù, al mettersi a suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto
per quest’uomo; dal volergli stare il più lontano possibile, al volergli stare sempre
vicino; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo come un amico, uno affidabile,uno
su cui può contare, che è sempre con te e per te.
Secondo
insegnamento: finché la donna combatte Gesù, non può guarire. Ma quando lo
ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue
ragioni, allora tutto il suo fuoco, la sua febbre e il suo odio, scompaiono.
A
volte noi proviamo rancore verso i nostri fratelli, perché siamo concentrati unicamente
su noi stessi: non ci mettiamo nei panni degli altri, non vogliamo ascoltarli,
non vogliamo sentire le loro ragioni. Vediamo solo noi stessi e sentiamo solo
il nostro dolore. Ma se riusciamo a comunicare il nostro dolore, le nostre
ragioni, la nostra parte (e se loro si lasciano toccare da ciò), allora stabiliamo
con loro un contatto e sarà possibile incontrarsi; e tutte le ragioni del
nostro odio finalmente cadranno.
Anche
quando qualcuno ce l’ha con noi, cosa possiamo fare? Come dobbiamo comportarci
quando qualcuno è arrabbiato con noi? Beh, la prima reazione, quella naturale, è
di stargli più alla larga possibile. Ma questo crea altra diffidenza, ingigantisce
la distanza.
Impariamo
invece da Gesù. Egli fa due cose.
La
prima: prende lui l’iniziativa e va di persona. Spesso noi rimaniamo nella
nostra rabbia, facciamo gli offesi e diciamo: “Deve venire lui da me! Con
quello che mi hai fatto è il minimo che possa fare!”. Quando si è feriti è
normale chiudersi: ma se rimaniamo chiusi nel risentimento non c’è possibilità
di incontro; se ci chiudiamo nel silenzio e ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo
nulla.
La
seconda: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di
questa donna: sa che è arrabbiata perché non lo conosce; perché lui ha un suo
modo di vivere che non è “come quello di tutti”; perché Simone ha fatto una
scelta radicale e difficile, contraria al buon senso, che lei non arriva ancora
a capire.
Ebbene
fratelli: nel mondo c’è tanta rabbia e tanto dolore: è una prerogativa della umana
esistenza. Quando una persona è arrabbiata, vuol dire che nel suo intimo è
ferita; e con una persona ferita, dobbiamo avere tanta comprensione, tanta delicatezza,
tanta cura: altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla,
questa persona; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire
il suo dolore. Se rimaniamo nel piano della rabbia, ci facciamo solo la guerra;
se invece ci incontreremo nell’amore, allora ci capiremo, allora non saremo più
indifferenti gli uni con gli altri.
Così
faceva Gesù per le strade della Palestina. Tutti i giorni, per tutto il giorno.
Ma da dove
prendeva tanta forza, il Signore, per riuscire ad accogliere tutti, ad
ascoltarli, a guarirli? Da dove prendeva tanta energia per fare della sua vita
un “annuncio” costante?
Dalla
preghiera, fratelli. Da una preghiera lunga e attenta, che gli permetteva di capire
la volontà del padre. Una preghiera che stupisce e affascina tutti, i discepoli
e noi. Una preghiera che non è la lista della spesa da presentare a Dio, quando
le cose non funzionano, ma il dialogo intimo e intenso di chi si lascia
plasmare. E poiché la giornata è frenetica anche per Lui, Gesù prega di notte.
Così faceva
Gesù; così dobbiamo fare anche noi, se vogliamo seguirlo come Simone e i discepoli.
Rubiamogli questo suo grande “segreto”: poniamoci anche noi umilmente in un costante,
intimo colloquio col Padre, che ci permetta di fare sempre della nostra vita un
dono agli altri. Amen.
«Gesù, entrato di sabato nella
sinagoga, a Cafarnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli
infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».
È
sabato. Giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, con al seguito lo sparuto gruppetto
di discepoli appena chiamati, entra nella sinagoga di Cafarnao e si mette senza
tanti preamboli ad insegnare; e che succede? Le persone presenti si rendono
subito conto che egli, pur non essendo scriba, pur non essendo preposto all'annuncio della Parola di Dio, è decisamente su un altro livello rispetto agli
scribi; si rendono immediatamente conto che, a differenza degli scribi, egli viene
direttamente da Dio. Sentono le sue parole scendere in profondità nel loro
cuore; sentono che sono parole cariche di umanità, di vita, di liberazione. E tra
di loro sussurrano, stupiti, meravigliati: “Finalmente! Si sente che è in collegamento diretto
con Dio!”.
Non è uno scriba! Ma chi erano dunque questi scribi? Originariamente erano tecnici esperti
nella trascrizione dei testi sacri (scriba, sôphêr (in ebraico), significa
appunto scrivano, amanuense). Progressivamente però hanno assunto una smisurata
autorità nella comunità ebraica, superiore a quella del sommo sacerdote, superiore
persino a quella della stessa Torah, di cui erano i custodi, gli infallibili
interpreti, gli unici ad essere autorizzati a commentarla.
Ebbene: quel sabato, alla presenza di questi signori, Gesù
prende in mano il rotolo e con grande serenità impartisce loro una magistrale lezione di stile e di vita, una
di quelle che avrà modo di ripetere più volte anche in seguito. Siamo nella
sinagoga, praticamente in casa loro: per cui se non fosse stato per il popolo
presente che, “meravigliato”, si è schierato immediatamente a fianco di questo
sconosciuto dalla grande “autorità”, questo gesto di Gesù si sarebbe sicuramente risolto con una
dura reprimenda nei suoi confronti. Ma tant’è; anche se a malincuore, gli scribi devono
fare buon viso a cattivo gioco.
Anzi il
vangelo prosegue annotando ironicamente che in questa “loro” sinagoga vi era un
uomo posseduto da uno spirito immondo: una annotazione curiosa, che mi ha
colpito e che mi suggerisce una domanda: perché questo poveraccio, nelle
precedenti riunioni tenute dagli scribi nella “loro” sinagoga,
non si era mai “ribellato”? Tento una spiegazione: perché con loro egli stava
bene, si sentiva al sicuro, a suo agio. Del resto erano stati loro, con le loro
dottrine, a inoculare in lui il veleno dello “spirito immondo”. Egli ha dato loro
piena fiducia, ha sempre creduto e continua a credere a quanto gli hanno insegnato; non si è mai chiesto
se ciò corrispondesse alla verità, se la realtà fosse questa o un’altra. Non
aveva mai avuto dubbi, non si era mai fatto domande e mai si era sognato di considerare le cose da altri punti
di vista. Si diceva: “Questo mi hanno insegnato, questo credevano i miei
padri, questa è la verità”. Una verità che fino ad allora gli aveva sempre dato sicurezza, stabilità. È quando arriva Gesù che nascono i problemi, che tutto gli si rovescia addosso: percepisce che chi gli sta di fronte ha ben altra "autorità" rispetto agli scribi; sente che Gesù ha la sapienza, la forza e la potenza di Dio («Io so chi tu sei: il santo di Dio!»), ma egli non può accettarlo come Dio, perché
ha già in cuor suo il suo Dio. E quando Gesù semplicemente guardandolo sembra dirgli: “Guarda che non è come credi tu! Guarda che Dio non è come te l'hanno insegnato!”, quando cioè si rende conto che Gesù gli sta smantellando le sue certezze, che sta demolendo le fondamenta su cui ha costruito la
sua vita, si sente improvvisamente minacciato, e reagisce con violenza, affrontandolo: «Che vuoi da noi, Gesù
Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Perché non ci lasci in pace? Perché non te ne torni da dove sei venuto?
Parla al plurale, il malcapitato, perché in realtà sono in due: lui e il suo demone!
Ebbene
fratelli: quante volte anche noi abbiamo dato spazio al nostro demone, attribuendo a Dio la colpa dei nostri
insuccessi, delle nostre sconfitte, dei nostri dolori, delle nostre
malattie, dei nostri lutti. Non è colpa di Dio, fratelli; non è Dio che li vuole: sono purtroppo
i disagi della vita, le inevitabili zavorre dell'umanità, il pesante bagaglio del nostro terreno peregrinare. Dio non c’entra! Etichettare tutto
come “volontà di Dio” è molto pericoloso. Perché con l’etichetta “Dio”, individuiamo immediatamente il responsabile di tutto, e ci dispensiamo dall’andare alla radice del problema, della
questione, del suo vero perché. Prendersela con Dio ci offre la giustificazione per non fare passi
in avanti, per non crescere, per non cambiare, per non impegnarci, per non soffrire, per non evolvere.
Questa etichettatura religiosa, fratelli, è la più forte resistenza che noi opponiamo a
Dio, per giustificare la nostra mediocrità.
Inoltre, quanti di noi abbiamo fatto di un gruppo, di una setta, di un movimento religioso, il nostro
Dio: il nostro bisogno di avere un “padre”, di essere cioè riconosciuti e amati da
qualcuno (sia esso guru, prete, santone, maestro, non importa), di appartenere a qualcuno (gruppo, setta,
associazione, movimento) è talmente forte (carenza affettiva dell’infanzia) da arrivare a “sacrificare”
la nostra libertà personale, la nostra testa, pur di aderirvi. Il bisogno di
appartenenza diventa talmente importante, da uccidere il bisogno di unicità, il bisogno di essere
noi stessi, di fare la nostra strada.
Siamo
un po’ come l’indemoniato nella sinagoga: ce ne stiamo buoni buoni. Ma quando
Gesù ci smaschera, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, allora reagiamo con una forza inaudita e gli urliamo: Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci?
“Non vogliamo avere nulla a che fare con te!”. Parole in cui c’è tutto il
nostro rifiuto, il “no” a Gesù e alla verità. “Sei
venuto a rovinarci?”. Ebbene: “Sì!”. Dio viene, e quando serve manda in frantumi le
nostre impalcature, i nostri alibi, le nostre scuse, le nostre sicurezze. Dio è la rovina, la distruzione,
l’uragano, il vento che spazza via tutto quanto credevamo vero, e non lo era.
Ma ascoltiamo
attentamente le parole velenose dell'invasato della sinagoga: “Che
c’entri con noi?”. Perché usa il plurale, se è il solo che parla? Chi sarebbero questi
“noi”? È chiaro: l’uomo è posseduto dal demonio; ma qui parla anche a nome
degli scribi, gli artefici di questo demone: le parole di Gesù li minacciano, li destabilizzano, mandano in
rovina la loro autorità, il loro prestigio, le loro liturgie: “Invano mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti
di uomini, annullando così la Parola di Dio” (Mc 7,7.13).
“Loro”,
gli scribi, (il testo dice: la “loro” sinagoga”) sono i detentori della verità, “loro” organizzano le liturgie, “loro” custodiscono
la Scrittura dei padri, “loro” sanno cosa è puro e cosa è impuro, cosa è giusto
e cosa non è giusto, chi può essere ammesso e chi non può essere ammesso. Lo
dice la Bibbia, lo dicono i profeti, lo dicono tutti! Per questo “loro” possono
giudicare e sentenziare sulla vita degli altri. Sono “loro” che dicono: “Questa
è la fede, questo è Dio”.
Insomma sono
“loro”, sempre “loro”. Ma non vi pare che oggi in quel “loro” ci siamo un po’ anche
noi? Questo
vangelo ci provoca parecchio, fratelli. Noi ci definiamo cristiani, cattolici e parliamo
di Dio agli altri. Ma dobbiamo stare molto accorti, perché anche noi,
nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre
comunità, potremmo trasformarci facilmente in altrettanti scribi.
Eh sì,
fratelli miei: non capita forse anche a “noi”, oggi, di sentirci l’unica chiesa
autentica, gli unici fedeli, i veri cattolici, quelli che possono
tranquillamente sostituire i preti, quelli che ne sanno più di loro, quelli che
hanno frequentato corsi di spiritualità, università cattoliche,
specializzazioni liturgico teologiche, quelli che organizzano la carità, quelli
che sono convinti di sapere già tutto, quelli che non ascoltano più alcuna
direttiva pastorale perché tanto, sono convinti di aver sempre ragione loro? Credo
proprio di sì: senza che ce ne rendessimo conto, siamo diventati anche noi come
“loro”, come i capi della sinagoga di Cafarnao. E del suo indemoniato. Siamo purtroppo tutti
infermi, siamo, un pò tutti, in preda ai nostri demoni; quei demoni che non vogliamo vedere, di cui neghiamo l'esistenza, che non vogliamo
prendere in considerazione: siamo “ciechi”, ma pretendiamo di essere “guide”
per gli altri, rischiando di portare anche loro nelle tenebre.
Ascoltiamo
a questo proposito le parole di Gesù: “Può un demonio
aprire gli occhi di un cieco?” (Gv 10,21). “Quando un cieco guida un altro cieco tutti e due cadranno in un
fosso!” (Mt 15,14). “Guai a voi
scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo
proselito e, ottenutolo, lo rendete il doppio di voi figlio della Geenna” (Mt
23,15). Parole
dure, fratelli, parole dure che ci devono scuotere nell’intimo; parole che ci
devono far pensare seriamente.
«Taci! Esci da lui!» sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: soltanto le sue Parole, fratelli, possono liberarci dai nostri demoni, possono strappare dal nostro cuore, dalla nostra mente, quegli spiriti immondi che ci possiedono, e guarirci.
Guarire
è meraviglioso, fratelli; ci fa sentire liberi e leggeri, ci fa recuperare la
nostra identità, la nostra dignità, la nostra vita.
Ma
guarire “fa male”, a volte “tanto male”, è doloroso; perché è staccarsi da ciò
che chiamavamo certezza (spirito) e
che invece si rivela malvagio, condizionante, imprigionante (impuro). È una esperienza dura, una
esperienza che richiede molto sacrificio. Guarire
“fa male”, perché va ad aprire delle porte chiuse a chiave, che non vogliamo
aprire perché sappiamo che lì dentro c’è qualcosa che ci fa vergognare, qualcosa
di doloroso e di terribile. Per questo tentiamo con tutte le forze di evitarlo
e di scappare. Per guarire però, per cauterizzare a fondo le nostre ferite, è necessario talvolta scendere nell’inferno del
dolore.
Il
vangelo dice “straziandolo e gridando
forte” (Mc 1,26). Ebbene: il verbo
“straziare” (sparassein, tirare fuori,
strappare, dilaniare, torturare) rende molto bene l’idea di questo difficile percorso,
di questo drammatico distacco dal maligno: è una lacerazione interiore che però
ci affranca, ci ridona la guarigione, la felicità, l’Amore, la Vita.
Non
aspettiamo, fratelli, che il “nemico” ci immobilizzi; lui è sempre pronto, è il
suo mestiere: “adversarius vester
diabolus tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret; il vostro
nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente cercando qualcuno da
divorare. Resistiamogli saldi nella fede” (1Pt
5,8). Questo deve essere il nostro proposito. E con Pietro vi assicuro che: “Il Dio di ogni grazia, che ci ha
chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avremo un
poco sofferto, ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà…” (Ib.).
A lui
la potenza e la gloria nei secoli. Amen!
«Passando lungo il mare di
Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in
mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò
diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono».
Anche oggi
parliamo di “chiamata”, di vocazione. Gesù passa e guarda. E vede Simone e
Andrea. Due pescatori che gettavano le reti. Ma cosa avrà mai visto Gesù di
tanto interessante in quei due, da poter dire: “Questi due possono essere miei
discepoli?”. In fondo stavano facendo soltanto il loro lavoro, un lavoro umile
e ordinario, che nulla aveva a che vedere con quanto avrebbero poi dovuto fare.
Ma Gesù ha capito al volo chi erano veramente, proprio da come preparavano il loro
lavoro, da come riassettavano le reti, da come si preparavano alla pesca. Lo ha
capito dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Perché è proprio da come viviamo
l’ordinario, fratelli, che gli altri possono capire chi siamo. Lo possono
capire da come parliamo con chi ci sta vicino, da come trattiamo il prossimo, da
come gesticoliamo, da come ci muoviamo: sono questi piccoli e insignificanti
particolari che rivelano subito agli altri se siamo soddisfatti oppure no, se siamo
arrabbiati con noi stessi e con la vita, oppure se viviamo “dentro” la nostra vita.
È dall’ordinario del nostro vivere che appare chiaramente se siamo disponibili
a seguire il Signore: dalla passione che mettiamo nel fare le cose umili, dai
particolari del nostro comportamento, dalle reazioni spontanee, non studiate, incontrollate,
istintive; dalla gioia e dalla serenità che naturalmente riusciamo a
trasmettere.
Sì,
perché la nostra felicità, la nostra gioia, non dipende tanto dal numero di
cose che possediamo, dalla quantità delle nostre ricchezze, dall’opulenza, dal
lusso sfrenato, quanto dal saper apprezzare quel poco che abbiamo, dal saperlo
gustare, dal condividerlo con i fratelli, dal saperci accontentare sempre, dal capire
che possiamo essere felici anche senza niente.
Del
resto, come uno si comporta nel poco, così si comporterà anche nel molto; chi è
fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto, perché l’uomo che affronta le
piccole cose quotidiane, è lo stesso che affronterà le grandi cose della vita;
la stessa forza, la stessa passione, la stessa energia, lo stesso desiderio e
amore che mette nelle cose piccole, li metterà anche nelle grandi.
Gesù dunque
ha osservato questi uomini nella loro quotidianità, nelle piccole cose di tutti
i giorni, ed è qui che ha visto la loro grandezza. Perché non è mai ciò che facciamo
che ci rende grandi, ma è la cura, l’amore che ci mettiamo nel farlo, che rende
grandi e importanti noi e ciò che facciamo. Gesù non aveva bisogno di chiedere a
chi incontrava per la strada dei curricula studiorum o degli attestati di
frequenza alle scuole rabbiniche del tempo. Nulla. A Gesù è bastato vedere queste
persone nella vita di tutti i giorni per capire benissimo chi erano anche nel
cuore, nell’anima. “Voi – dice Gesù – pescate con passione, pescate con amore i
pesci: se lo fate con loro, sicuramente lo farete anche con gli uomini”. E fa
loro a bruciapelo una proposta sconvolgente: da pescatori di pesci, diventare pescatori
di uomini. Un cambiamento radicale, totale. E loro accettano. Piantano tutto e
lo seguono.
Eppure,
continuando a leggere il vangelo, li ritroviamo più avanti a fare lo stesso
lavoro alle reti, vediamo ancora, e più volte, che continuano tranquillamente a
pescare (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), a condurre esattamente la vita di prima, ad avere
ancora rapporti con le loro case, con i loro familiari (Mc 1,29-31, ecc). Ma allora
viene spontaneo chiederci: “Dov’è la differenza? In che cosa sono cambiati?
Cos’è che hanno abbandonato?”
Ecco, fratelli: è la loro vecchia mentalità che essi hanno abbandonato; è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: è cambiato completamente
il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca (il lavoro) e la casa
(la famiglia) erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella
vita la cosa più importante, l’unica, è l’amore; e l’amore lo puoi ricevere
solo dalle persone, non dal lavoro, non dalla casa!
Una
barca non ci può amare. Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola,
in ordine o in disordine, in centro o in campagna, ma non ci può amare. Ci può
ospitare, accogliere, ma non amare. E allora, fratelli, perché continuiamo a sognare
case e ville sontuose, perché continuiamo a condizionare la nostra felicità al
possesso di una siffatta casa, al possesso di vetture lussuose, di beni incalcolabili?
La casa, le vetture, i beni, non ci possono amare e non c’è felicità senza
amore! Il lavoro stesso non ci può amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi
per campare, ci garantisce una certa stabilità, un qualche prestigio sociale.
Ma non ci può amare. E perché allora continuiamo a lavorare come dissennati,
ponendo il lavoro, la carriera, la produzione al di sopra di tutto e di tutti? Molti
vivono solo per lavorare, come se non ci fosse nient’altro: non è una battuta,
fratelli, è la pura verità: c’è chi è convinto che il lavoro sia l’unico scopo
della loro vita; salvo poi a pentirsene quando è troppo tardi e si scoprono
vecchi, depressi, tristi, ansiosi, arrabbiati; non hanno saputo mai aver tempo
per Dio, per loro stessi e per gli altri!
Ecco,
questo è il nostro cambiamento, fratelli; in questo consiste la grande conversione
della nostra vita. Se noi crediamo che tutto quello che facciamo o abbiamo, ci
renda felici, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone. Abbiamo
mai provato ad accarezzare i nostri soldi? Forse ci comunicano amore? Eppure
la nostra società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli,
in cui ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è
tutto; paroloni che si rincorrono incessantemente, sempre gli stessi, con frequenza
e precisione maniacale: lavoro, produzione, orari senza fine, tutti i giorni
della settimana, tempi ristretti, carriera, soldi, concorrenza, libero mercato,
globalizzazione.
Leggiamo
il vangelo, fratelli: c’è mai scritto che Gesù lavorasse senza sosta, che fosse
ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le
scadenze? Che perdesse la calma per non aver raggiunto qualche “target”? No,
fratelli; lo troviamo invece spesso a dare e ricevere amicizia, usare carità, tenerezza, comprensione,
sicurezza, contatto a uomini e donne. Sicuramente Gesù non era ricco: ma
di certo come uomo era felice e tanto amato.
Non si
può essere autentici discepoli di Cristo, se non si è “liberi”. “Ecclesia” vuol
dire letteralmente “i convocati fuori”. La chiesa quindi dovrebbe essere non un
gruppo di persone che agiscono per piacere agli altri, per avere la loro approvazione;
ma un gruppo di persone, “libere” da pressioni interiori, che non hanno altro
interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello per cui sono
chiamate, con amore e generosità, spinte non dalle sete di consensi, ma dalla sicurezza
di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno
è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
I
primi discepoli hanno accolto l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di
lasciare le barche, di lasciare la loro casa, di convertirsi, cioè di cambiare
vita, di cambiare modo di vedere, era proprio il loro “adesso”. Non si poteva
rimandare, non si poteva far finta di nulla: e loro hanno seguito Gesù, per
costruire il regno di Dio.
Quando
si parla del regno di Dio, le persone sono disorientate: “Cosa vuol dire? In
che consiste?”. C’è chi pensa al paradiso, all’altra vita, chi pensa a chissà
cosa. Niente di tutto questo fratelli: il regno di Dio è la Vita Vera, quella reale,
quella che dobbiamo vivere oggi seguendo fedelmente gli insegnamenti di Gesù.
Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che noi facciamo per vivere questa Vita
vera, serve per realizzare il regno di Dio in noi. Ecco perché è importante scegliere
adesso, perché non possiamo rimandare: perché è la scelta che cambia decisamente
la nostra quotidianità. La scelta realizza, concretizza, trasforma in vita
vissuta ciò che è mera possibilità.
Il Regno
di Dio è agire adesso, subito: mettiamo finalmente ordine al nostro disordine
interno. I discepoli hanno ricevuto una proposta: era ardita, rischiosa, provocante e fuori dai loro schemi; era controcorrente. Ma le
parole di Gesù riempirono la loro anima. Sentirono i loro cuori incendiarsi di
amore per Lui.
E noi che
facciamo? Dio aspetta una nostra risposta,il tempo a nostra
disposizione ormai sta per esaurirsi; ecco perché è importante agire adesso.
Altrimenti il Regno di Dio rimane nei libri, il nostro voler ritornare ad essere
“sua immagine” rimane un pio desiderio, un progetto mentale, ipotetico, mai
realizzato.
Anche
i primi discepoli si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi?”; “Cosa abbiamo
di speciale noi?”. Niente! Assolutamente niente. E noi come loro. Dio non ha
mai scelto uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o
super-dotati. Ha scelto sempre persone umili, disponibili, persone pronte
a farsi coinvolgere, a mettersi in gioco. Gesù non ha mai chiesto ai suoi
discepoli di essere perfetti, ma disponibili, aperti: Pietro dubitò e lo rinnegò più
volte; era chiamato “roccia” anche per via della sua testa dura. Giacomo e
Giovanni erano presuntuosi, ed erano chiamati “figli del tuono”, proprio perché
“peperini”, suscettibili, carrieristi, al punto da litigare tra loro per il posto da occupare nel futuro “regno”. Tommaso era sospettoso, dubbioso e diffidente: se non toccava, se
non c’era e non vedeva, lui non ci credeva. Giuda era attaccato ai soldi e,
addirittura, lo tradì. Ecco fratelli: tutte queste miserie ci confermano che Dio lavora con
quel poco che ha a disposizione, e non con quello che vorrebbe. Uomini comuni, pieni di difetti, pieni di limiti e a volte immaturi; uomini, però, che si
misero completamente in gioco. Il
vangelo dice che “lasciarono”: lasciarono le loro idee, i loro pregiudizi, le
loro fissità e lo seguirono.
Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre
e solo una cosa: di lasciare le nostre barche, la nostra sponda, la nostra casa, di fidarci
di lui e seguirlo.
Se noi
non siamo convinti di poter lasciare ciò che già siamo, ciò che sappiamo, ciò che
costituisce la nostra sicurezza, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di
sconosciuto, allora, fratelli miei, noi non siamo ancora pronti per seguire
Gesù.
La nostra vita, in realtà, è purtroppo un aggrapparci a tutto. Ci attacchiamo a tutto
quello che ci capita a tiro - lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee - pur
di non schiodare dalle nostre posizioni. Cerchiamo ovunque garanzie, certezze,
rassicurazioni, vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani: ma
questo è semplicemente assurdo.
Se ci
fermiamo a pensare a quello che potrebbe succederci, è la fine; perché potrebbe
succederci veramente di tutto. Se ci fissiamo a pensare al domani, al futuro, a
cosa accadrà o non accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto,
beh, allora fratelli, lo ripeto, è davvero la fine! Il segreto della vita è invece abbandonarsi,
fidarsi, smettere di pianificare tutto. Smettiamola di preoccuparci,
fratelli; comportiamoci come i discepoli del vangelo di oggi: si sono donati
alla Vita (l’hanno seguita) e la Vita li ha portati dove mai si sarebbero
sognati di andare da soli. La Vita ha compiuto con loro un’opera meravigliosa,
perché non hanno voluto essere loro a pianificare la loro vita. Anzi, l’hanno donata
alla Vita: hanno cioè smesso di decidere loro, lasciando che la Vita decidesse
per loro. Non si appartenevano più: nulla era cambiato, ma tutto era cambiato.
Ecco
fratelli: questo è donarsi a Dio; questo è abbandonarsi a Dio; questo è
seguirlo: lasciare che sia Lui a portarci là dove ci deve portare. Donarsi a
Dio, seguirlo, non è realizzarci in qualcosa o diventare qualcosa; è
semplicemente lasciarsi portare, lasciarsi cambiare, ricostruire, plasmare da Lui.
Dobbiamo
infine convincerci, fratelli, che quel “vieni e seguimi” è una proposta di
felicità, di vita piena, di vita vera, una offerta di enorme valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una imitazione, ad una “sequela”: preghiamo allora
con tutte le nostre forze per avere il coraggio di “andare”, di non rinunciare mai
a vivere e ad essere come lui ci chiede, di non resistergli; preghiamo per
avere il coraggio, come i discepoli, di lasciare tutto per diventare anche noi
pescatori di uomini. Non temiamo: facciamo pure le nostre considerazioni su questa chiamata; valutiamone le paure, le responsabilità, ma anche la bellezza e la sua attrazione. Ma muoviamoci, non perdiamo tempo. Egli ci ha già chiamato, fratelli: e
la risposta è ora solo nelle nostre mani. Amen.
«Che cosa cercate?». Gli risposero:
«Rabbi, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».
Tema
della Parola di oggi è “la chiamata”. La chiamata è l’irruzione di Dio nella
storia di una persona. Avviene per ogni uomo ma accade solo quando una persona
è disponibile, aperta, pronta ad accoglierla e soprattutto quando si lascia
coinvolgere. Normalmente, quando parliamo di “chiamata” di “vocazione”,
pensiamo immediatamente a preti, frati e suore. E invece no, fratelli, perché tutti
siamo chiamati a seguire Cristo. Nessuno escluso. Essere preti, frati, suore, sposati,
padri o madri, è solo il mezzo, il veicolo, la via che ci serve per arrivare
alla meta; è la strada che ci porta a compiere ciò che dobbiamo compiere, ciò
che dobbiamo diventare, ciò che dobbiamo raggiungere: testimoniare e vivere
questa nostra esistenza conformandoci al nostro Maestro. Ed è importante,
fratelli miei, non confondere la meta, il punto di arrivo, Cristo, con il mezzo
utilizzato per raggiungerlo; sarebbe come chiamare “sinfonia” gli strumenti
musicali che concorrono a suonarla.
La
chiamata inoltre è individuale, personale: ma è anche in qualche modo
contagiosa; si trasmette cioè da una persona all’altra per emulazione, per “mediazione”:
così il Battista è una mediazione per Andrea; Andrea è una mediazione per Simon
Pietro; nei versetti successivi (1,43-51) Filippo, che aveva incontrato Gesù,
diventerà mediazione per Natanaele; Simon Pietro, poi, sarà una mediazione per
tanti altri uomini che, a loro volta, lo sono stati, lo sono e lo saranno per i
cristiani di ieri, di oggi e di domani.
Anche
la fede si trasmette per “mediazione”: è cioè un virus, un passaggio, una
trasmissione, un contagio. Se viviamo una cosa che ci inebria, che ci
coinvolge, che ci attira, è naturale, ovvio, che ne parliamo, la comunichiamo.
Come facciamo a tenerla per noi? Come facciamo a non dirla, se ci appassiona? Non
ci limitiamo a dare una semplice informazione ma comunichiamo qualcosa che per noi
è vitale, qualcosa che ci ha cambiato la vita. E questa, fratelli, è la
testimonianza, questa è la missione. La fede non la si comunica per
indottrinamento, per imposizione, inculcando e pressando dentro la testa delle
persone dei concetti e delle verità, ma per contagio. “A me ha cambiato la
vita. Vuoi provarci anche tu?”. “Io non sono più lo stesso, sono un altro, sono
cambiato, sono felice. Questo mi è successo da quando l’ho incontrato. Vuoi
provare?”. Quante esperienze, fratelli miei, abbiamo cominciato come nel
vangelo, per semplice curiosità. C’è uno che dice: “Lo sai che quell’incontro è
proprio bello? Sai che quell’esperienza è stata veramente bella? Sapessi quanto
è brava quella persona!”. E l’altro, un po’ per amicizia, un po’ per curiosità,
si fida e va. E poi non smette più di andarci.
Bisogna
però essere almeno curiosi. Bisogna almeno fidarsi. Bisogna almeno provarci.
Bisogna almeno lasciarsi contagiare. Bisogna, cioè, torniamo a dirlo, lasciarsi
coinvolgere. La fede, come la vita, come l’amore, come tutto ciò che è intenso,
è coinvolgente. Se abbiamo paura di cambiare, di metterci in gioco, di
soffrire, di star male, di sentire le emozioni, non possiamo seguire il
Signore. Dio è coinvolgimento totale, per questo è difficile seguirlo! Dio è
coinvolgimento totale, per questo, seguirlo, è affascinante, inebriante,
vitale!
Molti credono
che la “chiamata” sia una telefonata speciale di Dio. Una mattina ci suona il
telefono, rispondiamo, e una voce perentoria: “Sono Dio, devi seguirmi!”. E
così per tutta la vita aspettiamo chissà cosa o chissà chi che ci dica come e
quando; aspettiamo chissà quale fatto straordinario, che ci faccia finalmente partire.
Ma in realtà il nostro è solo un pretesto per rimanere come siamo. Non ci sarà
mai niente di ufficiale e di solenne, fratelli; Dio passa e ci suggerisce, attraverso
un amico, una persona, una casualità, un evento fortuito, una situazione, una
intuizione: “Vieni; provaci; fallo anche tu!; segui il tuo cuore”. E noi lo
facciamo; perché la fede, cari fratelli, anche se debole, comporta proprio
questo: fidarsi e andare (“Vieni e seguimi”). Sì, la fede è fiducia.
Pietro
si fida di Andrea: è suo fratello, è pieno di entusiasmo per quest’uomo; e
pensa: “Beh, perché non provarci? Perché non andare? Andiamo a vedere!”. Pensate:
se Pietro non si fosse lasciato coinvolgere dall’entusiasmo di suo fratello, se
non si fosse fidato, non sarebbe diventato il primo degli Apostoli, il primo Papa
della Chiesa cristiana. Dio passava in quel momento e gli chiedeva di cogliere
l’attimo, l’occasione, di fidarsi di suo fratello e di lasciarsi coinvolgere.
Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo dopo. Ma si è fidato.
La
fede è la cosa più personale che ci sia: soltanto noi, singolarmente, possiamo sentire
la chiamata, cogliere l’occasione al volo e dire di sì. La responsabilità della
risposta è tutta e solo nostra. La fede è la cosa più facile che ci sia, basta
dire: “Sì”. Però dobbiamo scegliere. La fede è la cosa più entusiasmante che ci
sia, perché ci coinvolge personalmente, vuole noi e non altri. Ma la fede è anche
la cosa più difficile che ci sia, perché dobbiamo fidarci ciecamente.
In
questo brano del vangelo c’è poi un bellissimo gioco di sguardi e una
insistenza sul verbo “guardare”. Prima Giovanni Battista fissa lo sguardo su
Gesù (1,36); poi è Gesù che fissa lo
sguardo su Pietro (1,42), quindi
sempre Gesù si volta e vede che lo seguono (1,38),
e dice: “Venite e vedrete” (1,39). E
i due discepoli, come conseguenza, “andarono e videro” (1,39).
Gli
occhi dicono di una persona molto di più che tutte le sue parole. Perché gli
occhi sono lo specchio dell’anima, e, fratelli, non è solo un modo di dire: gli
occhi, veramente, proiettano un raggio che viene da dentro; quello che siamo,
quello che abbiamo, quello che viviamo, nella nostra anima, viene visualizzato,
viene rivelato dagli occhi, dallo sguardo. Se guardiamo negli occhi di una
persona, possiamo vedere la sua anima. Per questo quasi mai ci guardiamo negli
occhi; temiamo delle intrusioni, abbiamo quasi paura ed è come se ci dicessimo:
“Io non guardo dentro di te, e tu non guardare dentro di me”.
Alcune
persone hanno occhi ostili, che ci giudicano, che ci condannano; occhi
magnetici, da cui siamo, come dire, presi, ingabbiati, posseduti: occhi
mortiferi, occhi negativi, perché è l’anima di queste persone ad essere così. Ma
ci sono anche persone con uno sguardo dolce, che salva, che ci guarisce, che ci
libera, che ci fa sentire amati e riconosciuti. Occhi che sono una rugiada per
le nostre paure, per le nostre debolezze, per la nostra vergogna. Sono gli
occhi dell’amore perché l’anima di queste persone è piena d’amore. E noi abbiamo
bisogno di essere riconosciuti. Noi tutti abbiamo bisogno di essere visti,
considerati, apprezzati, amati.
Giovanni
Battista “fissa lo sguardo” su Gesù e Gesù “fissa lo sguardo” su Pietro. Non è
uno sguardo veloce, il loro; non un guardare fugace, soprapensiero, distratto. È
un guardare penetrante, di quelli che ti scavano dentro, di quelli che ti fanno
rabbrividire ed emozionare perché non guardano la pelle del viso o il colore degli
occhi, ma scrutano, dentro, l’anima e il cuore.
Molti
sono convinti di conoscere una persona prima ancora di vederla, di fissarla
negli occhi, di conoscerla, e si fermano a questa prima impressione per
emettere giudizi e sentenze. Niente di più sbagliato: per conoscere a fondo una
persona, abbiamo bisogno di fissarla negli occhi, non di fissarci sulle nostre idee,
sulle nostre impressioni; abbiamo bisogno di guardarla, di guardarla soprattutto
dentro, di guardarla attentamente; perché le persone sono molto più rivelatrici
ed esaurienti di qualsiasi nostra idea, di qualsiasi nostra teoria psicologica.
E poi
abbiamo bisogno che qualcuno guardi dentro anche a noi. Abbiamo bisogno che
qualcuno ci fissi, come Gesù ha fatto con Pietro; che veda ciò che abbiamo
dentro e che non abbia paura (almeno lui, visto che noi a volte ne abbiamo
tanta) di quello che vede, che non si vergogni di noi, ma che anzi sappia “vedere”
il nostro vero volto, la nostra vera identità.
Visto
all’esterno, Simon Pietro era un pescatore, uno fra i tanti, niente di
speciale. Ma Gesù gli ha visto dentro: “Tu sei di più, Simon Pietro. Io credo
in te. Io ho visto ciò che hai dentro. Io vedo la tua passione, il tuo fuoco,
la tua sensibilità. Vedo anche la tua durezza, la tua cocciutaggine, ma vedo
tutta la tua ricchezza, la tua generosità. Tu puoi essere diverso. Puoi essere
un altro. Tu non sei una pietra qualunque ma una roccia”.
L’amore
è così: uno entra dentro di noi e vede ciò che noi non vediamo.
Ci
sono poi due domande da sottolineare: “Che
cercate?” e “Dove abiti?” (1,38) e una risposta: “Venite e vedrete” (1,39). Domande e
risposta che costituiscono il centro della nostra fede: Vuoi sapere chi sono?
“Seguimi!”.
Gesù
non ha dato una risposta, non ha fornito una soluzione, pronta e impacchettata;
non ha dato un ordine secco, e non ha neppure detto cosa fare o cosa non fare.
Gesù ci invita a percorrere una strada, un cammino, una via: “Venite e vedrete”.
Chi vuole, lo segua. Gesù non fa una lezione di catechesi, un discorso, una
bella conferenza; dice semplicemente: “Venite e vedrete”. Cioè: “State al mio
fianco e voi stessi ve ne farete un’idea; venite a casa mia, ascoltate quello
che dico, guardate quello che faccio”.
Gesù
non ha mai costretto nessuno. Il suo è un invito, una proposta. “Seguimi”, solo
se lo vuoi, se ti va. E molti, infatti, non lo seguirono allora (ricordate il
giovane ricco?) e non lo seguono ora. La fede vive di libertà, così come tutto
ciò che è importante (l’amore, i rapporti tra le persone). La fede cristiana
non è una teoria o una serie di pratiche ma è una esperienza, un rapporto, una
relazione, una comunione. È vita, perché è esperienza, rapporto con Qualcosa di
Vivo.
Quanti
di noi che si ritengono religiosi (e ne sono fieri!), in realtà non vivono
questa fede. La loro, fratelli miei, è una fede “morta”. Perché? Perché non
sanno provare misericordia per il prossimo; sono incapaci di provare la gioia
dell’amore gratuito; sono impassibili, di ghiaccio, nei confronti di chi
sbaglia: con loro non c’è alcuna possibilità di comunione. Non si entusiasmano,
non sanno abbandonarsi a slanci di gioia, disdegnano l’immenso e la vastità
della carità; non sanno commuoversi di fronte alle nuove nascite né al
progressivo crescere dei bambini; sono duri, insensibili, non sanno piangere
quando il loro cuore è affranto e piegato dal dolore; non c’è poesia in loro, non
c’é canto, né lode, né contemplazione nella loro fede; ma solo tristezza,
sentimenti tetri e funerei.
Quando
invece, il “vieni e seguimi” di Gesù è
completamente all’opposto. Gesù ha predicato là dove c’era vita: c’erano sì il
dolore, la malattia, lo sconcerto e l’abbandono: ma erano vita! Gesù è andato proprio
là dove c’erano le catene, e le ha rotte, ha portato liberazione. È andato là
dove c’era dolore e sfiducia e ha portato luce. È andato dove c’era sordità e indifferenza,
e ha portato la musica del cuore e dell’anima. È andato là dove le persone non
camminavano, schiacciate dalle contrarietà della vita, le ha risollevate e ha
dato loro dignità. È andato dove nessuno voleva andare, perché per Lui non
esistono luoghi dannati, in cui un raggio della sua luce non possa arrivare. I
suoi discepoli li portava tra la gente: in mezzo al dolore, alla malattia, alla
disperazione, alla morte; ma anche in mezzo alla gioia, alla festa, in mezzo
alla gente che si divertiva e che era viva dentro: insomma li portava ovunque
c’era vita: quella vera, però, quella che spera sempre, quella che si
entusiasma, quella che soffre e che si lascia anche andare, ma che è sempre
pronta a rialzarsi e ripartire. Gesù non lo troviamo mai nei palazzi dei nobili,
alla corte dei ricchi, nei luoghi del potere civile e religioso, dove la vita è
mortificata, fissata, cristallizzata, pianificata, stabilita. Lo troviamo solo là
dove la vita scorre, fluisce, diviene. Perché lui è la Vita che guarisce la
vita.
Dio infatti
non guariva le persone sradicandole dalla loro vita, trasferendole in altre
realtà: Egli le guariva mettendole a contatto con le loro situazioni concrete,
con le loro malattie, le metteva di fronte alle loro infermità, alle loro miserie,
a tutto ciò che esse non volevano vedere e toccare. Questo perché, fratelli, è
solo “toccando”, solo rendendoci conto delle nostre infermità, del nostro
malessere, che si può guarire. Seguire quindi Gesù vuol dire prendere, toccare,
mangiare, in una parola vuol dire impossessarci della nostra vita, così com’è.
Dio
non lo incontriamo solo in chiesa: anzi lo incontriamo soprattutto fuori, nella
vita; dentro, semmai, lo possiamo incontrare solo se la Chiesa è veramente vita,
comunione, carità, e non formalità, un accavallarsi di riti e parole vuote,
senza senso. È entrando nella vita, con tutte le sue variabili, le sue
difficoltà, i suoi alti e bassi, le sue salite e discese, le sue ripartenze e i
suoi fallimenti, le sue sfide e le sue conquiste, che noi certamente incontreremo
il Dio di Gesù Cristo. È solo entrando nella nostra vita e prendendola sul
serio come un dono ricevuto dalle mani di Dio, come avuta da Lui, senza
esimerci, senza sottrarci, senza sfuggirla, che lo incontreremo. Purtroppo la
vita (e scusate se insisto su questo) non è una strada in discesa, come piacerebbe
a noi! La vita è contorta, strana, oscura, misteriosa; a volte è crudele e a
volte è meravigliosa. A volte la capiamo, altre no. Dio lo sa questo; e quando ci
chiama, non ci sottrae alle contraddizioni della nostra vita, ai nostri lati
oscuri, alle zone di mistero, ai conflitti inevitabili o ai dubbi che ci tormentano.
Dio anzi ci butta dentro tutto ciò. Ci sommerge. Gesù non ci tira mai fuori
dalla nostra esistenza; Egli ci chiama a diventare suoi discepoli così come
siamo.
Dio è
una realtà così coinvolgente e trascinante, da farci vivere completamente con
Lui e per Lui. Però, fratelli miei, se noi continuiamo ad aver paura di lasciarci
andare, se non siamo pronti a buttarci tutto alle spalle, se temiamo di provare
questo brivido, anche se solo dubitiamo dell’infinita ricchezza di questa vita,
allora, fratelli, non saremo mai in grado di poterlo seguire. Ripeto, mai; e qualunque
Sua chiamata cadrebbe puntualmente nel vuoto. Perché? perché non siamo
disponibili a vivere il suo “brivido”, non abbiamo il coraggio di buttarci. Dio
invece ci offre di vivere solo ad alta quota; di camminare sempre a tutta
velocità, a tavoletta; di tuffarci continuamente dentro le cose con crescente entusiasmo.
Egli ci prende, ci appassiona, ci attira: è irresistibile. Lo abbiamo visto con
i chiamati della prima ora, gli apostoli: dopo aver accolto la Sua chiamata,
non poterono più tirarsi indietro. Furono sedotti, conquistati. Per loro Dio fu
letteralmente un colpo di fulmine, un blitz, una luce abbagliante, una illuminazione
totale, un innamoramento senza precedenti. Ecco, questo è il punto. Questa è la
realtà, fratelli: e finché Dio non sarà anche per noi fuoco, amore, luce, vita,
è inutile che ci illudiamo pensando di essere suoi discepoli; non lo siamo e non
lo saremo mai; se il nostro cuore non vive in Dio e per Dio, davanti alla gente
possiamo anche sembrare degli ottimi cristiani, ma non arriveremo mai a conoscerlo,
a viverlo così come Egli è. Quindi, fratelli, niente scuse, niente giustificazioni,
né scorciatoie. È questo il nostro compito e dobbiamo assumercelo: andare e seguirlo. Come Lui ci ha
insegnato. Come hanno fatto gli apostoli. Nient’altro. Amen.
«Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel
Giordano da Giovanni».
Con la
festa del Battesimo di Gesù, concludiamo il Tempo liturgico del Natale. Da domenica
prossima entreremo nella prima parte del Tempo Ordinario, che terminerà con l’inizio
della Quaresima.
Oggi, il vangelo ci ripropone la figura del Battista che parla
di un battesimo d’acqua, preannunciando un battesimo in Spirito Santo per mano
di uno “più forte di me”, che “verrà dopo di me”.
Gesù si fa dunque battezzare
da Giovanni Battista con un battesimo d’acqua. Un rito con cui Egli simbolicamente
ri-nasce: non a caso, infatti, il suo immergersi nel Giordano (yared, battezzare, in ebraico significa immergere) viene messo come inizio della sua vita pubblica.
Anche
per noi, il battesimo d’acqua segna l’inizio della vita, la nostra nascita alla
fede, ma sarà poi il battesimo di fuoco che ci renderà veri credenti. Ciò che
siamo chiamati a fare è pertanto di uscire dall’anonimato, dall’essere come tutti (che equivale
ad essere nessuno) e di darci un “nome”, un carattere, una fisionomia adulta; dobbiamo cioè testimoniare
esattamente chi siamo: e questo è il nostro battesimo di fuoco.
Con il battesimo d’acqua semplicemente
“nasciamo”, con il battesimo di fuoco diventiamo chi dobbiamo diventare: ossia dei
cristiani pronti a testimoniare con la vita quanto credono e come credono;
quanto siano fedeli a ciò in cui credono e che li appassiona
dentro.
La
chiamata (battesimo d’acqua) dei grandi personaggi della Bibbia, quella vera, quella di Dio, è sempre
accompagnata da cammini, prove, viaggi difficili, duri, faticosi, durante i quali Dio forgia
e purifica il suo prediletto: Noè deve costruire l’arca tra la derisione di
tutti; Abramo deve partire senza conoscerne il motivo; Mosè deve attraversare
il Mar Rosso e il deserto; Giobbe e Tobia compiono dei viaggi difficili e pericolosi. Sono le premesse che portano necessariamente alla purificazione, al fuoco.
La radice
ebraica di “fuoco” (a-sc) è presente
sia nella parola uomo (a-i-sc) che
donna (a-sc-ha). Quindi, per diventare noi
stessi, non importa se uomini o donne, per realizzare la nostra missione di
credenti, dobbiamo necessariamente passare attraverso il fuoco.
Gesù stesso dirà:
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già
acceso! Ho un battesimo da ricevere (il battesimo di fuoco), e grande è la mia
angoscia finché non l’avrò ricevuto. Pensate che io sia venuto a portare la
pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione…” (Lc 12,49-51).
Il
vero battesimo, pertanto, sta nella nostra vita concreta, consiste nel nostro forgiarci, nel nostro
costruirci, nel nostro andare verso noi stessi e gli altri.
Allora,
fratelli, dobbiamo smetterla di pensare o di credere che essere cristiani
voglia dire essere semplicemente battezzati. Quando fanno le inchieste e ci dicono che il 95%
degli italiani sono cristiani, è falso. Il 95% saranno quelli battezzati con l’acqua; ma “essere”
cristiani è un’altra cosa, vuol dire passare attraverso il battesimo del fuoco.
La
gente crede ancora che “seguire Gesù” sia qualcosa di comodo, di tranquillo, di
indolore; che sia sufficiente qualche pratica, andare a messa ogni tanto o
dire qualche preghiera.
Nossignori, seguire Gesù è fuoco. È passione che brucia dentro; che non ci permette di rimanere indifferenti di fronte alle ingiustizie che vediamo, di fronte ad una
società che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori scriteriati che
trattano i propri figli come se fossero delle belle marionette o dei burattini.
Seguire
Gesù è passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti.
Potremmo tranquillamente starcene in disparte e farci gli affari nostri, e invece no; dobbiamo metterci
in gioco, rischiando in prima persona.
Seguire
Gesù è fuoco purificatore che brucia tutto ciò che di impuro c’è dentro di noi.
Allora ci accorgiamo che siamo noi, e non gli altri, gli invidiosi; siamo noi quelli in
continua competizione, siamo noi i gelosi. Che siamo noi, e non gli altri, a non amare i fratelli; che siamo sempre noi a voler
possedere, gestire, manipolare. Infine, che noi, e non gli altri, abbiamo bisogno di umiltà
per cambiare, per crescere, per modificarci.
Purtroppo
non è facile cambiare, fratelli miei. Non è piacevole scoprire certe meschinità
dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un
lavoro continuo. Nessuno mai ha detto che sarebbe stato facile! Però che sarebbe stato
entusiasmante, passionale, eccitante, caldo, che ci avrebbe dato la sensazione di
vivere in profondità, che la nostra vita avrebbe avuto finalmente un senso, sì, questo
sì ci è stato detto e dimostrato, da uno stuolo di santi.
Dostoevskij
scriveva: “Senza la sofferenza non potremmo mai capire la felicità. Un ideale
passa sempre per la sofferenza, come l’oro per il fuoco. Solo con lo sforzo,
con il fuoco, si può raggiungere il regno dei cieli”.
È il
fuoco della prova, fratelli. Gesù ci saggia, ci purifica con il fuoco, ci fa passare per
incroci pericolosi ed esigenti. Gesù ci toglie in questo modo tante nostre illusioni, tanti nostri
miraggi e le bugie che ci raccontiamo. Un amico vescovo, rievocando un giorno la
comune infanzia, mi disse di un nostro compagno, allontanatosi
poi dalla fede: “Pensavo che il suo essere buono, allegro e propositivo dipendesse
da una fede forte; invece, evidentemente, godeva solo di ottima salute!”. Facciamo allora in modo, fratelli, di non far dipendere il nostro credo dai bioritmi, da oroscopi idioti, dai falsi richiami,
dai falsi entusiasmi, dai falsi stati d’animo, che poi finiscono sempre per rivelarsi frutto di autentiche
paranoie! Il battesimo e la fede sono cose serie!
Abbiamo
detto che la parola greca baptizein (yared in ebraico) vuol dire immergersi, entrare dentro: in questo senso, possiamo ricavarne un
doppio significato, un doppio insegnamento, un doppio comportamento: uno ad extra, l'altro ad intra.
Nel primo caso “immergersi” significa “entrare dentro la vita degli altri”, non sottrarsi alle esigenze e alle
chiamate di vita del nostro prossimo. Con il battesimo di fuoco dobbiamo dare forma
alla nostra energia interiore, dobbiamo far uscire la passione che ci anima
dentro, farci travolgere dallo zelo, e riversarlo sugli altri. Significa essere aperti. Quanti di noi invece, fratelli miei, non hanno
più fuoco, non hanno più anima, non hanno più nulla, dentro di loro, da spendere per gli altri; niente di niente. Sono spinti in avanti solo dall’inerzia
di una vita inutile, che si trascina stancamente giorno dopo giorno, nella routine delle
solite cose. Immergersi nella vita di chi ci sta intorno, significa al contrario immergersi nella solidarietà, calarsi
nelle singole situazioni. Quando succede un fatto, molti dicono in cuor loro: “Non è
affare mio, si arrangino. È un problema che non mi riguarda”. Ebbene, questo
non è “immergersi”, fratelli; immergersi vuol dire: “Ciò che è toccato a te,
mi riguarda eccome, mi interpella direttamente; non posso rimanere indifferente, non posso
chiudere gli occhi e far finta di niente”. Essere “solidali” comporta un nostro preciso atteggiamento: “Io
ci sono. Io ti aiuto. Io sono dalla tua parte; perché ho un cuore che
brucia, che batte prepotentemente, che ama, che si appassiona”.
Il cristiano, il battezzato, non può rimanere
indifferente. Deve anzi scendere con decisione dalle sue sicurezze, dal suo io,
dal suo egoismo; e darsi da fare!
Nel secondo caso, l'immersione battesimale sta per “entrare dentro la nostra anima”, scendere in
profondità, nell'intimo del nostro cuore, individuare i nostri demoni, conoscerli, guardarli bene in faccia, confrontarsi con
loro.
Non a
caso anche Gesù, subito dopo il battesimo e prima dell’attività pubblica, ha dovuto
affrontare le tentazioni. Anzi Marco ci dice che fu lo stesso Spirito
del battesimo a spingere Gesù nel deserto (Mc
1,12), nella solitudine, perché si immergesse nei suoi demoni e potesse confrontarsi duramente con
loro.
E noi, siamo forse speciali? No fratelli, anche noi dobbiamo saggiare le
nostre forze, anche noi dobbiamo fare i conti con le nostre deformità, con le
nostre inclinazioni malvagie, con le nostre debolezze; dobbiamo conoscerle bene,
dobbiamo capire perfettamente quante e quali sono, per poterle combattere strategicamente
e uscirne vittoriosi. È questo che ci richiede il nostro vero battesimo, quello di fuoco.
Del
resto tutti abbiamo i nostri demoni più o meno nascosti (io ho i miei, e vi assicuro che a volte ne esco con le ossa rotte, con tremende batoste). Tutti noi, nessuno
escluso, abbiamo una seconda facciata: quella segreta, privata, nascosta, quella che non
vorremmo che gli altri vedessero mai, quella di cui molto spesso ci vergogniamo. È proprio su questa
che dobbiamo lavorare sodo. È in questa che dobbiamo immergerci, per scavare,
setacciare, lavare, purificare.
Lo so,
è duro, fratelli, è difficile; è come passare attraverso le fiamme. Ma è da lì che
dobbiamo passare. È lì, nel nostro Giordano, che dobbiamo immergerci; è lì, nel
nostro deserto, che dobbiamo batterci con i demoni infidi. Perché
fintanto che non li avremo individuati, affrontati e soggiogati, saranno sempre
loro ad averla vinta, a dominarci; saranno loro, in definitiva, a cantare vittoria. Ripeto: non sarà affatto piacevole,
anzi sarà come scendere all’inferno, ma quella è l’unica nostra possibilità.
Oggi dobbiamo dunque ri-attizzare il nostro battesimo
di fuoco: dobbiamo ridargli forza e ossigeno, perché è solo così che, con la forza di Dio, dopo anche lunghe battaglie, ne usciremo
sicuramente vittoriosi. Non solo vittoriosi ma completamente trasformati, grandi.
Perché,
nell’ottica divina, essere “grandi” non significa essere perfetti, ma
dimostrare di conoscere bene i propri demoni, il proprio niente. Essere “grande”, non significa non
sbagliare mai, ma avere l’umiltà di riconoscere i propri errori. Non è andare
avanti, sempre uguali, tanto per andare avanti, ma avere il coraggio di cambiarci. Dio non ci ama perché siamo
perfetti, no; Dio ci ama per quello che siamo: deboli, a volte spazzatura, ma
combattivi, reattivi. Gente umile ma tosta, che non si arrende mai, che ricomincia sempre
daccapo, che pur di crescere in Dio, non teme il fuoco della purificazione,
come l’oro nel crogiolo!
«Tu sei il Figlio mio, l'amato:
in te ho posto il mio compiacimento».
Il punto
centrale del battesimo di Gesù non è come per l’uomo la liberazione dal peccato
originale, chiaramente incompatibile con la sua natura divina, quanto l’esperienza
della Voce del Padre: una esperienza che è stata decisiva per la vita di Gesù, ne
ha causato la svolta: l’essersi cioè percepito Figlio del Padre, Figlio amato,
prediletto, unico.
Voce e parole che Gesù risentirà identiche nella Trasfigurazione, altra esperienza forte di Dio nella sua vita umana. E per questo, rivolgendosi al Padre, Egli lo faceva
dicendogli: “Padre, Abbà, papà mio”.
Gesù
aveva un rapporto confidenziale con Dio, perché si sentiva amato da lui. Non lo
sentiva come un superiore, come uno da temere e a cui tenere nascoste certe
cose o fargli vedere solo la faccia bella, quella buona. Era suo padre e Gesù si
sentiva amato e al sicuro con Lui.
Bene,
fratelli: quello che qui è detto per Gesù vale per noi.
Tutti
siamo infatti figli di Dio, i prediletti. Tutti, indistintamente, siamo i figli amati:
“Tu sei amato…; tu ai miei
occhi sei grande…; tu sei mio figlio prediletto…; non ti lascerò…; tu sei
importante per me…; ho dato la mia vita per te…; non ti abbandonerò…; non
sfuggirai dalla mia mano…; nessuno ti porterà via da me…; per quanto tu vada
lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio…;
tu non sei come nessun altro: tu sei unico per me…; qualunque cosa ti succeda,
non aver mai paura, perché io sono tuo Padre…”.
Ricordate?
Sono parole sue: ora, se credessimo veramente a queste parole, fratelli, niente
e nessuno potrebbe mai farci paura: chi dovremmo mai temere?
L’amore
umano, anche il più grande, pone sempre delle condizioni. Quello di Dio no. Il suo non è mai condizionato o condizionante. Dio
non è come l’uomo. Perché Dio ci ami, noi non dobbiamo diventare chissà cosa o chissà chi; per andare bene a Dio, non dobbiamo avere successo e ricchezze, né dobbiamo
diventare qualcosa di diverso da noi stessi. Non dobbiamo comportarci bene davanti
agli uomini, perché Dio ci ami; non dobbiamo rinunciare alla serenità e alla
felicità, perché Dio ci ami; lui ci ama comunque, per quello che siamo, nonostante tutto, così come siamo. Punto.
Dio è nostro Padre e nostra Madre: a Lui
possiamo raccontare tutto; anche ciò di cui più ci vergogniamo, anche ciò che
più ci fa male, ci ripugna, ci fa schifo. Lui ci ama lo stesso. Anzi ci ama di
più; un po’ come quella madre che ama tutti i suoi figli, ma riserva più affetto e più cure a chi è
ammalato.
È
difficile per noi, fratelli miei, credere e capire che Dio ci ami così, al di là di
tutto, proprio di tutto! Certo, noi vorremmo che Lui ci amasse, ma non vorremmo scoprirci, non vorremmo fargli vedere i nostri lati deboli, le nostre miserie: le cose di cui ci vergogniamo… gli errori del
passato… le infedeltà… i peccati… l’odio che coviamo per molte persone… la
rabbia furiosa che ci cova dentro… le nostre piccolezze o meschinità… il nostro
rifiuto nei suoi confronti….
Ci
rendiamo conto che il problema non è Lui, con il suo amore comunque assicurato; siamo noi, che siamo restii a farci
amare. Non è lui che non ci accetta, ma siamo noi che, conoscendoci, non ci sentiamo a nostro agio, ci vergogniamo di tanta bontà. Insomma, ci rendiamo conto che anche lasciarci amare da Dio, per noi è difficile; perché è difficile, nel nostro niente, nella nostra mentalità contorta, credere ad un amore incondizionato, disinteressato,
ad un amore fedele per sempre, ad un amore in cui noi non dobbiamo fare nulla,
ad un amore granitico che non ci tradirà e non ci abbandonerà mai. È proprio
così, fratelli! Siamo noi il problema. Allora fidiamoci, chiudiamo gli occhi e abbandoniamoci, completamente; ascoltiamo con Gesù la voce suadente del Padre che ci dice: Tu sei il mio figlio prediletto. Sì, fratelli, Dio è nostro
Padre; e noi siamo tutti figli suoi! Amen.