La Parola di oggi si apre riportandoci i discorsi e la testimonianza coraggiosa degli apostoli e in particolare di Pietro davanti al sommo sacerdote e al sinedrio. "Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo ad una croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra, facendolo capo e salvatore per dare a tutti la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui". Qui si dimostra la chiarezza dell'annuncio della fede, il coraggio della testimonianza, il superamento di ogni paura, addirittura la gioia del sacrificio per il Signore: "se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù".
Questo è Pietro, il capo dei dodici. Che storia particolare quella di Pietro!
Fu chiamato da Gesù sulle rive del lago, mentre era intento alla pesca. "Vi farò pescatori di uomini." Seguì Gesù in tutta la missione operata nella vita pubblica. Momenti di fervore e di entusiasmo, momenti di debolezza. Momenti di adesione profonda a Dio, altri di mentalità umana, addirittura di tentazione, di rinnegamento.
Ricordiamo quando disse a nome di tutti: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente", "Da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna". E Gesù a lui: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa". Ricordiamo anche quando protestava perché non voleva che Gesù parlasse della passione. E Gesù: "Allontanati da me, satana, perché tu pensi non secondo Dio, ma secondo gli uomini". Ma quando comprende di aver bisogno di purificazione si affida e dice: "Lavami non solo i piedi, ma anche il capo e tutto il corpo". Ricordiamo quando nel suo fervore e forse nella sua autosufficienza affermava: "Anche se tutti ti abbandonassero, io non lo farò mai". E Gesù: "Prima che il gallo canti, tu Pietro mi rinnegherai tre volte".
Difatti Pietro farà tutta l'esperienza della sua debolezza, della paura (non aveva ancora ricevuto la forza dello Spirito), della tentazione e della fragilità umana. Davanti ad una semplice donna, per tre volte protesterà: "Io non conosco quell'uomo (Gesù, col quale aveva vissuto per tre anni!). Gesù volle incontrario mentre lo conducevano al supplizio e lo guardò. Pietro sentì tutta la potenza di quello sguardo misericordioso e pianse il suo peccato.
Ed eccoci al vangelo di oggi. Gesù è risorto, lo hanno visto, ma ancora non sanno cosa fare. Ritornano alla vita e al lavoro normale, vanno a pescare. Ma sono ancora nella notte, con le loro forze umane non prendono nulla. Appare Gesù, arriva l'alba e la luce, li invita a pescare e con la sua grazia compiono una pesca grandiosa. Gesù si fa conoscere nella sua vita di risorto ma nella concretezza della sua persona: non è un fantasma, è il "Signore" e mangia con loro.
Poi c'è il dialogo intenso e commovente con Pietro, un capolavoro di grazia e di misericordia da parte di Gesù, un capolavoro di fervore, di umiltà, di fiducia, di abbandono, di affetto e amore sincero da parte di Pietro.
Per tre volte lo aveva rinnegato, per tre volte farà la sua professione di amore. Non solo professione di fede, ma di amore!
"Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?" "Certo, Signore, tu sai che io ti amo!"
Una seconda volta, una terza volta: "Mi ami tu?". Pietro, rattristato per la domanda fatta per la terza volta, si lascia andare all'umiltà e alla sincerità più grandi: "Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo!" E Gesù lo conferma nel suo compito di pascere il gregge, di guidare la Chiesa, di confermare i fratelli nella fede: "Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle".
Questa è la misericordia del Signore, questa è la sua grazia. Dio non si ferma davanti al peccato di Pietro, non si ferma davanti al nostro peccato. Dio chiede amore. "Molto ti è perdonato, perché molto hai amato", dirà un giorno. Dio non toglie la sua fiducia, anzi rinnova ancora di più questa sua fiducia e autorizza alla missione più grande. Pietro vivrà il suo ministero nell'amore e nell'umiltà, sarà il capo della Chiesa e saprà compatire e incoraggiare, perché lui stesso sa di essere un peccatore.
Gesù si comporta così anche con noi. Anche a noi chiede: "Mi ami tu". Vogliamo rispondere: "Signore, sì, tu sai tutto, tu sai che io ti amo (nonostante le mie debolezze)". Ognuno di noi, nella nostra vocazione e nella nostra missione di cristiani ha tutta la fiducia del Signore, ognuno di noi è ricolmato di misericordia e di grazia. Dobbiamo essere umili e misericordiosi perché abbiamo tante volte fatto l'esperienza del peccato, ma dobbiamo essere ferventi e generosi per esprimere tutto il nostro amore al Signore e il nostro impegno nell'annuncio e nella testimonianza, perché Gesù ha dato anche a noi lo Spirito Santo e la sua forza. E la nostra vita trova la sua piena realizzazione nell'amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi.
venerdì 16 aprile 2010
giovedì 8 aprile 2010
11 aprile 2010 - II Domenica di Pasqua
La Pasqua di Cristo è l’atto supremo e insuperabile della potenza di Dio. È un evento assolutamente straordinario, il frutto più bello e maturo del "mistero di Dio". È così straordinario, da risultare inenarrabile in quelle sue dimensioni che sfuggono alla nostra umana capacità di conoscenza e di indagine. E, tuttavia, esso è anche un fatto "storico", reale, testimoniato e documentato. È l’avvenimento che fonda tutta la nostra fede. È il contenuto centrale nel quale crediamo e il motivo principale per cui crediamo.
La buona notizia della Pasqua, dunque, richiede l’opera di testimoni entusiasti e coraggiosi. Ogni discepolo di Cristo, anche ciascuno di noi, è chiamato ad essere testimone. È questo il preciso, impegnativo ed esaltante mandato del Signore risorto. La "notizia" della vita nuova in Cristo deve risplendere nella vita del cristiano, deve essere viva e operante - in chi la reca, realmente capace di cambiare il cuore, l’intera esistenza. Essa è viva innanzitutto perché Cristo stesso ne è l’anima vivente e vivificante. Ce lo ricorda san Marco alla fine del suo Vangelo, dove scrive che gli Apostoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20).
La vicenda degli Apostoli è anche la nostra e quella di ogni credente, di ogni discepolo che si fa "annunciatore". Anche noi, infatti, siamo certi che il Signore, oggi come ieri, opera insieme ai suoi testimoni.
La celebrazione del Mistero pasquale, la contemplazione gioiosa della Risurrezione di Cristo, che vince il peccato e la morte con la forza dell’Amore di Dio è occasione propizia per riscoprire e professare con più convinzione la nostra fiducia nel Signore risorto, il quale accompagna i testimoni della sua parola operando prodigi insieme con loro. Saremo davvero e fino in fondo testimoni di Gesù risorto quando lasceremo trasparire in noi il prodigio del suo amore; quando nelle nostre parole e, più ancora, nei nostri gesti, in piena coerenza con il Vangelo, si potrà riconoscere la voce e la mano di Gesù stesso.
Dappertutto, dunque, il Signore ci manda come suoi testimoni. Ma possiamo essere tali solo a partire e in riferimento continuo all’esperienza pasquale, quella che Maria di Magdala esprime annunciando agli altri discepoli: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). In questo incontro personale con il Risorto stanno il fondamento incrollabile e il contenuto centrale della nostra fede, la sorgente fresca e inesauribile della nostra speranza, il dinamismo ardente della nostra carità. Così la nostra stessa vita cristiana coinciderà appieno con l’annuncio: «Cristo Signore è veramente risorto». Lasciamoci, perciò conquistare dal fascino della Risurrezione di Cristo.
La buona notizia della Pasqua, dunque, richiede l’opera di testimoni entusiasti e coraggiosi. Ogni discepolo di Cristo, anche ciascuno di noi, è chiamato ad essere testimone. È questo il preciso, impegnativo ed esaltante mandato del Signore risorto. La "notizia" della vita nuova in Cristo deve risplendere nella vita del cristiano, deve essere viva e operante - in chi la reca, realmente capace di cambiare il cuore, l’intera esistenza. Essa è viva innanzitutto perché Cristo stesso ne è l’anima vivente e vivificante. Ce lo ricorda san Marco alla fine del suo Vangelo, dove scrive che gli Apostoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20).
La vicenda degli Apostoli è anche la nostra e quella di ogni credente, di ogni discepolo che si fa "annunciatore". Anche noi, infatti, siamo certi che il Signore, oggi come ieri, opera insieme ai suoi testimoni.
La celebrazione del Mistero pasquale, la contemplazione gioiosa della Risurrezione di Cristo, che vince il peccato e la morte con la forza dell’Amore di Dio è occasione propizia per riscoprire e professare con più convinzione la nostra fiducia nel Signore risorto, il quale accompagna i testimoni della sua parola operando prodigi insieme con loro. Saremo davvero e fino in fondo testimoni di Gesù risorto quando lasceremo trasparire in noi il prodigio del suo amore; quando nelle nostre parole e, più ancora, nei nostri gesti, in piena coerenza con il Vangelo, si potrà riconoscere la voce e la mano di Gesù stesso.
Dappertutto, dunque, il Signore ci manda come suoi testimoni. Ma possiamo essere tali solo a partire e in riferimento continuo all’esperienza pasquale, quella che Maria di Magdala esprime annunciando agli altri discepoli: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). In questo incontro personale con il Risorto stanno il fondamento incrollabile e il contenuto centrale della nostra fede, la sorgente fresca e inesauribile della nostra speranza, il dinamismo ardente della nostra carità. Così la nostra stessa vita cristiana coinciderà appieno con l’annuncio: «Cristo Signore è veramente risorto». Lasciamoci, perciò conquistare dal fascino della Risurrezione di Cristo.
giovedì 1 aprile 2010
4 Aprile 2010 - Pasqua di Risurrezione di nostro Signore
Gesù è risorto, alleluia! La notte di Pasqua ci siamo trovati, abbiamo acceso un fuoco all'aperto, ad esso abbiamo attinto la fiamma per accendere il cero Pasquale e le nostre candele battesimali e abbiamo letto il Vangelo della Resurrezione. Sì, Gesù è vivo e da qui parte ogni fede, ogni gioia, ogni riflessione. Abituati a fissare lo sguardo sul dolore del crocifisso, siamo ora invitati a compiere un gesto molto più difficile: credere nella Resurrezione. Se è relativamente semplice credere in un Dio che con noi condivide il dolore, è molto più difficile condividere con lui la gioia: la gioia ci obbliga a guardare oltre, ad alzare lo sguardo, a non restare chiusi su noi stessi. Abbiamo tutti motivi per soffrire, ma per gioire occorre superare la nostra natura, saper vedere le cose con gli occhi di Dio.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro, le donne li hanno avvisati: Gesù è scomparso. Corrono lasciando alle proprie spalle il proprio sordo dolore, il senso di colpa di Pietro per avere rinnegato l'amico, per avere oltraggiato il Maestro. Ma ora che importa? Tutto è superato, tutto è oltre, tutto è al di là. Giovanni e Pietro trovano delle bende: non un segno esplicito, non una manifestazione sfolgorante, non un gesto evidente, eclatante: la fede obbliga a sbilanciarsi, non s'impone, Gesù chiede di schierarsi, di cogliere i segni talora impalpabili, con cui si rende presente.
Gesù è vivo: non rianimato, né tantomeno reincarnato (la reincarnazione contrasta il modo assoluto con la visione cristiana della resurrezione) ma vivo in modo nuovo. E' lui: mangia, sorride, parla. E' diverso: non si riconosce subito, appare all'improvviso, consola e dona lo Spirito. No, gli apostoli non si aspettavano questo. Se Gesù è risorto, la loro consapevolezza su di lui cambia radicalmente: Gesù non è solo un grande Rabbì di Israele, né solo un Profeta, né il Messia tanto atteso. E' di più: è l'impronta di Dio, il suo volto luminoso, è Dio diventato noi perché noi diventassimo lui. Da quella tomba vuota inizia il cristianesimo, alla luce di quella tomba vuota noi rileggiamo la vita di Gesù, le sue parole. Per questa ragione san Paolo afferma che negare la resurrezione significa negare la fede stessa. Se Gesù non è risorto è solo uno dei tanti bravi personaggi della storia spazzati via dalla ferocia degli uomini. Se Gesù non è risorto è solo un grande saggio che ha portato avanti con coraggio una bella idea. Se Gesù non è risorto siamo qui a celebrare un rito, a pensare ad un cadavere...
Gesù è vivo, amici. Che ci creda o no, che me ne accorga o meno, è risorto, vivo, straordinariamente vivo e presente, ora, qui, accanto me, accanto a te, se lo vuoi. La tomba vuota restituita a Giuseppe di Arimatea è il cuore delle fede. I cristiani l'hanno conservata con cura nei secoli e nei secoli l'ira dei non credenti si è scagliata contro quel luogo: Adriano fece costruire sopra la cava di pietra del Golgota un tempio pagano sulla ricostruita Gerusalemme diventata Aelia Capitolina. Dopo avere ridato splendore al sepolcro grazie a Costantino, imperatore cristiano, la Basilica dovette sfidare la dominazione musulmana, non sempre illuminata, per giungere fino a noi con le tracce della devozione popolare di duemila anni. Entrare al sepolcro è sempre un tuffo al cuore, toccare con mano quella tomba vuota, quella pietra nascosta da pacchiani marmi moderni è sempre una conferma: la morte non è riuscita a imprigionare Dio.
Gesù è risorto, e noi? Siamo come le donne, intenti ad imbalsamare un crocifisso? Ascolteremo l'angelo che ci dice: "perché cercate tra i morti uno che è vivo?" Perché la nostra fede, le nostre parrocchie, le nostre messe troppe volte celebrano un morto e non un vivente? Avremo cinquanta giorni (10 in più della quaresima!) per vedere come Gesù – ora - è raggiungibile, attraverso quali segni si rende presente. Apriamo il cuore alla fede: Gesù è davvero risorto!
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro, le donne li hanno avvisati: Gesù è scomparso. Corrono lasciando alle proprie spalle il proprio sordo dolore, il senso di colpa di Pietro per avere rinnegato l'amico, per avere oltraggiato il Maestro. Ma ora che importa? Tutto è superato, tutto è oltre, tutto è al di là. Giovanni e Pietro trovano delle bende: non un segno esplicito, non una manifestazione sfolgorante, non un gesto evidente, eclatante: la fede obbliga a sbilanciarsi, non s'impone, Gesù chiede di schierarsi, di cogliere i segni talora impalpabili, con cui si rende presente.
Gesù è vivo: non rianimato, né tantomeno reincarnato (la reincarnazione contrasta il modo assoluto con la visione cristiana della resurrezione) ma vivo in modo nuovo. E' lui: mangia, sorride, parla. E' diverso: non si riconosce subito, appare all'improvviso, consola e dona lo Spirito. No, gli apostoli non si aspettavano questo. Se Gesù è risorto, la loro consapevolezza su di lui cambia radicalmente: Gesù non è solo un grande Rabbì di Israele, né solo un Profeta, né il Messia tanto atteso. E' di più: è l'impronta di Dio, il suo volto luminoso, è Dio diventato noi perché noi diventassimo lui. Da quella tomba vuota inizia il cristianesimo, alla luce di quella tomba vuota noi rileggiamo la vita di Gesù, le sue parole. Per questa ragione san Paolo afferma che negare la resurrezione significa negare la fede stessa. Se Gesù non è risorto è solo uno dei tanti bravi personaggi della storia spazzati via dalla ferocia degli uomini. Se Gesù non è risorto è solo un grande saggio che ha portato avanti con coraggio una bella idea. Se Gesù non è risorto siamo qui a celebrare un rito, a pensare ad un cadavere...
Gesù è vivo, amici. Che ci creda o no, che me ne accorga o meno, è risorto, vivo, straordinariamente vivo e presente, ora, qui, accanto me, accanto a te, se lo vuoi. La tomba vuota restituita a Giuseppe di Arimatea è il cuore delle fede. I cristiani l'hanno conservata con cura nei secoli e nei secoli l'ira dei non credenti si è scagliata contro quel luogo: Adriano fece costruire sopra la cava di pietra del Golgota un tempio pagano sulla ricostruita Gerusalemme diventata Aelia Capitolina. Dopo avere ridato splendore al sepolcro grazie a Costantino, imperatore cristiano, la Basilica dovette sfidare la dominazione musulmana, non sempre illuminata, per giungere fino a noi con le tracce della devozione popolare di duemila anni. Entrare al sepolcro è sempre un tuffo al cuore, toccare con mano quella tomba vuota, quella pietra nascosta da pacchiani marmi moderni è sempre una conferma: la morte non è riuscita a imprigionare Dio.
Gesù è risorto, e noi? Siamo come le donne, intenti ad imbalsamare un crocifisso? Ascolteremo l'angelo che ci dice: "perché cercate tra i morti uno che è vivo?" Perché la nostra fede, le nostre parrocchie, le nostre messe troppe volte celebrano un morto e non un vivente? Avremo cinquanta giorni (10 in più della quaresima!) per vedere come Gesù – ora - è raggiungibile, attraverso quali segni si rende presente. Apriamo il cuore alla fede: Gesù è davvero risorto!
giovedì 25 marzo 2010
28 marzo 2010 - Domenica delle Palme
La liturgia oggi ci aiuta a celebrare due avvenimenti: l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, accolto dai ragazzi e dal popolo che lo acclamano con fede e con gioia e l'inizio dellla Settimana Santa, nella quale Gesù opera la salvezza del mondo con il suo amore e il suo sacrificio della Croce. Ecco perché abbiamo letto il racconto commovente, dettagliato e profondo della Passione di Gesù. Entrando in Gerusalemme Gesù viene accolto e acclamato dai bambini e dalla folla come Messia, "Benedetto Colui che viene nel nome del Siugnore"! E' l'espressione gioiosa della nostra fede. La nostra fede è sempre luce, vita, forza, gioia. I ragazzi e il popolo, attratti da Cristo, forse ispirati e portatori della vera fede dell'umanità che attende il Messia, vanno incontro a Gesù, gli fanno festa, lo acclamano con rami di palme. Gesù gradisce questa accoglienza e questa fede: Egli è davvero il Salvatore, il Figlio di Dio venuto nel mondo per portare l'amore e la misericordia del Padre a tutti. Anche noi vogliamo vivere questa giornata rinnovando tutta la nostra fede, il fervore, l'attaccamento a Gesù Signore. Ma è anche il momento dei contrasti. Gesù gradisce l'accoglienza, ma sa che la sua gloria non avverrà in maniera umana, ma sulla croce: la sua grandezza è il suo amore infinito, che lo porta a donare la vita per tutti. Mentre il popolo lo acclama, i nemici si preparano a catturarlo per condannarlo a morte. Gesù sa che va incontro alla sua ora; è venuto per questo, anche se umanamente sente tutta l'angoscia dell'orto degli ulivi, sa invocare e compiere la volontà del Padre, che è il vero bene per Lui e per tutti. Nella messa, che apre la settimana santa, opportunamente viene letto il racconto della passione e morte del Signore. Qui si racchiude tutto il mistero dell'amore di Dio, del peccato dell'uomo, della salvezza che Gesù ci ha meritato. Il testo della Passione del Signore non avrebbe bisogno di commenti: è il racconto dei fatti attraverso i quali è giunta a noi la Redenzione. Tutto il male, che si compie sulla terra, in qualche modo si è condensato in quella scena, in quei fatti: la violenza, la sete di potere, l'invidia, il tradimento degli amici, la viltà, l'adulazione dei potenti, la malizia, lo sfregio della dignità umana, le insinuazioni, la menzogna e quant'altro di male gli uomini fanno, tutto sembra essere presente nella passione di Gesù.
A Dio è presente tutto il male del mondo, il male morale e anche il male fisico. Il paradosso è che proprio questo dolore, questa sofferenza è stata accettata e questo male è stato ribaltato, è diventato in mano a Dio lo strumento attraverso il quale Egli ci ha salvato. L'amore di Dio ha vinto questo male e lo h fatto diventare redenzione. Mettere insieme, come fa la celebrazione di oggi, i due atteggiamenti della folla che prima lo acclama e poi lo condanna, ci fa capire come è facile dimenticare l'amore di Dio, lasciarsi andare al peccato, rinnegare il Signore. Questo nella gente, ma anche in Pietro e negli altri apostoli. Viene dato particolare rilievo al tradimento di Pietro, quando Gesù lo annuncia durante la cena e quando Pietro lo rinnega per tre volte davanti alla serva. Viene riportata nella predicazione primitiva questa confessione pubblica di Pietro, nella gioia del perdono che Gesù poi gli ha dato. Se confrontiamo il tradimento di Pietro e quello di Giuda vediamo che Pietro, uscito fuori, scoppiò a piangere, Giuda uscito fuori andò ad impiccarsi. Pietro ha fiducia nella misericordia di Dio, Giuda no, e si lascia andare alla disperazione. Anche ciascuno di noi, tante volte, cade nella tentazione, nella paura, nell'egoismo, nel peccato, come Pietro e come Giuda. Si tratta di credere a Dio, al suo amore infinito, alla sua misericordia senza limiti. L'amore di Dio, espresso sulla croce è la nostra piena, continua, eterna salvezza! Anche quando ci capitasse il peccato più grave (e ci dispiace, perché il peccato è sempre il nostro male) Dio è più grande di ogni nostro peccato, ed è venuto proprio per togliere i nostri peccati, per darci la gioia e i frutti del suo amore. Questo ci aiuta a celebrare con profonda fede i sacramenti pasquali, a vivere la settimana santa in unione con la passione di Cristo, facendo nostri i suoi sentimenti ("abbiate in voi i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù"), ed implorando la grazia e la forza della sua morte e resurrezione, per noi, per la Chiesa, per l'umanità.
A Dio è presente tutto il male del mondo, il male morale e anche il male fisico. Il paradosso è che proprio questo dolore, questa sofferenza è stata accettata e questo male è stato ribaltato, è diventato in mano a Dio lo strumento attraverso il quale Egli ci ha salvato. L'amore di Dio ha vinto questo male e lo h fatto diventare redenzione. Mettere insieme, come fa la celebrazione di oggi, i due atteggiamenti della folla che prima lo acclama e poi lo condanna, ci fa capire come è facile dimenticare l'amore di Dio, lasciarsi andare al peccato, rinnegare il Signore. Questo nella gente, ma anche in Pietro e negli altri apostoli. Viene dato particolare rilievo al tradimento di Pietro, quando Gesù lo annuncia durante la cena e quando Pietro lo rinnega per tre volte davanti alla serva. Viene riportata nella predicazione primitiva questa confessione pubblica di Pietro, nella gioia del perdono che Gesù poi gli ha dato. Se confrontiamo il tradimento di Pietro e quello di Giuda vediamo che Pietro, uscito fuori, scoppiò a piangere, Giuda uscito fuori andò ad impiccarsi. Pietro ha fiducia nella misericordia di Dio, Giuda no, e si lascia andare alla disperazione. Anche ciascuno di noi, tante volte, cade nella tentazione, nella paura, nell'egoismo, nel peccato, come Pietro e come Giuda. Si tratta di credere a Dio, al suo amore infinito, alla sua misericordia senza limiti. L'amore di Dio, espresso sulla croce è la nostra piena, continua, eterna salvezza! Anche quando ci capitasse il peccato più grave (e ci dispiace, perché il peccato è sempre il nostro male) Dio è più grande di ogni nostro peccato, ed è venuto proprio per togliere i nostri peccati, per darci la gioia e i frutti del suo amore. Questo ci aiuta a celebrare con profonda fede i sacramenti pasquali, a vivere la settimana santa in unione con la passione di Cristo, facendo nostri i suoi sentimenti ("abbiate in voi i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù"), ed implorando la grazia e la forza della sua morte e resurrezione, per noi, per la Chiesa, per l'umanità.
giovedì 18 marzo 2010
21 marzo 2010 - V Domenica di Quaresima
Abbiamo ancora nella mente e nel cuore la commovente pagina del Figliol prodigo della liturgia di domenica scorsa: una parabola con cui il Signore ci esortava a credere nella infinita misericordia del Padre celeste e a lasciarci riconciliare con Lui per vivere nella pace vera dell'anima.
Nell'episodio della peccatrice adultera notiamo il tranello che i farisei e gli scribi tendono a Gesù, ricordando la chiarezza della legge. La legge è chiara, non i sono dubbi. Una donna che va con un altro uomo non merita pietà. Quello che ha fatto è grave: ha tradito la sua famiglia, suo marito, i suoi figli. Il male che ha commesso deve essere tolto di mezzo. Per questo viene lapidata: perché davanti al male non ci possono essere mezze misure. Gli scribi e i farisei conoscono bene la legge e chiedono a Gesù di applicarla. Senza mezzi termini. Del resto ci troviamo non in un luogo qualsiasi, ma sulla spianata del tempio, in un luogo sacro. Gesù si sentirà di andare contro la "legge di Dio" proprio mentre si trova nella sua casa? Della donna e del male che ha commesso, a questa gente non importa nulla; per loro è solo un pretesto, per mettere Gesù in difficoltà. Dapprima si mette a scrivere, col dito, per terra. Cosa abbia scritto il vangelo non lo dice. Poi lancia il suo avvertimento: "Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, per ucciderla". Almeno ora diventano onesti e sono coerenti: uno alla volta se ne vanno tutti, cominciando dai più anziani. Ora resta solo la donna e Gesù; dice S. Agostino: la "misera" e la "misericordia". Ma Gesù non vuole affatto condannare, non è venuto per questo. E' venuto a portare misericordia, a guarire i malati per questo lascia libera la donna. "Nessuno ti ha condannata?" "Neppure io ti condanno!". Ma deve togliere il male, lottare contro il male. Per questo le dice: "Và e non peccare più". Sono le parole più belle e più grandi che il cuore di Dio a chi sente tutta la sofferenza dei propri peccati. Gesù dice a ciascuno: Io non ti condanno. Gesù non è venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo; non è venuto per i giusti, ma per i peccatori... Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù mettendoci al posto della peccatrice.
Non dobbiamo avere paura di incontrare Gesù quando abbiamo sbagliato, quando siamo nel peccato, nella debolezza, nella tentazione. Ci ama sempre...
E' proprio l'unica cosa necessaria che ci possa capitare e che noi dobbiamo cercare: l'incontro con Gesù che prende le nostre difese, ci capisce, ci perdona e ci salva. La fiducia nella misericordia del Signore deve diventare la luce e la forza di ogni giorno della nostra vita. Sentiamo anche tutta la profondità dell'invito di Gesù: Và e non peccare più.
Su certi peccati ce la dobbiamo fare e ce la faremo a essere decisi, a tagliare ciò che va tagliato. "Ciò che è male in te, taglialo". Dobbiamo chiedere e credere a tutta la forza del Signore. Su altri può darsi che facciamo ancora fatica e che ci capiti di sbagliare ancora: anche qui vogliamo chiedere tanta forza al Signore, per tornare sempre a lui, implorare il suo perdono, ricominciare ogni volta con buona volontà: ma siamo certi, con il Signore vinceremo e Lui ci salverà. Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù, mettendoci al posto dei farisei e degli scribi.
Gesù ci aiuta a esaminare la nostra coscienza, a essere onesti e sinceri, a riconoscere che anche noi tante volte facciamo i peccati che denunciamo negli altri e che anzi possiamo essere certe volte noi stessi causa di quei peccati.
Si tratta di depositare i sassi. Facciamo degli esempi: la violenza. Noi puntiamo il dito contro la violenza, ma molte volte noi stessi forse coltiviamo le cause della violenza, il disagio sociale, l'ingiustizia, la cattiva educazione.
L'immoralità: noi puntiamo il dito contro l'immoralità nei giovani, nelle famiglie, nelle relazioni sociali. Ma forse siamo in parte noi stessi causa di tutto questo, quando sin permette una cultura che banalizza e strumentalizza la sessualità, che scardina la fedeltà, la famiglia, l'impegno e il sacrificio.
La politica: si punta il dito contro tanti errori e inadempienze o contro un modo di fare politica che afferma il bene della gente solo a parole ma in fondo non è altro che un cercare interessi personali e di parte. Ma ciascuno di noi deve esaminarsi se ha capito e se coltiva nel cuore quello che Gesù ha detto: Chi vuol essere il primo si faccia servo di tutti, Io non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita.
La religiosità. Puntiamo il dito sulla scarsa religiosità e la scarsa frequenza alla chiesa. O ci scandalizziamo di fronte a tante forme di magia e di satanismo. Ma come presentiamo la religione, come coltiviamo l'educazione religiosa nelle famiglie, come siamo accanto ai ragazzi e ai giovani nella loro crescita, viviamo la fede noi adulti?
Immigrazione: spesso diciamo contro gli stranieri e condanniamo certi fenomeni negativi del loro comportamento. Ma in fondo se possiamo sfruttarli lo facciamo volentieri: affitti, lavori,...
Di questi esempi ciascuno ne può trovare tanti altri. Si tratta di deporre davanti a Cristo questi sassi che vorremmo scagliare, si tratta di esaminare e convertire il nostro cuore per non essere più gente che giudica, ma gente che prende coscienza dei propri peccati e responsabilità e prende su di sé, sull'esempio di Cristo, i peccati dell'umanità, per vincerli e portare la salvezza, la grazia, la vita vera. Chiediamo di essere capaci di imitare un poco almeno il Signore Gesù, il quale non è venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo. E lo ha fatto non facendola pagare agli altri, ma pagando lui con la sua passione.
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Nell'episodio della peccatrice adultera notiamo il tranello che i farisei e gli scribi tendono a Gesù, ricordando la chiarezza della legge. La legge è chiara, non i sono dubbi. Una donna che va con un altro uomo non merita pietà. Quello che ha fatto è grave: ha tradito la sua famiglia, suo marito, i suoi figli. Il male che ha commesso deve essere tolto di mezzo. Per questo viene lapidata: perché davanti al male non ci possono essere mezze misure. Gli scribi e i farisei conoscono bene la legge e chiedono a Gesù di applicarla. Senza mezzi termini. Del resto ci troviamo non in un luogo qualsiasi, ma sulla spianata del tempio, in un luogo sacro. Gesù si sentirà di andare contro la "legge di Dio" proprio mentre si trova nella sua casa? Della donna e del male che ha commesso, a questa gente non importa nulla; per loro è solo un pretesto, per mettere Gesù in difficoltà. Dapprima si mette a scrivere, col dito, per terra. Cosa abbia scritto il vangelo non lo dice. Poi lancia il suo avvertimento: "Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, per ucciderla". Almeno ora diventano onesti e sono coerenti: uno alla volta se ne vanno tutti, cominciando dai più anziani. Ora resta solo la donna e Gesù; dice S. Agostino: la "misera" e la "misericordia". Ma Gesù non vuole affatto condannare, non è venuto per questo. E' venuto a portare misericordia, a guarire i malati per questo lascia libera la donna. "Nessuno ti ha condannata?" "Neppure io ti condanno!". Ma deve togliere il male, lottare contro il male. Per questo le dice: "Và e non peccare più". Sono le parole più belle e più grandi che il cuore di Dio a chi sente tutta la sofferenza dei propri peccati. Gesù dice a ciascuno: Io non ti condanno. Gesù non è venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo; non è venuto per i giusti, ma per i peccatori... Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù mettendoci al posto della peccatrice.
Non dobbiamo avere paura di incontrare Gesù quando abbiamo sbagliato, quando siamo nel peccato, nella debolezza, nella tentazione. Ci ama sempre...
E' proprio l'unica cosa necessaria che ci possa capitare e che noi dobbiamo cercare: l'incontro con Gesù che prende le nostre difese, ci capisce, ci perdona e ci salva. La fiducia nella misericordia del Signore deve diventare la luce e la forza di ogni giorno della nostra vita. Sentiamo anche tutta la profondità dell'invito di Gesù: Và e non peccare più.
Su certi peccati ce la dobbiamo fare e ce la faremo a essere decisi, a tagliare ciò che va tagliato. "Ciò che è male in te, taglialo". Dobbiamo chiedere e credere a tutta la forza del Signore. Su altri può darsi che facciamo ancora fatica e che ci capiti di sbagliare ancora: anche qui vogliamo chiedere tanta forza al Signore, per tornare sempre a lui, implorare il suo perdono, ricominciare ogni volta con buona volontà: ma siamo certi, con il Signore vinceremo e Lui ci salverà. Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù, mettendoci al posto dei farisei e degli scribi.
Gesù ci aiuta a esaminare la nostra coscienza, a essere onesti e sinceri, a riconoscere che anche noi tante volte facciamo i peccati che denunciamo negli altri e che anzi possiamo essere certe volte noi stessi causa di quei peccati.
Si tratta di depositare i sassi. Facciamo degli esempi: la violenza. Noi puntiamo il dito contro la violenza, ma molte volte noi stessi forse coltiviamo le cause della violenza, il disagio sociale, l'ingiustizia, la cattiva educazione.
L'immoralità: noi puntiamo il dito contro l'immoralità nei giovani, nelle famiglie, nelle relazioni sociali. Ma forse siamo in parte noi stessi causa di tutto questo, quando sin permette una cultura che banalizza e strumentalizza la sessualità, che scardina la fedeltà, la famiglia, l'impegno e il sacrificio.
La politica: si punta il dito contro tanti errori e inadempienze o contro un modo di fare politica che afferma il bene della gente solo a parole ma in fondo non è altro che un cercare interessi personali e di parte. Ma ciascuno di noi deve esaminarsi se ha capito e se coltiva nel cuore quello che Gesù ha detto: Chi vuol essere il primo si faccia servo di tutti, Io non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita.
La religiosità. Puntiamo il dito sulla scarsa religiosità e la scarsa frequenza alla chiesa. O ci scandalizziamo di fronte a tante forme di magia e di satanismo. Ma come presentiamo la religione, come coltiviamo l'educazione religiosa nelle famiglie, come siamo accanto ai ragazzi e ai giovani nella loro crescita, viviamo la fede noi adulti?
Immigrazione: spesso diciamo contro gli stranieri e condanniamo certi fenomeni negativi del loro comportamento. Ma in fondo se possiamo sfruttarli lo facciamo volentieri: affitti, lavori,...
Di questi esempi ciascuno ne può trovare tanti altri. Si tratta di deporre davanti a Cristo questi sassi che vorremmo scagliare, si tratta di esaminare e convertire il nostro cuore per non essere più gente che giudica, ma gente che prende coscienza dei propri peccati e responsabilità e prende su di sé, sull'esempio di Cristo, i peccati dell'umanità, per vincerli e portare la salvezza, la grazia, la vita vera. Chiediamo di essere capaci di imitare un poco almeno il Signore Gesù, il quale non è venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo. E lo ha fatto non facendola pagare agli altri, ma pagando lui con la sua passione.
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giovedì 11 marzo 2010
14 marzo 2010 - IV Domenica di Quaresina
"Perduto e ritrovato": sono le parole del padre che chiudono la parabola. "Bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo figlio era morto ed è tornato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato".
Perduto quel figlio lo era davvero. Perduto perché in casa non si trovava bene. E al momento opportuno aveva chiesto la sua parte di soldi e se ne era andato. Magari aveva anche sbattuto la porta, per far capire che ora si sentiva finalmente libero; perduto a causa delle cattive compagnie, che lo facevano sentire grande: aveva soldi da buttare e non si era trovato senza compagni finché aveva avuto soldi in abbondanza: perduto, perché aveva toccato il fondo dell'umiliazione: per un ebreo, di famiglia ricca per di più, fare il guardiano dei maiali era la cosa peggiore che si potesse immaginare.
Per gli ebrei il maiale era un animale impuro e quindi stare con i maiali tutta la giornata significava essere "impuro", un lontano da Dio. E poi Lui, il figlio del padrone, alle dipendenze di uno straniero. Pieno di fame al punto di rubare le carrube ai porci! Era veramente perduto, quel figlio.
Perduto, ma non dimenticato, anzi sempre amato. Così quando aveva fatto ritorno alla casa di suo padre, pieno di fame, sporco, scalzo, coi vestiti laceri e con il discorsetto preparato a memoria... le reazioni di suo padre non erano state quelle che si aspettava. Il vestito bello, i sandali, l'anello al dito e la festa: ecco cosa aveva fatto il padre per lui.
Troppo buono: al punto che l'altro figlio non capisce e si arrabbia: Ma cosa c'è da capire? Quando si ritrova qualcuno che si pensava perduto, "bisogna" far festa. Almeno... Dio ragiona così quando noi torniamo alla sua casa. Dio ci accoglie così anche se arriviamo dopo aver buttato via il suo tesoro.
L'aspetto più difficile di tutto l'annuncio cristiano a volte non sono i misteri, ma l'affermazione della bontà di Dio. Ognuno di noi vorrebbe aggiustare o interpretare la bontà di Dio. Invece la bontà di Dio si rivela sempre superiore e diversa dalle nostre attese. E questo avviene soprattutto di fronte alle persone che hanno peccato ma che hanno fiducia nella misericordia. Gesù nel vangelo sorprende tutti: va a mangiare coi peccatori, difende una donna adultera, chiama tra gli apostoli un pubblicano, entra nella casa di Zaccheo, benedice e conforta un ladrone sulla croce.
Gesù racconta questa grande e commovente parabola che fa percepire la grandezza del cuore di Dio, che fa capire come Dio si è comportato e si comporta con noi. "Gli corse incontro, lo baciò, lo strinse forte a sé". Quante volte il Signore ha fatto così con noi e quante volte ancora lo farà, finché non ci porta al sicuro della sua salvezza!
La parabola ha un centro: il padre; attorno al padre si muovono le due vicende: i due figli. I due figli sono due tentazioni della vita e noi talvolta assomigliamo al primo, talvolta al secondo, talvolta facciamo convivere la cattiveria di tutti e due.
Il primo figlio: costui esige e il padre non si oppone; il figlio fugge di casa e il padre, con cuore straziato, permette che si allontani; il figlio va a divertirsi in modo banale e insulso e il padre permette che dissipi il frutto di tanto sudore, fatica, amore. Il padre resta sullo sfondo della vicenda: appare debole, invece è buono; sembra sconfitto, invece si muove con grande dignità.
Dio non ferma l'uomo perché l'amore non può imporre; Dio non viola la libertà; Dio non si vendica mai.
Quel figlio perde tutto, arriva al fondo dell'abisso. Che può fare? Può ostinarsi nella sua situazione, rifiutare il ritorno, rifiutare il perdono: ma questo è l'inferno. Oppure, può ritornare: se il figlio muove il passo verso la casa del padre... allora accade l'imprevedibile, accade qualcosa che per noi è difficile capire: accade la gioia di Dio, che Gesù chiama "festa in cielo per un peccatore che si pente".
Gesù vuol dire con la sua parabola: sappiate che Dio è così e io sono la prova della bontà di Dio che diventa Betlemme, Nazareth, Cenacolo, orto degli ulivi, Calvario, Eucarestia, Chiesa...
La parabola pertanto è un invito: Se hai peccato, ritorna. Se hai offeso fino al limite più infame: sappi che Dio è pronto a ricominciare tutto da capo. Quanta speranza in questo: Dio non mi respingerà mai! Dio fino all'ultimo mi cercherà e non sarà facile sfuggire al suo amore.
C'è anche il secondo figlio. E' il figlio scandalizzato per la bontà del padre. Sembra che abbia ragione, invece il suo comportamento è offensivo nei confronti del padre. Anche se non è fuggito da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. Questo figlio è ribelle come il primo: questo figlio è un problema per il padre, una spina nel cuore del padre. Per questo figlio sarà più difficile tornare a casa, perché il suo peccato è nascosto dalla presunzione. E la parabola finisce così: Figlio, ritorna anche tu!
Questa parabola ci fa contemplare l'infinito amore di Dio, ci aiuta nei nostri esami di coscienza, ci invita a chiedere sempre il perdono del Signore, ci insegna la strada della riconciliazione e della confessione, come ci esorta S. Paolo: "Fratelli lasciatevi riconciliare con Dio, con fiducia, perché Cristo ci ha riconciliati!".
Perduto quel figlio lo era davvero. Perduto perché in casa non si trovava bene. E al momento opportuno aveva chiesto la sua parte di soldi e se ne era andato. Magari aveva anche sbattuto la porta, per far capire che ora si sentiva finalmente libero; perduto a causa delle cattive compagnie, che lo facevano sentire grande: aveva soldi da buttare e non si era trovato senza compagni finché aveva avuto soldi in abbondanza: perduto, perché aveva toccato il fondo dell'umiliazione: per un ebreo, di famiglia ricca per di più, fare il guardiano dei maiali era la cosa peggiore che si potesse immaginare.
Per gli ebrei il maiale era un animale impuro e quindi stare con i maiali tutta la giornata significava essere "impuro", un lontano da Dio. E poi Lui, il figlio del padrone, alle dipendenze di uno straniero. Pieno di fame al punto di rubare le carrube ai porci! Era veramente perduto, quel figlio.
Perduto, ma non dimenticato, anzi sempre amato. Così quando aveva fatto ritorno alla casa di suo padre, pieno di fame, sporco, scalzo, coi vestiti laceri e con il discorsetto preparato a memoria... le reazioni di suo padre non erano state quelle che si aspettava. Il vestito bello, i sandali, l'anello al dito e la festa: ecco cosa aveva fatto il padre per lui.
Troppo buono: al punto che l'altro figlio non capisce e si arrabbia: Ma cosa c'è da capire? Quando si ritrova qualcuno che si pensava perduto, "bisogna" far festa. Almeno... Dio ragiona così quando noi torniamo alla sua casa. Dio ci accoglie così anche se arriviamo dopo aver buttato via il suo tesoro.
L'aspetto più difficile di tutto l'annuncio cristiano a volte non sono i misteri, ma l'affermazione della bontà di Dio. Ognuno di noi vorrebbe aggiustare o interpretare la bontà di Dio. Invece la bontà di Dio si rivela sempre superiore e diversa dalle nostre attese. E questo avviene soprattutto di fronte alle persone che hanno peccato ma che hanno fiducia nella misericordia. Gesù nel vangelo sorprende tutti: va a mangiare coi peccatori, difende una donna adultera, chiama tra gli apostoli un pubblicano, entra nella casa di Zaccheo, benedice e conforta un ladrone sulla croce.
Gesù racconta questa grande e commovente parabola che fa percepire la grandezza del cuore di Dio, che fa capire come Dio si è comportato e si comporta con noi. "Gli corse incontro, lo baciò, lo strinse forte a sé". Quante volte il Signore ha fatto così con noi e quante volte ancora lo farà, finché non ci porta al sicuro della sua salvezza!
La parabola ha un centro: il padre; attorno al padre si muovono le due vicende: i due figli. I due figli sono due tentazioni della vita e noi talvolta assomigliamo al primo, talvolta al secondo, talvolta facciamo convivere la cattiveria di tutti e due.
Il primo figlio: costui esige e il padre non si oppone; il figlio fugge di casa e il padre, con cuore straziato, permette che si allontani; il figlio va a divertirsi in modo banale e insulso e il padre permette che dissipi il frutto di tanto sudore, fatica, amore. Il padre resta sullo sfondo della vicenda: appare debole, invece è buono; sembra sconfitto, invece si muove con grande dignità.
Dio non ferma l'uomo perché l'amore non può imporre; Dio non viola la libertà; Dio non si vendica mai.
Quel figlio perde tutto, arriva al fondo dell'abisso. Che può fare? Può ostinarsi nella sua situazione, rifiutare il ritorno, rifiutare il perdono: ma questo è l'inferno. Oppure, può ritornare: se il figlio muove il passo verso la casa del padre... allora accade l'imprevedibile, accade qualcosa che per noi è difficile capire: accade la gioia di Dio, che Gesù chiama "festa in cielo per un peccatore che si pente".
Gesù vuol dire con la sua parabola: sappiate che Dio è così e io sono la prova della bontà di Dio che diventa Betlemme, Nazareth, Cenacolo, orto degli ulivi, Calvario, Eucarestia, Chiesa...
La parabola pertanto è un invito: Se hai peccato, ritorna. Se hai offeso fino al limite più infame: sappi che Dio è pronto a ricominciare tutto da capo. Quanta speranza in questo: Dio non mi respingerà mai! Dio fino all'ultimo mi cercherà e non sarà facile sfuggire al suo amore.
C'è anche il secondo figlio. E' il figlio scandalizzato per la bontà del padre. Sembra che abbia ragione, invece il suo comportamento è offensivo nei confronti del padre. Anche se non è fuggito da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. Questo figlio è ribelle come il primo: questo figlio è un problema per il padre, una spina nel cuore del padre. Per questo figlio sarà più difficile tornare a casa, perché il suo peccato è nascosto dalla presunzione. E la parabola finisce così: Figlio, ritorna anche tu!
Questa parabola ci fa contemplare l'infinito amore di Dio, ci aiuta nei nostri esami di coscienza, ci invita a chiedere sempre il perdono del Signore, ci insegna la strada della riconciliazione e della confessione, come ci esorta S. Paolo: "Fratelli lasciatevi riconciliare con Dio, con fiducia, perché Cristo ci ha riconciliati!".
giovedì 4 marzo 2010
7 marzo 2010 - III Domenica di Quaresima
Mentre Gesù sta parlando, qualcuno lo mette al corrente di una notizia sconvolgente: un gruppo di Galilei, probabilmente rivoluzionari, sono stati massacrati dal sanguinario procuratore romano Ponzio Pilato, mentre stavano compiendo un sacrificio di culto. Alla mente dei presenti si affaccia il ricordo ancora vivo di un'altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano per il tempio, furono seppelliti sotto il crollo di una torre. Fatti di sangue, racconti di morte, grandi domande: dov'era Dio? È Dio che ha guidato la spada di Pilato? È Dio che aveva fatto franare il terreno sotto la torre del Tempio?
Seguendo la concezione corrente della retribuzione temporale, gli ascoltatori di Gesù hanno interpretato quei tragici avvenimenti con la mentalità del tempo: se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati; se sono stati castigati, è segno che erano peccatori. E il fatto di essere stati personalmente risparmiati rassicura quegli stessi ascoltatori sulla loro giustizia.
Gesù rifiuta questa visione semplicistica e prende le difese sia di Dio sia degli uccisi: non è Dio che arma la mano di Pilato; non è Dio che aggiunge sangue a sangue, che abbatte torri e grattacieli; non ci sono colpe segrete da punire. Quegli uomini non erano peggiori degli altri. Quelle disgrazie sono un avvertimento indirizzato a tutti: tutti sono peccatori; il giudizio di Dio non è per qualcuno, ma per tutti; non è per gli altri, ma per noi. O ci convertiamo o ci perdiamo.
Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo forse della brava gente, non siamo forse cattolici credenti e praticanti? Ci soccorre ancora una volta D. Bonhoeffer: "Il contrario della fede non è l'incredulità; è l'idolatria". Già s. Paolo parlava della conversione dei pagani come un "allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero" (1Ts 1,9). Ecco: ma che cos'è l'idolatria? Nell'opinione comune, mentre la vera fede adora un solo Dio, l'idolatria adora molti dèi. Ma nella Bibbia l'idolatria è qualcosa di più sottile e di più subdolo: non è tanto piegare il ginocchio davanti a una statuetta d‘oro o di legno; non è neanche adorare il vitello d'oro; è piuttosto ergere il proprio Io al posto di Dio. Al fondo di ogni idolatria, c'è l'autolatria, "l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio" (s. Agostino). Poi questa idolatria si concretizzerà nel mettere al posto di Dio - o a fianco di Dio - il Dio danaro, il Dio piacere, la dea immagine, la dea efficienza, il Dio successo... Di qui il "correre, combattere, sconfiggere".
E il "contemplare"? No, fratello, sorella: prima della contemplazione, viene la conversione. Perché se contemplare è vedere Dio, dobbiamo ricordare che solo i puri di cuore vedranno Dio. Noi vediamo o diciamo di vedere; noi crediamo o crediamo di credere. Ma cosa ne stiamo facendo del dono della fede?
Stanno venendo tempi - e sono già venuti - in cui essere cristiani è sinonimo di missionari. Oggi diventa sempre meno concepibile un cristiano che non viva in uno stato di missione.
Non si è cristiani per soddisfare i propri bisogni religiosi, per trovare un senso alla propria vita, per dare una direzione alla propria esistenza. Si è cristiani perché si è stati scelti per essere "luce delle genti", per "annunciare le grandezze di Dio", per dire agli uomini le meraviglie che Dio continua ad operare in mezzo a noi, per portare agli altri l'amore di cui si è amati, per farli godere della propria sorte, per amarli "come se stessi", per donarsi a loro. La missione non è solo l'annuncio di un dono, ma un dono che si fa annuncio.
Oggi Gesù insiste: Se non vi convertirete, tutti allo stesso modo perirete. Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
Così è avvenuto per Mosè (1ª lettura): era fuggito dall'Egitto, braccato dagli aguzzini del faraone e deluso dei suoi connazionali, perché in precedenza si era illuso che avrebbero finalmente capito che "Dio dava loro salvezza per mezzo suo" (At 7,25). Nel deserto di Madian Mosè si era ridotto a vita privata, adattandosi al ritmo tranquillo di un pastore agiato e soddisfatto, con tanto di moglie e figli. Adesso, a quarant'anni suonati, sta per scoccare l'ora della sua missione: dovrà lasciare il deserto e tornare nuovamente in Egitto proprio lui, "quel Mosè che i suoi connazionali avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?" (At 7,35). Questa è la conversione di Mosè: una vera "inversione a U", dal deserto di Madian all'Egitto, dove pendeva una condanna sul suo capo. Ma prima ancora Mosè deve "convertirsi" al Dio unico, vivo e vero.
E cosa aggiunge il Nuovo Testamento alla rivelazione di Dio, già presente nell'Antico? Aggiunge un massimo vertiginoso, del tutto inimmaginabile: un volto d'uomo e un cuore di carne, il volto e il cuore di Gesù. Nessun ebreo prima di Gesù, neanche l'ardente Osea o il dolcissimo Deutero-Isaia, poteva sospettare fino a che punto Dio avrebbe spinto il suo amore per il mondo: "Dio ha tanto amato il mondo fino al punto da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) e questo Figlio "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). A questo volto santo di Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso - siamo chiamati a prestare i lineamenti del nostro volto. Altrimenti facciamo bestemmiare il suo santo Nome (cfr. Rm 2,24), quando con il nostro comportamento finiamo per "velare più che svelare il genuino volto di Dio" (GS 19).
Noi finiamo per velare il volto del Dio fedele e affidabile quando non ci fidiamo di lui e siamo come i pagani, sempre in affanno per il nostro domani. Deformiamo il volto dell'Amore gratuito quando mettiamo al di sopra di tutti e di tutto i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente, quando con il pretesto che perdonare si deve ma dimenticare non si può, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male subito. Gli altri allora potrebbero dirci: "Dov'è il vostro Dio? Se non ce lo fate vedere in voi, non ci crediamo e non ci crederemo mai!".
Seguendo la concezione corrente della retribuzione temporale, gli ascoltatori di Gesù hanno interpretato quei tragici avvenimenti con la mentalità del tempo: se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati; se sono stati castigati, è segno che erano peccatori. E il fatto di essere stati personalmente risparmiati rassicura quegli stessi ascoltatori sulla loro giustizia.
Gesù rifiuta questa visione semplicistica e prende le difese sia di Dio sia degli uccisi: non è Dio che arma la mano di Pilato; non è Dio che aggiunge sangue a sangue, che abbatte torri e grattacieli; non ci sono colpe segrete da punire. Quegli uomini non erano peggiori degli altri. Quelle disgrazie sono un avvertimento indirizzato a tutti: tutti sono peccatori; il giudizio di Dio non è per qualcuno, ma per tutti; non è per gli altri, ma per noi. O ci convertiamo o ci perdiamo.
Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo forse della brava gente, non siamo forse cattolici credenti e praticanti? Ci soccorre ancora una volta D. Bonhoeffer: "Il contrario della fede non è l'incredulità; è l'idolatria". Già s. Paolo parlava della conversione dei pagani come un "allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero" (1Ts 1,9). Ecco: ma che cos'è l'idolatria? Nell'opinione comune, mentre la vera fede adora un solo Dio, l'idolatria adora molti dèi. Ma nella Bibbia l'idolatria è qualcosa di più sottile e di più subdolo: non è tanto piegare il ginocchio davanti a una statuetta d‘oro o di legno; non è neanche adorare il vitello d'oro; è piuttosto ergere il proprio Io al posto di Dio. Al fondo di ogni idolatria, c'è l'autolatria, "l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio" (s. Agostino). Poi questa idolatria si concretizzerà nel mettere al posto di Dio - o a fianco di Dio - il Dio danaro, il Dio piacere, la dea immagine, la dea efficienza, il Dio successo... Di qui il "correre, combattere, sconfiggere".
E il "contemplare"? No, fratello, sorella: prima della contemplazione, viene la conversione. Perché se contemplare è vedere Dio, dobbiamo ricordare che solo i puri di cuore vedranno Dio. Noi vediamo o diciamo di vedere; noi crediamo o crediamo di credere. Ma cosa ne stiamo facendo del dono della fede?
Stanno venendo tempi - e sono già venuti - in cui essere cristiani è sinonimo di missionari. Oggi diventa sempre meno concepibile un cristiano che non viva in uno stato di missione.
Non si è cristiani per soddisfare i propri bisogni religiosi, per trovare un senso alla propria vita, per dare una direzione alla propria esistenza. Si è cristiani perché si è stati scelti per essere "luce delle genti", per "annunciare le grandezze di Dio", per dire agli uomini le meraviglie che Dio continua ad operare in mezzo a noi, per portare agli altri l'amore di cui si è amati, per farli godere della propria sorte, per amarli "come se stessi", per donarsi a loro. La missione non è solo l'annuncio di un dono, ma un dono che si fa annuncio.
Oggi Gesù insiste: Se non vi convertirete, tutti allo stesso modo perirete. Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
Così è avvenuto per Mosè (1ª lettura): era fuggito dall'Egitto, braccato dagli aguzzini del faraone e deluso dei suoi connazionali, perché in precedenza si era illuso che avrebbero finalmente capito che "Dio dava loro salvezza per mezzo suo" (At 7,25). Nel deserto di Madian Mosè si era ridotto a vita privata, adattandosi al ritmo tranquillo di un pastore agiato e soddisfatto, con tanto di moglie e figli. Adesso, a quarant'anni suonati, sta per scoccare l'ora della sua missione: dovrà lasciare il deserto e tornare nuovamente in Egitto proprio lui, "quel Mosè che i suoi connazionali avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?" (At 7,35). Questa è la conversione di Mosè: una vera "inversione a U", dal deserto di Madian all'Egitto, dove pendeva una condanna sul suo capo. Ma prima ancora Mosè deve "convertirsi" al Dio unico, vivo e vero.
E cosa aggiunge il Nuovo Testamento alla rivelazione di Dio, già presente nell'Antico? Aggiunge un massimo vertiginoso, del tutto inimmaginabile: un volto d'uomo e un cuore di carne, il volto e il cuore di Gesù. Nessun ebreo prima di Gesù, neanche l'ardente Osea o il dolcissimo Deutero-Isaia, poteva sospettare fino a che punto Dio avrebbe spinto il suo amore per il mondo: "Dio ha tanto amato il mondo fino al punto da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) e questo Figlio "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). A questo volto santo di Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso - siamo chiamati a prestare i lineamenti del nostro volto. Altrimenti facciamo bestemmiare il suo santo Nome (cfr. Rm 2,24), quando con il nostro comportamento finiamo per "velare più che svelare il genuino volto di Dio" (GS 19).
Noi finiamo per velare il volto del Dio fedele e affidabile quando non ci fidiamo di lui e siamo come i pagani, sempre in affanno per il nostro domani. Deformiamo il volto dell'Amore gratuito quando mettiamo al di sopra di tutti e di tutto i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente, quando con il pretesto che perdonare si deve ma dimenticare non si può, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male subito. Gli altri allora potrebbero dirci: "Dov'è il vostro Dio? Se non ce lo fate vedere in voi, non ci crediamo e non ci crederemo mai!".
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