mercoledì 22 aprile 2009
26 Aprile 2009 - III Domenica di Pasqua
Dopo l'apparizione alle donne, quel mattino del primo giorno dopo il sabato, dopo che Pietro, incredulo, si era recato al sepolcro e, trovatolo vuoto, " tornò a casa pieno di stupore", ecco che Gesù affianca, nel loro cammino verso Emmaus, due discepoli, dei quali il Vangelo non dà l'identità, sappiamo, però, quanto fossero sgomenti e delusi, se l'autore del testo, mette sulle loro labbra queste parole: "noi speravamo che fosse lui il liberatore di Israele; ma son passati tre giorni...alcune donne ci hanno sconvolti...sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo...alcuni dei nostri sono andati al sepolcro, ma lui non l'hanno visto..." Un racconto stupendo, questo di Emmaus, un'esperienza nella quale quasi tutti ci siamo trovati, o, di fatto, ancora, per certi versi, ci troviamo, dato che la Presenza del Risorto, non è necessariamente visibile o tangibile, come qualunque altra presenza umana, fisicamente situata nel nostro orizzonte storico. "...ma Lui non l' hanno visto.."; quella di Cristo risorto, infatti, è una presenza di Grazia, di fede, ed è intelligibile, soltanto da un cuore, illuminato e fedele. Conosciamo tutti il racconto di Emmaus, sappiamo come bruciasse il cuore dei due discepoli, mentre il misterioso compagno di viaggio, spiegava le Scritture, e sappiamo, anche, quel che accadde alla locanda, quando, accingendosi a consumare la cena, "i loro occhi si aprirono e lo riconobbero", mentre l' Ospite, spezzava il pane, dopo aver detto la benedizione. In quello stesso momento, il Signore si sottrasse alla loro vista: il dono del Risorto aveva raggiunto il cuore dei discepoli, la luce della fede si era accesa, e si era riaccesa la speranza e l'amore, quell'amore che li ricondusse, poi, in fretta a Gerusalemme dagli apostoli, ai quali riferire l'evento: avevano riconosciuto il Signore Risorto alla frazione del Pane, avevano percorso un tratto di strada con Lui, avevano accolto nella mente, ormai illuminata, il senso delle Scritture, che convergono verso Cristo, unico Signore della Storia e unico Salvatore. Ora, nel cenacolo, ove si trovano gli Undici, che ascoltano i due rientrati da Emmaus, Cristo appare nuovamente, e questa sua apparizione è come il sigillo, che autentica quel racconto che aveva lasciato i discepoli, quasi sicuramente, scettici, se, di fronte all'improvvisa presenza del Cristo, rimasero ".. stupiti e spaventati, e credevano di vedere un fantasma." Il Signore risorto non è un fantasma, ed Egli stesso lo sottolinea: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho "; e Luca aggiunge quel particolare, così concreto, corposo e, al tempo stesso, tenero, della richiesta di cibo da parte del Maestro, quel pesce, che Egli mangiò arrostito. Una scena stupenda, calda e familiare, un tocco di delicatezza infinita, per quelle povere menti stordite dagli eventi, e per le nostre povere menti, che ancora vacillano, davanti alla grandezza sconfinata della Vita che ha vinto la morte. La Pasqua di Cristo, la sua Resurrezione, è la celebrazione della Vita, la rivelazione piena del mistero di Dio incarnato in Gesù di Nazareth, e del mistero dell'uomo, a Lui indissolubilmente legato, e per Lui destinato anch'egli a vincere la morte; è la grazia della Redenzione. La nostra pienezza di vita in Cristo è dono della Pasqua; la Liturgia eucaristica di questa domenica la offre, ancora una volta, alla nostra contemplazione, per la nostra gioia, per una pace da gustare e vivere in profondità di fede, in modo tale che diventiamo capaci di comunicare e testimoniare questi stessi doni agli altri. Nel nostro oggi, nella storia presente, in quel piccolo segmento di storia, che ognuno scrive, deve esser reso presente Cristo, con i segni della Passione e lo splendore della Resurrezione, il Cristo che la Chiesa incessantemente annuncia. Non è un discorso di sole parole, ma la testimonianza di un'esistenza, che sa, quanto grande sia stato il prezzo della redenzione: la Croce di Cristo, che la Scrittura ci ricorda e che ritroviamo nel Pane spezzato e nel calice del Sangue sparso. I segni della Passione, lo strazio della croce, neppure la gioia della Pasqua può cancellarli, è con essi che Cristo si presenta e si fa riconoscere: i segni del dolore sono anche i segni della gloria del Cristo, i segni dell'amore infinito di Dio per ogni uomo. A questo riguardo, il Papa Giovanni Paolo II, nella Enciclica "Dives in Misericordia", scriveva: "La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore, sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento, sino alla fine, del programma messianico che Cristo formulò una volta, nella sinagoga di Nazareth: «Il Signore mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vita, a predicare un anno di grazia del Signore...» (Lc 4, 18 19). La dimensione divina della redenzione, non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore, quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale, egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio " La celebrazione della Pasqua, questo lungo Tempo liturgico, che ci conduce nelle profondità Mistero, per esserne illuminati e rivitalizzanti, deve farci avvertire, con maggiore intensità e gioia crescente, la vocazione alla santità, quella santità quotidiana, che è esperienza viva e profonda della comunione col Padre, nel Figlio, e nello Spirito, esperienza della Presenza viva, da adorare, da amare e da proclamare ogni giorno, per condurre altri alla medesima comunione.
giovedì 9 aprile 2009
12 Aprile 2009 - Pasqua di Risurrezione del Signore
"Perché cercate tra i morti colui che è vivo?". L'angelo resta stupefatto della lentezza delle donne. Certo, lui, l'angelo, ormai contempla da vicino il mistero della vita. Ma noi... ma noi increduli, noi sconfitti, noi incostanti, come facciamo a credere? Eppure la notizia è qui, l'inizio di tutto è qui: la fede, la speranza, l'entusiasmo, la storia, la vita... Se ci si fosse fermati alla Croce, al venerdì, noi, come gli apostoli sgomenti, avremmo potuto fare mille considerazioni: sul fallimento, sulla speranza delusa, su come gli idealisti vengano sistematicamente eliminati da un potere becero, su, su, su... Bene dicono i discepoli di Emmaus, rientrando a casa da Gerusalemme: "Noi speravamo che fosse lui". Noi speravamo: terribile affermazione. Fine del sogno, fine delle belle parole, fine dell'euforia dei bei giorni. Se la nostra fede si fermasse a quella croce ci sarebbe ben poco da dire su Gesù di Nazareth. Nulla da dire su Gesù il Cristo. Se la storia si fosse conclusa a quel drammatico pomeriggio al Golgota, Gesù, come Gandhi o altri grandi personaggi, sarebbe rimasto un punto di riferimento morale, certo, ma nulla più. E invece nessuno, proprio nessuno aveva messo in conto lo stile di Dio, il suo piano strategico, la sua mossa finale, lo scacco matto alla solitudine e alla morte. Sicuramente, piazzata la pietra davanti al sepolcro, tutti, Pilato, il Sinedrio, la folla, i discepoli, avranno pensato ad una triste fine di uno dei tanti profeti che attraversano l'umanità periodicamente. Ma quella pietra non è riuscita a fermare Dio, quel sepolcro è rimasto ed è straordinariamente e inequivocabilmente vuoto. La morte non è riuscita a tenere tra le proprie braccia Dio. La tomba non è riuscita a contenere la sua forza, la sua strepitosa vitalità, la sua totale pienezza. È risorto, fratelli. Gesù è vivo, qui ora. Gesù non è morto, non è rimasto chiuso nel sepolcro. No: è vivo, è qui; è ovunque. E quindi (mi vedo la lenta ma inesorabile speranza che nasce nel cuore degli apostoli) se è risorto significa che davvero era il Cristo, che addirittura era il Figlio, che inauditamente è Dio. E allora si rileggono quegli anni, i gesti, le parole, le scoperte, tutto, tutto ora viene capito, tutto, grazie al primo dono ai credenti, lo Spirito. La smorfia di dolore si trasforma splendidamente in sorriso, in gioia, in annuncio. Ve li vedete questi undici sconfitti, pavidi, terrorizzati di fare la stessa fine del Maestro, venire sconvolti dentro, correre, precipitarsi a perdifiato lungo le mura della città, su fino al Golgota e lì a fianco, nel giardino, vedere delle bende, e credere. Capiamo che se questa è la straordinaria originalità del cristianesimo, da sempre gli scettici, gli increduli, abbiano cercato in tutti i modi di sconfessare questa professione di fede: ma no, che dite, non è risorto, si sarà ripreso da una morte apparente, l'avranno portato via i discepoli, o, che so, si sarà reincarnato! Poveri uomini, povera meschinità umana che stenta a credere che Dio sia padrone della vita, che Cristo abbiamo spalancato le paratie della gioia così da precipitare questa notizia lungo i secoli della storia. Gesù è vivo, amici, che ci piaccia o no, che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no. E' vivo: è incontenibile la sua vita, è straripante la sua forza. Non ci chiede permesso per amarci, non aspetta le nostre lentezze e le nostre obiezioni per esistere. Questa è la nostra fede, questa è la fede che i cristiani, a volte timidamente, a volte con lo splendore della santità, hanno professato.
Celebratela, dunque questa presenza, festeggiate, dunque questa notizia, non cercate tra i morti colui che vive!
Celebratela, dunque questa presenza, festeggiate, dunque questa notizia, non cercate tra i morti colui che vive!
giovedì 2 aprile 2009
5 Aprile 2009 - Domenica delle Palme
La settimana che oggi iniziamo, così grande, così importante da essere chiamata "santa", è il gioiello dell'anno liturgico, una perla troppo spesso dimenticata da noi cristiani, a vantaggio di feste forse più sentimentali ma intrise di tanto consumismo, come le feste di Natale.
Qui no. Un morto in croce non si vende, non suscita sentimenti di bontà.
Anzi: se ne parla poco e male di questo Dio che sale su di una croce e muore.
Ancora oggi ci rimane difficile da capire il mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola "resurrezione". Difficile al punto che la Chiesa si ferma stupita a meditare per tutta la settimana sulla grandezza dell'amore di Dio.
Allora fermiamoci anche noi, giorno per giorno, ora per ora, regoliamo i nostri orologi e il nostro tempo a questi momenti cruciali per la storia dell'umanità.
Ammiriamo, in silenzio, il vero volto di Dio, un Dio che si prepara a morire: Cristo celebra la sua presenza nell'ultima Pasqua, la nuova; viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, vive.
In questa preziosa settimana, qualunque cosa faremo, in ufficio, a scuola, a casa, potremo fermarci, socchiudere gli occhi e pensare a Cristo, ai suoi sentimenti, alla sua angoscia, alla sua bruciante passione, al suo desiderio.
Ora per ora assisteremo, con gli occhi della fede, allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
Ironia dell'incoerenza umana: nel volgere di pochi giorni le stesse voci, le stesse braccia, non più con le palme aperte verso il cielo, ma con i pugni serrati, trasformeranno la loro gioia per il Messia, in una invocazione terrificante, in un agghiacciante sete di morte, "Crocifiggilo!".
Quanto è sciocco l’uomo! come sciocchi e tardi nel credere siamo anche noi, che ancora non ci rendiamo conto del tesoro che abbiamo tra le mani, disposti anche noi a trasformare velocemente con il nostro comportamento la preghiera di benedizione in grido di “morte”!
Eppure da quella croce pende il destino dell'uomo, con quel sangue è firmato il patto dell'Amicizia eterna di Dio, in quel pane è conservato il Cuore di Colui che desidera ardentemente di mangiare la Pasqua con noi.
Ma che razza di Re era Gesù?
Un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un asinello e non un cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re senza armate, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza. Un re nudo, appeso ad una croce, cinto da una corona di spine; un re talmente sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile almeno alle persone che l'hanno amato.
Ecco: questa è la non festa che celebriamo in questa settimana: una festa che abbandona i trionfalismi, per lasciare spazio alla meditazione, allo stupore.
Questo è il nostro re, discepoli del Nazareno. Questo è il nostro Dio.
Un Dio che rischia, un Dio che – per amore – accetta di farsi spazzare via dall'odio e dalla violenza; un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato, pur di mostrare il suo vero volto.
Un Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente, perché ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure e distorte visioni di un Dio personale!
Questo è dunque il nostro Dio: un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell'amore l'unica misura, l'ultima ragione, la sola speranza. Amen
Qui no. Un morto in croce non si vende, non suscita sentimenti di bontà.
Anzi: se ne parla poco e male di questo Dio che sale su di una croce e muore.
Ancora oggi ci rimane difficile da capire il mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola "resurrezione". Difficile al punto che la Chiesa si ferma stupita a meditare per tutta la settimana sulla grandezza dell'amore di Dio.
Allora fermiamoci anche noi, giorno per giorno, ora per ora, regoliamo i nostri orologi e il nostro tempo a questi momenti cruciali per la storia dell'umanità.
Ammiriamo, in silenzio, il vero volto di Dio, un Dio che si prepara a morire: Cristo celebra la sua presenza nell'ultima Pasqua, la nuova; viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, vive.
In questa preziosa settimana, qualunque cosa faremo, in ufficio, a scuola, a casa, potremo fermarci, socchiudere gli occhi e pensare a Cristo, ai suoi sentimenti, alla sua angoscia, alla sua bruciante passione, al suo desiderio.
Ora per ora assisteremo, con gli occhi della fede, allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
Ironia dell'incoerenza umana: nel volgere di pochi giorni le stesse voci, le stesse braccia, non più con le palme aperte verso il cielo, ma con i pugni serrati, trasformeranno la loro gioia per il Messia, in una invocazione terrificante, in un agghiacciante sete di morte, "Crocifiggilo!".
Quanto è sciocco l’uomo! come sciocchi e tardi nel credere siamo anche noi, che ancora non ci rendiamo conto del tesoro che abbiamo tra le mani, disposti anche noi a trasformare velocemente con il nostro comportamento la preghiera di benedizione in grido di “morte”!
Eppure da quella croce pende il destino dell'uomo, con quel sangue è firmato il patto dell'Amicizia eterna di Dio, in quel pane è conservato il Cuore di Colui che desidera ardentemente di mangiare la Pasqua con noi.
Ma che razza di Re era Gesù?
Un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un asinello e non un cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re senza armate, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza. Un re nudo, appeso ad una croce, cinto da una corona di spine; un re talmente sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile almeno alle persone che l'hanno amato.
Ecco: questa è la non festa che celebriamo in questa settimana: una festa che abbandona i trionfalismi, per lasciare spazio alla meditazione, allo stupore.
Questo è il nostro re, discepoli del Nazareno. Questo è il nostro Dio.
Un Dio che rischia, un Dio che – per amore – accetta di farsi spazzare via dall'odio e dalla violenza; un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato, pur di mostrare il suo vero volto.
Un Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente, perché ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure e distorte visioni di un Dio personale!
Questo è dunque il nostro Dio: un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell'amore l'unica misura, l'ultima ragione, la sola speranza. Amen
giovedì 26 marzo 2009
29 Marzo 2009 - V Domenica di Quaresima
Ecco la vera identità del Figlio di Dio, Messia e Salvatore: Egli è il chicco di grano che, staccatosi dalla spiga, si prepara a marcire e morire perché nasca una nuova vita, una nuova spiga carica di altri grani. Con un riferimento naturale Gesù, profeticamente, rivela il culmine e il senso ultimo della sua missione. Egli è la Vita ed è venuto perché tutti abbiano la vita piena e abbondante. Ma perché questo accada occorre cadere nella terra, e Lui lo ha fatto, lasciando il seno del Padre; occorre marcire e morire, e lo farà sulla Croce; solo così nascerà altra vita, e questa pienezza si compirà nella Risurrezione. "Se il chicco di grano..." In un'immagine semplice e minuscola, quanto lo è un chicco di grano, ecco tutta la Sapienza di Dio. Ecco, legati da un unico filo d'oro la legge della natura, il dinamismo intimo della vita, la sua missione di Messia e, per chi non si accontenta solo di ascoltarlo, ma vuole anche seguirlo, ecco una proposta di vita: "Se il chicco di grano..." Non si semina un chicco di grano perché si perda e marcisca, ma perché, morendo, liberi tutta l'energia vitale che contiene e risorga come spiga carica di altri grani. E' questa la sorprendente ed assurda logica di Dio che Gesù ha pienamente incarnato e reso visibile in una vita interamente donata, dove la morte in croce è stata solo l'avvenimento culmine. Se entriamo in questa logica di Dio si apre ai nostri occhi, come uno squarcio di luce, che il dare tutto, l'uscire da se stessi per accogliere l'altro, è la vita di Dio, la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito. Nella Trinità le Tre Persone si rapportano donandosi totalmente l'una all'altra e in queste relazioni nessuna Persona divina ne esce impoverita o annientata. Ciò che per Gesù è identità e missione, per chi lo ascolta è possibilità, cammino aperto. "Se il chicco di grano..." Dio rispetta la nostra libertà, non impone traiettorie obbligate, le propone, le presenta nella verità e per primo le percorre. "Se il chicco di grano..." Perché sia Pasqua non c'è altra strada. Perché sia la nostra Pasqua non ci sono tangenziali o scorciatoie: per dare vita occorre dare la vita. In ogni esistenza ci sono un Calvario e una Croce che attendono, in ogni esistenza c'è un sepolcro che da luogo di morte si trasformerà in culla di vita nuova, se il seme gettato in terra accetta di marcire e morire. Tutto questo travaglio si consuma nella quotidianità, senza attendere le grandi occasioni. Marcire e morire è disponibilità a dare tutto senza trattenere niente, a dimenticare se stessi, ad amare nella gratuità senza aspettarsi nulla in cambio, a rinunciare ai propri interessi e alle proprie sicurezze... essere seme che muore e, in una parola, dono di sé. E questa consegna concreta di noi stessi, nelle piccole morti nascoste, mentre dona vita ad altri, contemporaneamente, ci immerge nel cuore di Dio, nel mistero pasquale di morte per la Vita. Subito dopo, Gesù aggiunge: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia (perde) la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Cadere in terra e morire, non è dunque solo la via per portare frutto, ma anche per "salvare la propria vita", cioè per continuare a vivere! Che cosa succede al chicco di grano che rifiuta di cadere in terra? O viene qualche uccello e lo becca, o inaridisce e ammuffisce in un angolo umido, oppure viene ridotto in farina, mangiato e tutto finisce lì. In ogni caso, il chicco, come tale, non ha seguito. Se invece viene seminato, rispunterà, conoscerà il tepore della primavera e il sole dell'estate. Conoscerà una nuova vita. E' chiaro il significato di ciò sul piano umano e spirituale. Se l'uomo non passa attraverso una trasformazione che viene dalla fede, se non accetta la croce, ma rimane attaccato al suo naturale modo di essere, al suo egoismo, al suo io, tutto finirà con lui, la sua vita va ad esaurimento. Se invece accetta la croce in unione con Cristo, allora gli si apre davanti l'orizzonte dell'eternità. Ma senza pensare alla morte, ci sono situazioni sulle quali la parabola del chicco di grano getta una luce rasserenante. Chi non ha vissuto l'esperienza di un progetto che gli stava a cuore, per il quale ha lavorato, diventando lo scopo principale della vita. Ed ecco che, in breve lo vedi come caduto in terra e morto. Fallito, oppure tolto a te e affidato ad un altro che ne raccoglie i frutti. E' in questo momento che ci dobbiamo ricordare del chicco di grano e sperare. I nostri migliori progetti e affetti devono passare per questa fase di apparente buio e di gelido inverno, per rinascere purificati e ricchi di frutti. Se resistono alla prova, sono come l'acciaio che dopo che è stato immerso in acqua gelida né è uscito "temprato". Molte volte il chicco di grano (la nostra vita, i nostri progetti, gli ideali) continuiamo a tenerlo stretto nella mano, finché inaridisce e muore, senza che porti il frutto desiderato. L'alternativa è affidarlo alla terra e attendere che dia il frutto, anche se tutto fa pensare al contrario. Concretamente significa rimettere i nostri progetti, la nostra vita alla volontà di Dio, non in un atteggiamento di passiva rassegnazione, ma di fiducioso abbandono.
giovedì 19 marzo 2009
22 Marzo 2009 - IV Domenica di Quaresima
Dio ha tanto amato il mondo
"Bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato (sulla croce), perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna". Chi crede in Cristo Crocifisso, ha la vita eterna.Il Crocifisso e la fede: nel cammino quaresimale volgiamo lo sguardo e l'orientamento della vita verso la passione e la morte di Gesù, verso Gesù che è stato sulla croce. Gli ebrei, in grave pericolo, se guardavano il serpente di bronzo, erano salvi. Noi cristiani, se guardiamo Cristo Crocifisso e crediamo che Lui è il Figlio di Dio, siamo salvi. Siamo salvi su questa terra; siamo salvi per l'eternità.Questo perché Cristo crocifisso vive ed esprime tutto l'amore infinito di Dio per l'umanità e per ciascuno. "Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi, come non ci donerà ogni cosa, assieme a Lui?" La liturgia ci offre oggi le espressioni più profonde e più luminose della nostra fede."Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna"."Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia e mediante la fede, siamo stati salvati".Pensiamo a quale totale differenza fra una persona morta e una viva!E chi non crede in Cristo? E chi è superficiale nella fede? "Io sono ateo - dice qualcuno - io non credo, io sono agnostico". Tanti giovani, visti esteriormente, sembra che vedano l'ora di allontanarsi da Dio, da Cristo, dalla Chiesa. Qualcuno si lascia condizionare o rovinare da compagnie, da cattivi insegnamenti, da letture o film o servizi internet, che sembrano opere del maligno.Ce lo richiamiamo perché c'è una grande responsabilità nel portare avanti la crescita nella fede. Non è la stessa cosa credere o non credere in Cristo. Non è come fare il tifo per una squadra o l'altra o coltivare o meno un qualunque interesse: uno alla fine rimane sempre uguale. Credere o non credere in Cristo è questione di vita o di morte per sempre.Quand'ero ragazzo, mi facevano molto bene, specie negli esercizi spirituali, le meditazioni e le riflessioni, sulla morte, sull'eternità, sull'inferno e il paradiso. Mi veniva insegnato fin da ragazzo che era necessario costruire bene la vita, evitare il male e il peccato per non correre il pericolo dell'inferno, fare il bene il più possibile e chiedere il perdono di Dio nella confessione di tutti i peccati, per vivere nella fiducia che il Signore ci vorrà accogliere in Paradiso. S. Giovanni Bosco affermava che molte volte nell'età dell'adolescienza si decidono le sorti del tempo e dell'eternità.Lo sappiamo che siamo deboli, che tante volte soffriamo tentazione e cadiamo nel peccato: ma il Signore è venuto proprio perché potessimo essere perdonati e santificati. Per questo dobbiamo accogliere, desiderare, implorare il perdono; metterci davanti a Dio perché possiamo essere perdonati e salvati.Qui è la nostra gioia. Questa domenica di metà quaresima è la domenica della gioia. Gioia perché siamo davanti a Dio, perché Dio ci ama e ci salva, perché viviamo con il Signore e per il Signore. "Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia".Dice ancora il vangelo: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui". Abituati ad immaginarci un Dio esigente, che formula continue richieste e domanda sacrifici, gli uomini faticano ad accettare un Dio che non domanda, ma dona, che non esige, ma offre, che non esercita il suo potere per giudicare e condannare, ma per salvare e liberare dal male. Eppure le cose stanno proprio così. Difficilmente si sarebbe prevista una simile realtà, ma in Gesù è proprio questo che si è manifestato. Perché la logica di Dio non è quella del potere, della forza, della superiorità, ma dell'amore. "Dio ha tanto amato il mondo"!Che differenza dal nostro atteggiamento! Noi continuamente giudichiamo, puntiamo il dito, ci lamentiamo di tutto il male che c'è e che ci viene continuamente buttato il faccia. Gesù ha fatto così? Fa così? Gesù conosce molto bene tutto il male e ogni debolezza; ma Gesù ama, si appassiona di questo mondo cattivo, non ha paura dei peccati, delle cose più terribili: si incarna, si fa uomo, si fa peccato, muore come un delinquente davanti a Dio e davanti alla società di allora. Ma in questa maniera salva e trasforma il mondo e nel mondo possono trovarsi i terreni più buoni, i fiori belli, i frutti più sani.Com'è il nostro rapporto col mondo? Come ci troviamo in esso? Siamo innamorati del nostro mondo, proprio così com'è, per assumerlo, per vivere una solidarietà nel male, che diventa salvezza dal male. Non devo continuare a puntare il dito, a giudicare gli altri, come se il male fosse solo degli altri, di quelli che fanno così terribili, e io sentirmi a posto, anche se la mia vita è insulsa ed egoista."Chi crede in Cristo non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell'unigenito Figlio di Dio". Questo avviene per il mistero del contrasto della luce e delle tenebre. Dice il vangelo: La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito letenebre. Nella luce si fa il bene, nelle tenebre si fa il male. Ecco un programma semplice, ma fruttuoso: Credere nel Figlio, muoversi nella luce, fare opere buone. Credere all'amore di Dio, accoglierlo; ripetere, commossi, con S. Giovanni: "Noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi!"Possiamo in questo imitare i bambini. Essi non hanno paura di lasciarsi amare; più amore si dà loro, più ne prendono, come se fosse la cosa più naturale del mondo. L'amore umano diventa simbolo dell'amore di Dio, l'amore di Dio serve da modello all'amore umano. In altre parole, da Dio impariamo come anche noi dobbiamo amare.Alcuni esempi: Dio non ha avuto paura di peccare di debolezza, ripetendo spesso nella Bibbia all'uomo: "Io ti amo", "tu sei prezioso ai miei occhi".Perché ci sono papà e forse anche mamme che non lo dicono quasi mai ai figli? Mariti che non lo dicono alla moglie? Molti giovani soffrono per tutta la vita per non essersi mai sentiti rivolgere, semplici e chiare, parole come queste dalle persone dalle quali di più le attendevano.Pur amandoci tanto, Dio ci lascia liberi. Esprime la qualità paterna del suo amore, proprio dandoci la libertà. E non si può dubitare che Dio non sia un buon educatore. Non si tratta nelle nostre responsabilità, semplicemente di dare libertà ad esempio ai figli, ma di educarli alla libertà. Dare la libertà può diventare permissivismo. Educare alla libertà significa aiutarli a non essere succubi delle mode, della pubblicità, di quello che fanno gli altri; a non avere paura di essere diversi, di andare, quando è necessario, controcorrente, ad avere il coraggio delle proprie convinzioni e decisioni.Il Signore si aspetta da noi una risposta di amore libera, gioiosa, consapevole, perché affascinati dal suo amore infinito e tenerissimo.
"Bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato (sulla croce), perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna". Chi crede in Cristo Crocifisso, ha la vita eterna.Il Crocifisso e la fede: nel cammino quaresimale volgiamo lo sguardo e l'orientamento della vita verso la passione e la morte di Gesù, verso Gesù che è stato sulla croce. Gli ebrei, in grave pericolo, se guardavano il serpente di bronzo, erano salvi. Noi cristiani, se guardiamo Cristo Crocifisso e crediamo che Lui è il Figlio di Dio, siamo salvi. Siamo salvi su questa terra; siamo salvi per l'eternità.Questo perché Cristo crocifisso vive ed esprime tutto l'amore infinito di Dio per l'umanità e per ciascuno. "Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi, come non ci donerà ogni cosa, assieme a Lui?" La liturgia ci offre oggi le espressioni più profonde e più luminose della nostra fede."Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna"."Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia e mediante la fede, siamo stati salvati".Pensiamo a quale totale differenza fra una persona morta e una viva!E chi non crede in Cristo? E chi è superficiale nella fede? "Io sono ateo - dice qualcuno - io non credo, io sono agnostico". Tanti giovani, visti esteriormente, sembra che vedano l'ora di allontanarsi da Dio, da Cristo, dalla Chiesa. Qualcuno si lascia condizionare o rovinare da compagnie, da cattivi insegnamenti, da letture o film o servizi internet, che sembrano opere del maligno.Ce lo richiamiamo perché c'è una grande responsabilità nel portare avanti la crescita nella fede. Non è la stessa cosa credere o non credere in Cristo. Non è come fare il tifo per una squadra o l'altra o coltivare o meno un qualunque interesse: uno alla fine rimane sempre uguale. Credere o non credere in Cristo è questione di vita o di morte per sempre.Quand'ero ragazzo, mi facevano molto bene, specie negli esercizi spirituali, le meditazioni e le riflessioni, sulla morte, sull'eternità, sull'inferno e il paradiso. Mi veniva insegnato fin da ragazzo che era necessario costruire bene la vita, evitare il male e il peccato per non correre il pericolo dell'inferno, fare il bene il più possibile e chiedere il perdono di Dio nella confessione di tutti i peccati, per vivere nella fiducia che il Signore ci vorrà accogliere in Paradiso. S. Giovanni Bosco affermava che molte volte nell'età dell'adolescienza si decidono le sorti del tempo e dell'eternità.Lo sappiamo che siamo deboli, che tante volte soffriamo tentazione e cadiamo nel peccato: ma il Signore è venuto proprio perché potessimo essere perdonati e santificati. Per questo dobbiamo accogliere, desiderare, implorare il perdono; metterci davanti a Dio perché possiamo essere perdonati e salvati.Qui è la nostra gioia. Questa domenica di metà quaresima è la domenica della gioia. Gioia perché siamo davanti a Dio, perché Dio ci ama e ci salva, perché viviamo con il Signore e per il Signore. "Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia".Dice ancora il vangelo: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui". Abituati ad immaginarci un Dio esigente, che formula continue richieste e domanda sacrifici, gli uomini faticano ad accettare un Dio che non domanda, ma dona, che non esige, ma offre, che non esercita il suo potere per giudicare e condannare, ma per salvare e liberare dal male. Eppure le cose stanno proprio così. Difficilmente si sarebbe prevista una simile realtà, ma in Gesù è proprio questo che si è manifestato. Perché la logica di Dio non è quella del potere, della forza, della superiorità, ma dell'amore. "Dio ha tanto amato il mondo"!Che differenza dal nostro atteggiamento! Noi continuamente giudichiamo, puntiamo il dito, ci lamentiamo di tutto il male che c'è e che ci viene continuamente buttato il faccia. Gesù ha fatto così? Fa così? Gesù conosce molto bene tutto il male e ogni debolezza; ma Gesù ama, si appassiona di questo mondo cattivo, non ha paura dei peccati, delle cose più terribili: si incarna, si fa uomo, si fa peccato, muore come un delinquente davanti a Dio e davanti alla società di allora. Ma in questa maniera salva e trasforma il mondo e nel mondo possono trovarsi i terreni più buoni, i fiori belli, i frutti più sani.Com'è il nostro rapporto col mondo? Come ci troviamo in esso? Siamo innamorati del nostro mondo, proprio così com'è, per assumerlo, per vivere una solidarietà nel male, che diventa salvezza dal male. Non devo continuare a puntare il dito, a giudicare gli altri, come se il male fosse solo degli altri, di quelli che fanno così terribili, e io sentirmi a posto, anche se la mia vita è insulsa ed egoista."Chi crede in Cristo non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell'unigenito Figlio di Dio". Questo avviene per il mistero del contrasto della luce e delle tenebre. Dice il vangelo: La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito letenebre. Nella luce si fa il bene, nelle tenebre si fa il male. Ecco un programma semplice, ma fruttuoso: Credere nel Figlio, muoversi nella luce, fare opere buone. Credere all'amore di Dio, accoglierlo; ripetere, commossi, con S. Giovanni: "Noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi!"Possiamo in questo imitare i bambini. Essi non hanno paura di lasciarsi amare; più amore si dà loro, più ne prendono, come se fosse la cosa più naturale del mondo. L'amore umano diventa simbolo dell'amore di Dio, l'amore di Dio serve da modello all'amore umano. In altre parole, da Dio impariamo come anche noi dobbiamo amare.Alcuni esempi: Dio non ha avuto paura di peccare di debolezza, ripetendo spesso nella Bibbia all'uomo: "Io ti amo", "tu sei prezioso ai miei occhi".Perché ci sono papà e forse anche mamme che non lo dicono quasi mai ai figli? Mariti che non lo dicono alla moglie? Molti giovani soffrono per tutta la vita per non essersi mai sentiti rivolgere, semplici e chiare, parole come queste dalle persone dalle quali di più le attendevano.Pur amandoci tanto, Dio ci lascia liberi. Esprime la qualità paterna del suo amore, proprio dandoci la libertà. E non si può dubitare che Dio non sia un buon educatore. Non si tratta nelle nostre responsabilità, semplicemente di dare libertà ad esempio ai figli, ma di educarli alla libertà. Dare la libertà può diventare permissivismo. Educare alla libertà significa aiutarli a non essere succubi delle mode, della pubblicità, di quello che fanno gli altri; a non avere paura di essere diversi, di andare, quando è necessario, controcorrente, ad avere il coraggio delle proprie convinzioni e decisioni.Il Signore si aspetta da noi una risposta di amore libera, gioiosa, consapevole, perché affascinati dal suo amore infinito e tenerissimo.
giovedì 12 marzo 2009
15 Marzo 2009 - III Domenica di Quaresima
Di Dio non si fa mercato!
Mi si permetta una fantasticheria: chissà come avrà reagito quel giorno il sommo sacerdote Caifa quando gli devono aver raccontato di quello scandalo inaudito, che si era verificato al tempio nell’atrio dei gentili, a firma del solito Gesù di Nazareth, mai visto “infuriato pazzo” così, contro mercanti e cambiavalute? Non ha risposto proprio a questa domanda, ma ci è andato molto vicino lo scrittore torinese, S. Jacomuzzi con il suo romanzo audace e avvincente, Cominciò in Galilea, una sorta di quinto vangelo, messo in bocca all’apostolo Andrea. Ecco come il “primo chiamato”, il fratello di Simon Pietro, ricostruisce il “fattaccio”: “Fu d’improvviso, in modo del tutto inaspettato. Mi ero appena accorto che Gesù aveva alzato gli occhi in alto, verso i fastigi del tempio, per poi rivolgerli tutto attorno a ciò che lo circondava, e lo vidi muoversi di scatto. Da una bancarella vicino afferrò delle cordicelle, ne fece una fune e con quella si abbatté addosso ai mercanti, rovesciò i banchi delle monete, cercò di spingere fuori pecore e buoi. Restammo allibiti, senza neppure il tempo di intervenire e di metterci accanto a lui. Si alzò un volo di colombe spaventate e Gesù gridò ai loro venditori: “Andatevene di qui! Avete mutato la mia casa in una spelonca di ladri!”.
1. Per comprendere adeguatamente da una parte la carica “rivoluzionaria” del gesto compiuto da Gesù e, dall’altra, la sua valenza simbolica, bisogna ricordare cosa rappresentasse il santo tempio di Gerusalemme per il giudaismo contemporaneo. Secondo la fede d’Israele, il tempio era la dimora di Dio in mezzo al suo popolo: là si operava la remissione dei peccati; solo là veniva pronunciato il santissimo nome di YHWH, altrimenti assolutamente impronunciabile. In sostanza il tempio era il segno concreto e tangibile sia della unicità di Dio sia della unità e unicità di Israele: lo ricordava una iscrizione su una lastra di pietra messa a confine tra i due piazzali, quello riservato ai giudei e quello dei pagani: comminava la pena di morte all’incirconciso che avesse osato oltrepassare il limite. Del gesto compiuto da Gesù sono state date due interpretazioni, una che potremmo chiamare “devota”, e l’altra “zelota”. Secondo la prima, si sarebbe trattato di una purificazione del tempio: come gli antichi profeti, Gesù avrebbe compiuto un gesto di violenta denuncia di abusi intollerabili e si sarebbe scagliato contro quella sacrilega profanazione che aveva ridotto il tempio a un centro commerciale. Bisogna però ricordare che in fondo la presenza di venditori e di cambiavalute non solo non era illegale - oltretutto il mercato si svolgeva nell’atrio dei pagani - ma era anzi necessaria per offrire sacrifici e cambiare le monete straniere, ritenute impure, in monete ebraiche. Di fatto Gesù non se la prende direttamente con il traffico del tempio, fonte di lauti guadagni per il sommo sacerdote e le grandi famiglie sacerdotali che si spartivano il controllo delle finanze. Secondo l’altra interpretazione, quella “zelota”, il gesto compiuto da Gesù sarebbe stato un atto squisitamente politico: un tentativo di occupazione del tempio, contro gli invasori romani e quindi un affronto oltraggioso all’alta aristocrazia sacerdotale, imparentata con la classe dei sadducei e connivente con il potere occupante. Di fatto il gesto in se stesso è stato un “gesto profetico” - come i gesti compiuti dagli antichi profeti per lanciare dei messaggi particolarmente importanti - insomma un’azione dimostrativa, simbolica. Più che una “purificazione” dell’area del tempio, quello che fa Gesù annuncia l’abolizione di ogni barriera: perfino l’atrio consentito ai pagani doveva essere considerato sacro, tanto quanto lo spazio riservato agli ebrei. In fondo Gesù non vuole la restaurazione del vecchio mondo, ma l’instaurazione di un nuovo mondo religioso, senza più tabù né odiose segregazioni.
2. Ma c’è ancora altro. È soprattutto il detto riportato da Giovanni, rispetto ai sinottici - “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” - a illuminarci sul senso attribuito da Gesù stesso al suo gesto eclatante. È da rimarcare qui la forte sottolineatura del soggetto che compie l’azione - che nella versione di Marco è ancora più accentuata: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo” (14,58). Il tempio non è più riformabile, perché decaduto: va sostituito, non perché profanato, ma perché il Messia è ormai venuto, e Gesù è insieme il soggetto e l’oggetto della sostituzione del vecchio santuario di Gerusalemme: è il ricostruttore del tempio e il tempio ricostruito. Nella precedente attesa giudaica, riguardante il rinnovamento del tempio negli ultimi tempi, è sempre e solo Dio che agisce; di norma, non ci si attendeva che un uomo, re o profeta che fosse, si arrogasse la prerogativa della riedificazione futura del tempio. Qui invece abbiamo proprio un uomo, il rabbi Gesù di Nazaret, che si accredita come dotato di una autorità divina. Infatti l’accusa che gli verrà mossa pochi giorni dopo in sede di processo dal tribunale del sinedrio, riguarda proprio questo capo: la funzione di Gesù, come il ricostruttore promesso del tempio, indirettamente comportava la sua piena e totale equiparazione con Dio. Il gesto simbolico compiuto dal Maestro di Nazareth e il suo messaggio profetico si possono capire solo alla luce della Pasqua: “egli parlava del tempio del suo corpo”. Abbiamo qui il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: la sua umanità è il luogo della presenza e della manifestazione di Dio in mezzo agli uomini. Il Signore Gesù dunque è il vero tempio, l’unico luogo di incontro con Dio. Il suo corpo, distrutto da mani d’uomo - dal peccato - sulla croce, diventerà nella risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini tutti. Questo significa che i veri adoratori di Dio non sono i guardiani del tempio materiale, i sommi sacerdoti garanti del sistema o gli scribi detentori del sapere, ma tutti coloro che adorano Dio “in spirito e verità” (Gv 4,23). La nota conclusiva di Giovanni - Gesù “non si fidava di loro... perché sapeva quello che c’è nel cuore dell’uomo” - sposta il luogo del vero incontro con Dio: dal recinto sacro all’intimo della coscienza, lì dove ogni uomo non si decide per qualcosa, ma per Qualcuno.
3. Ci stiamo preparando alla grande veglia pasquale, quando rinnoveremo le promesse del nostro battesimo, il sacramento-base con cui Cristo ci ha “incorporati” a sé, facendo di noi le pietre viventi del nuovo tempio: noi siamo il vero santuario, abitato dallo Spirito di Dio (cfr. 1Pt 2,4-5; 1Cor 3,16; 6,19). Ci stiamo preparando a rinnovare la promessa di fare di tutta la nostra vita “un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” (Rm 12,1). Camminando nel mondo come Gesù, facendo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per il mondo, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo incontrabile per quanti si imbattono nel nostro cammino. Ma il Signore si sente veramente a casa nella nostra vita? O anche per noi deve prendere la frusta per “fare le pulizie pasquali” negli atri del nostro cuore adultero e mercenario, e per scacciare gli idoli che vi si sono prepotentemente e comodamente installati? L’eucaristia che celebriamo ci mette in comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il nostro più intimo e ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui.
Mi si permetta una fantasticheria: chissà come avrà reagito quel giorno il sommo sacerdote Caifa quando gli devono aver raccontato di quello scandalo inaudito, che si era verificato al tempio nell’atrio dei gentili, a firma del solito Gesù di Nazareth, mai visto “infuriato pazzo” così, contro mercanti e cambiavalute? Non ha risposto proprio a questa domanda, ma ci è andato molto vicino lo scrittore torinese, S. Jacomuzzi con il suo romanzo audace e avvincente, Cominciò in Galilea, una sorta di quinto vangelo, messo in bocca all’apostolo Andrea. Ecco come il “primo chiamato”, il fratello di Simon Pietro, ricostruisce il “fattaccio”: “Fu d’improvviso, in modo del tutto inaspettato. Mi ero appena accorto che Gesù aveva alzato gli occhi in alto, verso i fastigi del tempio, per poi rivolgerli tutto attorno a ciò che lo circondava, e lo vidi muoversi di scatto. Da una bancarella vicino afferrò delle cordicelle, ne fece una fune e con quella si abbatté addosso ai mercanti, rovesciò i banchi delle monete, cercò di spingere fuori pecore e buoi. Restammo allibiti, senza neppure il tempo di intervenire e di metterci accanto a lui. Si alzò un volo di colombe spaventate e Gesù gridò ai loro venditori: “Andatevene di qui! Avete mutato la mia casa in una spelonca di ladri!”.
1. Per comprendere adeguatamente da una parte la carica “rivoluzionaria” del gesto compiuto da Gesù e, dall’altra, la sua valenza simbolica, bisogna ricordare cosa rappresentasse il santo tempio di Gerusalemme per il giudaismo contemporaneo. Secondo la fede d’Israele, il tempio era la dimora di Dio in mezzo al suo popolo: là si operava la remissione dei peccati; solo là veniva pronunciato il santissimo nome di YHWH, altrimenti assolutamente impronunciabile. In sostanza il tempio era il segno concreto e tangibile sia della unicità di Dio sia della unità e unicità di Israele: lo ricordava una iscrizione su una lastra di pietra messa a confine tra i due piazzali, quello riservato ai giudei e quello dei pagani: comminava la pena di morte all’incirconciso che avesse osato oltrepassare il limite. Del gesto compiuto da Gesù sono state date due interpretazioni, una che potremmo chiamare “devota”, e l’altra “zelota”. Secondo la prima, si sarebbe trattato di una purificazione del tempio: come gli antichi profeti, Gesù avrebbe compiuto un gesto di violenta denuncia di abusi intollerabili e si sarebbe scagliato contro quella sacrilega profanazione che aveva ridotto il tempio a un centro commerciale. Bisogna però ricordare che in fondo la presenza di venditori e di cambiavalute non solo non era illegale - oltretutto il mercato si svolgeva nell’atrio dei pagani - ma era anzi necessaria per offrire sacrifici e cambiare le monete straniere, ritenute impure, in monete ebraiche. Di fatto Gesù non se la prende direttamente con il traffico del tempio, fonte di lauti guadagni per il sommo sacerdote e le grandi famiglie sacerdotali che si spartivano il controllo delle finanze. Secondo l’altra interpretazione, quella “zelota”, il gesto compiuto da Gesù sarebbe stato un atto squisitamente politico: un tentativo di occupazione del tempio, contro gli invasori romani e quindi un affronto oltraggioso all’alta aristocrazia sacerdotale, imparentata con la classe dei sadducei e connivente con il potere occupante. Di fatto il gesto in se stesso è stato un “gesto profetico” - come i gesti compiuti dagli antichi profeti per lanciare dei messaggi particolarmente importanti - insomma un’azione dimostrativa, simbolica. Più che una “purificazione” dell’area del tempio, quello che fa Gesù annuncia l’abolizione di ogni barriera: perfino l’atrio consentito ai pagani doveva essere considerato sacro, tanto quanto lo spazio riservato agli ebrei. In fondo Gesù non vuole la restaurazione del vecchio mondo, ma l’instaurazione di un nuovo mondo religioso, senza più tabù né odiose segregazioni.
2. Ma c’è ancora altro. È soprattutto il detto riportato da Giovanni, rispetto ai sinottici - “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” - a illuminarci sul senso attribuito da Gesù stesso al suo gesto eclatante. È da rimarcare qui la forte sottolineatura del soggetto che compie l’azione - che nella versione di Marco è ancora più accentuata: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo” (14,58). Il tempio non è più riformabile, perché decaduto: va sostituito, non perché profanato, ma perché il Messia è ormai venuto, e Gesù è insieme il soggetto e l’oggetto della sostituzione del vecchio santuario di Gerusalemme: è il ricostruttore del tempio e il tempio ricostruito. Nella precedente attesa giudaica, riguardante il rinnovamento del tempio negli ultimi tempi, è sempre e solo Dio che agisce; di norma, non ci si attendeva che un uomo, re o profeta che fosse, si arrogasse la prerogativa della riedificazione futura del tempio. Qui invece abbiamo proprio un uomo, il rabbi Gesù di Nazaret, che si accredita come dotato di una autorità divina. Infatti l’accusa che gli verrà mossa pochi giorni dopo in sede di processo dal tribunale del sinedrio, riguarda proprio questo capo: la funzione di Gesù, come il ricostruttore promesso del tempio, indirettamente comportava la sua piena e totale equiparazione con Dio. Il gesto simbolico compiuto dal Maestro di Nazareth e il suo messaggio profetico si possono capire solo alla luce della Pasqua: “egli parlava del tempio del suo corpo”. Abbiamo qui il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: la sua umanità è il luogo della presenza e della manifestazione di Dio in mezzo agli uomini. Il Signore Gesù dunque è il vero tempio, l’unico luogo di incontro con Dio. Il suo corpo, distrutto da mani d’uomo - dal peccato - sulla croce, diventerà nella risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini tutti. Questo significa che i veri adoratori di Dio non sono i guardiani del tempio materiale, i sommi sacerdoti garanti del sistema o gli scribi detentori del sapere, ma tutti coloro che adorano Dio “in spirito e verità” (Gv 4,23). La nota conclusiva di Giovanni - Gesù “non si fidava di loro... perché sapeva quello che c’è nel cuore dell’uomo” - sposta il luogo del vero incontro con Dio: dal recinto sacro all’intimo della coscienza, lì dove ogni uomo non si decide per qualcosa, ma per Qualcuno.
3. Ci stiamo preparando alla grande veglia pasquale, quando rinnoveremo le promesse del nostro battesimo, il sacramento-base con cui Cristo ci ha “incorporati” a sé, facendo di noi le pietre viventi del nuovo tempio: noi siamo il vero santuario, abitato dallo Spirito di Dio (cfr. 1Pt 2,4-5; 1Cor 3,16; 6,19). Ci stiamo preparando a rinnovare la promessa di fare di tutta la nostra vita “un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” (Rm 12,1). Camminando nel mondo come Gesù, facendo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per il mondo, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo incontrabile per quanti si imbattono nel nostro cammino. Ma il Signore si sente veramente a casa nella nostra vita? O anche per noi deve prendere la frusta per “fare le pulizie pasquali” negli atri del nostro cuore adultero e mercenario, e per scacciare gli idoli che vi si sono prepotentemente e comodamente installati? L’eucaristia che celebriamo ci mette in comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il nostro più intimo e ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui.
venerdì 6 marzo 2009
8 Marzo 2009 - II Domenica di Quaresima
Ci siamo addentrati nella quaresima. La Parola di Dio continua a farci uscire dalla prigionia dell'amore per noi stessi per condurci più in alto, molto più in alto delle nostre banalità. La liturgia di questa seconda domenica è come dominata da due montagne che si stagliano alte, affascinati e terribili, di fronte alla banalità del nostro quotidiano: il monte Moria - che la tradizione posteriore identificherà simbolicamente con il colle del Tempio di Gerusalemme - e il monte Tabor; il monte della prova di Abramo e il monte della trasfigurazione di Gesù. Il libro della Genesi ci presenta quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni, affrontato con fede dal patriarca Abramo verso la vetta della prova: è il paradigma di ogni itinerario di fede, e dello stesso cammino quaresimale. E' un percorso difficile e combattuto, accompagnato solo da quel comando implacabile: "Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami e offrilo in olocausto!" Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del giovane e ignaro Isacco che una sola volta, con ingenuità straziante, "si rivolse al padre e disse: Padre mio! - Eccomi, figlio mio. - Dov'è l'agnello per l'olocausto? - Dio stesso provvederà, figlio mio!" E' la fede al livello più alto o, se si vuole, a quello semplice e puro del bambino che si fida totalmente del padre senza alcun tentennamento ("se non ritornerete come bambini...", dirà Gesù). Abramo deve rinunciare alla sua paternità per appoggiarsi unicamente alla parola di Dio. E' la fede allo stato puro, si potrebbe dire. Non è il figlio Isacco ad assicurargli la posterità, ma solo la Parola del Signore. Sì, solo la Parola del Signore è la roccia su cui fondarsi, il bastone su cui appoggiarsi, il fondamento su cui costruire. Dio lo mette alla prova facendogli balenare la possibilità della distruzione della sua paternità. E così, dopo la prova, Abramo riceve Isacco non più come figlio della sua carne, ma come il figlio della promessa divina, il figlio della Parola. Egli, che pure aveva rinunciato alla vita di Isacco, lo ritrova colmo di gioia, così come quel padre misericordioso della parabola evangelica fu pieno di gioia nel ritrovare il figlio prodigo "che era morto ed era tornato in vita". Abramo che accoglie Isacco, ci offre un esempio altissimo di fede che lo farà venerare dalle generazioni future di ebrei, cristiani e musulmani, come "Padre di tutti i credenti". Su quella vetta, il credente si scopre figlio dell'amore assoluto, e per questo esigente, di Dio. La fede di Abramo ci accompagni nel nostro pellegrinare di ogni giorno!
La montagna della trasfigurazione, che la tradizione successiva identificherà con il Tabor, si pone come termine di questo viaggio, il viaggio di ogni settimana e dell'intera vita. Il Signore ci prende e ci conduce con sé sul monte, così come fece con i tre più amici perché vivessero con lui l'esperienza della comunione intima con il Padre; un'esperienza così profonda da trasfigurare il volto, il corpo e persino i vestiti; tutto, dentro e fuori. C'è chi suggerisce che il nucleo storico del racconto si basa su un'esperienza che ha colpito anzitutto Gesù: una visione celeste che ha prodotto una trasfigurazione in lui. E' un'ipotesi verosimile e comunque suggestiva perché ci permette di cogliere più al fondo la vita spirituale di Gesù. Talora si dimentica che anche Gesù ha avuto un suo itinerario spirituale, come il Vangelo suggerisce: Gesù "cresceva in sapienza, età e grazia". Senza dubbio non mancarono in lui le gioie per i frutti del suo ministero pastorale, come pure non furono assenti le ansie e le angosce (il Getsemani e la croce ne sono i momenti più drammatici). La salita sul monte ci fu anche per Gesù, come già per Abramo eppoi per Mosé, per Elia e per ogni credente. Gesù sentì il bisogno di salire sul monte; era il bisogno di incontrarsi con il Padre. E' vero che la comunione con il Padre era tutta la sua vita, il pane delle sue giornate, la sostanza della sua missione, il cuore di tutto ciò che era e che faceva; ma Gesù aveva bisogno di momenti in cui questo rapporto intimo emergesse nella sua pienezza. E' un esempio che interroga profondamente i credenti di oggi. Se ne ha avuto bisogno Gesù, quanto più noi! Il Tabor fu uno di questi momenti singolarissimi di comunione, che il Vangelo estende a tutta la vicenda storica del popolo d'Israele, come testimonia la presenza di Mosé ed Elia che "discorrevano con lui". Gesù, però, non visse da solo questa esperienza; volle coinvolgere anche i suoi tre amici più intimi. Fu un momento tra i più significativi per la vita personale di Gesù, e lo divenne anche per i tre discepoli e per tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questa stessa salita.
Nella tradizione della Chiesa molte sono state le interpretazioni di questo brano evangelico. Tra le più costanti c'è quella che scorge nella vita monastica il riflesso della Trasfigurazione, a motivo della radicalità della scelta che comporta. E senza dubbio è necessario che nella vita della Chiesa di oggi si sottolinei con maggior coraggio la radicalità di questa scelta che mostra il primato assoluto di Dio sulla nostra vita. Penso però che si possa vedere nel monte della Trasfigurazione anche la Liturgia domenicale alla quale tutti siamo chiamati a partecipare per vivere, uniti a Gesù, il momento più alto della comunione con Dio. Ed è proprio durante la Santa Liturgia che potremmo anche noi ripetere le stesse parole di Pietro: "Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende...". Da questo santo monte ch'è la Liturgia domenicale, nella quale ci troviamo in compagnia dei patriarchi e dei santi del Primo e del Nuovo Testamento, anche noi sentiamo risuonare la stessa voce di allora: "Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo!" Immediatamente i tre discepoli si ritrovarono con "Gesù solo". Si guardano attorno stupiti, forse con un senso di smarrimento per essere tornati alla "normalità", e non videro nessun altro se non il solo Gesù. Iniziano di qui i giorni feriali che seguono la domenica; o, se si vuole, la discesa dal monte. I discepoli non erano più come prima. Tornarono nella vita quotidiana non più ricchi di se stessi, delle proprie idee, dei propri progetti, dei propri sogni o di altro ancora. Essi avevano davanti agli occhi la visione di Gesù trasfigurato, e questo gli bastava. Sì, alla comunità cristiana, ad ogni credente, non è dato altro che Gesù; solo Lui è il tesoro, la ricchezza, la ragione della vita personale e della vita della Chiesa. Quella tenda che Pietro voleva costruire con le sue mani, in realtà l'aveva costruita Dio stesso quando "il Verbo si fece carne e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). E con l'apostolo Paolo siamo lieti di poter ripetere che nessuno, né il dolore né la fatica né la morte ci separeranno da Cristo e dal suo amore.
La montagna della trasfigurazione, che la tradizione successiva identificherà con il Tabor, si pone come termine di questo viaggio, il viaggio di ogni settimana e dell'intera vita. Il Signore ci prende e ci conduce con sé sul monte, così come fece con i tre più amici perché vivessero con lui l'esperienza della comunione intima con il Padre; un'esperienza così profonda da trasfigurare il volto, il corpo e persino i vestiti; tutto, dentro e fuori. C'è chi suggerisce che il nucleo storico del racconto si basa su un'esperienza che ha colpito anzitutto Gesù: una visione celeste che ha prodotto una trasfigurazione in lui. E' un'ipotesi verosimile e comunque suggestiva perché ci permette di cogliere più al fondo la vita spirituale di Gesù. Talora si dimentica che anche Gesù ha avuto un suo itinerario spirituale, come il Vangelo suggerisce: Gesù "cresceva in sapienza, età e grazia". Senza dubbio non mancarono in lui le gioie per i frutti del suo ministero pastorale, come pure non furono assenti le ansie e le angosce (il Getsemani e la croce ne sono i momenti più drammatici). La salita sul monte ci fu anche per Gesù, come già per Abramo eppoi per Mosé, per Elia e per ogni credente. Gesù sentì il bisogno di salire sul monte; era il bisogno di incontrarsi con il Padre. E' vero che la comunione con il Padre era tutta la sua vita, il pane delle sue giornate, la sostanza della sua missione, il cuore di tutto ciò che era e che faceva; ma Gesù aveva bisogno di momenti in cui questo rapporto intimo emergesse nella sua pienezza. E' un esempio che interroga profondamente i credenti di oggi. Se ne ha avuto bisogno Gesù, quanto più noi! Il Tabor fu uno di questi momenti singolarissimi di comunione, che il Vangelo estende a tutta la vicenda storica del popolo d'Israele, come testimonia la presenza di Mosé ed Elia che "discorrevano con lui". Gesù, però, non visse da solo questa esperienza; volle coinvolgere anche i suoi tre amici più intimi. Fu un momento tra i più significativi per la vita personale di Gesù, e lo divenne anche per i tre discepoli e per tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questa stessa salita.
Nella tradizione della Chiesa molte sono state le interpretazioni di questo brano evangelico. Tra le più costanti c'è quella che scorge nella vita monastica il riflesso della Trasfigurazione, a motivo della radicalità della scelta che comporta. E senza dubbio è necessario che nella vita della Chiesa di oggi si sottolinei con maggior coraggio la radicalità di questa scelta che mostra il primato assoluto di Dio sulla nostra vita. Penso però che si possa vedere nel monte della Trasfigurazione anche la Liturgia domenicale alla quale tutti siamo chiamati a partecipare per vivere, uniti a Gesù, il momento più alto della comunione con Dio. Ed è proprio durante la Santa Liturgia che potremmo anche noi ripetere le stesse parole di Pietro: "Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende...". Da questo santo monte ch'è la Liturgia domenicale, nella quale ci troviamo in compagnia dei patriarchi e dei santi del Primo e del Nuovo Testamento, anche noi sentiamo risuonare la stessa voce di allora: "Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo!" Immediatamente i tre discepoli si ritrovarono con "Gesù solo". Si guardano attorno stupiti, forse con un senso di smarrimento per essere tornati alla "normalità", e non videro nessun altro se non il solo Gesù. Iniziano di qui i giorni feriali che seguono la domenica; o, se si vuole, la discesa dal monte. I discepoli non erano più come prima. Tornarono nella vita quotidiana non più ricchi di se stessi, delle proprie idee, dei propri progetti, dei propri sogni o di altro ancora. Essi avevano davanti agli occhi la visione di Gesù trasfigurato, e questo gli bastava. Sì, alla comunità cristiana, ad ogni credente, non è dato altro che Gesù; solo Lui è il tesoro, la ricchezza, la ragione della vita personale e della vita della Chiesa. Quella tenda che Pietro voleva costruire con le sue mani, in realtà l'aveva costruita Dio stesso quando "il Verbo si fece carne e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). E con l'apostolo Paolo siamo lieti di poter ripetere che nessuno, né il dolore né la fatica né la morte ci separeranno da Cristo e dal suo amore.
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