«Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce. Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1).
Il nostro mondo è avvolto dalle tenebre e noi siamo stanchi di vivere così! Noi abbiamo bisogno di voltare pagina e di iniziare una storia nuova, una stagione nuova della vita, in cui solo Cristo, la Luce del mondo, può essere la nostra bussola!
Siamo stanchi di sottoporci alle strutture di peccato e di morte che annientano quella dignità umana che oggi Cristo Gesù ha assunto.
Il Bambino di Betlemme ci spalanca le sue braccia, attende la nostra sincera adorazione! Egli è la luce che brilla in mezzo a noi, in mezzo al nostro mondo senza pace! Per questo, ciascuno di noi può sentirsi irradiato dallo splendore della Luce di Dio.
«Un bambino è nato per noi» (Is 9,5).
Ai nostri giorni, con tutta la buona volontà, credo sia difficile cogliere il Natale: quanti problemi accompagnano le nostre famiglie e l'intera società: malattie, guerre, terrorismo, i poveri che diventano sempre più poveri e i ricchi che diventano sempre più ricchi... Non possiamo pensare di celebrare il Natale con le luci, i pranzi, le cene, i regali...
La pagina di Isaia che abbiamo citato è un grande annuncio di gioia per il mondo: se Dio rinnova per noi il suo Natale è segno che Egli non si è ancora stancato di amarci, di darci fiducia, di offrirci il suo perdono e la sua pace, di farci dono della salvezza!
Ai nostri giorni Dio non si è stancato di bussare alla porta del nostro cuore e di attendere la nostra accoglienza sincera e definitiva.
Egli vuole ancora incarnarsi nei nostri cuori e nella nostra società, dove i valori sembrano cancellati dalla memoria, dove l'uomo uccide ancora e brama vendetta, dove aumentano gli abusi sulle donne e sui minori, dove la droga continua a diffondere i paradisi artificiali della morte...
«E' apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11).
Il mistero dell'Amore di Dio è in quel Bambino che vediamo nel presepe!
L'atmosfera del Natale è sempre bella, perché è capace di diffondere davvero tanta bontà, tanta felicità, tanti sorrisi... doni semplici che nulla hanno a che vedere con il consumismo di questi giorni!
Ma Natale può essere anche ogni giorno, se il nostro cuore pulsa d'amore per il fratello che ci sta accanto, con cui condividiamo la strada, la scuola, il lavoro, l'impegno in Parrocchia... La nostra salvezza è l'Amore, l'Amore di Dio che accogliamo e che siamo capaci di condividere con i fratelli, soprattutto con quelli afflitti da antiche e nuove povertà.
«... lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7).
In quest'ora in cui i nostri cuori sono a Betlemme per contemplare la nascita del Salvatore, non possiamo non guardare a Maria e Giuseppe nella difficoltà: non c'è un luogo stabile per accogliere il Figlio di Dio, oggi come allora!
Dio nasce ancora oggi in luoghi peggiori della mangiatoia e spesso viene anche ucciso, perché scomodo! Pensiamo alle tante vite, che oggi non hanno più dignità, che vengono uccise perché considerate un "errore" di giovinezza o un "prodotto" non desiderato di laboratorio...
Ancora oggi non vogliamo fare posto a Dio che si fa' uomo per noi, perché – lo sappiamo bene – Lui ci è troppo scomodo, è troppo esigente, dovremmo fare troppe rinunzie...
Fratelli, non c'è posto per il Figlio di Dio in questo mondo se non c'è posto per la vita, se non c'è posto per l'Amore! «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
È l'annuncio dell'angelo ai pastori che vegliavano il gregge nella gelida notte. Ma è anche l'annuncio che giunge a noi e che noi dobbiamo portare al mondo, se vogliamo davvero dare un senso alla nostra presenza qui, adesso!
Per tanti, probabilmente, non sarà Natale, perché hanno perso un loro congiunto in tenera età, o perché il dolore ha bussato alla loro porta con un male incurabile, o perché non sanno con chi condividere la gioia di questo giorno... Certo, è difficile poter pensare alla gioia ed alla festa di questo giorno che è spuntato.
Ma, come cristiani autentici, dobbiamo compiere il gesto di contagiare il mondo di gioia e, specialmente, tutte quelle persone che ora sono in difficoltà per i motivi sopra accennati e per altri ancora!
È Natale se sappiamo dire a tutti che Dio è con noi, è dalla nostra parte sempre, è sempre pronto a nascere ed immolarsi per noi!
«Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 97).
Vogliamo uscire dalla chiesa, in questa notte santa, davvero rinnovati, raggianti della luce di Betlemme, non più camminatori stanchi "in questa valle di lacrime", ma viandanti pieni di speranza verso il Cielo, quel Cielo che oggi tocca la terra e la inonda d'Amore senza fine.
Vogliamo, in questa notte, dare lode a Dio con Maria, la Madre di Dio e la Mamma nostra celeste. Diciamo "Grazie!" a Lei per averci donato Gesù! E vogliamo pregarla di tenerci tutti tra le sue braccia come tenne il Figlio di Dio fatto uomo: il suo Amore materno possa raggiungere il nostro cuore e consolarci di quella speranza che è novità di vita.
Sia questo l'augurio che vicendevolmente ci scambiamo in questo giorno di luce, auguri colmi di speranza e di gioia, dove ogni rancore e odio sono spenti dalla pace del Bambino di Betlemme! Buon Natale!
sabato 20 dicembre 2008
21 Dicembre 2008 - IV Domenica di Avvento
C'è una progressione nella liturgia dell'Avvento. Nella prima settimana, la figura dominante è Isaia, il profeta che annunciò la venuta del Messia da lontano; nella seconda e terza settimana, è Giovanni Batista, il precursore che addita il Messia presente; nella quarta settimana, la figura centrale, la guida spirituale è Maria, la Madre che dà alla luce il Messia.
Sull'esempio di Maria Santissima, il messaggio conclusivo dell'Avvento è: "Accogliete!"
Accogliete il Signore! Sarebbe inutile preparargli la strada se non lo si accoglie. Ma cosa significa accogliere il Signore? La parola di Dio ce lo spiega con i personaggi di Davide e Maria.
Davide vuole costruire una casa al Signore. È un desiderio molto buono. Ma rischia di instaurare un rapporto con Dio di sufficienza e di distanza.
Sufficienza: Davide si sente di fare una cosa grande per Dio; invece è sempre il Signore che ci dà ogni cosa, ogni bene, ogni possibilità. Distanza: perché la presenza di Dio nel tempio è una sicurezza, perché abita in mezzo ai suoi; a Lui si va ogni tanto, per i sacrifici e le preghiere, perché faccia quello che gli viene chiesto, ma fuori si svolge tutta la vita ordinaria, dei singoli e del popolo.
Per Maria è il contrario. Accetta di fare entrare Dio nella sua casa, nella sua vita, anche se sconvolge tutti i suoi progetti, anche se è difficile capire cosa voglia, dove desideri portarla.
Accogliere il Signore significa fare come Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare, fidarsi. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione.
Accogliere Dio significa accettare di diventare la sua casa, avere questo ospite unico, infinito nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
Questo è avvenuto in maniera unica in Maria. In lei si realizza il progetto di Dio sull'umanità. Maria, questa umile ragazza dice il suo "Sì". Maria, nella sua delicatezza, nella semplicità di quel piccolo paese, Nazareth, accoglie la sua Parola.
"Non temere, Maria".
Non era facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha tolto le difficoltà della scelta, perché la sua fosse una scelta libera.
Tanta gente ha dei dubbi. I dubbi non sono peccati, ma una occasione per dare una risposta cosciente, consapevole, per crescere nella fede. La fede non è un sentimento, ma una certezza, in qualunque situazione bella o triste: Dio, il suo amore, il valore della nostra vita nel suo progetto di salvezza!
Maria è un esempio per tutti noi cristiani. Ci insegna come accogliere la Parola di Dio, nella vita ordinaria, nella libertà e nella generosità delle nostre scelte.
Come è possibile?
Lo Spirito del Signore scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra.
Lo Spirito Santo può compiere sempre cose grandi in chi si apre a Lui nella fedeltà e nella generosità del cuore, come ha fatto Maria.
Niente è impossibile davanti a Dio. Tutto è possibile a chi crede, ha scritto un maestro di vita spirituale.
Ed è così che ci si apre a Dio e ai suoi progetti di salvezza che ama realizzare con la collaborazione degli uomini.
"Eccomi, sono la serva del Signore.", con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui. Questo significa credere.
E' importante penare alla fede di Maria, perché ci stiamo avvicinando al Natale e la fede è il segreto per fare un vero Natale. Si potrebbe pensare che quella di Maria fosse una fede facile. Invece è stato l'atto di fede più difficile della storia. A chi potrà spiegare Maria ciò che è avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà che il bimbo che porta in grembo è opera dello Spirito Santo? Questa cosa non è mai successa prima di lei e non succederà mai dopo di lei.
La fede di Maria non è consistita tanto nel fatto di credere a un certo numero di verità. E' conistita nel fatto che si è fidata di Dio, si è completamente rimessa a Lui. H accolto Dio nella sua vita. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi. Ha creduto che "nulla è impossibile a Dio". Ha detto il suo sì totale e gioioso.
S. Agostino ha detto che Maria ha concepito per fede e ha partorito per fede, anzi che concepì Cristo prima nel cuore che nel corpo. Noi non possiamo imitare Maria nel concepire e dare alla luce fisicamente Gesù; possiamo e dobbiamo imitarla nel concepirlo e darlo alla luce spiritualmente, mediante la fede.
"Che giova a me - hanno scritto Origene e S. Bernardo - che Gesù sia nato una volta a Betlemme di Giudea, se poi non nasce di nuovo, per fede, nel mio cuore?"
Si tratta così di accoglierlo veramente nella fede, nella vita, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo così come Lui l'ha insegnato e vissuto fin dalla sua tenerezza di piccolo appena nato a Betlemme.
Sull'esempio di Maria Santissima, il messaggio conclusivo dell'Avvento è: "Accogliete!"
Accogliete il Signore! Sarebbe inutile preparargli la strada se non lo si accoglie. Ma cosa significa accogliere il Signore? La parola di Dio ce lo spiega con i personaggi di Davide e Maria.
Davide vuole costruire una casa al Signore. È un desiderio molto buono. Ma rischia di instaurare un rapporto con Dio di sufficienza e di distanza.
Sufficienza: Davide si sente di fare una cosa grande per Dio; invece è sempre il Signore che ci dà ogni cosa, ogni bene, ogni possibilità. Distanza: perché la presenza di Dio nel tempio è una sicurezza, perché abita in mezzo ai suoi; a Lui si va ogni tanto, per i sacrifici e le preghiere, perché faccia quello che gli viene chiesto, ma fuori si svolge tutta la vita ordinaria, dei singoli e del popolo.
Per Maria è il contrario. Accetta di fare entrare Dio nella sua casa, nella sua vita, anche se sconvolge tutti i suoi progetti, anche se è difficile capire cosa voglia, dove desideri portarla.
Accogliere il Signore significa fare come Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare, fidarsi. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione.
Accogliere Dio significa accettare di diventare la sua casa, avere questo ospite unico, infinito nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
Questo è avvenuto in maniera unica in Maria. In lei si realizza il progetto di Dio sull'umanità. Maria, questa umile ragazza dice il suo "Sì". Maria, nella sua delicatezza, nella semplicità di quel piccolo paese, Nazareth, accoglie la sua Parola.
"Non temere, Maria".
Non era facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha tolto le difficoltà della scelta, perché la sua fosse una scelta libera.
Tanta gente ha dei dubbi. I dubbi non sono peccati, ma una occasione per dare una risposta cosciente, consapevole, per crescere nella fede. La fede non è un sentimento, ma una certezza, in qualunque situazione bella o triste: Dio, il suo amore, il valore della nostra vita nel suo progetto di salvezza!
Maria è un esempio per tutti noi cristiani. Ci insegna come accogliere la Parola di Dio, nella vita ordinaria, nella libertà e nella generosità delle nostre scelte.
Come è possibile?
Lo Spirito del Signore scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra.
Lo Spirito Santo può compiere sempre cose grandi in chi si apre a Lui nella fedeltà e nella generosità del cuore, come ha fatto Maria.
Niente è impossibile davanti a Dio. Tutto è possibile a chi crede, ha scritto un maestro di vita spirituale.
Ed è così che ci si apre a Dio e ai suoi progetti di salvezza che ama realizzare con la collaborazione degli uomini.
"Eccomi, sono la serva del Signore.", con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui. Questo significa credere.
E' importante penare alla fede di Maria, perché ci stiamo avvicinando al Natale e la fede è il segreto per fare un vero Natale. Si potrebbe pensare che quella di Maria fosse una fede facile. Invece è stato l'atto di fede più difficile della storia. A chi potrà spiegare Maria ciò che è avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà che il bimbo che porta in grembo è opera dello Spirito Santo? Questa cosa non è mai successa prima di lei e non succederà mai dopo di lei.
La fede di Maria non è consistita tanto nel fatto di credere a un certo numero di verità. E' conistita nel fatto che si è fidata di Dio, si è completamente rimessa a Lui. H accolto Dio nella sua vita. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi. Ha creduto che "nulla è impossibile a Dio". Ha detto il suo sì totale e gioioso.
S. Agostino ha detto che Maria ha concepito per fede e ha partorito per fede, anzi che concepì Cristo prima nel cuore che nel corpo. Noi non possiamo imitare Maria nel concepire e dare alla luce fisicamente Gesù; possiamo e dobbiamo imitarla nel concepirlo e darlo alla luce spiritualmente, mediante la fede.
"Che giova a me - hanno scritto Origene e S. Bernardo - che Gesù sia nato una volta a Betlemme di Giudea, se poi non nasce di nuovo, per fede, nel mio cuore?"
Si tratta così di accoglierlo veramente nella fede, nella vita, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo così come Lui l'ha insegnato e vissuto fin dalla sua tenerezza di piccolo appena nato a Betlemme.
venerdì 12 dicembre 2008
14 Dicembre 2008 - III Domenica di Avvento
C'è uno che grida a squarciagola che c'è una via da preparare perché Gesù viene fra noi:
"Preparate la via del signore!". Altro che preparare l'albero natalizio, regali e cene esuberanti... Si tratta di una cosa ben più importante e impegnativa. Dio ci prende sul serio. Di certo lui passerà, sappiamo con certezza che lui viene, a noi il compito di preparargli la strada.
A volte il compito non è facile, come non lo fu per Giovanni Battista!
Lo scenario che ci presenta questo brano è, infatti, quello di un interrogatorio in cui ci sono da una parte i protagonisti, Giovanni e Gesù, ossia il testimone della Parola e la Parola e dall'altra gli antagonisti, i giudei, sacerdoti e leviti, che si presentano come gli avversari della Parola. Qui le possibilità sono due: chi sta con i protagonisti sceglie la verità, la libertà, la giustizia e la vita e chi sta con gli antagonisti sceglie la menzogna, la schiavitù, l'ingiustizia e la morte, per sé e per gli altri.
Amico, tu da che parte vuoi stare?
Chi sceglie di testimoniare la Parola, ossia preparare la via di Gesù di Nazareth, ha delle caratteristiche ben precise: non si accontenta del suo cercare, ma trova ciò che desidera e lo comunica agli altri con gioia; ha uno spirito libero, in contraddizione con la mentalità dominante.
Anche gli avversari sono testimoni. Certo! Testimoniano violenza, schiavitù, incoerenze.
Tra l'uno e l'altro non c'è una via di mezzo perché o si testimonia la verità o la menzogna, o si è luce o si è tenebre.
Ma cosa vuol dire essere testimone? Il termine greco significa "martire". Il testimone è uno che ha visto con i suoi occhi, udito con le sue orecchie e toccato con le sue mani e quindi racconta. Perciò la testimonianza è una esperienza di vita che si trasmette.
Ora, questo brano del Vangelo ci dice che il testimone non e' la parola, ma la voce che lo trasmette. Hai mai provato a dire una parola senza voce? Gli esperti della comunicazione ci dicono che non c'è parola udibile senza voce e che non c'è voce sensata senza parola. Per dirla in breve il messaggio di questo Natale non sono io, non sei tu, ma Gesù che entra in azione. Per farlo ha però bisogno della tua voce.
Il testimone non è neanche la “luce”, ma colui che la porta; non è neanche la “strada”, ma colui che la prepara. Ebbene: come cristiani abbiamo il compito di preparare con serietà e radicalità quelle strade in cui Gesù passerà per raggiungere ogni uomo, anche quelle dell'amico che sembra distante anni luce dalla scoperta di un Dio vivo e vero che cammina anche con lui.
"Preparate la via del signore!". Altro che preparare l'albero natalizio, regali e cene esuberanti... Si tratta di una cosa ben più importante e impegnativa. Dio ci prende sul serio. Di certo lui passerà, sappiamo con certezza che lui viene, a noi il compito di preparargli la strada.
A volte il compito non è facile, come non lo fu per Giovanni Battista!
Lo scenario che ci presenta questo brano è, infatti, quello di un interrogatorio in cui ci sono da una parte i protagonisti, Giovanni e Gesù, ossia il testimone della Parola e la Parola e dall'altra gli antagonisti, i giudei, sacerdoti e leviti, che si presentano come gli avversari della Parola. Qui le possibilità sono due: chi sta con i protagonisti sceglie la verità, la libertà, la giustizia e la vita e chi sta con gli antagonisti sceglie la menzogna, la schiavitù, l'ingiustizia e la morte, per sé e per gli altri.
Amico, tu da che parte vuoi stare?
Chi sceglie di testimoniare la Parola, ossia preparare la via di Gesù di Nazareth, ha delle caratteristiche ben precise: non si accontenta del suo cercare, ma trova ciò che desidera e lo comunica agli altri con gioia; ha uno spirito libero, in contraddizione con la mentalità dominante.
Anche gli avversari sono testimoni. Certo! Testimoniano violenza, schiavitù, incoerenze.
Tra l'uno e l'altro non c'è una via di mezzo perché o si testimonia la verità o la menzogna, o si è luce o si è tenebre.
Ma cosa vuol dire essere testimone? Il termine greco significa "martire". Il testimone è uno che ha visto con i suoi occhi, udito con le sue orecchie e toccato con le sue mani e quindi racconta. Perciò la testimonianza è una esperienza di vita che si trasmette.
Ora, questo brano del Vangelo ci dice che il testimone non e' la parola, ma la voce che lo trasmette. Hai mai provato a dire una parola senza voce? Gli esperti della comunicazione ci dicono che non c'è parola udibile senza voce e che non c'è voce sensata senza parola. Per dirla in breve il messaggio di questo Natale non sono io, non sei tu, ma Gesù che entra in azione. Per farlo ha però bisogno della tua voce.
Il testimone non è neanche la “luce”, ma colui che la porta; non è neanche la “strada”, ma colui che la prepara. Ebbene: come cristiani abbiamo il compito di preparare con serietà e radicalità quelle strade in cui Gesù passerà per raggiungere ogni uomo, anche quelle dell'amico che sembra distante anni luce dalla scoperta di un Dio vivo e vero che cammina anche con lui.
venerdì 5 dicembre 2008
7 Dicembre 2008 - II Domenica di Avvento
"Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri" grida Giovanni.
Non sono certo le vie del Signore ad essere storte o non giuste ma piuttosto le nostre vie, i nostri cammini, i nostri pensieri, le nostre scelte.
A cominciare dalle piccole scelte quotidiane che determinano la nostra vita, le nostre abitudini, che condizionano il nostro cuore.
Il Signore non viene con potenza e gloria umana ma nella logica dell'incarnazione, della povertà, della sofferenza.
Una logica piccola e umile. Ma in questa logica che crea e sostiene il creato, Egli viene con potenza.
"Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio."
Ma che potenza è mai questa, di un Dio che si fa fragile neonato?
Che potenza è mai questa di un Dio che desidera dipendere dal si di una fanciulla?
Come può il nostro cuore comprenderla?
È un mistero che ci sfugge e tuttavia è un mistero senza il quale la ragione non riesce cogliere il senso della vita, delle cose e dell'esistenza.
Senza questo mistero della potenza di Dio nascosta a Betlemme e nella logica dell'incarnazione, noi non riusciremo mai a capire nulla della nostra vita.
Ogni nostro ragionare è inutile, ogni scienza è vuota.
Noi, senza questa sapienza divina, siamo ciechi, figli di ciechi che guidano altri ciechi.
Ma se il nostro cuore si umilia e finalmente ascolta, se il nostro cuore si commuove radicalmente e si mette all'opera nella carità, a partire dal sì! di Maria e dalla grotta di Betlemme..., allora inizieremo a comprendere tutto ciò che fino ad ora ci era sfuggito.
Ogni valle della solitudine sarà colmata e ogni monte della superbia, abbassato.
Fuggiamo dunque ogni distrazione del mondo con tutte le nostre forze.
Non perdiamoci in altre cose, inutili ed effimere.
Fissiamo il nostro sguardo in questo mistero.
Facciamone l’oggetto del nostro respiro, della nostra vita.
Taccia tutto e si faccia silenzio dentro e fuori di noi, perché Dio viene, non tarderà e porterà con sé il premio di se stesso che tutto riempie di gioia incontenibile.
Operiamo nella penitenza e nella carità guardando incessantemente all'incarnazione.
Il mistero ci avvolga e ci sommerga, ci riempia e ci dia nutrimento.
Il tempo si è fatto breve. Ora è il tempo della conversione, ora è il tempo della sua venuta.
Ora è il tempo del silenzio e dell'obbedienza.
Ora il tempo dell'umiltà, il tempo della gioia...
Facciamo attenzione, perché come dice Isaia, "Ecco, faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?" (Is 43,19)
Non sono certo le vie del Signore ad essere storte o non giuste ma piuttosto le nostre vie, i nostri cammini, i nostri pensieri, le nostre scelte.
A cominciare dalle piccole scelte quotidiane che determinano la nostra vita, le nostre abitudini, che condizionano il nostro cuore.
Il Signore non viene con potenza e gloria umana ma nella logica dell'incarnazione, della povertà, della sofferenza.
Una logica piccola e umile. Ma in questa logica che crea e sostiene il creato, Egli viene con potenza.
"Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio."
Ma che potenza è mai questa, di un Dio che si fa fragile neonato?
Che potenza è mai questa di un Dio che desidera dipendere dal si di una fanciulla?
Come può il nostro cuore comprenderla?
È un mistero che ci sfugge e tuttavia è un mistero senza il quale la ragione non riesce cogliere il senso della vita, delle cose e dell'esistenza.
Senza questo mistero della potenza di Dio nascosta a Betlemme e nella logica dell'incarnazione, noi non riusciremo mai a capire nulla della nostra vita.
Ogni nostro ragionare è inutile, ogni scienza è vuota.
Noi, senza questa sapienza divina, siamo ciechi, figli di ciechi che guidano altri ciechi.
Ma se il nostro cuore si umilia e finalmente ascolta, se il nostro cuore si commuove radicalmente e si mette all'opera nella carità, a partire dal sì! di Maria e dalla grotta di Betlemme..., allora inizieremo a comprendere tutto ciò che fino ad ora ci era sfuggito.
Ogni valle della solitudine sarà colmata e ogni monte della superbia, abbassato.
Fuggiamo dunque ogni distrazione del mondo con tutte le nostre forze.
Non perdiamoci in altre cose, inutili ed effimere.
Fissiamo il nostro sguardo in questo mistero.
Facciamone l’oggetto del nostro respiro, della nostra vita.
Taccia tutto e si faccia silenzio dentro e fuori di noi, perché Dio viene, non tarderà e porterà con sé il premio di se stesso che tutto riempie di gioia incontenibile.
Operiamo nella penitenza e nella carità guardando incessantemente all'incarnazione.
Il mistero ci avvolga e ci sommerga, ci riempia e ci dia nutrimento.
Il tempo si è fatto breve. Ora è il tempo della conversione, ora è il tempo della sua venuta.
Ora è il tempo del silenzio e dell'obbedienza.
Ora il tempo dell'umiltà, il tempo della gioia...
Facciamo attenzione, perché come dice Isaia, "Ecco, faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?" (Is 43,19)
venerdì 28 novembre 2008
30 Novembre 2008 - I Domenica di Avvento
Avvento, l’attesa che apre all’amore
Avvento è il tempo dell’attesa. Il profeta Isaia apre le pagine di questi giorni come un maestro dell’attesa e del desiderio.
Si attende non per una mancanza, ma per una pienezza, una sovrabbondanza. Come fa ogni donna incinta, quando l’attesa non è assenza, ma evento di completezza e di totalità, esperienza amorosa dell’essere uno e dell’essere due al tempo stesso. Il mio avvento è come di donna «in attesa», quando la segreta esultanza del corpo e del cuore deriva da qualcosa che urge e gonfia come un vento misterioso la vela della vita. Attendere con tutto me stesso significa desiderare, «attendere è amare» (Simone Weil). Così io attendo un Signore che già vive e ama in me; ogni persona attende un uomo e un Dio che già sono dentro di lei, ma che hanno sempre da nascere; l’umanità intera porta il Verbo, è gravida di un progetto, custodisce il sogno di tutta la potenzialità dell’umano, l’attesa di mille realizzazioni possibili, porta in sé l’uomo che verrà. Attendere, allora, equivale a vivere. Ma a vivere d’altri. Un doppio rischio incombe su di noi: il «cuore indurito», secondo Isaia ( perché lasci che si indurisca il nostro cuore?), e quella che Gesù chiama «una vita addormentata» ( vegliate, vigilate, state attenti... che non vi trovi addormentati). Qualcuno ha definito la durezza del cuore e la vita addormentata come «il furto dell’anima» nel nostro contesto culturale. Il furto della profondità, dell’attenzione, il vivere senza mistero, il furto del cuore tenero: è un tempo senza pietà, ci siamo negati al suo abbraccio e siamo avvizziti come foglie. Scrive un poeta: Io vivere vorrei / addormentato / entro il dolce / rumore della vita
(Sandro Penna). Io no, voglio vivere vigile a tutto ciò che sale dalla terra o scende, vegliando su tutti gli avventi del mondo: sulle cose che nascono, sulla notte che finisce, sui primi passi della luce, custodendo germogli, e la loro musica interiore.
Vivere attenti è il nome dell’avvento. Vivere attese e attenzioni, due parole che derivano dalla medesima radice: tendere verso qualcosa, il muoversi del corpo e del cuore verso Qualcuno che già muove verso di te. Vivere attenti: agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime e alla profezia; in ascolto dei minimi movimenti che avvengono nella porzione di realtà in cui vivo, e dei grandi sommovimenti della storia. Attento alla Vita che urge, tante volte tradita, ma ogni volta rinata.
Avvento è il tempo dell’attesa. Il profeta Isaia apre le pagine di questi giorni come un maestro dell’attesa e del desiderio.
Si attende non per una mancanza, ma per una pienezza, una sovrabbondanza. Come fa ogni donna incinta, quando l’attesa non è assenza, ma evento di completezza e di totalità, esperienza amorosa dell’essere uno e dell’essere due al tempo stesso. Il mio avvento è come di donna «in attesa», quando la segreta esultanza del corpo e del cuore deriva da qualcosa che urge e gonfia come un vento misterioso la vela della vita. Attendere con tutto me stesso significa desiderare, «attendere è amare» (Simone Weil). Così io attendo un Signore che già vive e ama in me; ogni persona attende un uomo e un Dio che già sono dentro di lei, ma che hanno sempre da nascere; l’umanità intera porta il Verbo, è gravida di un progetto, custodisce il sogno di tutta la potenzialità dell’umano, l’attesa di mille realizzazioni possibili, porta in sé l’uomo che verrà. Attendere, allora, equivale a vivere. Ma a vivere d’altri. Un doppio rischio incombe su di noi: il «cuore indurito», secondo Isaia ( perché lasci che si indurisca il nostro cuore?), e quella che Gesù chiama «una vita addormentata» ( vegliate, vigilate, state attenti... che non vi trovi addormentati). Qualcuno ha definito la durezza del cuore e la vita addormentata come «il furto dell’anima» nel nostro contesto culturale. Il furto della profondità, dell’attenzione, il vivere senza mistero, il furto del cuore tenero: è un tempo senza pietà, ci siamo negati al suo abbraccio e siamo avvizziti come foglie. Scrive un poeta: Io vivere vorrei / addormentato / entro il dolce / rumore della vita
(Sandro Penna). Io no, voglio vivere vigile a tutto ciò che sale dalla terra o scende, vegliando su tutti gli avventi del mondo: sulle cose che nascono, sulla notte che finisce, sui primi passi della luce, custodendo germogli, e la loro musica interiore.
Vivere attenti è il nome dell’avvento. Vivere attese e attenzioni, due parole che derivano dalla medesima radice: tendere verso qualcosa, il muoversi del corpo e del cuore verso Qualcuno che già muove verso di te. Vivere attenti: agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime e alla profezia; in ascolto dei minimi movimenti che avvengono nella porzione di realtà in cui vivo, e dei grandi sommovimenti della storia. Attento alla Vita che urge, tante volte tradita, ma ogni volta rinata.
giovedì 20 novembre 2008
23 Novembre 2008 - Festa di Cristo Re dell'universo
L’amore è il fondamento della regalità di Cristo; l’amore, che non è un attributo, una qualità aggiunta, ma la sostanza stessa di Dio e, perciò, del Figlio; un amore effusivo, in quanto dono incessante per il bene dell’altro; un dono infinito, libero, gratuito, che in Gesù si fa servizio.
La regalità di Cristo è amore che serve; è l’amore sollecito del pastore, nel quale Gesù stesso si identifica: quel pastore buono, che non ha pace, finché l’ultima pecorella non sia rientrata nell’ovile, al sicuro; quel pastore buono, del quale le pecore conoscono la voce e lo seguono, fiduciose nella sua guida, perché unico pastore che per il suo gregge dà la vita.
Il nostro Dio, è il Dio che salva, il Dio-Re che, nel Figlio Gesù, concretamente, è sceso in mezzo al suo gregge, per illuminarlo e risanarlo, per soccorrerlo nel faticoso e insidioso cammino della vita, per curarne le ferite ed ogni infermità.
Ora, questo Sovrano, questo Re d’Amore, cosa attende dai suoi?
Nient’altro che una risposta d’amore, la quale deve concretizzarsi nell’attenzione al prossimo; sarà, infatti, l’amore, il metro di giudizio alla fine della vita, alla fine del tempo e della Storia, quando, come ci ricorda il Vangelo di oggi, «il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra».
“Attraverso l’amore, scrive Tolstoj, si ha coscienza di tutto ciò che è bene, e colui, che ha conosciuto l’amore, non ha più paura di vivere né di morire…»; non ha paura di vivere perché la vita è l’occasione che Dio gli dà per beneficare il prossimo, e non ha paura di morire, perché la morte segnerà l’incontro definitivo col suo Redentore, il suo Sovrano glorioso.
È, infatti, attraverso le opere dell’amore, che noi diventiamo partecipi della regalità di Cristo, nostro Signore e Maestro, che abbiamo contemplato sfigurato dal dolore e dalla morte, Egli sarà il nostro Re glorioso, se lo sapremo riconoscere in ogni uomo affamato, assetato, pellegrino, nudo, malato, condannato, perseguitato e carcerato; forse l’ultimo e il più ripugnante degli uomini, ma sempre segno della presenza del Cristo sofferente, che, ancora, cammina sulle nostre strade.
E non importa se per questi fratelli sfortunati, noi faremo cose grandi; è segno d’amore anche un sorriso, una parola di vicinanza e solidarietà; se, poi, è nelle nostre possibilità fare di più, è nostro dovere dare, darsi da fare per risollevare quel “ Cristo sofferente”, che ci si fa incontro, e rendere la sua esistenza meno indegna della condizione umana.
Nell’orizzonte dell’amore, nessun gesto è trascurabile, neppure il più semplice, perché è destinato a trasformarsi in benedizione.
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno..»; un regno aperto a chiunque si lasci fecondare dall’Amore: un regno cui potremo aspirare grazie alla potenza del nostro amore.
La regalità di Cristo è amore che serve; è l’amore sollecito del pastore, nel quale Gesù stesso si identifica: quel pastore buono, che non ha pace, finché l’ultima pecorella non sia rientrata nell’ovile, al sicuro; quel pastore buono, del quale le pecore conoscono la voce e lo seguono, fiduciose nella sua guida, perché unico pastore che per il suo gregge dà la vita.
Il nostro Dio, è il Dio che salva, il Dio-Re che, nel Figlio Gesù, concretamente, è sceso in mezzo al suo gregge, per illuminarlo e risanarlo, per soccorrerlo nel faticoso e insidioso cammino della vita, per curarne le ferite ed ogni infermità.
Ora, questo Sovrano, questo Re d’Amore, cosa attende dai suoi?
Nient’altro che una risposta d’amore, la quale deve concretizzarsi nell’attenzione al prossimo; sarà, infatti, l’amore, il metro di giudizio alla fine della vita, alla fine del tempo e della Storia, quando, come ci ricorda il Vangelo di oggi, «il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra».
“Attraverso l’amore, scrive Tolstoj, si ha coscienza di tutto ciò che è bene, e colui, che ha conosciuto l’amore, non ha più paura di vivere né di morire…»; non ha paura di vivere perché la vita è l’occasione che Dio gli dà per beneficare il prossimo, e non ha paura di morire, perché la morte segnerà l’incontro definitivo col suo Redentore, il suo Sovrano glorioso.
È, infatti, attraverso le opere dell’amore, che noi diventiamo partecipi della regalità di Cristo, nostro Signore e Maestro, che abbiamo contemplato sfigurato dal dolore e dalla morte, Egli sarà il nostro Re glorioso, se lo sapremo riconoscere in ogni uomo affamato, assetato, pellegrino, nudo, malato, condannato, perseguitato e carcerato; forse l’ultimo e il più ripugnante degli uomini, ma sempre segno della presenza del Cristo sofferente, che, ancora, cammina sulle nostre strade.
E non importa se per questi fratelli sfortunati, noi faremo cose grandi; è segno d’amore anche un sorriso, una parola di vicinanza e solidarietà; se, poi, è nelle nostre possibilità fare di più, è nostro dovere dare, darsi da fare per risollevare quel “ Cristo sofferente”, che ci si fa incontro, e rendere la sua esistenza meno indegna della condizione umana.
Nell’orizzonte dell’amore, nessun gesto è trascurabile, neppure il più semplice, perché è destinato a trasformarsi in benedizione.
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno..»; un regno aperto a chiunque si lasci fecondare dall’Amore: un regno cui potremo aspirare grazie alla potenza del nostro amore.
giovedì 13 novembre 2008
16 novembre 2008 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
Nella prospettiva del rendiconto
La parabola dei talenti, oggetto del vangelo di oggi, è tra le più note. Un uomo, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni ai dipendenti: a uno cinque talenti, a un altro due, a un terzo uno, “secondo le capacità di ciascuno”. Al ritorno chiede loro conto di come li hanno amministrati, e loda i primi due che si sono dati da fare e li hanno raddoppiati, mentre rimprovera il terzo che non ha fatto nulla e si limita a restituirgli quanto aveva ricevuto. Il significato è chiaro: Dio affida a ciascun uomo un tesoro, con l’incarico di farlo fruttare perché un giorno vorrà sapere come è stato impiegato. All’epoca di Gesù i talenti erano monete, le monete in oro di maggior valore; in seguito, proprio in base a questa parabola il termine ha assunto il significato che gli si dà oggi. Per talenti di una persona oggi si intendono le sue doti naturali, di mente o di cuore; per estensione vi si possono comprendere le capacità acquisite con l’impegno nello studio, con la costanza nell’applicazione, o anche per dono della sorte. Insomma, le capacità positive a disposizione di ciascuno, le possibilità di bene che ciascun uomo è in grado di gestire.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.
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