giovedì 25 settembre 2025

28 SETTEMBRE 2025 – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 16,19-31 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi, uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, ha relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male: ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. Solo una cosa gli manca: un nome che lo identifichi; il testo lo individua semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. All’epoca avere un nome significava conoscere in proiezione la propria vita, voleva dire conoscere la propria identità, il proprio futuro, il programma preciso da realizzare, insomma, voleva dire “essere vivi”.
Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno assoluto di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure gli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere: come ha potuto non vederlo? Questo è il problema; questo è stato il motivo della sua condanna finale: non accorgersi, non voler vedere, non voler rendersi conto di nulla.
Ebbene: questo è esattamente quanto il vangelo di oggi vuol dirci: anche noi subiremo lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di aiuto, di tenerezza, di comprensione, e nessuno ci ha soccorso! Non sentirsi amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo per tutti: fa sempre male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, che ci ascolti, che lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, dell’apparire, almeno esteriormente, importanti, del sembrare un qualcuno che non siamo.
Ma “Lazzaro” sono anche coloro che ci stanno vicino: sono le persone tristi, quelle che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: se infatti chi ci è vicino non parla mai, è sempre chiuso in sé stesso, se interrogato ammutolisce, forse vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Allora, evitiamo di fare gli indifferenti, di non vedere e non sentir nulla: vediamole invece queste persone, accogliamole, ascoltiamole, cerchiamo di capire il loro dramma interiore!
Come possiamo ignorare proprio chi ci sta più vicino? Chi ha più bisogno della nostra presenza, delle nostre parole, delle nostre dimostrazioni di stima, del nostro amore? Come facciamo a non vedere in tutti questi “Lazzaro” che ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che opprimono il loro cuore? Eppure noi continuiamo a non vederli, a non sentirli, siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili passatempo, senza accorgerci che, come l’uomo ricco, viviamo già nell’inferno: nell’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte del cuore e della mente ermeticamente sbarrate: viviamo in quell’inferno drammatico che è la chiusura totale a Dio, non permettendogli di entrare con la sua luce dentro di noi, nella nostra solitudine, nella nostra sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono, misericordia.
Ecco perché l’inferno o il paradiso è nelle nostre mani: perché tocca solo a noi decidere se ospitare Lazzaro o lasciarlo fuori. Tutti abbiamo a nostra disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molto spesso preferiamo vivere a modo nostro, conducendo una vita insensata, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione.
In questa vita abbiamo tutte le possibilità per imparare, per coltivare la nostra sensibilità, per fare esperienze, per far crescere spiritualmente la nostra anima: ma i risultati sono pochi.
Cos’altro ci serve per salvarci? Abbiamo forse bisogno di altri profeti, di altri insegnamenti, di nuovi eventi eccezionali?
Nossignori: è sufficiente quanto già abbiamo a nostra disposizione: la fede che ci indica il “come”, e la carità con cui “metterlo in pratica”! Non servono altri “miracoli”: del resto il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: quando, risvegliandoci al mattino, riapriamo gli occhi alla vita, potendo assaporare ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere e testimoniare nel mondo la dignità umana riflessa in Dio.
Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove. Perché, purtroppo, siamo esseri volubili, impastati di luce e di ombra: possiamo cioè essere contemporaneamente i “poveri” come Lazzaro e i “ricchi” come l’epulone gaudente; possiamo essere i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti prediletti da Dio, ma anche, e forse più, quelli che non guardano in faccia a nessuno, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo.
Siamo insomma creature “divine”, ma anche terribilmente “umane”, perché preferiamo seguire la soluzione del ricco, quella più semplice di chiudere gli occhi e far finta di nulla. Anche se poi questo nostro brancolare nel buio ci spaventa, ci angoscia, ci crea sgomento, ci destabilizza.
Non appena però una piccolissima scintilla di Luce riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutti i nostri inferni si attenuano, tutto diventa sopportabile, vivibile. Perché, nonostante la nostra inadeguatezza, noi siamo figli della Luce, siamo figli del Dio Amore, creati per vivere nella Luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta la nostra “trasfigurazione” per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen. 

  

giovedì 18 settembre 2025

21 SETTEMBRE 2025 – XXV DOMENICA DEL T.O.


Lc 16,1-13  
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza, ci mette a disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Dove infatti la traduzione dal testo greco dice: «Il “padrone” lodò l'amministratore disonesto», dimostra di non aver colto il vero significato del testo: è impensabile infatti che un “padrone”, per quanto bravo e santo che sia, accortosi di essere stato derubato dal suo dipendente gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio un gran bel lavoro! Hai tutta la mia stima!”. Per capire il vero senso delle parole di Gesù, era invece sufficiente tradurre il termine greco “κÀριος” del versetto 8, con “Signore”, invece che con “padrone”: “κÀριος” infatti. è l’appellativo con cui Luca abitualmente indica la persona di Gesù (lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventa immediatamente logica e comprensibile: “Il κÀριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore” «perché aveva agito con scaltrezza»; quindi non è il padrone, ma è Gesù che loda e propone da imitare, non ciò che l’amministratore fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In parole povere, insomma, Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone imbambolate, inconcludenti, persone a cui tutto è indifferente, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, che ha saputo prendere in mano la situazione”. 
Il comportamento che dobbiamo pertanto seguire è molto semplice: ci accorgiamo che in certe situazioni non possiamo più “operare”? Che la strada imboccata non è più praticabile? Inutile perder tempo: dobbiamo trovarne prontamente un’altra, dobbiamo agire in modo diverso, con una logica diversa; dobbiamo insomma fare scelte mirate, più creative, più concrete, più efficaci. Questo, in particolare, quando ci rendiamo conto di aver sbagliato; così per esempio: abbiamo capito di aver calpestato i principi del Vangelo, della nostra fede, tradendo noi stessi e la fiducia riposta in noi dagli altri? Inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, degli “infedeli”, stupidamente troppo sicuri di noi stessi; ma a questo punto vogliamo forse farla finita? A che servirebbe morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolveremmo? Ciò che è stato è stato. E se il passato non si può cambiare, guardiamo al domani: perché se siamo stati noi a sbagliare, a comportarci male, siamo sempre noi, solo noi, che dobbiamo cambiare, che dobbiamo chiedere perdono a Dio e al prossimo, e riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo solo noi, insomma, che dobbiamo correggerci, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. In qualunque “caduta” siamo incorsi, dobbiamo perdonarci: dove “perdonarci”, significa riconoscere il mal fatto, significa provarne un sincero dispiacere: non tanto in noi stessi, privatamente, nella nostra coscienza, ma di fronte a “qualcuno” che sacramentalmente può perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci e, spiritualmente rinati, riprendiamo il nostro percorso a testa alta.  
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto il contabile infedele; finora egli aveva “usato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora improvvisamente si accorge che non erano degli oggetti, delle semplici opportunità, ma delle persone, degli uomini bisognosi di comprensione, di carità, di misericordia, di aiuto. E come mai se ne accorge? Perché capisce di trovarsi ora nella loro identica condizione: anche lui ora è un “debitore” del padrone, esattamente come loro; anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè, caduto in basso, è costretto ad affrontare le loro stesse situazioni compromesse - che esplode in lui l’importanza della misericordia: l’uomo perfetto e potente, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non la conosce, non sa cosa significhi: per cui non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui si ritiene inattaccabile, invincibile, non ammette debolezze, non accetta cadute. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto appellandosi ad esse, con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi sbagliare, sentirsi peccatore, uno schifo, sentirsi indegno, colpevole, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi è convinto di non sbagliare mai, non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
È vero: in genere tutti ci riconosciamo peccatori, di essere deboli e di sbagliare: ma gran parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere la possibilità di farli; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere dei critici spietati, intransigenti, con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire, e ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui “non ha” colpe nascoste, “non ha” lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di nulla, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti a Dio , alla famiglia, ad ogni valore morale irrinunciabile.
Allora, se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci, perché solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati; solo in questo modo, potremo nuovamente “trasfigurarci” nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.


martedì 9 settembre 2025

14 SETTEMBRE 2025 – ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE


Gv, 3,13-17  
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Giovanni, con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita. 
Il testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di “oltre”. È un uomo che non si accontenta, uno che vuol capire, che vuol vivere più in profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi rinascere”.
Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore, di vita vera come il suo: Gesù è uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini; apre orizzonti nuovi e impensati, è davvero una persona affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, intenso, da “mozzare il fiato”. Gesù è per anime grandi: non si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: prova ne sia a testimonianza la vita degli apostoli, dei santi, delle grandi figure della cristianità.
Chi vuol vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci perdere. Perché Gesù è Amore, e come l’amore, coinvolge, sconvolge, appassiona: vuole tutto, pretende tutto, conquista tutto. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo mai. Gesù è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre ai margini.
Quindi, a Nicodemo, in pratica spiega: “Se vuoi capire veramente chi sono io, lascia stare la tua Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone maniere: apri gli occhi e mira in alto!”.
E cita come esempio il caso degli israeliti infedeli e mormoratori, che durante la fuga dell’esodo, si erano ribellati a Dio e per questo vennero puniti con la piaga dei serpenti: per evitare la morte, dovevano guardare in alto, alla sommità di un’asta, sulla quale Mosè aveva fissato un serpente bronzeo: il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, si trasformava in quel momento in donatore di vita.
Ed è esattamente quanto succederà più tardi con Gesù: una volta inchiodato ed elevato in alto sulla croce, simbolo del patibolo e dell’apparente fallimento, Egli la trasformerà da motivo di morte in sorgente di vita, di amore, di vittoria, di grazia: pertanto l’esortazione che Gesù rivolge a Nicodemo, acquista, in pratica, un valore fondamentale anche per tutti noi: “Non abbiate paura di quanto nella vita vi affligge, vi inquieta, vi angoscia: fidatevi di me: guardatemi con fiducia sulla croce, perché è grazie ad essa che io vi ho riscattato tutti: per proteggervi, guidarvi, consolarvi e soprattutto amarvi!”.
Guardiamo allora in faccia alle nostre paure ancestrali, soprattutto al terrore della morte. La grande verità è che tutti moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri figli, i nostri cari, la nostra casa, tutto! Vivere così ci aliena, è tremendo, doloroso, angosciante.
Ma ora sappiamo che la morte non potrà decretare la nostra fine assoluta: dall’altro lato del tunnel tetro e buio, una luce improvvisa ci illumina. Dal profondo dell’angoscia esplode una nuova vita luminosa, brillante: è la vittoria della risurrezione, della fiducia appagata, dell’amore misericordioso meritato. E non saremo mai più gli stessi di prima.
Questo, per Giovanni, è il risultato del nostro “credere”: credere è quando noi nel bel mezzo della disperazione troviamo la Forza, incontriamo Dio, e ci affidiamo a Lui, fidandoci ciecamente di Lui. E allora? Smettiamo una buona volta di voler “razionalizzare” ogni cosa, di cercare sempre nel mondo nuove soluzioni, nuovi stili vita: perché il mondo non potrà mai darci alcuna vera risposta! Apriamoci piuttosto al nostro più profondo bisogno d’amore, alla ricchezza di quelle emozioni celesti che sorreggono il nostro cuore, alla tenerezza di quell’abbraccio divino che non reprime, non abbatte, non soffoca: un abbraccio paterno che offre solo tenerezza, comprensione e misericordia; e allora capiremo cosa significa sentirci degni di vivere con Dio, perché ci sentiremo veramente figli suoi; e capiremo che noi, ai suoi occhi, siamo “grandi” da sempre, perché ci ha voluti di proposito a sua immagine e somiglianza.
Questa è la realtà: per cui la nostra unica preoccupazione deve essere solo quella di riappropriarci di tale somiglianza (se con la nostra stupidità l’abbiamo rovinata!), e di mantenerla sempre con i tratti autentici dell’Originale: smettiamo decisi di inseguire falsi e distruttivi ideali di vita: le ricchezze, la carriera, il successo, la gloria. Alziamo lo sguardo lassù sulla croce, e mettiamoci fiduciosi tra quelle braccia spalancate, torturate dalle nostre infedeltà. E vedrete che immancabilmente percepiremo nell’anima quel meraviglioso, inebriante e stupendo fremito che si chiama “vita con Dio”. Chi crede “vive”, chi vive “crede”. Amen.