giovedì 19 giugno 2025

06 Luglio 2025 – XIV DOMENICA DEL T.O.


Lc 10, 1-12.17-20 
[In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.] Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Tutti gli esegeti concordano nel dire che queste parole non appartengono personalmente a Gesù, pur riflettendo scrupolosamente il suo pensiero: sono invece di Luca, il quale, dopo l’ascensione di Gesù in cielo, di fronte a nuove problematiche sorte tra i discepoli, avrebbe fatto risalire direttamente alla sua voce questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, in cui avrebbe condensato, appunto, le sue paterne sollecitazioni rivolte ai suoi. Nel particolare momento storico in cui Luca riporta questo testo, dunque, Gesù non c’è più: spetta quindi ai discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione e nella catechesi, per assicurare a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio. E per farlo, bisogna dotarsi anche di un nuovo stile operativo. 
Sono parole, infatti, che esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per la nuova situazione che si era venuta a creare improvvisamente nella Chiesa nascente: l’urgente necessità di trovare nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”.
C’è, in pratica, urgente bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato al suo commiato da questo mondo: uomini in grado di seguire il suo esempio, soprattutto nel parlare, a suo nome, al cuore della gente. La loro è infatti una missione molto particolare: non servono discorsi didattici altisonanti, dottrinalmente perfetti; non devono dimostrare la bellezza letteraria, l’importanza, il valore del Vangelo che devono annunciare; le loro parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad amare quel “lieto annuncio” di Cristo, e soprattutto imparare a seguire la sua persona, a seguire cioè l’autore di quel Vangelo, Colui che con infinito amore, ha sacrificato sul patibolo della croce la sua vita, per la salvezza dei popoli.
Cosa devono fare, allora, questi nuovi “settantadue”, ossia tutti gli aderenti di allora e di ogni tempo? devono semplicemente ripetere le stesse azioni che Lui, il loro Maestro, ha fatto nella sua vita terrena: cioè guarire i malati e annunciare che il Regno di Dio “è qui, in mezzo a voi”. Non devono proporsi come giudici intransigenti, ma come consolatori degli afflitti, guaritori delle anime e dei cuori in difficoltà.
Il mondo è sempre pieno di persone sofferenti nell’anima, persone che magari sono convinte di essere malate fisicamente, e che cercano affannosamente dei medici in grado di guarirle; non si rendono conto però che la loro malattia è diversa da quelle del corpo, è di un altro tipo, e che quindi per poter guarire il loro malessere, devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, a quella dello Spirito.
Ecco perché, soprattutto oggi, abbiamo bisogno di “medici” dell’anima in grado di far riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi: “medici” che facciano capire che tutti possono “guarire”, perché la Forza guaritrice è dentro ognuno di noi, è nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è infatti fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, è decisamente contagiosa, aggredisce anche il corpo, lo indebolisce, giungendo a causare anche gravi problemi.
Abbiamo bisogno di “medici”, di gente entusiasta, pratica, convinta; di gente che lavora sodo, non dei soliti parolai. Tant’è che Gesù, affrontando il discorso sulla necessità di nuovi operai, usa due verbi molto significativi: prima di tutto un “Pregate”: qualunque impresa, qualunque essa sia, ha sempre bisogno di un continuo intervento di Dio; ma subito dopo aggiunge un perentorio “Andate!”; alla preghiera deve cioè seguire l’azione.
In genere però, noi operai moderni, ci fermiamo alla prima esortazione, al “Pregate”: siamo infatti molto bravi con le parole: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa! C’è bisogno urgente di operai!”. Ma quando passiamo al secondo verbo, al più concreto “andate”, le cose cambiano: perché noi in maniera molto elegante ci defiliamo! In giro si fa un gran parlare della necessità di missioni universali, di sinodalità, di responsabilità personale di ognuno, di collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione corale ecc. ecc.: noi ci tuffiamo anche, ci buttiamo a pesce con le nostre belle parole, con i nostri discorsi accalorati, illustrando ampi e dettagliati programmi; solo che sono rivolti agli altri, a terzi: per la loro realizzazione sono essi che devono darsi da fare: è la manovalanza, secondo noi, a doversene fare carico, noi siamo la “mente direttiva”, siamo gli strateghi, non possiamo abbassarci ai fatti concreti.
Ci lamentiamo perché la società di oggi è disgustosa? Muoviamoci noi per primi, responsabilizziamoci, comportiamoci coscienziosamente, anche nelle piccole cose, diamo per primi il buon esempio. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Nicchiamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri fioretti, fatti solo con le labbra. Dio ci vuole responsabilmente impegnati, ci vuole all’opera! Non per nulla, nel seguito, ci dà una bella serie di comportamenti da tenere.

Certo non è una cosa da prendere alla leggera. È un “sì” a Dio, che non è facile onorare. Si tratta di essere degli agnelli che devono vedersela coi lupi: nel mondo, infatti, sono accolti bene soltanto quelli che organizzano feste, che offrono pranzi, che ossequiano i potenti, che appoggiano indiscriminatamente qualunque loro iniziativa; in altre parole sono quelli che dimostrano sempre e comunque di essere accomodanti, simpatici, che non si espongono mai di persona, che non prendono mai una posizione contro le ideologie del momento, perché nella vita non si sa mai! Chi al contrario “va” nel mondo in nome di Cristo e nel proporre il vangelo come regola di vita, si permette di farlo con un certo vigore, denunciando in maniera chiara e dettagliata la sconvenienza di certe norme sociali, l’indecenza morale di certe iniziative sguaiate, apertamente contrarie a Dio, alla religione, alla legge della natura e al buon gusto, automaticamente deve fare i conti con una massa di lupi inferociti che fanno di tutto per attaccarlo e sbranarlo. Del resto va bene così, è sempre stato così anche con Gesù; la ferocia di una folla aizzata dal male si è sempre distinta per la sua arroganza e prepotenza nel contrapporre le proprie idee!
Quella che Gesù prospetta ai suoi discepoli è una strada lunga e faticosa da percorrere: per questo impone subito la prima regola fondamentale: dovete camminare soprattutto “leggeri”: “se oltre al mio Vangelo, alla mia Parola, vi caricate anche di tutti i vostri interessi personali, dei tornaconti da raggiungere, degli egoismi da difendere, è chiaro che siete troppo impacciati, troppo appesantiti: dovete necessariamente liberarvi dalla zavorra”. È infatti un po’ come andare in montagna: dobbiamo partire con uno zaino il più leggero possibile; perché se pesa troppo, ci rallenta e finiamo col non riuscire più ad andare avanti. Ecco perché: “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Il compito da assolvere è impegnativo e le raccomandazioni si fanno sempre più circostanziate; durante il loro cammino non devono neppure salutare chi incontrano; più che giusto perché se si fermassero a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarebbe anche bello, ma non arriverebbero mai alla meta.
Dobbiamo pertanto essere anche noi cristiani “liberi e leggeri”: solo così potremo viaggiare spediti. Se da un lato la prosperità, il benessere materiale richiedono l’avere grandi quantità, di possedere cioè il più possibile, dall’altro il servire Dio, la spiritualità, impongono l’esatto contrario: avere il meno possibile, il minimo indispensabile.
Dobbiamo inoltre essere rispettosi, caritatevoli, senza imporre nulla a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno poi loro a doversi giustificare con Dio.
Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare due volte”: allora “rispettare” vuol dire guardare, tenere in considerazione, sia le esigenze dell’altro che le sue scelte, anche se sono diverse dalle nostre; significa accettare che nella vita, oltre noi, ci siano anche gli altri. Di conseguenza: dovunque andiamo, portiamo la pace: “Pace a questa casa”. Pace, in ebraico “shalom”, in greco “eirène”, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente: pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro di sé non ha pace, non è serena, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.
Comportandosi dunque esattamente come Gesù aveva suggerito loro, i “settantadue” vanno e tornano entusiasti: “È proprio vero, Signore! Anche noi siamo riusciti a fare quelle stesse cose che tu hai fatto!”.
Ecco: se anche noi ci fidassimo più di Lui che di noi stessi, se camminassimo per le strade della vita ascoltando i suoi consigli, scopriremmo di non essere mai soli, di agire con la sua stessa forza: perché Lui è dentro di noi, con il suo Spirito, e con Lui possiamo arrivare ovunque e a tutto, perché nulla ci è impossibile. Lo sottolinea Gesù stesso: “Non siate felici per il potere che scoprite di avere, per quelle cose che riuscite a fare. Non siete voi, non è merito vostro, ma è lo Spirito che è in voi che compie i vostri prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi saranno comunque scritti nei cieli”.
L’uomo passa: per quanto sia benemerito il suo nome, ben presto verrà dimenticato. Dopo pochi anni dalla sua morte, nessuno più si ricorderà di lui. I nomi scritti sulla sabbia, infatti, vengono ben presto cancellati dal vento; ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre! Amen.

  

domenica 15 giugno 2025

29 Giugno 2025 – SS. PIETRO E PAOLO APOSTOLI


Mt 16,13-19 
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
 

Oggi la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo, averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche senza Dio.
Diciamocelo: per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso. Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio?
Il vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il catechismo su di Lui? cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui? cosa se ne dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente, in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso, significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della nostra vita”.
Gesù non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro, Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo sperimentato la vera vita”.
Questa risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali, dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in gioco la loro vita.
Le grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta. Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare. Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta; perché pianificare e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà dopo. 
Pietro ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo contro tutti quelli di buon senso. E perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più. Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e basta!
Questo è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi, pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il “buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi, ancorati in porto.
Dio è un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge. Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù dice: “Beato te, Simone, perché il Padre mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico, analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti; si danno perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti, risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore: “Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”. La sua è una fede sicura, una roccia; è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”? Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità, il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta può far anche cadere; ma fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta; fa guardare nuovamente in avanti, fa ripartire con decisione, con la stessa passione di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”, fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio, rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione, la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti, noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi, realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile, dell’ozio, dell’indifferenza.
Il nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore, al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori; dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene, respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni” di viaggio e di avventura.
Vivere la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa uomini e donne veri fino in fondo; perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un senso.
Dio ci ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre. Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci” ma non “la fine di tutto”. Il mistero della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha paura.
Solo dopo aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.

  

22 Giugno 2025 – CORPO E SANGUE DI CRISTO


Lc 9, 11-17 
In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Oggi la Chiesa celebra la festa del Corpo e Sangue di Cristo, la festa dell’Eucarestia: Gesù non è più con noi fisicamente, ma è presente ogni giorno nell’Eucaristia sotto le specie del Pane e del Vino e nel Tabernacolo nelle Ostie consacrate. 
Storicamente la festa nasce a seguito del miracolo di Bolsena: un sacerdote dubitava della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino che lui consacrava nell’Eucaristia: un giorno, all’atto dello spezzare il pane, dalla piccola ostia sgorgò miracolosamente del sangue che macchiò di rosso il corporale: l’importante reliquia, insieme all’ostia, sono esposte alla venerazione dei fedeli nel duomo di Orvieto, costruito per conservare appunto la memoria e la documentazione del miracolo. Dal 1264, la festa venne estesa a tutta la Chiesa.
Ma cosa è successo esattamente quella sera, cui si riferisce il vangelo di oggi?
Sappiamo che Gesù durante la sua vita pubblica ha toccato ripetutamente il tema della “cena”, del “pranzo” aperto a tutti: puri, impuri, giusti e peccatori; alla sua tavola c’è posto per tutti, perché essa è segno dell’amore infinito, smisurato, incondizionato di Dio.
Finché Gesù è in vita, tutti possono vedere e sperimentare queste sue iniziative: Egli però sa bene di avere poco tempo per la catechesi; deve quindi preparare con cura la folla per il “dopo”, per quando Lui sarà ritornato al Padre.
Il suo è quindi un gesto preparato, programmato, con uno scopo ben preciso: la cena che egli offre alla folla non è una cena come tante altre; è una cena speciale, una cena “simbolica”, in cui Egli anticipa quelle azioni rituali che poi definirà nel cenacolo con i discepoli nella famosa “cena pasquale”, durante la quale istituirà appunto l’Eucaristia, sacramento della sua reale presenza nel tempo. Gli esegeti sono in difficoltà nell’attribuire il “dove” e il “quando” di questa prima “cena”: ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta è il suo significato, sono le sue parole. Egli in pratica delinea quel rito che, quando lui non ci sarà più, sarà in grado di riproporre lo stesso banchetto, intorno al quale tutte le genti potranno cibarsi del suo Corpo e godere della sua reale presenza: “Quando voi direte: Questo è il mio Corpo e questo è il mio Sangue io realmente sarò in mezzo a voi, vi nutrirò e la vostra “tavola” diventerà come quella mia stessa tavola di quando ero in vita”.
L’Eucarestia è pertanto l’amore di Dio che arriva a tutti, è la possibilità per tutti di ritrovare le forze necessarie ad affrontare gli inevitabili disagi della vita. L’Eucarestia è Gesù: tutti hanno accesso alla sua tavola. Tutti possono mangiare con Lui e di Lui non perché ne abbiano i meriti, ma perché è l’amore stesso di Dio vuole scendere su ogni cuore e su ogni anima. È un amore gratuito, destinato a quanti ne hanno bisogno. “Sei un lebbroso? Nessuno ti vuole per il tuo pessimo carattere? Tutti ti escludono perché sei soffocante, difficile, insopportabile? Vieni qui, mangiamo insieme; tu non sai quanto ti amo! Sei un pubblicano? Non sei in regola con le leggi? Sei un peccatore lontano da Me? Vieni da me solo per interesse? Non importa, vieni qui, mangiamo insieme, rilassati e sappi che il mio amore è garantito e gratuito. Sei una prostituta? Hai tradito l’amore? Hai tradito la fedeltà? Hai venduto il tuo corpo? La tua anima? La tua mente? Hai perso la tua dignità di donna? Vieni qui, mangiamo insieme, sii serena, qui sei a casa tua, io ti amo; il mio amore sarà la tua forza!”.
Ecco, l’Eucarestia è esattamente questo: un banchetto, un pranzo per tutti, aperto a tutti, perché tutti hanno fame di Dio e Dio vuol darsi a tutti, perché tutti sono e saranno sempre figli suoi.
Quella sera dunque, prima di intervenire, Gesù vuole testare la fede dei suoi discepoli: “Dategli voi stessi da mangiare”. Bella mossa. Gesù in pratica si defila; essi dispongono solo di cinque pani e due pesci, e le persone da sfamare sono circa cinquemila: devono essere loro, personalmente, a rendersi conto della potenza dell’Amore di Dio: “Ma Gesù, cosa dici? Non vedi che abbiamo solo cinque pani e due pesci? Come facciamo?”. Essi non guardano ancora con gli occhi di Gesù; si fermano al presente, alla situazione concreta: non credono nelle loro possibilità, non hanno ancora gli occhi della fede.
Quante volte succede anche a noi di non credere, di non aver fiducia in noi stessi. Ci guardiamo e diciamo: “Come facciamo? Non siamo in grado, non abbiamo forza, non abbiamo coraggio!”. Quando ci guardiamo, infatti, vediamo soltanto i cinque pani e due pesci: un nulla. “Chi sono io, di cosa dispongo per poter costruire la mia vita?”.
Ma qui Gesù ci insegna come fare: prende quel poco che ha, lo benedice, e avviene il miracolo: con cinque tozzi di pane, riesce a sfamare migliaia di persone; tutti ne mangiano a sazietà e ne rimangono ancora dodici ceste! Egli sa per certo che partendo da quel niente, uscirà qualcosa di molto grande. Egli vive la fede: vive credendo profondamente nei poteri che il Padre gli ha conferito, e con Lui, egli li condivide: e così è stato. E così sarà sempre, per chiunque vive con fede.
Il problema fondamentale è appunto aver fede: è credere fermamente che, condividendo la Grazia di Dio, anche noi possiamo essere grandi, potenti, forti. Anche se questo ci spaventa: perché ci accorgiamo improvvisamente che la vita è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, che dobbiamo essere noi a plasmarla.
Per questo, nell’Eucaristia, quando prendiamo sulla nostra mano il corpo di Cristo, dobbiamo veramente avere fede; dobbiamo essere assolutamente certi che quel piccolo pane, quell’ostia minuscola, all’apparenza insignificante, è il corpo e sangue di Cristo, che riesce sempre a sfamare milioni di persone. È il pane per tutti gli uomini. È il nostro pane di salvezza: quel pane che sazia la nostra fame d’amore, che disseta il nostro cuore arido, che rianima il nostro entusiasmo spento, che illumina il nostro buio, i nostri tunnel sotterranei; è quella forza che ci permette di ritrovare la giusta via, nel nostro inutile girovagare senza meta.
Quel pane è Dio stesso che diventa noi; è Lui che viene a trovarci, che non si vergogna di entrare nella nostra casa in disordine, è Lui che vuole incontrarci da soli, a tu per tu, che vuole saziarci, che vuole soprattutto amarci. È sempre Lui che viene per primo, che ci offre la sua amicizia, che ci prende per mano, così come siamo, rallentati dalle nostre miserie; è Lui che dolcemente ci sussurra: “Tranquillo, va bene così. Mi piace stare con te quando sei vero, quando sei autentico, umile, spontaneo, senza finte maschere. Sii sempre te stesso; vivi sereno nella mia amicizia!”. E noi, in quel momento, ci sentiamo finalmente noi stessi, veri, autentici, mentre lo ascoltiamo, seduti al suo fianco nel salotto buono della nostra anima: perché con Lui non abbiamo nulla da dimostrare, nulla da difendere, nulla da valorizzare; non abbiamo cambiali in scadenza, non abbiamo facciate da esibire, compromessi da negoziare: con Lui possiamo tranquillamente rimanere noi stessi, lasciarci andare, e godere a piene mani del suo dolcissimo Amore. Amen.

 

 

venerdì 13 giugno 2025

15 Giugno 2025 – SS. TRINITÀ


Gv 16, 12-15 
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. È il mistero di Dio in sé stesso. Cosa dichiara la festa di oggi: in sostanza ci dice che c’è un unico Dio, non un Dio solitario, ma un unico Dio in tre Persone divine. Spiega in proposito il Catechismo: “Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio…”. Ognuna delle tre Persone è la stessa realtà, cioè la stessa essenza o natura divina. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente nomi che indicano tre “modalità” diverse dell'Essere divino; essi sono realmente tre persone, distinte tra loro per le loro rispettive relazioni di origine: il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede da entrambi come vincolo d’Amore.
Detta così, la Trinità potrebbe risultare di non facile comprensione, frutto di concetti filosofici, di argomentazioni, di tesi e antitesi; uno sforzo speculativo, di alto equilibrismo teologico, accessibile a menti speculative. Nel suo concreto, però, la Trinità è piuttosto semplice: in parole povere altro non è che l’esperienza dell’amore e della comunione reciproca di Dio Padre con Dio Figlio: un amore che tramite lo Spirito si fa uomo, Verbo, Parola, e si rivela in Gesù, diventando “comprensibile”, “accessibile”, all’umanità intera.
Per i primi discepoli è successo proprio questo: hanno capito che Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, non solo sosteneva di essere figlio di Dio, ma si comportava realmente come figlio di Dio: in Lui c’era veramente Dio, era Dio! In quell’uomo essi hanno sperimentato un mondo di amore, di comunione, di vita, infinitamente grande, profondo. E per rendere facile anche a noi questa essenza divina, hanno utilizzato l’immagine che più riusciva ad esprimere il concetto: l’immagine di una famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro reciproco Amore, lo Spirito. Tre persone, dunque, unite strettamente tra loro, legate tra loro, ma comunque distinte, ognuna con un proprio ruolo specifico.
Ebbene, questa “relazione” intra trinitaria ci propone l’esatta immagine di come devono essere improntati anche i rapporti tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra fratelli, tra ogni appartenente al genere umano: un rapporto, cioè, tra persone diverse ma unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio.
Tutti in fondo inseguiamo gli stessi obiettivi: vivere insieme le gioie dello Spirito, sperimentare insieme la carità del Padre, progredire insieme sulle orme del Figlio: abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo una grande, unica, entità, pur avendo ciascuno di noi una sua individualità, una sua personalità, una propria autonomia decisionale, un proprio stile di vita.
Ci sono, è vero, molte persone che non tengono in alcun conto questa realtà: nelle loro relazioni pretendono l’annullamento della personalità altrui, al punto da volerli trasformare in un loro alter ego, una loro copia esatta; esigono che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono attenersi perfettamente ai loro “desiderata”. Sono persone egocentriche che non accettano alcuna contrapposizione, alcuna diversità rispetto a quello che è il loro personale punto di vista; ma un punto di vista”, come dice il saggio, è solo la vista da un solo punto: è cioè il classico comportamento di chi è talmente limitato, da non rendersi conto che in questo modo annulla le persone, le rovina, le deruba della loro individualità, rifiutando a priori qualunque valida possibilità di integrazione e di collaborazione. 
In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di “comunione fraterna”, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni finiscono nel nulla di una triste realtà: chi non si adegua al pensiero “elitario” dei responsabili, chi pensa di raggiungere per altre vie lo spirito del vangelo, chi insomma nell’umiltà dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente viene escluso, viene messo al bando, ignorato, isolato. Non è ammessa alcuna pluralità interpretativa di cosa sia il vero bene comune. Eppure la dottrina della Chiesa insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché, ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta, uniformità, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero, di una stessa interpretazione del divino alla luce dell’Amore, nell’aprirsi e nel donarsi con quella Carità che “unisce i cuori”.
Fare “unione” infatti non è fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. Fare “unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.
Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità: certo, talvolta potremmo arrivare anche a dispensare amore, ma non è l’Amore vero, l’Amore che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non potremmo vivere.
Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, rapporto, relazione. Ci fa capire in pratica che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.
Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, naturale, altrettanto non lo è il “sapersi relazionare”, che è una dote rara. Per questo dobbiamo imparare a costruire i nostri rapporti, le nostre relazioni, sull’esempio dell’Amore interpersonale della Trinità: purtroppo la maggior parte della gente non conosce il significato di “Trinità”; ignora quale potenza si possa sprigionare da una relazione interpersonale di tipo “trinitario”; non capiscono: pensano soltanto che “relazionarsi” consista nel saper parlare, nell’avere un linguaggio fluente, chiaro, convincente. Invece no: anzi, dobbiamo fare molta attenzione perché spesso le “nostre” relazioni, prive dell’elemento fondante della carità, sono solo misere espressioni del nostro egoismo, una pretestuosa e untuosa ricerca del nostro utile, del nostro tornaconto; i nostri legami di vita diventano legacci di morte, le nostre relazioni d'amore, un cappio al collo; in altre parole dobbiamo essere sempre noi a gestire le nostre relazioni: mai permettere alle relazioni di gestire noi!
Guardiamo allora dentro di noi, nel profondo del nostro cuore, analizziamo la natura delle nostre relazioni, confrontiamole con le relazioni d’amore e di verità che intercorrono nella Trinità tra Padre, Figlio e Spirito Santo; e preghiamo perché, anche nella nostra vita, sia sempre l’Amore a renderci credibili e autentici. Amen.

 

mercoledì 4 giugno 2025

08 Giugno 2025 – DOMENICA DI PENTECOSTE


Gv 14, 15-16.23-26 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

A conclusione del tempo pasquale, cinquanta giorni dopo la Pasqua, la liturgia celebra la solennità della Pentecoste: È la festa dello Spirito Santo, una festa importantissima poiché ci ricorda, oltre alla diffusione nel mondo del mistero della Pasqua di Gesù, operata grazie a lui dagli apostoli, anche la nascita della Chiesa. Gesù non è più presente in carne ed ossa, non è più visibile, ma continua ad essere presente con il suo Spirito, disceso prima negli apostoli e poi negli uomini di ogni tempo, per renderli pienamente consapevoli dell’importanza di rimanere in contatto con il Padre. Dio dunque, disceso dal cielo, ha scelto di fermarsi per sempre in questo mondo, continuando ad assistere i discepoli di ogni tempo nella realizzazione del loro impegno battesimale, sostenendoli in una loro risposta generosa, forte, costruttiva, convinta.
Prima considerazione: Dio si inserisce nella nostra storia umana scendendo! Dio si mette a nostro completo servizio, scendendo! Dio dona il suo amore infinito a nostro totale beneficio, scendendo! Fa esattamente il contrario di quanto facciamo noi, che nella nostra nullità, sgomitiamo continuamente per salire sempre più in alto, nella vanesia ricerca di visibilità, di importanza, di ricchezza, potere, popolarità, pensando di fare notizia, di firmare pagine importanti della storia, quando nella vita riusciamo a malapena scarabocchiare. Quanto ci illudiamo! Quanto è diverso Dio da noi!
“Egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre” ci assicura Gesù: e Dio, che mantiene sempre la sua parola, è rimasto con noi per sempre. Ha scelto di farlo in maniera discreta, materialmente invisibile, per cui molti, non vedendolo, pensano si tratti soltanto di una fantasia da preti e continuano a comportarsi come se la cosa non li riguardasse.
Ma non è così: la festa di oggi ci ricorda un’autentica, assoluta verità: che non siamo soltanto come ci vediamo allo specchio, un corpo “materiale”, talvolta inguardabile, ma siamo anche “spirito” divino: nel senso che Dio ha contrassegnato il nostro “Dna” nell’attimo stesso del nostro concepimento: in altre parole noi esistiamo, solo perché Lui è in noi, abita cioè stabilmente in noi con il suo Spirito, quello Spirito vitale che chiamiamo “anima”. Infatti “Anima”, in greco “pneuma”, significa appunto “spirito”, “vita”, “soffio”: è cioè quel soffio vitale di Dio creatore, grazie al quale Egli ci dona il suo Spirito, quel “soffio” soprannaturale che origina in noi quella vita, che ci fa esistere.
Il giorno in cui questo “pneuma” divino si staccherà dall’uomo, egli cesserà di essere tale: lo Spirito che animava la sua esistenza corporale, materiale, tornerà dal suo Creatore, per continuare a condividere, in Lui e con Lui, la sua stessa essenza di Amore eterno.
Questa è la meravigliosa realtà che ci riguarda. Questa è la realtà che dovrebbe guidare i nostri pensieri, la nostra vita, le nostre preoccupazioni.
Solo che risucchiato in questa torbida società, preso dall’immediatezza del presente, l’uomo moderno trascura qualunque direttiva “spirituale” del suo “Avvocato”, lo ignora completamente, alienandosi da tutto ciò che è “pneuma”, che è “anima”.
Ecco perché oggi, più che mai, abbiamo un assoluto bisogno di Dio; abbiamo cioè una estrema necessità di rivivere la Pentecoste dello Spirito: sia nel mondo, che nella Chiesa!
Nel mondo, perché i potenti della terra sono sempre più assetati di potere: la prevaricazione, l’orgoglio, l’egoismo sono divenuti lo stile di vita: i ricchi mirano ad accrescere a dismisura la loro ricchezza, senza curarsi dei miserabili che non hanno di che sfamarsi; i genitori non interagiscono più con i loro figli e ai figli non interessa più quel che dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia non c’è più dialogo, ciascuno usa il linguaggio dell’ego, diverso e intraducibile; esistono voragini di incomunicabilità tra i membri di una stessa comunità, tra un piano e l'altro di uno stesso palazzo, da un lato all'altro di una stessa strada: al punto che spesso si finisce per sapere da Internet o dalla TV quello che succede a pochi metri dal proprio salotto.
Nella Chiesa, perché le parole e i gesti dei pastori non riscaldano più il cuore, sono spesso meccanici, consunti dall’uso, non invogliano più nessuno alla conversione. A chi è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita del Vangelo, perché affidate a testimoni sempre più frettolosi, distaccati, preoccupati più del sociale, del “politicamente corretto”, che di confermare i fratelli nella fede; le chiese sono sempre più deserte, i cristiani sempre più smarriti, spiritualmente sofferenti e a disagio; una chiesa insomma, affidata a pastori, in origine magari buoni e attenti, ma che progressivamente hanno perduto ogni entusiasmo spirituale: pastori che si sono supinamente rassegnati allo sbando del loro gregge, diventando irriconoscibili a Cristo stesso, il buon pastore per eccellenza.
In tale situazione urge dunque una nuova Pentecoste: c’è bisogno che quanto prima lo Spirito Santo scenda nuovamente dal cielo, e con il suo “fuoco” bruci tutte le sterpaglie, le infedeltà, le falsità, le cattiverie, di questa nostra società, sommersa e soffocata dall’immoralità, dalla corruzione, dall’odio. È necessario che lo Spirito di Dio rinnovi ancora una volta quel miracolo dell'Amore, grazie al quale, pochi e ignoranti Apostoli uscirono dal loro “cenacolo” per diffondere con entusiasmo in tutto il mondo la Parola e l’Amore di Dio.
Ciascuno di noi, anche oggi, ha bisogno di ricongiungersi concretamente con lo “Spirito Consolatore”: anche noi cristiani del ventunesimo secolo, ci scopriamo talvolta indifferenti, deboli, stanchi, sfiduciati, sofferenti, bisognosi di aiuto, di equilibrio, di stabilità, di sostegno.
Ci sono momenti nella nostra vita in cui nessuno può raggiungerci: quando viviamo una perdita, quando riceviamo una sconfitta o una ferita, quando c'è qualcosa che ci fa male, quando una persona ci offende senza motivo, quando una persona amata ci viene sottratta dalla morte: ecco, è proprio in questi momenti particolari che noi sentiamo maggiormente il bisogno di “consolazione”, di aiuto. È infatti in tali situazioni che perdiamo il nostro equilibrio, la nostra stabilità, il nostro sostegno; ci sentiamo spazzare via, ci sentiamo un fuscello in preda ai marosi; ed è proprio in tali momenti, che abbiamo necessità di vera consolazione; abbiamo bisogno cioè di qualcuno che ci ridia solidità ed equilibrio; di qualcuno che con le sue parole e soprattutto con il suo silenzio, calmi tutte le nostre tempeste; di qualcuno che non ci dica niente ma che ci assicuri con la sua presenza, con il suo abbraccio, con il suo ascolto; di qualcuno che non ci giudichi, ma che ci incoraggi.
Molti pensano che “consolare” significhi esprimere parole di compassione, qualche bella frase di circostanza. Spesso, soprattutto in certe occasioni, sentiamo frasi importanti, bellissime parole; ma sono espressioni che sanno di posticcio, di non convinto, di retorica; frasi diligentemente preconfezionate, che lasciano il tempo che trovano. Consolare invece significa essere presente nel bisogno, essere di sostegno. Se dobbiamo dire qualcosa, diciamolo col cuore, da cuore a cuore, trovando le parole giuste nella nostra anima, perché solo così vanno dritte al cuore dell’altro. Spesso è meglio non dire niente, ma stare semplicemente con lui, condividere ciò che vive, ciò che sente: siamo consolatori sinceri e convincenti, solo se siamo vicini alle sue sofferenze. Condividendole. Non potendo eliminare la sofferenza, possiamo però sempre dire: “Io ci sono e ci sarò! Forse non ti sarò di aiuto, non potrò toglierti il dolore, non avrò parole giuste da dirti, forse avrò paura anch’io di ciò che ti succederà, ma sappi che io sono qui con te e ci rimarrò!”.
Ricordiamoci e ricordiamogli sempre, che dentro di noi c’è già un Consolatore, il nostro Consolatore. Quello vero. Quello sempre presente, quello attento. Aspetta solo che noi ci facciamo vivi. Aspetta un nostro cenno d’intesa, di apertura.
Per questo, quando ci sentiamo felici, realizzati, gioiosi, lodiamolo e ringraziamolo; quando invece abbiamo qualche dolore, qualche problema, qualche difficoltà, qualche preoccupazione, qualche malattia, quando abbiamo bisogno di pace, di grazia, di forza, invochiamolo con fede, con perseveranza, con fiducia: perché Egli è il nostro Consolatore potente, è la nostra forza. Egli è l'amore, è la tenerezza di Dio, presente e operante nei nostri cuori. Non dimentichiamolo mai: perché è Lui che ci aiuta a vivere, è Lui che ci aiuta ad affrontare tutti i problemi dell'esistenza, è Lui che ci dà una mano per costruire quel ponte che ci consentirà di godere un giorno di Lui, Amore perfetto, col Padre e il Figlio. Amen.