mercoledì 28 maggio 2025

01 Giugno 2025 – ASCENSIONE DEL SIGNORE


Lc 24, 46-53
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio. 

Oggi la liturgia pone alla nostra attenzione gli ultimi momenti di Gesù su questa terra: dopo essersi accomiatato dai discepoli, li benedice, si distacca dalla terra e sale verso il cielo; sono questi i pochi particolari con cui Luca ci racconta, nell’ultima pagina del suo Vangelo, e nella prima degli Atti degli Apostoli, l’evento dell’ascensione al cielo di nostro Signore.
Sono in tutto un paio di versetti nei quali, in estrema sintesi, egli intende dirci: “Gesù è asceso al cielo: da questo momento egli non c'è più; ora al suo posto ci siete voi. Quindi voi, viri Galilaei, uomini di Galilea, voi cristiani di oggi, voi chiesa, “quid statis aspicientes in coelum? Che state lì a fissare imbambolati il cielo? non state lì con le mani in mano a guardare in aria; datevi da fare! Lui non c'è più, va bene; ma qui ha lasciato voi con l’incarico di continuare la sua opera! Non per nulla, nei tre anni passati insieme, si è premurato di insegnarvi cosa dovete fare e come dovete farlo!”.
Ed è proprio così: Gesù ci ha lasciato, è tornato in cielo. Ma noi siamo qui, e qui c’è la sua Chiesa. Tocca ora a noi, a me, a voi, e non “agli altri”, trovare la giusta soluzione ai problemi della vita, come faceva Lui quando percorreva le strade della Palestina.
Non continuiamo a perder tempo chiedendoci per chi suona la campana: la campana suona per noi. Punto. È ora di muoverci. Soprattutto non dobbiamo aver alcun timore, perché non siamo soli: come già gli apostoli, anche noi abbiamo sempre Gesù nel cuore, dentro di noi.
Quando Luca dice che gli apostoli “stavano sempre nel tempio lodando Dio”, non intendeva dire che giorno e notte essi se ne stessero rintanati nel tempio: “stare nel tempio” vuol dire semplicemente “rimanere in contatto con Lui”, vuol dire desiderarlo, cercarlo, sentirlo dentro di noi, ascoltarlo, amarlo: e ciò ovunque siamo, dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo.
Anche Gesù ha passato l’intera sua vita terrena “rinchiuso” nel tempio, dall'inizio alla fine. Non perché anche lui fosse sempre lì, ma perché era in continuo contatto con il Padre; lo sentiva, gli parlava. Del resto, per quanto ci riguarda, possiamo anche essere materialmente in chiesa, ma non per questo possiamo dire di essere nel “tempio” di Dio, in stretta unione spirituale con Lui; come pure possiamo trovarci in qualunque angolo di questo mondo, e al contrario continuare ad essere in perfetto collegamento con Lui, essere nel “suo” tempio, vivere cioè con Lui nella nostra anima, nel nostro cuore.
Purtroppo gran parte della gente ha perso oggi qualunque rapporto personale, qualunque collegamento con Dio: è “sconnessa”; è sempre di corsa: lavora, è occupata in mille faccende, in mille iniziative, fa sport, va in palestra, si diverte, ride, canta; fa di tutto, ma non trova mai un minuto di fermarsi in “casa” con Lui: è sempre altrove, non è mai veramente presente a sé stessa; è lontana, distante, disinteressata. Perduta nel frastuono di una vita delirante, non sente, è sorda a qualunque richiamo del Dio della Vita, è veramente “scollegata” da Lui in tutti i sensi.
Noi viviamo nell’illusione di onnipotenza, ci illudiamo di essere completamente autonomi, di poter fare tutto da soli: nel nostro delirio pensiamo che per il nostro vivere, per i nostri progetti, Dio sia inutile, non ci serve.
Ma è qui che sbattiamo violentemente il viso contro il muro delle nostre fatue illusioni; perché nulla di ciò che ci riguarda accade per caso, all’insaputa dello sguardo amoroso del Padre. Egli non ci lascia mai soli: ci conosce troppo bene, conosce perfettamente i nostri limiti, le nostre indecisioni, i nostri dubbi, le nostre debolezze; conosce le nostre gioie, le nostre delusioni, le nostre lacrime, i sussulti del nostro cuore; conosce le fatiche, gli ostacoli che dobbiamo superare per continuare a procedere faticosamente per la sua strada, zoppicando vistosamente; come pure conosce la gioia, lo slancio che proviamo dopo ogni piccola vittoria; Lui sa, e provvede...! È proprio vero: che Dio stupendo ci ha rivelato Gesù mentre era quaggiù! E che missione impegnativa ci ha affidato prima di salire al cielo! Sì, un incarico di grande responsabilità, perché ora tocca a noi mantenere presente questa realtà, rivelare a tutto il mondo, nel migliore dei modi, questo Volto sublime del Padre.
L'annuncio del Vangelo a tutte le genti, non si è concluso con la missione terrena di Gesù; non è un compito riservato esclusivamente alla sua persona: anzi lui stesso ha detto: “andate e predicate a tutte le genti…”.
Quindi, ascoltando i suoi suggerimenti all’interno del “nostro” tempio, con lo sguardo rivolto a Lui in cielo, spetta ora a noi riprogettare nel suo nome questo mondo; tocca a noi riportarlo entro i parametri del suo progetto originale di vita e di amore.
Nello specifico noi, moderni discepoli di Gesù, non siamo obbligati da Lui a compiere nella nostra vita azioni eccezionali, straordinarie, in suo onore; ad occuparci esclusivamente delle cose sue di lassù, trascurando tutte le nostre cose di quaggiù; dobbiamo al contrario riproporre all’attenzione del mondo le meraviglie di lassù continuando la nostra vita di quaggiù, con i piedi ben piantati per terra. In altre parole dobbiamo sì guardare a Gesù in cielo, nella sua gloria, ma dobbiamo anche interessarci degli uomini, nostri fratelli, anch’essi figli di Dio; dobbiamo considerare l'umanità intera come un’unica famiglia, vedere nel domani di ogni persona non la sua morte, ma una sua nuova vita, gloriosa, senza fine, che durerà per sempre, immersa nell’amore del Padre... È questo lo sguardo “in alto” che l'ascensione del Signore ci sollecita a mantenere nella nostra vita quotidiana. Perché oggi, guariti dall'amore di Cristo, possiamo finalmente “spalancare” i nostri occhi alla luce dello Spirito, anche se sono ancora deboli, sensibili, fragili, bisognosi di tempo, per adattarsi all’intensità e allo splendore della sua luce.
Noi ora contempliamo Gesù che vive nella gloria del cielo: ma possiamo anche vederlo vivere, in modo misterioso, qui su questa terra: egli infatti vive con la sua grazia nell'intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio eucaristico; vive nei tabernacoli del mondo, prolungando la sua presenza reale e redentrice; vive nella sua Parola che risuona nell'intimo delle coscienze; vive e si fa presente nel papa, nei vescovi, nei sacerdoti, nei religiosi, chiamati ciascuno nominativamente a rappresentarlo davanti agli uomini con le loro parole, con le loro opere, con l’esempio della loro vita da consacrati.
È una presenza reale che ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, anche se invisibile e impalpabile. Una presenza da amico, da confidente, da padre amoroso e comprensivo, che ascolta i nostri segreti, le nostre intimità, le nostre piccole fragilità quotidiane, che capisce e perdona, sempre con lo stesso amore, con la stessa bontà e misericordia, le nostre ribellioni interiori, i nostri sfoghi d'ira, le nostre lacrime di orgoglio, la nostra umana disperazione nel dolore e nella sofferenza...
Questa è la consolante realtà: Cristo non se n’è andato via, è rimasto con noi, al nostro fianco. È rimasto qui con noi per salvarci, per aiutarci, con il suo Spirito, a costruire dentro di noi l'uomo spirituale, l'uomo nuovo, la sua “copia” vivente: perché noi tutti siamo chiamati ad essere i "Gesù" di oggi: questa è la nostra missione; questo è il bello della nostra vita. Un compito nobile, soprannaturale, che non è un peso, ma un onore, una gioia unica: è la nostra concreta possibilità di diventare i “sosia” di Gesù Risorto, di poter portare in tutte le strade del mondo il suo Volto, al pari dei suoi primi dodici discepoli. Amen.

  

mercoledì 21 maggio 2025

25 Maggio 2025 – VI DOMENICA DI PASQUA


Gv 14, 23-29 
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

Siamo sempre durante l’ultima cena. Prima della conclusione, Gesù pronuncia un lungo discorso con il quale cerca di preparare i suoi amici alla imminente tragedia della croce: è il lungo discorso di commiato dai suoi, essendo ormai giunto al finale della sua missione terrena. 
I discepoli, come del resto succedeva normalmente, non capiscono molto di quelle parole, che riguardano il loro immediato futuro: una cosa, però, la capiscono bene: che tra non molto Gesù li avrebbe lasciati, e che essi avrebbero dovuto affrontare delle tristi giornate senza di lui. L’Amico e Maestro, con cui hanno condiviso gioie, entusiasmi, incomprensioni, miracoli, fatiche e preghiere, l’odio e l’amore della gente, sta dunque per abbandonarli, sta per andarsene via.
Le parole che Gesù pronuncia costituiscono dunque la traccia di un programma ben preciso: sono le ultime istruzioni, un “viatico”, con cui intende predisporre i loro animi ad effettuare un salto decisivo di qualità: a passare cioè da una esperienza di vita comune esteriore, materiale, ad una nuova esperienza di vita, sempre in comune, ma questa volta “spirituale”, interiore; li invita praticamente a trasferirsi da quel cenacolo costruito nella pietra, in un altro cenacolo, tutto spirituale, completamente nuovo, situato dentro di loro: perché nei vari “cenacoli” di pietra, qui, in questo mondo, non lo avrebbero più incontrato di persona. Di lì a poco, quindi, lo avrebbero potuto incontrare solo spiritualmente, nel cenacolo intimo del loro cuore, della loro anima; perché Lui, Gesù, fisicamente, non ci sarebbe stato più.
Una prospettiva, questa che appare agli occhi dei discepoli, decisamente tragica, che li getta completamente nella confusione, nello sconforto, nell’angoscia, nel terrore: “Cosa faremo senza di Te? Come potremo vivere senza di Te che sei la Vita? Chi ci aiuterà? Chi ci sosterrà? Che senso avrà ancora la nostra vita?”. Sono all’incirca le domande inquietanti che essi si pongono immediatamente.
In fondo, fino ad allora, si erano illusi, avevano vissuto una meravigliosa avventura; pensavano cioè che Gesù avrebbe instaurato il Regno dei cieli qui, su questa terra; credevano che, con Lui presente e operante, si sarebbe affermata una realtà nuova, diversa, universale, magari con l’intervento risolutore di Dio Padre. E invece no!
In un istante le loro sicurezze, le loro certezze, cedono; i loro sogni svaniscono, si dissolvono come fumo nell’aria. “Cosa ci rimane ora? Con Gesù che se ne va, non abbiamo più nulla! Tutto è finito!”. Quello che ora provano gli apostoli alla prospettiva della definitiva scomparsa di Gesù, è esattamente ciò che tutti noi, messi di fronte ad una simile circostanza, sicuramente proveremmo. Le loro domande, di fronte ad una così tragica separazione, sono le stesse che anche noi, nella realtà, abbiamo avuto modo di provare nel momento in cui qualcuno che amavamo profondamente, un figlio, una persona cara, ci è venuto improvvisamente a mancare.
È la legge della vita. I mostri del dolore, della disperazione, della caducità umana, dell’impotenza, in quel momento ci mettono di fronte alla provvisorietà della nostra vita, alla consapevolezza di essere solo un nulla, di non avere alcunché di veramente “nostro”, di non meritare alcun diritto a trattamenti di favore da parte di Dio.
Purtroppo tutto scorre via, tutto passa: come ci viene dato, così ci viene tolto. Questa è la realtà che dobbiamo imparare. È uno degli aspetti dolorosi della vita, perché è naturale considerare “nostro” chi, come un figlio, è parte di noi; è naturale e inevitabile per noi provare nei suoi confronti attaccamento, affetto, amore; è naturale pensare di non poter più vivere senza di lui; è quindi altrettanto naturale che di fronte alla morte, il dolore ci sommerga, ci destabilizzi. Ripeto: è la vita. Ma in tali situazioni il vangelo di oggi ci soccorre, prospettandoci una verità ben più profonda, più vera. Con la morte non perdiamo tutto: possiamo perdere la presenza materiale di una persona, ma la sua parte più bella e nobile, non potremo mai perderla: la sua presenza spirituale, la sua anima, la sua memoria, il suo ricordo, rimarranno vivi per sempre, scolpiti indelebilmente nel nostro cuore…
È quanto, in effetti, sperimentarono gli apostoli. Essi persero l’amico più caro, la persona che più amavano, il loro maestro, la loro guida. Sembrava una tragedia senza fine, ma poi successe l’incredibile: dentro il loro cuore percepirono nettamente la sua inconfondibile presenza: ce l’avevano dentro; era un fuoco che bruciava la loro anima, una passione che infiammava il loro cuore, una luce che illuminava il loro cammino. Per loro insomma era più vivo di prima, lo “sentivano” più di prima. Un’esperienza sublime, che essi chiamarono lo Spirito, l’Amore, il Risorto.
È la grande confortevole verità che riguarda anche noi: le persone che abbiamo tanto amato, anche se materialmente non ci sono più, continuano a vivere dentro di noi, a parlare con noi, a farci sentire tutto il loro amore, la loro presenza. È lo Spirito di Dio, la loro Anima immortale, che resterà sempre presente in noi!
Gesù vuole consolare fino in fondo i suoi, e prosegue dicendo: “Vi lascio la mia pace... Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. Una perdita non deve generare depressione, dolore, paura. Egli usa parole confortanti per i suoi discepoli: ma le sue sono anche parole, lo ripeto, che costituiscono la più bella e consolante prospettiva per quanti di noi, ogni giorno, piangono il distacco di una persona amata.
Sono in genere altre le parole consolatrici che in tali occasioni sentiamo da amici e parenti:
“Dio si prende i fiori migliori”; oppure: “Dio si porta via sempre i più buoni”; o ancora: “È la vita, vedrai che col tempo il dolore passerà”. Sono indiscutibilmente parole belle, parole vere, sincere; ma le parole umane, anche se belle e profonde, difficilmente arrivano a toccare l’anima. A volte, per assurdo, è preferibile il silenzio; una dimostrazione di “esserci”, una presenza silenziosa. Nella mia recente esperienza (perdonate la nota personale), ho particolarmente apprezzato proprio questa “muta”, ma “presente”, consolazione.
“Consolare” (dal latino cum-solus), significa infatti “stare con chi è solo”: senza dire nulla, senza fare nulla: solo esserci, assicurare la propria presenza, il contatto, lo stare vicini: “Prendo la tua mano; non ti dico nulla, ma sto con te. Guardami negli occhi e saprai che io ci sono. Non posso vivere questi momenti per te, al posto tuo, ma posso viverli con te”.
Gesù ha rassicurato i suoi proprio in questo modo, assicurando nei loro cuori la costante presenza del suo Spirito, del suo Amore! E lo fa continuamente anche con noi.
Per questo dobbiamo apprezzare in pieno questa presenza del Consolatore dentro di noi. È il nostro Ispiratore, il nostro Avvocato. Dobbiamo trovarlo. Sentirlo. Ascoltarlo.
Se ci sentiamo “abitati” dentro, è impossibile sentirci soli. Se invece continuiamo a soffrire di solitudine, vuol dire che in noi qualcosa non funziona, vuol dire che non permettiamo a nessuno di entrarci dentro, neppure a Dio.
Eppure la nostra forza, la nostra bellezza sta tutta lì, dentro di noi. La forza di un albero non sta in quello che si vede all’esterno, nelle foglie, nei rami o nel tronco. La sua forza sta nelle radici, in ciò che non si vede, in ciò che gli scorre dentro. È così anche per noi.
La società di oggi si preoccupa esclusivamente di sviluppare l’apparire, l’esteriore delle persone: devono essere sempre più belle, più ricche, più eleganti, più ambiziose, più importanti. Ma così genera solo frustrazioni, fatue illusioni, che finiscono per avvelenare la vita di tutte quelle persone che non hanno ancora capito che la loro bellezza, la loro forza, la loro importanza è l’esatta proiezione di quanto custodiscono dentro.
Esaminiamoci allora, osserviamo com’è la nostra vita: se non ci piace come siamo fuori, vuol dire che non abbiamo ancora scoperto, ancora non abbiamo conosciuto né ascoltato, Colui che dal di dentro ci suggerisce come vivere una Vita vera e autentica. Amen.

  

giovedì 15 maggio 2025

18 Maggio 2025 – V DOMENICA DI PASQUA


Gv 13,31-35 
Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Per capire il significato del vangelo di oggi dobbiamo inserirlo necessariamente nel suo contesto originale, altrimenti i riferimenti e il significato delle parole, sfuggirebbero alla nostra comprensione Il testo infatti inizia con “Quando fu uscito…”: ma a chi si riferisce? Chi è quella persona che, una volta allontanatasi, costringe Gesù a commentare quanto è appena successo, spiegando ciò che subito dopo sarebbe successo? Cosa significano le parole di Gesù: “ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio in lui?” per che cosa? Ebbene: cerchiamo di dare un senso a questi interrogativi, partendo dall’antefatto. 
La scena si svolge all’interno del cenacolo, durante l’ultima cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai dodici, e sta raccomandando ai presenti di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, di chi ne ha maggior bisogno. È un momento di grande intimità: egli sta impartendo le ultime raccomandazioni, sta consegnando loro il suo testamento spirituale: è serio, parla a voce bassa, confidenzialmente, lascia emergere dal cuore tutta l’amarezza e l’inquietudine per il suo grande sacrificio ormai vicino; improvvisamente tace; poi, proseguendo con voce rotta dall’emozione, rivela un particolare tremendo: “Uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21). Ne segue un silenzio tombale. In loro domina lo sgomento, il dramma, la costernazione, ma si insinua anche il dubbio. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Ma Signore, chi mai può essere?”. E Gesù: “È colui per il quale inzupperò il boccone, e glielo offrirò”. A quel tempo, nei banchetti importanti, c’era l’usanza che il padrone di casa offrisse il primo boccone all’ospite d’onore, in segno di deferenza e di stima. È l’estremo gesto d’amore e di riguardo di Gesù nei confronti di Giuda il traditore, nel tentativo di distoglierlo dal suo insano proposito. Ha già provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutta la sua amicizia, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma ogni suo sforzo non è servito a nulla: Giuda rifiuterà ogni cosa, ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.
A questo punto, una volta che Giuda è uscito dal cenacolo - e qui inizia il nostro vangelo - Gesù offre ai suoi una spiegazione: ma lo fa con parole ermetiche, di difficile interpretazione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”.
Cosa mai vuol dire Gesù esclamando che è stato glorificato, quando in realtà, sbattendo la porta, Giuda è appena uscito col proposito di tradirlo, e Lui sa che la sua fine è ormai imminente? Perché parlare proprio ora così insistentemente di “gloria”, di “glorificazione”, di “glorificare” (5 volte in due versetti)? Per cercare di capirne il motivo, dobbiamo ricorrere al linguaggio biblico, che molto spesso dà alle parole un significato diverso dal nostro: infatti i termini derivanti dal verbo “glorificare” in greco "dokèo", contrariamente al nostro lodare, esaltare, celebrare, acquistano in Giovanni il significato di “rivelare, dimostrare, far vedere a tutti”. Per cui Gesù, consapevole del fatto che tra poco sarebbe iniziata la sua ora, dichiarando ai discepoli di sentirsi “glorificato”, vuol dire che grazie al rifiuto di Giuda, l’imminente, tragica conclusione della sua missione redentrice, avrebbe finalmente “rivelato”, “reso noto”, (glorificato), che l’unica causa, il vero, assoluto “movente” di tale sacrificio era l’amore: un sentimento profondo, infinito, condiviso da entrambi per quel programma: l’amore di Dio Padre verso le sue creature, avendolo pensato e voluto fin dalla creazione, e l’amore di Gesù Figlio verso il Padre, avendo accettato di realizzarlo.
L’elemento portante, quindi, di questo “inno di gloria”, di questa “rivelazione” del piano di salvezza voluto da Dio, assunto e realizzato da Gesù, è dunque l’amore.
Un sentimento fondamentale, che ci offre la chiave di lettura del brano evangelico, ponendoci di fronte alle nostre responsabilità: in pratica ci fa capire che anche noi cristiani, come ha fatto Gesù, dobbiamo “glorificare” Dio; dobbiamo cioè “dimostrare” di essere suoi degni figli e fedeli discepoli, rendendo evidente la sua presenza nella nostra vita: in altre parole, dobbiamo donare gratuitamente il nostro amore, la nostra comprensione, a quanti ne hanno bisogno, semplicemente amando; cercando cioè, come raccomanda Paolo, “di rendere partecipi gli altri, di quella sovrabbondanza di amore, che Dio ha riversato nei nostri cuori (Rom 5).
Noi Dio non lo vediamo, è vero: è difficile per noi amare chi non vediamo, chi non conosciamo personalmente, chi è lontano da noi; abbiamo però il nostro prossimo, che vediamo continuamente; abbiamo i nostri fratelli, che ci stanno sempre vicino: amando loro, è come se amassimo Lui, perché chi ama loro, ama Lui. E Lui ama tutti: vicini o lontani dal suo cuore, fedeli o infedeli alla sua chiesa, Dio ama veramente tutti, e lo fa senza pretendere nulla in cambio, senza alcun obbligo da parte nostra, perché il suo è un amore totalmente gratuito, un amore che è già nostro dal primo istante di vita; perché è un amore conquistato e assicurato per tutti, dal sacrificio di Gesù sulla croce. Tutto quello che noi dobbiamo fare, è semplicemente accoglierlo, accettarlo, nient’altro. “Amatevi anche voi gli uni gli altri”: questo è il “comandamento” di Gesù: questo è il comandamento che Giovanni correttamente definiscekainèn, quello “nuovo”, non nel senso temporale di ultimo, di quello “più recente” (avrebbe detto “an”), ma “nuovo” per il suo contenuto, “nuovo” nella sostanza, perché Gesù ha rovesciato completamente i contenuti della vecchia tradizione, della Legge mosaica, ha rivoluzionato il concetto stesso di Dio: trasformandolo da padrone esigente, in padre innamorato.
Un comandamento nuovo anche perché: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Parole di estrema importanza, che meritano una più attenta considerazione proprio da parte nostra, di noi cattolici “chiesaioli super praticanti”, che ci autodefiniamo appunto “osservanti” grazie alle nostre frequentazioni religiose domenicali. Gesù infatti non dice: “Si saprà che siete miei discepoli se andate a messa tutte le domeniche, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose”. No, Gesù non dice questo. Anzi, all’epoca, egli si è dimostrato particolarmente severo proprio con quella casta di scribi, di farisei e di custodi del tempio, che si ritenevano gli unici osservanti perfetti, gli “eletti” da Dio.
Ciò che ci deve quindi distinguere, non è l’apparire, il “fare”, il “dare”, l’essere giudicati importanti, diversi dagli altri, magari insostituibili alla nostra parrocchia; il vero “marchio”, quello che ci fa riconoscere come autentici discepoli di Cristo, quello fondamentale, è uno solo: l’amore. I riconoscimenti, gli stemmi, le insegne, gli abiti, le decorazioni, i riti, le celebrazioni, il canto, cose di cui andiamo tanto fieri, contano ben poco, sono solo dei corollari, inadeguati da soli a qualificare la nostra fede, la nostra vita interiore. 
La nostra risposta alla “chiamata” di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi insegnamenti, va quindi misurata solo ed esclusivamente sull’amore: a Dio, alla famiglia, ai fratelli, al proprio stato, ai propri doveri di cristiano e di cittadino; non su un amore “straordinario”, eroico, da prima pagina dei giornali o da interviste televisive, ma sull’amore discreto, umile, nascosto: in quei piccoli gesti d’amore, cioè, che non hanno bisogno di grande potenza, di grande visibilità, ma che comunque raggiungono immediatamente lo scopo, perché compiuti nella riservatezza, nell’umiltà, nel silenzio. Amen.

 

giovedì 8 maggio 2025

11 Maggio 2025 – IV DOMENICA DI PASQUA


Gv 10, 27-30 
“In quel tempo, Gesù disse: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola”. 

Il Vangelo di oggi è formato dai quattro versetti finali del discorso detto del “Buon Pastore”, incluso da Giovanni tra le catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. 
Sono poche parole, che sintetizzano e documentano tutta la personale e coraggiosa convinzione dei primi cristiani di fronte ad una situazione estremamente ostile nei loro confronti: chi ascolta e segue il Signore non deve temere nulla, perché nessuno mai riuscirà a strapparlo dalle sue mani.
“Ascoltare la voce del pastore”, “essere da lui riconosciuti”, “seguirlo”: tre momenti con un crescendo programmatico che deve determinare anche la nostra vita di cristiani “moderni”.
Approfondiamo come al solito la portata di queste parole.
“Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire” significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente. “Ascoltare” invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro (ausculta o fili), interessando l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per accettarlo volentieri (libenter excipe) ma soprattutto per metterlo in pratica (efficaciter comple). “Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’azione consapevole.
Noi in genere “udiamo” tantissime cose, ma non per questo le ascoltiamo.
Ne consegue che “se uno ascolta” così anche si comporterà, così imposterà la sua vita.
Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo.
Mio nonno in proposito amava ripetere: “Non fidarti mai di chi non sa ascoltarti”.
Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo crescere, non potremo cioè diventare adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo che ci “costruisce” dentro.
Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver sentito tante belle prediche o tante catechesi!
Alcuni santi si sono addirittura convertiti, “ascoltando” anche una sola parola della scrittura: noi al contrario abbiamo “sentito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza che mai sia scattato qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima.
Per noi è difficile riuscire ad ascoltare gli altri; ma lo è ancor più riuscire ad ascoltare noi stessi! Quando invece se ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”.
Se ci ascoltassimo di più, potremmo infatti renderci conto di quanto nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “a-surdus” = senza ascolto, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita: ma noi siamo sordi!
Per cui, non essendoci “ascolto”, da sordi, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato dalla gente di tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai vari organi di informazione!
L’altra parola da approfondire è “conoscere”. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano.
Per noi, “conoscere” significa sapere: sapere chi è un tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Ben più profondo ed esplicativo è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia.
La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni, come quando diciamo: “conosco com'è quel liquore, quel dolce, perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia, la sua confezione”. Ma per conoscere veramente un liquore, un dolce, è necessario berlo, mangiarlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È in questo modo che Gesù “conosce” coloro che “ascoltano” la sua voce: ed essere individualmente riconosciuti da Lui, essere chiamati ciascuno col proprio nome, sarà un’esperienza unica, indescrivibile, che ci cambierà profondamente, ci destabilizzerà, ci rapirà dalla nostra debolezza umana, dalla nostra fragilità temporale.
Infine, la terza parola è seguire”. È la conseguenza dell’ascolto e del “conoscere”: una volta conosciuto, recepito, “assimilato”, il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. È in questo modo, infatti, che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio.
“Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapinare, strappare via, prendere, rubare”.
Tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà.
L’ansia pertanto, è la compagna fedele del nostro viaggio.
Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? A nulla: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo.
Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba.
Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono, do loro la vita eterna, non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
I primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, il prestigio sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Fidiamoci anche noi di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: perché solo così vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dal suo amore! Amen.

 

giovedì 1 maggio 2025

04 Maggio 2025 – III DOMENICA DI PASQUA


Gv 21,1-19 
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, e quindi stabiliamo che non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere anche noi come gli apostoli: “No”. Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo soddisfatti per come siamo, ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, scontenti di tutto e di tutti. Di veramente prezioso da offrire, non abbiamo proprio nulla; anzi la prima cosa da fare è dirci francamente: “Così non va!”; perché, per poter guarire, dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che i malati siamo noi, e non gli altri: siamo noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo darci da fare.
Dio ci aiuta certamente, ci mette sicuramente del suo in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con effetto istantaneo: un evento, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
Esattamente come accadde quel mattino sulle rive del lago di Tiberiade.
Dopo una notte intera di faticoso lavoro, Gesù rimanda gli apostoli in “mare”, al largo, nonostante fossero appena rientrati senza alcun risultato, stanchi e sfiduciati! Solo che ora ripartono con un obiettivo ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”.
La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, della superficialità, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
Lo stesso ordine Gesù lo ripete anche a noi; dopo i nostri fallimenti, puntualmente ci rimanda nella nostra vita, nel nostro quotidiano; non ci impone di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di sconvolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. Ma: “Fate le cose di prima, le stesse, ma adesso fatele in maniera diversa, più razionale, consapevole. Non vivete più con la testa fra le nuvole; non aspettate che le difficoltà spariscano magicamente, fatevi delle domande serie, osservatevi, guardatevi, chiedetevi cosa volete da voi stessi, qual è il vostro ideale, cosa vi appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire scioccamente la maggioranza, chiediamoci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Quali ideali mi muovono? Quali paure mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono sincero in quel che faccio? O preferisco nascondermi indossando delle maschere?”. Dobbiamo convincerci che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa.
Noi ci illudiamo invece che le cose in grado di saziare i nostri cuori si trovino all’esterno, al di fuori di noi. Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci rende pieni di gioia, ciò che ci fa sentire amati da Dio, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova al di fuori ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi stessi che dobbiamo lavorare continuamente, con noi e con Dio che ci inabita.
Questo fu infatti il vero miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava: un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù nella persona che aveva ordinato loro di gettare nuovamente le reti e di ritirarle stracolme di pesci: “È il Signore!”.
Il messaggio è chiaro: anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e fragilità, potremo un giorno “vedere e riconoscere” il Signore nella gioia e nella soddisfazione. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di felicità.
Purtroppo la gente oggi cerca Dio nelle “visioni” dei ciarlatani, nelle pseudo apparizioni, nelle grandi frequentazioni religiose, perché non ha alcun interesse di incontrarlo “privatamente” nella propria vita. Ma Dio continua a stare sempre al nostro fianco, in attesa che ci accorgiamo di Lui. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, una stupida voglia di apparire, di emergere ad ogni costo, che un vero e sincero bisogno di vedere Dio, di confrontarci intimamente con Lui.
Eppure Dio c’è sempre per noi, è continuamente a nostra disposizione; il luogo preferenziale per incontrarlo è però “dove c’è carità e amore”: ecco perché dobbiamo imparare seriamente a muoverci in questo percorso rivelatore.
Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo, senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, non aiutano a far “vedere” il Signore. Come è successo a Pietro: lui l’uomo razionale, efficiente, irruento, l’uomo d’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore, non riconosce il Signore che, fermo sulla riva, lo sta aspettando: solo Giovanni, il discepolo dell’amore, di ritorno da quella pesca straordinaria e miracolosa, lo vede, lo riconosce e glielo indica: “È il Signore!”.
Pietro assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei consacrati e consacrate, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla chiamata di Dio, procedono stancamente, vivono di “rendita”, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
È interessante notare come Pietro, grazie a questo suo carattere altalenante, compia una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica: appena riconosce Gesù, per esempio, senza alcuna esitazione, si getta in mare per raggiungerlo: era al largo, stava tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Una decisione improvvisa, quella di Pietro, che però, secondo i Padri della Chiesa, contiene un forte simbolismo: egli cioè “deve” buttarsi in acqua, prima di raggiungere Gesù, perché deve “bagnare”, deve lavare la propria presunzione, la propria sicurezza; deve cioè fare un bagno di umiltà, deve ricredersi, deve insomma “immergersi” anche lui, come Giovanni, nel “mare” dell’amore.
Altro particolare curioso: prima di buttarsi in acqua, “si veste”, si stringe cioè la veste ai fianchi “perché era svestito”: ma se mentre pescava era nudo, che senso ha “rivestirsi” per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa per Pietro, indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rivestirsi del proprio ruolo, della propria responsabilità; autorità, ruolo, responsabilità, sono funzioni che hanno sempre bisogno di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. È Lui infatti, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, risale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra, ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora”. Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima infatti di conferire a Pietro il mandato di “guida”, di “pastore”, Gesù mette alla prova l’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèo”. Ora, in greco, “Agapào” indica un amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèo” invece si riferisce ad un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu più degli altri?”. Gesù è diretto nella sua domanda, esige una risposta netta: usa “agapàs”, perché la sua è una richiesta di amore esclusivo, incondizionato; ma Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèo”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, assoluto, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù vada a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene…” (“filèo”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” e passa a “filèo”, lo stesso verbo usato da Pietro, e gli chiede: “Simone, mi vuoi bene” (Sìmon, filéis me)?
In pratica si accontenta del suo “ti voglio bene”, si abbassa, si adatta, si adegua alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento, ancorché incompleto, è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il Maestro abbassarsi al suo livello per mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio che si accontenta veramente di poco: gli basta anche un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore; tre volte gli ha in pratica detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti senta esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione, solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù conclude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi sì decidere la direzione da percorrere, ma devi anche lasciarti condurre da Dio, dove Lui e il corso della storia ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire lui dove andare. Ma avere fede in Dio, amare Dio, significa lasciare spazio a Lui, abbandonarci a Lui, lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno a priori può essere certo che Dio ad un certo giorno non decida di rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non desideri qualcosa di più impegnativo da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia abbandonare progetti, amicizie, ideali, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e il nostro presente?
Noi amiamo immaginarci celebri, ricchi, realizzati, con una famiglia bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili; con una vecchiaia serena, piena di soddisfazioni: ma chi può assicurarci che il nostro domani non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa? L’importante è che noi siamo sempre e comunque pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli sinceramente: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.