giovedì 17 ottobre 2024

20 Ottobre 2024 – XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 10,35-45 
Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Gesù, mentre prosegue il suo cammino verso Gerusalemme, cerca di istruire, di preparare i suoi discepoli alla tragica conclusione della sua missione terrena, descrivendone sempre più apertamente i particolari. I discepoli però dimostrano ancora una volta di non comprendere le sue parole: per loro Egli è e resta il messia, l’inviato di Jahweh, con il compito di ristabilire, di ricompattare il regno d’Israele, riportandolo allo splendore del periodo Davidico. 
Non capiscono, non vogliono capire: e anche questa volta prevale in loro l’idea della restaurazione politica guidata da Gesù; niente quindi di più naturale che due dei dodici discepoli, si avvicinino a Lui per fargli delle richieste personali in vista della sua affermazione gloriosa. Si tratta di Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo: due personaggi piuttosto singolari, tanto da venire soprannominati i “Boanerghes”, i figli del tuono, grazie alla loro indole collerica, ambiziosa, prepotente, suscettibile, sempre pronta alla rissa. E lo dimostrano subito con il tono perentorio con cui si rivolgono a Gesù: “Noi vogliamo che tu ci faccia”. “Noi vogliamo”: non esprimono un desiderio, il loro è un ordine; non chiedono umilmente, ma vogliono, esigono, pretendono. Non accettano opposizioni.
Un comportamento decisamente agli antipodi rispetto a quello di Gesù. Egli è paziente, ascolta tutti, cerca sempre di capire, di risolvere qualunque problema, di infondere coraggio e speranza nei bisognosi; quando deve comunicare cose importanti, si ripete, spiega e rispiega in maniera che tutti comprendano. E nonostante la presunzione dell’approccio, anche questa volta Egli offre ai suoi interlocutori ampia disponibilità: “Cosa volete che io faccia per voi?”.
Aveva appena finito di dire: “Vado a Gerusalemme, forse mi prenderanno; me la faranno pagare; forse mi uccideranno; ho paura ma devo andare; statemi vicino, aiutatemi”, e dai due si sente ordinare: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.
C’è proprio da rimanere sconcertati, allibiti: i due dimostrano chiaramente di non aver ascoltato per nulla le parole di Gesù, di non aver capito nulla dei suoi timori, delle sue preoccupazioni; dimostrano insomma di non essere per niente interessati del suo domani.
Ebbene, c’era di che spazientirsi, ma Gesù risponde pacatamente: “Voi non sapete ciò che domandate”. Non lo dice con disprezzo; la sua è una triste e amara constatazione. “Voi siete completamente fuori strada”. In effetti, un giorno Gesù avrà accanto a sé due persone, uno a destra e uno a sinistra, ma non appartengono al gruppetto dei suoi: sono soltanto due ladroni condannati a condividere con lui il supplizio della croce. Ma questo i figli di Zebedeo non lo sanno e non lo vogliono sapere; sono troppo concentrati nella visione politica della missione di Gesù, nonostante le sue ripetute dichiarazioni del contrario; dimostrano di essere degli illusi irrecuperabili, convinti come sono, che Gesù vada a Gerusalemme non per morire, ma per governare, comandare, dirigere il popolo: ovviamente con loro due ad occupare i posti di comando più prestigiosi, al suo fianco. Non hanno capito niente, perché non lo hanno ascoltato veramente: hanno sentito la sua voce ma non le sue parole; ne hanno solo travisato il significato.
Tant’è che quando Gesù chiede loro: “Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono stato battezzato”, cioè: “potete seguire fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, il mio destino e la mia missione?”, essi gli rispondono: “Sì, certo! lo possiamo”. Poveri illusi! Continueranno a cullarsi nei loro sogni di potenza e di gloria fino al momento dell’arresto di Gesù, quando improvvisamente si scontreranno con la realtà: “Tutti, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 14,50). La loro presunzione, le loro promesse di fedeltà assoluta e di coraggiosa condivisione dei pericoli, si dissolve in un momento come neve al fuoco.
Poi Gesù prosegue: “Si, il calice mio lo berrete... e il battesimo lo riceverete..., ma non come pensate voi. Io non sono come Voi continuate a vedermi”.
Bere il calice” era una tipica espressione ebraica che indicava la morte con il martirio. Essi pertanto accettando di berlo fino in fondo, si dichiarano pronti anche a morire per il “loro” potente Messia; ma non per un Gesù debole e indifeso.
Accortisi di quanto stava succedendo davanti a loro, dice il Vangelo, gli altri dieci discepoli si indignano con Giacomo e Giovanni; si adirano non per il modo impertinente con cui i due si sono rivolti a Gesù, ma perché stanno cercando di assicurarsi per il domani quella posizione di prestigio, cui tutti segretamente aspirano. Questa ambizione peraltro non ci deve meravigliare più di tanto, visto che fino a poco tempo prima stavano discutendo animatamente tra di loro su chi fosse “il più grande”: e purtroppo dove c’è ambizione, ci sono divisioni, contrasti, lotte, scontri.
A questo punto Gesù si rende conto che deve chiamarli nuovamente a sé; con grande pazienza deve spiegare ancora una volta il vero motivo della sua missione. Li aveva già chiamati all’inizio della sua attività missionaria: ora li deve richiamare, per far capire loro che quel “vieni e seguimi” di allora non era finalizzato ad una passeggiata in comitiva, ma comporta un radicale e continuo “cambiamento di mentalità”; comporta l’abbandono della rigidità del proprio pensare; richiede cioè di entrare dentro sé stessi, per dare un nome, il vero nome, a tutto ciò che coltiviamo nella mente e nel cuore.
Per essi, sicuramente, la prima chiamata è stata soltanto motivo di autocompiacimento: si sono cioè sentiti gratificati nella loro ambizione, nel loro desiderio umano di emergere. Gesù non li rimprovera ora per questo; ma li porta a ridimensionare drasticamente il loro “ego”, a guardare con umiltà gli eventi della vita, il loro significato reale e profondo. E spiega: “Chi vuol essere grande sia servitore, e chi primo, ultimo”. Ecco, con due sole parole, “servitore” e “ultimo” smonta tutti i loro sogni di grandezza; due parole che ben meritano una spiegazione: il “servitore” (“diàconos”) è colui che serve gli altri volontariamente e con piacere; non è costretto, ma spontaneamente si mette a disposizione del prossimo. Lo fa per amore, per passione, per condividere con i bisognosi la gioia che sente dentro di sé. “Servire” è dunque fare gratuitamente ciò che procura gioia ad altri. Essere “ultimo”, poi, (in greco “dûlos”, lo schiavo), significa conformarsi al gradino più basso della servitù. Significa in pratica non di essere “schiavi” nel senso corrente del termine, ma di considerarci comunque tali, cioè all’ultimo posto: e questo non perché siamo indegni o non valiamo niente; non perché siamo dei sottomessi senza iniziative, delle persone insignificanti: ma perché, se ci sentiamo ultimi, sappiamo che tutti gli altri sono sopra di noi, che tutti gli altri meritano onore e rispetto più di noi. Quelli invece che “sono considerati i governanti delle nazioni”, cioè quelli che stanno ai posti d’onore, non si comportano certamente così: essi si ritengono i “primi” in assoluto, considerano tutti gli altri inferiori a loro, li guardano con disprezzo, con sopportazione, con arroganza.
E Gesù conclude: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Qui Gesù parla apertamente di “riscatto”: era il “lytron”, la somma che bisognava pagare per riscattare dalla schiavitù una persona, oppure l’importo che la famiglia doveva corrispondere ai creditori per riscattarsi dai debiti, o il prezzo da liquidare ai vincitori per far rimettere in libertà i loro cari catturati in battaglia.
Gesù dunque si fa uomo come noi, per pagare con la sua vita il “lytron”, il riscatto per la vita di “molti”, per l’umanità intera. E per questo sacrifica, come sottolinea qui il testo, la sua “psyché”: mette cioè sul piatto del riscatto la sua vita, la sua “vitalità”, la sua energia, la sua forza, la sua fiducia in Dio, la sua conoscenza del Padre: in una parola, tutto quello che lui ha lo investe per liberarci, per affrancarci, per toglierci dalle nostre prigioni e dalle nostre schiavitù, per ripagare tutti i nostri debiti; è venuto su questa terra e ha speso tutta la sua vita, perché noi potessimo essere liberi, dimostrando con ciò quanto grande fosse il suo amore per noi.
Questo dunque ci insegna Gesù nel vangelo di oggi: che anche noi dobbiamo amare, servire umilmente i nostri fratelli: dobbiamo cioè mettere a loro disposizione non solo ciò che abbiamo, ma anche e soprattutto ciò che siamo. E lo dobbiamo fare con gioia, consapevoli che in questo modo saremo utili, faremo del bene; la nostra vita, ciò che siamo, diventerà la “vita” dei fratelli bisognosi: noi cioè rinasceremo in loro per diventare vita, gioia, serenità. Solo così esprimeremo totalmente le nostre potenzialità. Il nostro esserci o non esseri, per il nostro prossimo, non è la stessa cosa, poiché è la nostra presenza o la nostra assenza che determina nella loro vita un radicale cambiamento! Penso che il momento peggiore nella vita di un uomo sia quello in cui si rende conto di condurre un’esistenza inutile, un’esistenza senza ideali, senza alcun senso; una vita arida, improduttiva, senza linfa, che non serve a nulla: a che pro allora vivere una vita che non è vita? Altra cosa invece è vivere per donare, vivere per amare; vivere per far vivere gli altri, mettendo a loro disposizione l’amore, la carità del nostro cuore: sentimenti, che di volta in volta si trasformano in tenerezza, conoscenza, festa, unione, silenzio, preghiera. Come ci ha insegnato Gesù. Amen.

  

giovedì 10 ottobre 2024

13 Ottobre 2024 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 10,17-30 
Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Il vangelo di oggi racconta di un uomo. Un giovane uomo ricco; un uomo senza nome come lo sono tutti i ricchi del vangelo, va dunque da Gesù. Anzi: gli corre incontro, è molto motivato, dimostra di provare nel suo cuore un grande desiderio di conoscerlo. È alla ricerca di qualcosa che gli manca, sente che nella vita c'è un di più da raggiungere. Fosse stato felice, soddisfatto della sua vita, sicuramente non si sarebbe dato così tanto da fare, non lo avrebbe raggiunto di corsa. Ma egli sente un grande vuoto dentro di lui. E quest'uomo s'inginocchia come si faceva una volta con i personaggi illustri, con i maestri di vita: il gesto di inginocchiarsi rivela infatti la sincerità volontà di sapere, di imparare, evidenzia l'umiltà e la disponibilità dell’animo a ricevere consigli. Egli chiama Gesù “buono”, senza accorgersi che questo complimento tradisce in lui una certa “captatio benevolentiae”, il desiderio cioè di riuscirgli subito simpatico, di farsi benvolere, tanto che Gesù quasi si indispettisce: “Perché mi chiami buono?”. “Non adularmi, non farmi troppe moine, troppi complimenti gratuiti”. Gesù si schermisce di fronte a tanto entusiasmo. “Nessuno è buono, se non Dio solo”. La sua è una risposta un po’ sibillina: potrebbe essere fraintesa: non è anch'Egli Dio? mette forse in dubbio la sua bontà? No, le sue parole vanno oltre il senso immediato; egli vuole praticamente metterci in guardia dalla nostra faciloneria di dare troppo credito al primo arrivato; di affidarci acriticamente a qualunque “predicatore di verità”: “Nessuno è buono…”. In altre parole, vuole aprirci gli occhi: “non dovete prendere per oro colato tutto ciò che i vari “guru”, i vari santoni vi predicano; non dovete dipendere completamente da leader invasati, da movimenti e gruppi “speciali”, da associazioni elitarie, che propongono idee più sante del vangelo stesso. Dovete essere adulti; non comportatevi da neonati deboli e fragili, che dipendono in tutto dalla mamma. Avete un cervello, conoscete me e i miei insegnamenti, ragionate e agite di conseguenza”. 
L’uomo del vangelo esterna dunque a Gesù il suo problema: “che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”: e la risposta di Gesù è immediata: “devi semplicemente osservare i miei comandamenti, nient’altro!”. Beh, tutto qui? L’uomo si sente sollevato: sa di essere in regola, di essere osservante, è una cosa che ha sempre fatto: “Maestro tutte queste cose le ho fatte fin dalla mia giovinezza”. E non lo dice per vantarsi: è uno che parla seriamente, onestamente, con umiltà. Non si tratta di un megalomane, di uno sbruffone; è una persona che sta cercando veramente qualcosa di più, che vuole veramente placare la sua sete di vita, di vivere ad alta quota; è uno con una grande anima, e se si butta ai piedi di Gesù per avere un consiglio, per dirgli che non è soddisfatto di quanto gli altri maestri gli hanno insegnato, non lo hanno convinto nel cuore.
Gesù stesso rimane colpito da tanta determinazione: si ferma e lo fissa (il verbo greco “em-blepsas” dice letteralmente gli “penetra dentro”, lo scruta nel profondo, per sincerarsi della sua buona fede. Capisce che il brav’uomo aveva sì osservato quanto la legge gli chiedeva, ma nella sua scrupolosità non si era mai chiesto “come”, con che animo, con quale spirito l’avesse fatto! 
E Gesù, nella sua infinita misericordia, “lo amò”: non perché fosse stato bravo, non perché fosse stato veramente osservante e avesse agito con rettitudine, ma “lo amò”, lo sentì vicino al suo cuore, perché capì che il poveretto non aveva capito l’essenziale, era uno sprovveduto, uno che nella sua vita aveva sbagliato tutto anteponendo una sterile osservanza dei regolamenti ad un comportamento basato sulla carità e l’amore. “Lo amò” per dimostrargli che quanto gli avrebbe chiesto subito dopo, richiedeva certamente un’osservanza dei comandamenti altrettanto scrupolosa, ma fatta questa volta con uno spirito completamente diverso; “lo amò”, perché capì di avere davanti a sé un poveretto che viveva auto compiacendosi dei suoi meriti, dei suoi “credo”, delle sue impostazioni di vita, tutte cose però che, fatte come lui le faceva, non riuscivano a trasmettergli gioia, serenità, soddisfazione interiore.
E proprio perché lo ama, Gesù gli offre la possibilità di abbandonare queste sue aspirazioni “esteriori”, dedicandosi ad un totale profondo servizio di Dio.
Una cosa sola ti manca”, gli risponde infatti Gesù. Parole che la versione italiana non rende il vero significato del testo greco, che letteralmente dice: “L’uno ti manca” (en se usteréi)”, che ha un senso più profondo; se infatti noi diciamo: “Ti manca soltanto una cosa”, la frase acquista un valore positivo, come se Gesù gli facesse un complimento: “Sei davvero bravo! Fai un altro piccolo sforzo e ci sei!”. Ma non è così! Le parole di Gesù, in realtà, riprendono un modo di dire del mondo ebraico: ad uno che immeritatamente si vanta di una certa quantità, per esempio 10, 100, 1000, la risposta che veniva data era appunto “ti manca l’uno”; in effetti se si toglie l’uno (l’unità iniziale), l’importo che rimane è “nulla”, rimangono solo tanti “zero”; un risultato assolutamente negativo. Per cui Gesù dicendo: “Ti manca l’uno”, è come se dicesse: “Ti manca tutto; tu pensi di avere meritato tanto con il tuo comportamento, ti sei anche impegnato, ma l’hai fatto solo superficialmente, per apparire, per abitudine, perché cosi fanno gli altri; non hai operato con lo spirito giusto e pertanto non ti ritrovi nulla. Quindi, se vuoi veramente meritare la vita eterna: Va', vendi quello che hai, e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”.
Un presupposto perentorio, drastico, sconvolgente. Una doccia fredda per il nostro uomo, che rimane sconcertato, perplesso, sorpreso. Non se l’aspettava proprio: se Gesù si fosse fermato a qualcosa di ragionevole, di attuabile, certo, egli era prontissimo a fare quell’uno di più che gli mancava. Ma quando gli viene imposto di spogliarsi di tutti i suoi averi, di dare un taglio netto al suo presente, di fare un salto nel vuoto, decisivo e senza ritorno, lui che era molto ricco, non se la sente, rinuncia: si gira, e senza proferir parola, si allontana triste.
Ma perché Gesù è tanto severo ed esigente, pur amando quell’uomo? Perché questo è l'amore del Maestro. È l’amore speciale con cui Egli tratta i suoi seguaci, quelli che vogliono seguirlo senza voltarsi indietro, quelli che lavorano tutto il giorno nella sua vigna sopportando la fatica e il caldo torrido del giorno, senza avanzare alcuna pretesa. Gesù scorge le potenzialità che questi discepoli hanno dentro, e li chiama non a divertirsi, ma a prestare un faticoso servizio; Egli “vocat eos”, li “convoca” uno per uno; li ama dando loro la grazia speciale della “vocazione”: “Tu hai qualcosa di grande, di speciale, dice ad ognuno. Abbi fiducia in ciò che senti dentro. Tu puoi volare molto in alto, non accontentarti di strisciare per terra; rischia, buttati, segui di slancio ciò che io ti suggerisco, lascia il facile, scegli il difficile, entra tra i “chiamati” a lavorare esclusivamente per me, vivi nel mio amore e il mio amore ti trasformerà”.
Non si tratta quindi per Gesù di essere troppo esigente con quel poveretto: è un invito che ripete continuamente a tutti, anche a noi: chiaramente non intende certo obbligare nessuno a “vendere” tutti i beni materiali, a disfarsi di ogni possibile ricchezza: qui Egli allude ad un altro genere di “ricchezze”, altrettanto umanamente ambite, ma che finiscono per schiavizzarci, per inibire qualunque nostro tentativo di andare verso di Lui: come l’attaccamento morboso alle cose di questo mondo, al nostro egoismo, al nostro orgoglio, alla nostra mentalità deviata, alla doppiezza, alla falsità, alla lussuria, e via dicendo.
Una prospettiva sicuramente difficile, ma non impossibile: un invito soprattutto che non giustifica alcun rifiuto da parte nostra. Purtroppo però anche noi, come l’uomo del vangelo, gli giriamo le spalle; ce ne andiamo tristi: certo, ci rendiamo conto di sbagliare, ma giudichiamo le sue condizioni troppo pesanti, rischiose, difficili; la paura, l’indolenza, lo sgomento ci frenano: un conto è camminare tranquillamente, senza farci mancare nulla, magari cercando anche di migliorarci, di fare le cose per bene, un altro è invece dover fare un salto di qualità impegnativo e traumatico.
Gesù aveva visto qualcosa di grande in noi, aveva fatto dei progetti su di noi. Per questo ci ha offerto la possibilità di seguirlo: ci ha chiamati nella sua Chiesa, ci ha fatto dono dei suoi Sacramenti, riempiendoci di infinite e preziose ricchezze spirituali. Noi abbiamo inizialmente aderito con entusiasmo al suo appello, ma poi non abbiamo avuto il coraggio di alzare le vele e di “prendere il largo”. Più che a Gesù abbiamo detto “no” a noi stessi: ci siamo accontentati dei nostri traguardi mediocri e infruttuosi. Potevamo vivere al suo fianco alla grande; potevamo vivere esprimendoci “divinamente”; potevamo volare ad alta quota, ma per paura, per ignavia, per pigrizia abbiamo scelto di camminare nel fango, nella polvere. Una scelta infelice che ci condizionerà tutta la vita. Una spina costante che ci logorerà l’anima. Potevamo essere aquile, seguire il richiamo del cielo, librarci liberi verso il sole, raggiungere le più alte vette immacolate; abbiamo invece preferito il basso profilo della volpe, muoverci guardinghi tra le sterpaglie, ammirare il cielo da lontano, rimanendo nascosti per paura negli anfratti di boschi impenetrabili.
Purtroppo ci sono cristiani che pensano ancora di garantirsi il Regno di Dio facendo beneficenza, facendo offerte alla Chiesa, partecipando a manifestazioni religiose, facendo tante buone azioni, tante preghiere, conducendo una vita “onesta”: un po' come sono soliti fare con la raccolta dei “bollini” al supermercato o dal benzinaio: se raggiungono un certo punteggio, se riempiono tutte le caselle vuote della tessera, hanno “diritto” al premio. Semplice ed elementare. Ma con Gesù non funziona così: il Regno dei cieli non è e non sarà mai un diritto, ma va meritato proprio spogliandoci completamente delle nostre “ricchezze”, del nostro “io”; perché, dice Gesù, per quanti sono “attaccati”, legati”, alle loro inutili “abitudini”, al loro mondo, ai loro amici, alle loro feste, alle loro idee, al loro egoismo, non solo è difficile, ma addirittura impossibile; infatti: “È più facile che un cammello passi per la cruna di una ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Ora, ammettendo pure che gli antichi copiatori dei testi sacri abbiano erroneamente trascritto il termine originale “kàmilos” (=cavo), oppure kàlôs” (=gomena, la grossa fune, con cui si ormeggiano le navi), sostituendolo con l'inverosimile “kàmêlos” (=cammello), la forza dell’iperbole di Gesù rimane comunque identica: per chi è “ricco” di mondanità entrare nel regno di Dio è assolutamente impossibile, esattamente come è impossibile che una “gomena”, un grosso “cavo”, oppure addirittura un “cammello”, passino per la cruna di un ago. La risposta di Gesù è in ogni caso categorica, le sue argomentazioni sono sempre chiare e inoppugnabili.
Del resto un attaccamento smodato alla mentalità di questo mondo, non solo non ci salva, ma non ci fa neppure vivere; perché diventa una autentica schiavitù dello spirito, in grado di inibire ogni nostra positiva iniziativa. Diventiamo cioè succubi del pensiero dominante di una società ormai atea, dei suoi costumi, delle sue ideologie, delle sue prevaricazioni, delle sue insanabili anomalie.  
Ci sono persone che nella loro vita passano spasmodicamente da una “ricchezza” all'altra: abitazioni sontuose, automobili fuori serie, impieghi esclusivi, posizioni prestigiose, compagnie sempre più disponibili e disinibite. Inseguono, passo dopo passo, traguardi ambitissimi ma effimeri, instabili, transitori: sperperano insomma la loro vita nel rincorrere un qualcosa di logorante, che in prospettiva si rivelerà completamente inutile, non assicurerà nulla, non darà mai alcuna felicità duratura.  
Cerchiamo allora di non farci mai fagocitare da questo demone del “possesso”: perché solo se resisteremo nella nostra umile “povertà” al seguito di Gesù, potremo un giorno ottenere la Pace, la Felicità, l’Amore autentico: e raggiungeremo la totale simbiosi con Lui, quella che non avrà mai fine. Amen.

 

giovedì 3 ottobre 2024

06 Ottobre 2024 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 10,2-16 
Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

La gente corre da Gesù perché sente che le sue sono parole giuste e toccano nel profondo il loro cuore; corre da lui perché percepisce che tutto quanto dice è verità: e questo, per i capi, è pericoloso, perché se la gente ascolta Gesù, se lo segue, automaticamente si allontana dalla Legge che essi rappresentano.
A questo punto i sapienti farisei vanno da lui con l’intenzione di sconfessarlo: vogliono metterlo in difficoltà, e per questo gli tendono un vero e proprio tranello: “È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?”. Una domanda apparentemente semplice e innocua, ma che in realtà rivela il loro gioco “sporco”, poiché qualunque risposta Gesù avesse dato, lo avrebbe comunque compromesso: se favorevole al ripudio e alla legge mosaica, avrebbe ottenuto il consenso della folla e dei farisei, ma avrebbe rinnegato se stesso e gli insegnamenti dati nel discorso della montagna (Mt 5,31-32); se invece si fosse dichiarato contro il ripudio, e quindi contro la Legge di Mosè che lo permetteva, avrebbe contribuito ad aumentare le ostilità nei suoi confronti da parte di Erode e dei caporioni ebrei.
Gesù quindi la prende sapientemente alla lontana. Inizia col dire: “Che cosa vi ha detto Mosè?”. E loro sicuri: “Mosè ce l’ha permesso!”. “È vero”, replica Gesù; solo che “Mosè ve l’ha permesso non perché lui lo ritenesse positivo, ma l’ha dovuto permettere a causa della durezza del vostro cuore” (Mc 10,5). Che significa: “È vero che la legge permette il ripudio, ma Mosè, pur sapendo che esso non rientrava nel progetto iniziale di Dio, ve l’ha concesso esclusivamente per rimediare alla crudeltà ed ai trattamenti disumani che voi riservate alle donne; lo ha fatto, quindi, non perché il ripudio fosse una cosa buona e lecita, ma perché tutto sommato è il male minore. Tutto è riconducibile infatti alla vostra “durezza di cuore”, alla vostra totale insensibilità: a quella “depravazione del cuore”, per punire la quale Jahweh impedì l’ingresso nella terra promessa a ben seicentomila ebrei” (Sir 16,9-20).
Dio la considera una perversione molto grave: perché in sostanza è la mancanza totale di cuore, di amore; è l’irrigidimento, la sclerotizzazione, la pietrificazione, di ogni sentimento; una situazione di fronte alla quale Dio stesso non può fare nulla.
In sostanza Gesù volutamente non si esprime; al contrario prosegue il suo discorso rifacendosi al fine originale e profondo dell’esistenza umana: “All’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due ma una sola carne”.
Sono parole davvero rivoluzionarie per quel tempo: riconosce cioè pari dignità e diritti alle donne, ponendole sullo stesso piano del maschio. Pronunciate poi subito dopo il tentativo dei farisei di metterlo alla prova, di sconfessarlo, sono parole profonde, pesanti, programmatiche, che meritano anche una nostra più attenta lettura.
Prima di tutto Gesù non dice qui che i due sposi “saranno un’unica cosa”: perché se così fosse, se le due persone semplicemente si fondessero insieme come se fossero due pezzi di “creta”, per diventarne “uno solo”, è evidente che nella fusione una delle due scomparirebbe, verrebbe assemblata, annullata soffocata, nell’altra. Una “carne sola” (in ebraico “basar ehad”, cioè una carne “unita”) indica invece la completezza di una unione, una unione “totale” che raggiunge il “livello creativo” di Dio, che trascende di molto quello semplicemente materiale. Se i due non trovano questa unione profonda, significa che tra loro non c’è un vero rapporto, non c’è “legame”, non c’è quell’amore autentico, quell’incontro profondo tra i due, maschio e femmina, contemplato nel progetto iniziale di Dio.
“Essere uno”, “essere una sola carne”, non vuol dire “uni-formarsi” uno all’altro, nel senso di compiere le stesse cose, di fare le identiche scelte e per questo inibire la propria personalità; l’unione vera è tutt’altro, è “com-unione”, alleanza con l’altro; è vera “compenetrazione” di corpi, di sentimenti, di cuore: è l'unione totale di “due persone”. Perché solo così, maschio e femmina “uniti”, potranno realizzare, completare, dare un senso al naturale progetto umano di vita.
Che è anche il progetto di Dio. Tant’è che nei due ogni elemento è predisposto anche morfologicamente a questa unione, a questa integrazione, in modo da eliminare automaticamente qualunque sostituzione fantasiosa di genere, qualunque confusione di ruolo e di immagine: il maschio deve essere “maschio”, la femmina deve essere “femmina”. Solo così c’è una famiglia: ognuno con un suo ruolo insostituibile ma complementare, secondo le leggi immutabili iscritte nella natura umana.
Così per esempio nell’educazione dei figli: il papà non può essere la mamma e la mamma non può essere il papà. È quindi assurdo ipotizzare una “famiglia” con due “genitori” dello stesso sesso. La donna, nella famiglia, è colei che “c’è”, colei che è sempre presente, che avvolge, che custodisce, che ama, che protegge. L’uomo è invece colui che “fa”, colui che costruisce, che ha il compito di mettere il figlio davanti alle proprie decisioni, alle proprie responsabilità, alla gestione della propria libertà. Il padre inserisce il figlio nella società e lo costringe a confrontarsi con gli altri suoi pari; gli insegna le regole, il confronto, il rispetto per gli altri.
Sono ruoli diversi che richiedono entità diverse. Ecco perché in casa, in famiglia, non possono esserci confusioni: né due papà né due mamme; ecco perché il riconoscimento legale in questo senso, sostenuto oggi anche da molti cristiani e cattolici, è puro squilibrio, coercizione della natura, incoscienza; è un “accostamento” di due entità uguali, mai una loro “unione”.
Inutile girarci intorno: il papà è il papà e la mamma è la mamma: nessun surrogato, nessun miscuglio contro natura, perché la differenza c’è, eccome!
Questa è l’unione che, come dice Gesù, l’uomo non deve “separare”: perché questa appartiene al progetto iniziale di Dio.
Se l’uomo separa il rapporto fisico, la propria soddisfazione sessuale e ideologica, dall’amore oblativo, dalla condivisione più profonda dei sentimenti, dalla stima, dalla comprensione, dal valore della fedeltà, dal progetto di procreare nuove vite, se altera insomma queste componenti essenziali dell’unione maschio e femmina, allora i due individui staranno anche insieme, ma non saranno mai “uno”, non saranno mai “uniti”; il loro innaturale e sterile progetto di vita contiene già “in nuce” una loro insanabile “divisione”, è cioè già minato in partenza da un mortale divorzio mentale. Perché se vengono a mancare questi elementi, tutto il castello umano crolla, tutto viene meno, non esiste più alcuna base su cui costruire: ci sarà solo uno “stare insieme” sterile, posticcio, vuoto, spiritualmente squallido, senza contenuti vitali.
Allora, contrariamente ai farisei che si preoccupavano soltanto di conoscere se c’erano motivi leciti per ripudiare la moglie, gli sposi cristiani devono lavorare continuamente sulla loro unione matrimoniale, devono costruirla, fortificarla, difenderla, in modo che il loro amore, curato e perfezionato, assomigli sempre più a quello vero, a quello di Dio, al suo Amore ineffabile.
L’amore di due creature, sinceramente dato e ricevuto, è meraviglioso! Vivere questo amore riempie il loro cuore, la loro vita, fa vibrare la loro anima; per amore sono pronti a rischiare tutto, a cambiare radicalmente l’esistenza, le proprie vedute, le proprie convinzioni; perché amare veramente significa lasciarsi travolgere da una spirale magnetica, potente, inarrestabile, che li attrae trasformandoli in una sola “unica carne”.
In questa nostra società mondana e trasgressiva dobbiamo essere convinti che l’amore vero esiste ancora: molti purtroppo lo ritengono impossibile, superato, e ricorrono a surrogati, si accontentano di compromessi. No: non solo è ancora possibile amare ed essere riamati veramente, ma è soprattutto possibile imparare ad amare sempre più e sempre meglio, come Gesù ci ha insegnato.
Il suo concetto di “amore” infatti necessita di un esercizio permanente: non è un dono, non cade spontaneamente dal cielo, ma deve essere quotidianamente conquistato, perfezionato, cresciuto, accudito, fortificato. Bisogna soprattutto imparare a riconoscerlo e a distinguerlo da quello illusorio e falso, da quell’amore che oggi, apertamente camuffato, viene contrabbandato da una mentalità deviata come genuino, lecito, decisamente intrigante.
Il vangelo di oggi infine ci porta ad un’ultima riflessione: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”.
Dopo la catechesi sul matrimonio, il testo introduce dunque il tema dei bambini.
Forse è un caso, o forse no, ma l’aver inserito a questo punto il discorso su di essi, acquista un significato molto particolare: perché quando la simbiosi marito-moglie si spezza, sono sempre i frutti della loro unione, i figli, i bambini, a subirne le più drammatiche conseguenze.
Checché ne dicano gli esperti, sono essi che subiscono un trauma interiore difficilmente superabile: perché, nonostante le assicurazioni, nonostante le dimostrazioni d’affetto, essi si sentiranno sempre e comunque rifiutati, messi da parte, tagliati via, estirpati dal loro habitat naturale che è la famiglia, da una vita in comune col loro padre e la loro madre.
I bambini sono l’immagine emblematica della fiducia, della speranza, del bisogno di accoglienza, del potersi gettare tra le braccia materne e paterne, le uniche in grado di offrire loro attenzioni incondizionate, sicurezza, tranquillità, perdono, misericordia, dolcezza, amore vero. E Gesù ne approfitta per indicarceli come esempio da seguire, come innocenza da riconquistare.
Ridiventiamo allora anche noi come bambini: rifugiamoci anche noi, come loro, tra le braccia del nostro Padre celeste. Con Lui, ancorché “adulti” peccatori, disincantati e scettici, provati dalla vita, sofferenti, stanchi, delusi, non dobbiamo temere più nulla; con Lui saremo a casa, saremo accettati per quello che siamo, purificati dalle nostre miserie.
Lui ci aspetta con le braccia spalancate. Braccia che danno Vita, le sue; braccia che proteggono, che danno sicurezza, perdono, che allontanano ogni pericolo, ogni male, ogni nemico; braccia sempre pronte a sorreggere la nostra umana debolezza, a farci rialzare dalle nostre cadute; braccia tra le quali un giorno potremo trovare la Pace senza fine, la gioia dell’Amore eterno. Amen.