giovedì 19 settembre 2024

22 Settembre 2024 – XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 9,30-37 
Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafarnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Gesù chiede nuovamente ai suoi la riservatezza nei suoi confronti: non vuole che la gente sappia della sua presenza. Egli vuole, prima del precipitare degli eventi, concentrarsi su di loro, per formarli, istruirli; per questo ha bisogno di tempo e di tranquillità.
Compattare un gruppo, una squadra, è decisivo per compiere qualunque impresa: se non si dispone di una buona squadra, si può essere bravi quanto si vuole ma non si va da nessuna parte. E Gesù lo sa. Egli sa benissimo che da solo il suo messaggio non potrebbe continuare. Per questo forma un gruppo di volontari, di appassionati, di gente libera, di gente che lo segue perché coinvolta, “presa”, entusiasta: e ad esso Egli dedica tempo e formazione, perché saranno loro che lo aiuteranno e che poi continueranno la sua missione.
Gesù dunque parla agli apostoli e dice loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” (Mc. 9,31).
Abbiamo già sentito domenica scorsa (Mc 8,27-35) un annuncio analogo: ma questa volta è un po’ diverso: se nel primo Gesù indica come autori della sua passione e morte le autorità religiose, tutta gente ebrea, qui parla più in generale di “uomini”. È l’umanità intera quindi che si rifiuta di accettare quella vera umanità che il Figlio dell’uomo è venuto a portare su questa terra, un’umanità che è solidarietà, perdono, amore, tenerezza, compassione, servizio, non violenza.
“Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione” (Mc. 9,32). Non chiedono perché hanno paura dei chiarimenti, preferiscono non capire perché intuiscono che la novità degli insegnamenti del Maestro, del suo Vangelo, è completamente diversa dalla loro, da quella che essi intendono. Essi pensano ad una grande nazione, con a capo Gesù; ad un forte esercito, magari proprio sotto la loro guida, con armi e potere. Essi vedono in Gesù il nuovo Davide che restaurerà l’antico regno. Ma Gesù non è nulla di tutto questo. Lui è il “Figlio dell’uomo”.
Giunti a Cafarnao Gesù chiede loro: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?” (Mc 9,33). È chiaro che non hanno voluto coinvolgere Gesù nel loro parlottio. Camminava insieme a loro, ma essi lo hanno volutamente escluso dai loro discorsi: come mai? Perché, annotazione molto bella di Marco, essi stavano discutendo su chi sarebbe stato “il più grande” nel nuovo regno di Gesù. Ancora una volta dimostrano di non aver capito nulla delle sue spiegazioni. Sono completamente “fuori”.
Gesù, che pensa sempre in positivo, finge di interpretare il loro parlottio come un semplice scambio di opinioni, di amichevoli riflessioni su qualcosa di interessante, di profondo: nella sua domanda infatti Marco gli fa usare il verbo “dialoghìzomai”, che indica appunto un conversare pacifico, tranquillo; quando invece la loro era stata una vera e propria discussione, una disputa, un autentico “dialalèo”; in questo modo egli vuol evidenziare i due modi diversi di affrontare il discorso: Gesù è mosso dall’amore, e con amore si rivolge a loro; i discepoli invece nei loro discorsi dimostrano tutta la loro ambizione, la voglia di successo, un desiderio smodato di gloria mondana. Una differenza abissale di mentalità, che essi, colti in fallo, dimostrano di avere in parte percepito, per cui, dice il vangelo, non rispondono: “essi tacevano” (Mc 9,34). Il loro è il classico silenzio dell’imbarazzo, l’ammutolirsi di chi capisce improvvisamente di trovarsi sul versante opposto.
A questo punto Gesù, che conosceva bene la situazione, avrebbe potuto arrabbiarsi sul serio: “Siete dei testoni irrecuperabili, possibile che vi ostiniate ancora a non voler capire?”. Invece si siede, e pazientemente riparte dall’inizio, offrendo loro una nuova opportunità. Ben diverso da noi, che di fronte ad una contrarietà scattiamo immediatamente: Lui sa che tutto si impara con calma e con grande pazienza.
E a scanso di ulteriori equivoci, spiega: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti” (Mc 9,35). Parole chiarissime, che vanno ben oltre la loro discussione: essi infatti avevano litigato su chi sarebbe stato il “più grande”, Gesù invece stabilisce il comportamento di chi vuol essere il “primo”: due prospettive diverse, perché mentre per gli apostoli “il più grande” è in assoluto uno che è “più” degli altri, per Gesù essere il “primo” non comporta l’essere “più” di nessuno: se per la discussione dei discepoli uno solo può diventare il “più grande”, per lui, al contrario, tutti, discepoli e non, possono essere i “primi”; ma come? diventando “servi” degli altri. E qui dobbiamo fare attenzione alle parole: Gesù parla volutamente di “servo”, non di “schiavo”: il termine usato è “diàconos”, non “doulos”: quindi una differenza sostanziale, un approccio completamente diverso, perché mentre il “diacono” si mette spontaneamente a servizio degli altri, in maniera libera e volontaria, lo “schiavo” no: lui fa le cose solo perché è costretto a farle.
Essere “servo” dei fratelli, quindi, comporta un atteggiamento sinceramente propositivo, vuol dire in pratica non considerarci superiori a loro, non disprezzarli, non fagocitarli, non dominarli, non discriminarli. Vuol dire trattarli come trattiamo noi stessi, con la stessa cura, con la stessa sollecitudine, con lo stesso entusiasmo: ben consapevoli che nessuno è inferiore a noi, e che noi non siamo superiori a nessuno.
L’essere “servi”, pertanto, esclude anche ogni forma di servilismo, contrariamente a come talvolta ci hanno fatto credere: esclude cioè l’annullamento di noi stessi, della nostra dignità, l’umiliarci, l’esaurirci fino quasi a morire per “servire” gli altri; non vuol dire obbedire sempre e comunque passivamente, stare sempre zitti, essere accondiscendenti sempre, in qualunque caso, soprattutto quando non dovremmo, quando la coscienza ci impone di fare chiarezza per il bene di altri. Insomma non si deve accettare di essere considerati persone inutili, degli zerbini da calpestare: si cadrebbe in una forma di spiritualità esasperata, inutile, dannosa. Significherebbe non considerare la grande dignità che Dio ha riconosciuto a ciascuno di noi, in quanto opera delle sue mani.
E che fa Gesù a questo punto? Prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia.
Ma perché un bambino? Per la nostra cultura il bambino è il simbolo della tenerezza, dell’amore, della vulnerabilità, una creatura importante da difendere e da accudire. Ma ai tempi di Gesù un bambino non era nessuno, non contava nulla, non aveva alcuna autorità, non aveva voce su nulla. Era come se non esistesse. “È così che dovete comportarvi, dice Gesù: dovete essere tutti come dei bambini!”. Che non vuol dire essere “infantili”, ma sentirsi come loro, essere cioè come loro incapaci di dominare gli altri, incapaci di usare forza e potere nei confronti degli altri; tant’è che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me e Colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). In altre parole, sottolinea Gesù, “dovete essere come me, dovete imitare me, uomo mite e umile, che pur avendo potere, mi sono comportato come se non l’avessi”.
Il “vero potere” è quindi “non avere potere”. Il vero potere è l’amore: perché l’amore, come il bambino, non ha potere. Se avesse potere, non sarebbe più amore, ma autorità, dominio, supremazia: dominerebbe gli altri, li terrebbe in pugno, sottomessi, li manipolerebbe.
Il potere, a differenza dell’amore, ignora gli altri, non si relaziona con loro, impedisce loro di conoscere la verità, di conoscere cosa pensiamo, cosa decidiamo, come viviamo; manipola, seduce, minaccia, vuole avere sempre ragione. Il potere tende solo a distruggere gli altri; l’amore al contrario li valorizza, li sostiene, previene i loro bisogni, asciuga le loro lacrime, condivide le loro gioie.
C’è un solo modo di esercitare positivamente il potere, esercitandolo unicamente su noi stessi: per migliorare le nostre virtù, per superare le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino spirituale, per fare della nostra vita un canale di grazia; per raggiungere insomma l’amore vero di Gesù, l’unico amore che dà pace e pienezza, l’unico amore che ama senza alcuna costrizione. In tal caso non impegnare il nostro potere per questo, equivale solo a comportarci esattamente come quei discepoli, ottusi e ostinati, che cercavano alibi, deleghe e giustificazioni inutili. Amen.

  

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