giovedì 12 settembre 2024

15 Settembre 2024 – XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 8,27-35 
Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

Il viaggio verso Gerusalemme è iniziato, e durante il cammino che lo porta nei villaggi intorno a Cesarea di Filippo, Gesù parla con i suoi discepoli. Egli Sa di essere “qualcuno” per la gente; sa di essere sulla bocca di moltissime persone; sa che in giro si parla molto di lui; è naturale quindi che il discorso cada sulla sua persona, sull’opinione che la gente ha di lui.
Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”
Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Ora, se per gli scribi, per i capi del Tempio, per i farisei, Gesù è un demonio, un belzebù, un “posseduto”, per le persone umili che lo hanno avvicinato, è un profeta, un uomo buono, uno “in gamba”. Non sanno bene chi egli sia, ma per loro è decisamente un personaggio carismatico; anche se non hanno capito la grande novità della sua missione, lo considerano comunque uno all’altezza dei grandi profeti.
Ma Gesù non si accontenta delle chiacchiere, vuole andare più a fondo, vuol sapere quello che “loro” pensano di lui, se almeno loro lo hanno veramente capito, e riformula la domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”. Essi infatti erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli; ad essi egli aveva più volte parlato di sé e della sua missione. Ora vuole una verifica.
Prontamente interviene “o Petròs”, il Pietro: Marco, quando lo chiama così, con l’articolo, lo fa per evidenziare la sua testardaggine, la sua ottusità; quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, l’innamorato di Gesù, lo chiama con entrambi i suoi nomi: “Simon Pietro” è pertanto l’apostolo che ama, che crede, anche se la sua fede non è ancora perfetta, se è ancora dubbiosa; “il Pietro” invece, è la pietra, l’ostinato, colui che vuole imporre a tutti le sue idee, e quindi è ostile, contrario, anche con Gesù.
Da notare che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è lui che prende la parola, parla e sentenzia per tutti. Si fa portavoce del pensiero altrui, considerandolo a priori condiviso con il suo.
Egli dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29).Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: entrambi vogliono dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una considerazione: Pietro doveva sapere perfettamente che il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gente comune, con il popolino, con gli emarginati. Ora, gli era successo di vedere Gesù accompagnarsi normalmente con questa gente? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana, quando invece il Messia avrebbe dovuto combatterli e distruggerli i pagani? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Ebbene, nonostante tutto ciò Pietro non aveva capito: egli era stato testimone di queste cose, aveva visto con i suoi occhi le fondamentali diversità tra come doveva essere il Messia biblico e come si comportava Gesù, senza che neppure un minimo dubbio si insinuasse nella sua mente. Egli infatti aveva sì guardato tutto con gli occhi, ma non con quelli del cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere bene quando invece si è ciechi.
Alla domanda di Gesù, dunque, Pietro gli attribuisce letteralmente l’appellativo tradizionale del Messia ebraico (l’unto, il Cristo), dimostrando chiaramente in questo modo di non conoscerlo, di non saper spiegare chi egli fosse realmente. Per Pietro il Cristo, il Messia, rimane colui che divide i buoni dai cattivi, gli ebrei dai non ebrei, i meritevoli dai non meritevoli: ma un Messia così è totalmente l’opposto di Gesù, il Figlio di Dio che insegna e pratica l’amore per tutti.
Egli infatti continua a definirsi semplicemente il “Figlio dell’Uomo”, non il Cristo, non il Messia.
Ma cosa vuol dire Gesù di sé stesso con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. Un’espressione sconvolgente. Gesù, Figlio di Dio, lui stesso Dio, non si identifica come il Cristo, il Messia, l’unto delle Scritture, ma semplicemente come “uomo”, “un figlio d’Uomo”.
Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, completamente umano”. Noi pensiamo che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, “in-umani”. Ma qual è invece il “modello di Dio” che Gesù personalmente ci ha documentato? Forse il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo ferito (Lc 10,29-37). L’essere “divini” pertanto non è assolutamente proporzionale a quanto noi preghiamo, ma a quanto sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai un Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo un Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, che non sono assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che tu possa immaginare”.
In pratica quindi non ci limiteremo a spiegare ai nostri fratelli quant’è bello, quant’è appagante il Cielo; ma insegneremo loro come lo possono raggiungere agevolmente con le loro ali, per goderlo all’infinito. Non esibirsi in grandi disquisizioni teologiche, dunque, ma praticare umilmente la carità: questo è l’amore vero, autentico.
Per molte persone amare significa invece possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché sei come me, pensi come me, ti comporti esattamente come me; ti amo perché stai con me, sei legato a me, mi riami e sei d’accordo in tutto con me”. Ma questo non è l’amore: l’amore è volere sinceramente il bene, il meglio per l’altro, chiunque egli sia, qualunque sia il suo pensiero.
Dopo la dichiarazione di Pietro, Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità, una “imitazione” di Cristo, molto rigida e impegnativa. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio soltanto per espiare i nostri peccati, soffrendo in maniera disumana. Nella sua opera redentrice sono state messe in risalto soprattutto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso atto d’amore di un Padre che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per restituire all’uomo la sua originale dignità; lo stesso amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità a noi, come unico esempio di Vita.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? I “tre giorni” vanno interpretati con la cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a decomporsi e a perdere i suoi tratti fisionomici, sopraggiungeva la morte, definitivamente, senza speranza. Lazzaro di Betania infatti era morto già da quattro giorni all’arrivo di Gesù (Gv 11,39): da qui il disappunto dei parenti per il suo ritardo.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il patibolo, legati alla vita terrena di Gesù, non hanno più alcun potere su di lui. Egli poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma in quanto Vita, una volta morto avrebbe vinto Lui, perché la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù non ha bisogno di tempo per risorgere: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da notare l’osservazione di Marco: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti ma cerca di isolare Gesù per impedire che gli altri sentano i loro discorsi e si scandalizzino: “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu! Qui ti sbagli!”. Egli dimostra qui tutta la sua ostinazione, la sicurezza di un presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu, caro Gesù, che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde a tono, rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che non riesce ad andare oltre il pensiero degli uomini! Sei semplicemente come Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario per definizione, colui che in tribunale rappresenta l’accusa; qui Pietro è un satana perché si oppone a Gesù, ai suoi piani di salvezza, gli sbarra la strada, lo vuole costringere a sottomettersi alla sua volontà. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”; doveva cioè rispettare esattamente l’ordine datogli al momento della chiamata: “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù, non il contrario.
Quindi rivolto ai discepoli e alla folla dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Un invito che in passato veniva posto a giustificazione di una spiritualità basata sulla sofferenza, per la quale seguire Gesù significava esaurirsi, distruggersi, punirsi, rinunciare a qualunque soddisfazione (“rinnegare sé stessi”) e quindi soffrire. Più si amava la sofferenza, più si amava la propria “croce”, più si era votati alla santità. Quindi per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose belle e gratificanti della vita: ricchezze, comodità, divertimenti, viaggi, spettacoli, amore, coccole; bisognava rinunciare all’affermazione della propria personalità, annientare qualunque rigurgito di orgoglio, autodistruggersi, procedere con lo sguardo rivolto costantemente al suolo, consapevoli della propria nullità.
Ma questa non è la strada indicata da Gesù, non sta qui il Dio da seguire: il Dio da imitare, da raggiungere, è il Dio dell’uomo realizzato, dell’uomo nella pienezza della sua personalità, è il Dio della vita, della festa, della gioia, della felicità umana, dell’amore: Egli è venuto non per deprimere questa umanità, già così tanto caduta in basso, ma per esaltarla, per guarirla, per espanderla spiritualmente, per fortificarla.
Ma cosa significa allora “rinnegare sé stessi?”. Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù soltanto la possibilità di conquistare potere, prestigio, forza, autorità, benessere personale.
È il momento che prima o poi arriva puntualmente per tutti: una volta incontrato Gesù sulla propria strada, una volta trovata la Vita, trovato Colui che ci riempie l’anima, dobbiamo decidere se accettare il suo invito speciale, se seguirlo oppure no, valutando dubbi, paure, tornaconti umani, progetti di vita; perché una volta deciso, non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo avere il coraggio di trasformare il nostro “destino” in una scelta di vita ben ponderata, matura, libera. Sono infatti le decisioni ferme, convinte, sofferte, che determinano la qualità della nostra vita. È il nostro decidere che ne inizia la formazione, la realizzazione passo dopo passo: perché siamo convinti che quella, e null’altra, è la “nostra” strada. Soprattutto per la “vita consacrata” (preti, frati, suore) scegliere un percorso così impegnativo, voler seguire una “vocazione” così vincolante e selettiva, senza una scelta ponderata, una decisione consapevole, convinta, significa votarsi ad un fallimento assicurato; significa procedere trascinandosi ai margini della vita. “Pretendere” poi un sovvertimento del Vangelo per poter tornare sui propri passi, sconfessare la propria decisione, tradire la bellezza di una scelta iniziale entusiasmante, è sinonimo di insipienza, di immaturità, di caducità mentale.
Del resto, qualunque decisione implica sempre una rinuncia; la vita ci prospetta una vasta gamma di possibilità, alle quali dobbiamo in gran parte rinunciare. Non possiamo fare tutto, e quindi dobbiamo accantonare ciò che riteniamo superfluo, non importante, vitale, e scegliere ciò che invece giudichiamo essenziale, ciò per cui merita veramente di vivere.
Per trovare la Vita vera, dobbiamo perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguire Gesù, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). In altre parole, per vivere il nuovo dobbiamo lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo lasciare quella falsa. Amen! 

giovedì 5 settembre 2024

08 Settembre 2024 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 7,31-37 
Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Dopo aver constatato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica scorsa, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Per cui, di fronte ai meschini attacchi dei “prescelti”, Gesù cambia territorio, si trasferisce in terra pagana, a Tiro e Sidone. 
Ed è proprio qui, lontano dalla popolazione eletta, che Egli incontra una fede esemplare.
Un fenomeno abbastanza comune anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: mentre la religione infatti può essere professata anche solo mediante pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore, la fede assolutamente no! La fede è quella profonda convinzione interiore che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
Dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna pagana “siro-fenicia”; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola ad un sordomuto.
È lui, dunque, il beneficiario della bontà divina di cui narra il vangelo di oggi.
Ebbene, in che modo possiamo noi ritrovarci in quel sordomuto? Quali riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio?
Dobbiamo leggerlo soltanto come una conferma della bontà e della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: kòfos che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e moghilàlos che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto, assente: perché solo se “ci sentiamo”, se siamo “collegati” con noi stessi, possiamo esprimere qualcosa di noi.
Ecco allora che se ci scopriamo “scollegati”, se non ci sentiamo più, è arrivato il momento di “scuoterci” scrupolosamente, di aprirci, di riscoprire quello che siamo e abbiamo dentro. Fuggiamo dal “rumore” assordante di un mondo che ci stordisce l’anima. Il silenzio, il raccoglimento, sono infatti i presupposti per la nostra crescita spirituale.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo poveretto e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo “tocchi”. Ancora una volta i pagani dimostrano di avere più fede dei religiosi ebrei.
E Gesù premia la loro fiducia. Come sempre Egli non fa distinzione tra osservanti e infedeli, ma interviene con la sua grazia beneficiando chiunque, purché dotato di una fede umile e sincera.
Questo deve confortarci: perché anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita ci siamo allontanati da Lui, insomma se siamo dei “tiepidi” non praticanti, Egli è comunque sempre disponibile a guarirci, a perdonarci, a sanare le fratture della nostra vita: su questo non dobbiamo avere incertezze, pregiudizi, diffidenze. Se ci avviciniamo umilmente e gli esprimiamo la nostra fiducia, Gesù ci salva, ci guarisce; e lo fa non perché gli mostriamo l’etichetta di “cristiani”, ma perché gli dimostriamo di avere fede in Lui, di essere dispiaciuti per come siamo, di volerci risollevare dalle nostre miserie, di confidare completamente e sinceramente nel suo amore.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina “lontano dalla folla”.
Nei vangeli succede spesso che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40); nel caso del paralitico, che non può raggiungere Gesù col suo lettino a causa della grande ressa, alcuni lo calano dall’alto nella stanza dove Lui si trova (Mc 2,4); il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25); al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22); l’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla, e mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i “malati” dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere sé stessi. La folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, sono i giudizi impietosi delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimarremo succubi dei loro pregiudizi, delle loro valutazioni, non potremo mai guarire, non potremo venirne fuori, non potremo ascoltarci, essere noi stessi. La folla, in questo modo, ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre aspirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Non è un caso che nella nostra società si faccia abuso di anestetizzanti, di psicofarmaci; non è un caso che la gente sia sempre di corsa, non si fermi mai, segua sempre un ritmo convulso; non è un caso che non sappia più fare silenzio, che la vita scorra nel rumore più assordante. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire” noi stessi, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di misurarci con la nostra coscienza.
Per questo motivo, anche in questo caso, Gesù porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te, del tuo volto!”: e, prima di tutto, gli tocca le orecchie con le dita: deve cioè aprirgliele materialmente, deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale. Poi gli tocca la lingua con la saliva. Deve scioglierla per consentirgli di parlare, di esprimersi, di “dirsi”. In altre parole Gesù lo invita a tirar fuori tutto quello che ha dentro, la sua gioia, la sua rabbia, il suo dolore, le sue emozioni. Deve raccontarsi. Deve vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Deve insomma tirar fuori la sua personalità autentica. Quindi, con gli occhi rivolti al cielo, Gesù impartisce al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”; Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato con lui per la sua indifferente chiusura in sé stesso, per il suo disinteresse a voler tornare a sentire, a parlare, a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo letargo, per spaccare quella corazza di indifferenza in cui egli si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altrettante volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto il suo invito: “Apriti… apriti! Dà una dimensione alla tua vita, fa entrare in te il nuovo, vivi, canta, proclama a tutti che Dio è amore. Ricordati che rimanere chiuso, sordo e muto, significa per te morire”.
Apriti!”: di fronte a tale imperativo non ricorriamo alla solita scusa: “Non ce la faccio!”: non è vero, abbiamo soltanto paura di andare incontro a delusioni, di soffrire, senza renderci conto che rimanendo chiusi, serrati, isolati, siamo destinati a subire insoddisfazioni e sofferenze ben più gravi.
Apriti!”: facciamolo! Perché condannarci a portare nel cuore pesanti massi e pietre strazianti? Perché privarci della gioia e dell’intensità dell’Amore di Dio soltanto per paura di soffrire? Apriamo la nostra mente, leggiamo, impariamo, facciamo nuove esperienze. Non fermiamoci dicendo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare.
Apriti!”: differenziamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il cibo, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non temiamo di fare nuove esperienze di vita. Oggi i giovani (e non soltanto!) sono perennemente assenti, inebetiti dallo smanettare convulso sul loro cellulare, totalmente assorti in chat insulse, in puerili giochetti elettronici, come se al mondo non ci fosse null’altro da vedere, da pensare o da fare: preferiscono rimanere sclerotizzati piuttosto che aprirsi a ben più infiniti e luminosi orizzonti.
Apriti!”. “E perché no?”: questo dovremmo rispondere all’invito costante, quasi assillante, di Gesù; perché se non saremo noi ad aprirci, nessuno potrà farlo mai! Eppure ne vale decisamente la pena, perché dentro di noi giacciono ricchezze inimmaginabili, un potenziale dal valore incalcolabile del quale, rimanendo chiusi, nessuno mai potrà usufruirne: con la nostra apatia scegliamo di rimanere un tesoro inutile per noi e per gli altri. Infatti se noi non ci apriamo, chi potrà mai amarci? Chi potrà condividere con noi i suoi progetti, le sue aspirazioni? Se non ci apriamo, siamo destinati a vivere una vita che non ci appartiene, vivere sotto mentite spoglie, con un altro nome! Rischiamo di venire considerati la persona che non siamo! Se non ci apriamo, non approderemo mai a nulla, saremo amorfi, un niente: esattamente dei morti viventi. Pensiamoci! Amen.