giovedì 25 luglio 2024

28 Luglio 2024 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,1-15 
Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Giovanni, nel vangelo di oggi, ci mette di fronte ad una situazione molto concreta: una grande folla (circa cinquemila uomini), attratta dalle parole e dai “segni” compiuti da Gesù, lo segue fin oltre il Lago di Tiberiade; è ormai mezzogiorno, e poiché il luogo è deserto, immediatamente si pone il problema di come poter dare qualcosa da mangiare a quella moltitudine, ormai da molto tempo lontana dalle loro case. Gesù, per provare la fede dei suoi discepoli, chiede loro cosa si può fare: molte soluzioni in realtà non ci sono, poiché essi non hanno proprio nulla con sé; trovano soltanto un ragazzo che casualmente ha cinque pani e due pesci: un niente per tutta quella folla! 
E qui Gesù ci offre il primo insegnamento: la “condivisione”. Condividendo, mettendole cioè in comune, le poche cose si moltiplicano, diventano molte. Se si condivide, ce n’è per tutti. Senza la condivisione ce n’è solo per l’arroganza di pochi. Ecco: condividere tutto, con grande fede, invocando la benedizione di Dio, questo è il significato del miracolo di Gesù: egli sa perfettamente che i cinque pani e i due pesci del ragazzetto sono un niente di fronte alla massa dei presenti, eppure ordina la condivisione, e man mano che il poco, il niente, viene distribuito, automaticamente si moltiplica, non si esaurisce mai, ce n’è per tutti… addirittura ne avanza! 
In pratica, Gesù ci invita a non nascondere il nostro poco, ma a tirarlo fuori, ad usarlo, a fidarci di quel poco che siamo; a non fare gli indifferenti, nascondendoci dietro alla scusa che siamo poveretti, che non abbiamo nulla, che non siamo nessuno. Anche se questa è la verità, anche se effettivamente non valiamo niente, Dio non guarda mai il quanto, il numero delle nostre opere, il volume delle nostre azioni: Dio guarda invece il “come” noi le facciamo le nostre opere, Dio guarda le intenzioni, l’amore che mettiamo nel farle; per questo Egli “scruta” il nostro cuore. 
Tutte le cose all’inizio sono niente. Ma se ci fidiamo di quel poco che abbiamo, se lo usiamo correttamente, se lo mettiamo amorevolmente a disposizione degli altri, un giorno diventerà sicuramente grande, crescerà, si svilupperà. Agli occhi di Dio nulla in noi è meschino, tutto ha un suo valore: anche quando, guardandoci allo specchio dell’anima, ci vergogniamo e ci butteremmo via molto volentieri. Ma dobbiamo ricordarci sempre che veniamo da Dio! Che Egli ci ha creati a sua immagine: una dignità, un dono smisurato, di cui ogni giorno della nostra vita dobbiamo ringraziare e benedire Dio: ogni giorno dobbiamo ringraziarlo per quel poco che siamo, cercando però ogni giorno, con il suo aiuto, di trasformarci, di migliorarci, di diventare un po’ alla volta sempre più assomiglianti a Lui. 
Il miracolo di Gesù ci insegna, dunque, che più si condivide, più le cose si moltiplicano: così in una comunità, se ognuno fa la sua parte, l’impossibile diventa possibile: in un’azienda, infatti, più ognuno mette a disposizione di tutti le proprie informazioni, le proprie capacità, le proprie risorse professionali e umane, più quell’azienda funzionerà; così in famiglia, più si condivide ciò che ciascuno ha vissuto durante la giornata, ciò che ha provato, i suoi alti e bassi, e più quella famiglia troverà unione, serenità, diventerà forte, tetragono nelle avversità. 
C’è un altro insegnamento importante nel vangelo di oggi: dobbiamo cioè “benedire” quel poco che abbiamo. “Benedire” vuol dire accontentarsi di quel che c’è, di quello che siamo, di quello di cui disponiamo. A Gesù “bastano” quei cinque pani e due pesci, e Dio moltiplica quel poco. “Benedire” vuol dire: “Accetto quel poco che sono, perché sono cosciente che viene da Dio; perché se sono così è perché Lui, che sa ogni cosa, che conosce ciò che è bene per me, permette che io faccia quel “particolare percorso” per giungere a Lui. Allora smettiamo di cercare in tutti i modi di essere diversi, di non essere noi stessi, smettiamo di voler essere e fare come tutti gli altri; smettiamo di invidiare gli altri, chissà poi per che cosa! Benediciamo invece ciò che siamo e ringraziamo Dio per questo; cerchiamo di scoprire da Lui, partendo proprio da ciò che siamo, cosa dobbiamo fare per migliorarci, convinti che con Lui possiamo anche noi fare miracoli! 
Forse ci sembra troppo, stante la nostra pochezza, ma fidiamoci di Dio. Ci ha creato Lui, Lui sa! 
Quando Gesù “benedice”, tutto è possibile, il poco diventa abbondanza per tutti.
“Benedire”, inoltre, è ricordarsi da dove viene ogni cosa. Ogni cosa non è nostra. Non è una nostra proprietà. Quindi ricordiamoci la sua origine; quindi ricordiamoci che è di tutti; quindi ricordiamoci che tutti ne hanno diritto.
Spesso invece noi scambiamo per proprietà ciò che abbiamo semplicemente in uso. Chiamiamo proprietà ciò che non è nostro, ciò che non possiamo portare con noi, che non possiamo vincolare a noi.
Abbiamo mai visto un uomo portare con sé i suoi beni dopo la morte? No. E Perché? Unicamente perché non è possibile, non è di “sua” proprietà (anche se ci piacerebbe!). Eppure mentre è in vita, l’uomo si arroga il diritto di chiamare “suo”, ciò che usa soltanto. È una grande illusione. Neppure la vita è “nostra”. Una malattia qualunque ce la può togliere. Basta un qualunque incidente, e la vita improvvisamente si spegne, in un istante ci viene sottratta. Dobbiamo restituirla. E se siamo chiamati a restituirla, è chiaro che non può essere nostra. Allora, cosa possiamo considerare di “veramente nostro”? Solo come viviamo l’attimo presente; l’istante che stiamo per vivere; l’adesso, l’hic et nunc, come dicono i latini, il “qui e ora”: è questa l’importanza enorme di questa inafferrabile frazione infinitesimale di tempo!
Noi pensiamo invece che la vita ci sia dovuta, sia un diritto, senza fine, senza scadenze. E, invece, no. È un regalo, un’opportunità. Ci arrabbiamo quando ci viene tolta; ma ci dimentichiamo di gustarla degnamente quando ce l’abbiamo, ci dimentichiamo di benedire chi ce l’ha data, di ringraziare Dio per le immense possibilità che con essa ci offre continuamente, ad ogni battito di orologio. Se ringraziassimo di più, se vivessimo nel modo giusto la nostra vita, se fossimo coscienti del grande dono che in ogni istante ci viene confermato, in ogni battito di cuore, in ogni respiro, saremmo più riconoscenti e meno angosciati dalla paura di perderla.
Chi pensa di essere “proprietario” delle cose, non ha motivo di ringraziare nessuno, non ha motivo di stupirsi, di benedire: sono sue, perché farlo? Al contrario soltanto chi sa di non avere nulla può provare gratitudine: per quello che è, per tutte le cose che gli sono date in consegna; soltanto chi sa che nulla gli è dovuto, che niente gli spetta di diritto, che tutto è dono, solo costui può vivere veramente sereno e felice. Solo così penserà meno a sé, e più ai fratelli.
In questo senso quel “distribuire a tutti il pane” diventa automaticamente: “siamo tutti un’unica famiglia”.
Quel giorno, in riva al lago, c’era tanta gente, ognuna spinta da proprie motivazioni: alcuni gli credevano ciecamente, altri intuivano soltanto che in quell’uomo c’era qualcosa di grande e di diverso; altri lo seguivano solo per egoismo, per ricavarne qualcosa; altri addirittura lo odiavano, stavano lì per metterlo alla prova, cercavano solo giustificazioni per ucciderlo; altri ancora erano solo curiosi. Ma Gesù li abbraccia tutti con il suo sguardo amorevole; non fa distinzioni, non guarda in faccia alle singole persone, non si chiede se chi gli sta davanti sia amico o nemico. A tutti indistintamente Egli dà il pane, offre il nutrimento. A tutti Egli offre la stessa opportunità: perché sono tutti suoi figli. 
Cerchiamo di metterci anche noi nella stessa prospettiva di Gesù; guardiamo anche noi questa povera umanità tanto martoriata, così violentemente fratricida; guardiamola con gli stessi suoi occhi: non ci sono buoni o cattivi, di destra o di sinistra, bianchi o neri, ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, religiosi o no. Ci sono solo uomini, creature che hanno fame di Dio, di verità, di pace. È Lui il solo Padre, tutti siamo suoi figli. A tutti infatti Egli offre il pane del Vangelo, dell’Amore: alcuni lo mangiano, altri non sanno che farsene; Lui ci ama tutti: alcuni si aprono al suo amore, altri no; si preoccupa per tutti: alcuni lo ascoltano, altri no; vuole nutrirci tutti di Vita: alcuni si sfamano, altri no; ci vuole tutti nella sua casa: alcuni ritornano, altri no; non vuole che nessuno si perda: alcuni lo accolgono, altri lo rifiutano. Tutti, tutti, sono suoi figli. Tutti gli stanno a cuore. È il padre di tutti. Li ama tutti. È il Pane di tutti. Il banchetto celeste è aperto a tutti: sta a noi, però, sta ai singoli, avere il buon senso di presentarci con la “veste nuziale”. Se il suo amore è incondizionato per tutti, dimostrare di esserne degni è l’unica risposta d’amore che spetta a noi.
Ecco: questo è il grande miracolo su cui oggi siamo chiamati a meditare. Amen.

 

giovedì 18 luglio 2024

21 Luglio 2024 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,30-34 
“In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare”. 

Ci siamo lasciati domenica scorsa con la partenza missionaria dei discepoli: Gesù li ha mandati per le strade della Palestina a “guarire”. Nel vangelo di oggi gli apostoli ritornano dalla loro missione e gli riferiscono tutto quello che hanno fatto, tutto quello che è loro successo. E a ragione. Perché essi considerano Gesù l’inizio e il termine del loro viaggio. Sono partiti da Lui, sono stati mandati da Lui, e adesso ritornano a Lui. Lui è il polo di attrazione, il loro riferimento, il loro centro. 
Perché lo fanno? Per verificarsi, per condividere le esperienze, per rallegrarsi dei risultati ottenuti. Sono questi, fondamentalmente, i motivi che ci devono guidare nel nostro personale rapporto con il Maestro. 
Innanzitutto dobbiamo fare anche noi una “verifica” della nostra vita, del nostro operato. Verificarsi, vuol dire infatti controllare se siamo nel giusto, se agiamo secondo i “canoni”, secondo Verità. Ci verifichiamo non per darci un giudizio, un voto, ma per controllare se come viviamo corrisponde esattamente alle “regole di ingaggio”, se cioè siamo coerenti con la Sua chiamata, con quanto professiamo e crediamo. 
Nella vita sono molteplici gli elementi che concorrono alla nostra crescita e maturazione umana e spirituale: elementi che necessitano ogni tanto di essere esaminati, controllati, di essere sottoposti a vere e proprie “verifiche”: uno fondamentale, per esempio, è il nostro lavoro: “Quello che facciamo è definibile un buon lavoro? Il nostro modo di lavorare è corretto? Contribuisce a realizzare i nostri ideali, la nostra personalità, la nostra sensibilità?”. Attenzione, perché noi “siamo ciò che facciamo”, noi cioè siamo, ci identifichiamo, con il nostro lavoro: ora, considerando che per circa un terzo della giornata siamo tutti impegnati nelle nostre attività, se queste non le svolgiamo correttamente, nello spirito del vangelo, in pratica buttiamo via un terzo della nostra vita: uno spreco enorme, decisamente inutile. 
Altro elemento importantissimo è l’amare, il donarsi, il dare e ricevere: anche su questo ogni tanto dobbiamo fare una verifica: “Ciò che chiamiamo amore è veramente tale, oppure è qualche suo surrogato?”. Perché non basta dire semplicemente: “Io amo”, e sentirci a posto. Il nostro è un amore sincero, oblativo, oppure un morboso attaccamento umano? Amiamo soltanto perché abbiamo paura di rimanere soli, per risvolti economici, per assicurare un futuro alla nostra vita? Ma questo non è amare, è semplicemente un contrabbandare per amore il nostro egoismo, il nostro interesse personale. 
Altro elemento vitale che periodicamente bisogna verificare, è la preghiera: “Come e con quale frequenza noi preghiamo? La nostra preghiera consiste solo in una sequenza automatica di parole? È una lista della spesa, un pozzo dei desideri, una richiesta ossessiva di ciò che non riusciamo ad avere?” E ancora: “Da dove sgorga la nostra preghiera? Dalla paura di un Dio vendicatore o dall’amore per un Dio-che è Amore?”. 
Anche la felicità, la serenità interiore sono elementi basilari: sono il condimento di una vita positiva, buona, altruista; per cui ogni tanto dobbiamo chiederci: “La nostra vita è davvero felice? Viviamo, oppure ci trasciniamo come dei morti viventi? Oppure viviamo una vita che non è la nostra? Una vita sdoppiata, bella e meritevole all’esterno, ma falsa e infedele nell’intimo?”. Certo scoprire la coesistenza di un così lacerante dualismo, scoprire che la nostra vita spirituale è un completo fallimento, non è per nulla consolante, anzi ci fa decisamente male; ma è molto peggio continuare a vivere mentendo a noi stessi, continuare a fare per convenienza cose che sappiamo essere non corrette, che non ci convincono, che non sentiamo nostre. In tal caso continuare nell’inganno di noi stessi, equivale accettare l’inutilità di una vita fallimentare, invece di metterci in gioco, rischiare, cambiare.
Ultimo ma non meno importante elemento è il nostro “stare insieme”, il fare comunità; un punto su cui la nostra verifica deve essere severa: magari quello che scopriamo ci metterà in crisi, perché dovremo misurarci con situazioni che non vorremmo mai conoscere. Forse è per questo motivo che molti non si fermano mai, non riflettono sulla loro esistenza, non si pongono questioni profonde: preferiscono illudersi che tutto vada bene o che, ignorandoli, i problemi non esistano. Ma la politica dello struzzo non ha mai dato frutti apprezzabili… Del resto, “fare verità” su noi stessi vuol dire anche essere preparati ad affrontarne le conseguenze, qualunque esse siano. Solo guardandole in faccia possiamo cambiare; soltanto non raccontandoci “balle” possiamo affrontare e risolvere i nostri veri problemi.  
Per poter fare una “verifica” come i discepoli, dobbiamo anche noi considerare Gesù come nostro maestro, la guida, il punto di riferimento, il nostro “confidente”; dobbiamo imparare a parlare con Lui, a confidarci con Lui sul nostro cammino, sulla nostra vita, sulla qualità del nostro lavoro: avremo sempre, nuovi e validi motivi per confrontarci con Lui. Soprattutto per condividere tutto con Lui: una vera, autentica condivisione che crea unione, intimità, quel donarsi senza ambiguità, senza falsità; quel raccontarsi, che ci introduce, sempre più, l’uno nel cuore dell’altro.
Una condivisione intima che non dev’essere una “cronaca” sterile di ciò che abbiamo fatto: “Ho fatto questo, e poi questo, e poi questo…”, ma un’apertura totale della nostra mente, della nostra anima, del nostro cuore, dei nostri sentimenti. Condividere così, è vero, vuol dire esporsi, mostrarsi inermi, senza difese, diventare completamente vulnerabili: ma non c’è unione vera con Gesù senza questo “annullamento”. Purtroppo, nella nostra vita, nelle nostre “condivisioni”, siamo invece abituati a parlare molto e a condividere poco. Preferiamo parlare tanto degli altri, invece che di noi stessi. Preferiamo non guardare dentro di noi, e rimaniamo soli, all’esterno, nel superficiale. Al contrario se provassimo questa intima condivisione con Lui, la vita acquisterebbe improvvisamente colore e calore: ci sentiremmo accolti, capiti, sentiremmo dentro di noi la sua presenza, percepiremmo tutto il suo amore. E sperimenteremmo quella gioia, quell’intima soddisfazione di comunicargli che, con Lui, riusciamo a fare veramente cose belle, importanti, entusiasmanti: cose concrete, che anche umanamente ci soddisfano e ci rendono orgogliosi, felici.
La vita è un suo dono: solo se viviamo questo dono in costante confronto con Lui, potremo avvertire la sua presenza concreta, potremo riconoscere la sua mano nei nostri successi, potremo percepire la sua piena fiducia in noi: nonostante tutto, nonostante Lui sappia bene chi siamo, nonostante conosca i nostri limiti, i nostri errori, i nostri orrori.
Confrontiamoci allora con Lui. Immergiamoci nella meditazione, scendiamo nella nostra anima, misuriamoci, là dentro, con Lui. Ricarichiamoci: gustiamo nella meditazione silenziosa quella Parola che siamo chiamati a testimoniare. Verifichiamoci, controlliamo l’autenticità del nostro efficientismo, per scongiurare la possibilità di investire tutto il nostro lavoro, tutte le nostre fatiche, in una costruzione inutile, effimera, inaffidabile, fondata sulla sabbia. 
“Andate…”, ci dice Gesù. È vero, è Lui che ci manda, ma non ci manda allo sbaraglio; Egli si preoccupa di noi, ci vuole sempre all’altezza, ci sta costantemente vicino; ci lascia ampia libertà decisionale, ma si preoccupa che le nostre scelte siano sempre corrette, sempre in linea con la sua Parola. Il nostro cammino è in questo modo chiaro e percorribile. Spetta quindi a noi, ora, piantare il buon seme e innaffiare come si deve. E alla fine, quando torneremo a Lui, perché è sempre e comunque a Lui che dovremo ritornare, auguriamoci di potergli consegnare, soddisfatti, un buon raccolto. Amen.

  

giovedì 11 luglio 2024

14 Luglio 2024 – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,7-13 
Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Oggi il vangelo ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni sui discepoli di Gesù, sia su quelli che lo seguivano allora, che su quelli di oggi. 
Va premesso che non tutti coloro che seguivano Gesù da vicino, si sono rivelati un esempio di fedeltà: molti infatti lo contestavano, altri lo rifiutavano, alcuni arrivarono a tradirlo: ciò che conta però è che la stragrande maggioranza di essi, conquistati dalla passione per quell’uomo che aveva rivoluzionato la loro vita, si lasceranno poi catturare, imprigionare, martirizzare, pur di rimanere coerenti con la loro fede. 
Per lo più erano persone, uomini e donne, che appartenevano agli strati sociali più poveri; gente semplice, ignorante, contadini, pescatori, mendicanti; gente che viveva lontana dalle regole dell’Alleanza, dalle regole religiose del Tempio; erano quindi gli impuri, gli esclusi, in una parola gli “scarti” della società. 
Ed è proprio tra queste persone che Gesù ad un certo punto sceglie i Dodici; erano quasi tutti galilei: alcuni, come Giacomo e Giovanni appartenevano ad un livello sociale un po’ più alto (avevano barca e garzoni a loro servizio) altri, invece, come Pietro e Andrea erano dei poveri pescatori, proprietari soltanto di una rete, di cui si servivano per pescare quel poco sufficiente a sfamarsi, lungo la riva del lago.
Ebbene: cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù non ci sono canali preferenziali, non ci sono categorie speciali agevolate: tutti gli aspiranti sono sullo stesso piano, ricchi e poveri, colti e ignoranti.
Gesù può scegliere chiunque, a condizione però che la sua disponibilità sia veramente sincera, reale, con il cuore aperto, pronta a mettersi in gioco, a lasciarsi sconvolgere completamente la vita.
La “vocazione” non è altro che la risposta dell’uomo alla libera iniziativa di Dio: un particolare, questo, molto importante, che dovrebbe indurre noi discepoli moderni - in particolare quelli che sgomitano per essere più vicini al suo altare, che si considerano la parte “eletta” della Chiesa, i “ripieni” di Spirito Santo, i puri, gli eletti, i consacrati, quelli che si ritengono i prediletti da Dio – ad essere decisamente più umili, più consapevoli del loro “nulla”; perché anche oggi come allora, Egli continua a chiamare al suo seguito gli umili, i poveri nello spirito, i sofferenti, gli abbandonati, i deboli, quelli che nella Chiesa cercano solo salvezza, accoglienza, comprensione, conforto, salute spirituale, amore.
Anche perché, è comprovato, gli autoreferenziali, i “ricchi” di idee, i possessori di velleità carrieristiche, i cercatori di denaro e di notorietà, difficilmente sono disponibili a seguirlo, proprio perché, quando arriva Lui, spazza via qualunque zavorra, tutto ciò che è inutile, qualunque cosa che non sia utile alla costruzione del suo Regno.
Gesù è radicale. È impossibile seguirlo soltanto un po’: o lo si segue tutto in tutto, o niente. Gesù è un’esperienza unica, totale, indivisibile.
Sappiamo dalla Scrittura che tutti gli ebrei, a quei tempi, aspettavano la restaurazione del regno politico di Davide e di Salomone: ma in questo senso Gesù li ha profondamente delusi. Il Regno da lui annunciato e difeso non è politico, non è materiale. Il suo è un Regno riservato esclusivamente al cuore e all’anima degli uomini, un regno in cui le persone guariscono e si liberano dai loro “nemici” interiori. È l’autentico regno di Dio: un regno che sarà sempre così, che non è al di fuori di noi, ma dentro di noi. È lì che deve avvenire la nostra “grande liberazione” personale. Siamo noi che dobbiamo liberarci dai nostri demoni, dai nostri tiranni, dai nostri nemici, per poter aderire alla sua chiamata: ricordiamocelo questo, perché chi non vuole guardarsi dentro, chi non vuole conoscersi nel profondo, chi non vuole combattere i prepotenti usurpatori del proprio cuore, non potrà mai seguire seriamente il Gesù del Vangelo!
Impresa particolarmente difficile anche per noi, se consideriamo che allora nessuno dei suoi compaesani, dei suoi parenti, lo seguì: anzi furono proprio loro che lo criticarono apertamente, gli impedirono di parlare e di agire liberamente, facendolo passare per “pazzo”. Una situazione veramente insostenibile che lo costrinse a fuggire da quell’ambiente, a trasferirsi a Cafarnao, sulle rive del lago di Galilea.
Non per nulla, riferendosi a sé stesso, dirà: “Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo i nidi, ma quest’uomo non ha dove posare capo” (Lc 9,58).
Egli conosce bene la portata del suo programma: “Non pensiate che io sia venuto a portare pace sulla terra, bensì la spada. Sì, sono venuto a mettere il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera” (Lc 12,51-53). Per Gesù, quindi, vi è qualcosa di più importante della stessa famiglia: è il regno di Dio; per cui “chi non odia suo padre e sua madre, suo figlio e sua figlia, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26).
Pertanto: se il rapporto con i genitori, con gli amici, con le persone che amiamo, è per noi più importante della nostra vocazione, della nostra libertà interiore, della verità che cerchiamo, non possiamo seguire Gesù. Per poterlo fare, dobbiamo essere totalmente “liberi” da ogni costrizione; non dobbiamo giustificare le nostre scelte di vita a nessuno, se non a Dio; solo davanti a lui dobbiamo inchinarci.
La sequela di Gesù non va fatta per motivi logici o teologici: ma semplicemente per passione, per amore. I suoi discepoli erano infatti degli innamorati, perché solo degli innamorati o dei pazzi, potevano fare quello che essi hanno fatto! 
Del resto Gesù stesso ha dato loro l’esempio con la sua vita: Egli era tenero con i piccoli, si emozionava di fronte alle sventure e alle sofferenze degli ammalati, non aveva paura di toccare, di abbracciare donne e uomini lebbrosi; quando c’era da difendere la dignità delle persone, era tenace e irremovibile; era appassionato della verità, se ne infischiava delle regole stupide o disumane e se c’era da trasgredirle lo faceva senza alcun indugio; piangeva, gioiva, si stupiva di fronte agli uccelli del cielo e ai gigli del campo; credeva nella forza delle persone e se queste gli credevano, immediatamente guarivano dai loro mali. Egli amava per davvero, non a parole; la sua era veramente vita! La sua fu una scuola carica di insegnamenti: un materiale preziosissimo che Egli condensò in quell’unico termine, “eu-anghelion”, cioè “la buona notizia”, il suo Vangelo. 
È questo infatti il programma che Gesù ha stabilito fin da allora per ogni suo discepolo: vivere sempre da innamorati dell’Amore e della Vita. Un risultato che tutti devono raggiungere.
La nostra preoccupazione di fondo deve quindi riguardare il nostro “agire”, la nostra condotta, la nostra “vita”, senza nutrire alcuna pretesa di “insegnare” agli altri quello che devono o non devono fare. Per poter essere fedeli annunciatori del Vangelo, certamente lo studio, la preparazione, i corsi di aggiornamento, sono tutte cose utili, necessarie, fondamentali, ma se non siamo coerenti con quanto annunciamo, in realtà sono soltanto zavorra, un fardello inutile e pesante. Se trascuriamo la nostra vita cristiana, la nostra vita spirituale, tutto il nostro sapere, il nostro insegnare, diventa superfluo, ingombrante, si riduce ad una esercitazione tecnica, sterile, incoerente, senz’anima e cuore.
Non carichiamoci allora di troppe iniziative, di troppi impegni, di troppe attività associazionistiche, perché troppo spesso esse portano a farci dimenticare l’unico obiettivo fondamentale: l’autentica lode a Dio e la nostra santificazione.
Oggi purtroppo la società del benessere ci spinge convulsamente a fare tali esperienze, a cimentarci contemporaneamente in mille cose, in qualunque attività: per la nostra formazione ci affidiamo a qualunque imbonitore, a qualunque ciarlatano, purché parli di “miracoloso”, di “spirituale”, di “metamorfosi antropologica”; siamo schiavi beoti attratti dalle mode più ridicole e sciocche del momento; ci buttiamo con ostentazione in ogni “genere” di volontariato, in ogni “caritas”, volendo dimostrare a tutti la nostra “autenticità cristiana”; viviamo un’esistenza superficiale, discontinua, e cambiando i nostri obiettivi, i nostri ideali, i nostri interessi, con grande disinvoltura, finiamo per trascurare l’unico obiettivo, quello vitale, che al contrario è l’unico meritevole di tutta la nostra attenzione: dare cioè un’autentica e generosa risposta all’invito perentorio di seguire Gesù.
A questo punto una domanda nasce spontanea: la Chiesa, che dovrebbe essere la solerte madre dei credenti, oggi è veramente la guida fedele, la vera “discepola” di Cristo? È ancora balsamo per i cuori oppressi e feriti degli uomini? Sa liberarli dai loro dubbi, dalle loro paure, dalle loro ansie? Sa guarirli dai loro demoni interiori? Sa rassicurarli, confermarli, nella fede? Perché questa è la sua missione, per questo Gesù l’ha voluta: se perde di vista quest’unico fine, cessa di essere la Chiesa di Cristo!
Gesù continua anche oggi a chiedere agli uomini: “Vuoi seguirmi?”. Che non allude ad una vacanza, ad una promozione! Non è un invito a mettersi tra i migliori, tra i più fortunati. Assolutamente no. Accettare di seguire Gesù, significa costruirsi una nuova identità, fondata sui suoi principi, viverli concretamente, e proporli con l’esempio agli altri.
Quella che viviamo e che chiamiamo “vita”, infatti, altro non è che un rapidissimo rincorrersi di gioie e dolori, di futili e ingannevoli propositi, di incessanti contrarietà, di profonde delusioni. Quella che Gesù ci prospetta, invece, è un’altra “vita”, successiva a questa; una vita vera, concreta, senza fine, proiettata fin d’ora nel futuro godimento dell’Amore eterno di Dio; una Vita beatifica apparentemente irraggiungibile, che invece diventerà alla portata di tutti, a condizione che, accettando il suo invito a seguirlo, calpestino con fedeltà e impegno le stesse orme che Lui ha lasciato, camminando davanti a noi. Amen.

  

mercoledì 3 luglio 2024

07 Luglio 2024 – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,1-6 
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Gesù, durante il suo lungo peregrinare, si ferma anche nella sua cittadina natale. E qui il vangelo ci offre un piccolo spaccato di vita paesana: non che Egli faccia per i suoi concittadini qualcosa di straordinario, anzi si comporta esattamente come il suo solito: guarisce gli ammalati e, di sabato, predica nella sinagoga. Anche i suoi lo ascoltano e, come tutti, rimangono stupiti, meravigliati: avvertono cioè in lui un potere straordinario che riesce a risvegliare in loro profonde emozioni, a toccare le corde più sensibili della loro anima.
Nonostante ciò essi rimangono scettici: giudicano le sue parole, i suoi insegnamenti troppo elevati, troppo impegnativi, rivoluzionari, inadeguati per la loro vita. Essi hanno le loro idee, hanno le loro tradizioni, i loro schemi mentali: dargli ascolto equivaleva accettare soluzioni mai sentite prima, e quindi “pericolose”; significa mettere in gioco il loro credo, le loro usanze, e di rimanere destabilizzati.
Gesù, anche qui come altrove, si comporta e insegna senza preoccuparsi se ciò che fa e dice, possa urtare qualcuno. E in realtà urta molta gente: dice infatti ai farisei che la loro religione è falsa; ai nobili sadducei, che dietro la loro religione si celano solo interessi di potere; definisce apertamente stupide e prive di vita le loro pratiche religiose: e lo grida apertamente, in faccia ai capi che le praticano, imponendole agli altri!
È naturale quindi che questi ascoltatori chiamati in causa, toccati sul vivo, si trovino a dover scegliere tra due possibilità: o ascoltare umilmente Gesù, dandogli retta, e rivedere completamente il loro stile di vita, o attaccarlo frontalmente facendolo passare per matto, mettendo in giro voci maligne su di lui e, se non bastasse, addirittura sopprimendolo. Cosa che poi puntualmente cercheranno di fare.
Nel loro caso specifico, poi, c’è anche un’aggravante: perché quando Egli predicava per le strade della Palestina, la gente non lo conosceva, non sapeva chi fosse; ma qui sono tutti suoi paesani, gente che lo conosce bene! Conoscono la sua famiglia, le sue origini, si ricordano di quando era ragazzino! “Ha studiato qui con noi, mica è laureato, non ha titoli di studio, come può dire queste cose? Chi crede di essere per venire qui a stravolgere la nostra vita, le nostre tradizioni? Noi abbiamo sempre fatto così, non ci serve altro, perché ora dovremmo seguire le allucinazioni del figlio di un carpentiere? Cosa può mai uscire di buono da quella famiglia?”.
Hanno quindi già deciso per principio di non credergli. Non possono accettare l’idea che Dio si stia servendo di uno come loro per cambiare il mondo! 
Ecco: il loro dramma è stato quello di ergersi a giudici, di arroccarsi sull’idea della sua incapacità, per il fatto che essi lo conoscevano! Purtroppo, cambiare la propria opinione è un’operazione molto difficile, antipatica, perché obbliga le persone a riconoscere di aver sbagliato, a ricredersi, ad accettare i propri limiti.
È assurdo, ma è anche oggi un comportamento molto comune: “giudicare” è un’operazione che noi pratichiamo in continuazione: possiamo dire che è lo sport più praticato a livello internazionale! Noi infatti giudichiamo quasi sempre le persone non per quello che sono, ma per come le vediamo noi, per come erano anni prima, per la famiglia da cui provengono, dando credito spesso a chiacchiere e maldicenze.
Quella di giudicare, è una facoltà che nasce e si sviluppa con la stessa vita umana: il bambino, per esempio, divide da subito la realtà in buona e cattiva: “buono” è ciò che non gli fa male, ciò che lui può controllare; “cattivo” è ciò che lo fa piangere, che non può gestire. In realtà, però, nell’uomo non esiste nulla che di per sé sia buono o cattivo: sono i suoi comportamenti, le sue azioni, le sue percezioni che lo rendono buono o cattivo: noi però, quando diciamo a qualcuno “sei cattivo” non giudichiamo il comportamento, ma direttamente l’individuo, la persona: diciamo cioè che è lui che non va bene, che è un delinquente, un mascalzone!”. Il nostro giudizio pertanto, identifica la moralità di un’azione con l’individuo che la compie, quando invece, come ci dice il verbo greco “krino”, giudicare, che vuol dire “dividere”, la nostra valutazione, per essere completa e pertinente, dovrebbe sempre distinguere la casualità, le intenzioni, la volontà, la conoscenza, ecc.
Va inoltre tenuto presente che il nostro “giudicare” risponde quasi sempre ad un tentativo di emergere, di essere noi a controllare, a possedere la giusta visione della realtà, perché senza di ciò, tutto ci fa paura. Quando una persona giudica molto, in continuazione, vuol dire che è un insicuro, inconsciamente è terrorizzato dal dover affrontare la vita: per questo tenta di fissare delle etichette, dei ragionamenti che, classificandogli la realtà in categorie, gli semplificano la vita, gliela rendono più accessibile.
Ogni giudizio, proprio per la sua componente di ambiguità, di incertezza, è un’impresa ardua, difficile: è, come dicevano gli antichi, pretendere di far passare tutta l’acqua del mare attraverso lo scarico di un lavandino. Pertanto, emettere un giudizio essenzialmente e totalmente corretto e definitivo, secondo loro è impossibile.
Tuttavia il Vangelo ci suggerisce un’altra considerazione, fondamentale per la nostra vita cristiana: possiamo infatti notare che, incontrando Gesù, molte persone si chiudono in sé stesse, non accettano il suo messaggio, sono indifferenti, infastidite, rimangono ancorate nei loro pregiudizi, nei loro schemi; altre invece, la grande maggioranza, sono aperte, solari, si lasciano conquistare dalle sue parole e ne escono completamente cambiate, trasformate, rinnovate. Come mai? Semplice: perché nel nostro rapportarci con Dio, entra in gioco un elemento decisivo, fondamentale, che sarà determinante per le nostre scelte: è credere in Lui, l’abbandonarsi a Lui, il lasciarsi contagiare da Lui; avere cioè la capacità soprannaturale di “vedere”, riconoscere, percepire, constatare che Lui effettivamente vive, parla, agisce, nella nostra vita umana. Dio non può fare nulla se noi non riconosciamo che Lui è presente, se non crediamo in Lui, se non ci apriamo a Lui con fede sincera. Perché la fede non è capire, non è conoscenza: la fede è incontrare Lui, è sperimentarlo, unirci a Lui vivo, abbandonarci a Lui. Del resto, Dio non costringe nessuno, non obbliga nessuno a seguirlo: se noi non vogliamo lasciarci coinvolgere, se non vogliamo cambiare, se ci rifiutiamo di fare il bene, Dio non può sostituirsi a noi e farlo al posto nostro. Certo, è molto difficile per noi accettare e condividere questo principio: perché in teoria, tutti diciamo di volere Dio, tutti diciamo di essere buoni cristiani, tutti diciamo di ascoltare la sua parola. Ma un conto è dire, un altro è fare: una cosa è promettere di collaborare con l’azione divina, un’altra è mantenere responsabilmente la nostra promessa. Ciò che ci è particolarmente difficile da capire, è che Dio ci salva, certamente, ma solo se lo vogliamo anche noi, solo se dimostriamo di meritarlo con la nostra vita concreta: Dio infatti ci riempie del suo amore, solo se noi gli apriamo il nostro cuore; Dio ci rende buoni, solo se noi glielo permettiamo; Dio ci salva, ci accompagna al centro della Vita futura, solo se noi camminiamo con Lui. Dio ci ha voluti assolutamente liberi; per cui senza un nostro cenno di sincera adesione, senza un nostro concreto apporto personale, Egli non può far nulla per noi, nonostante la potenza infinita della sua misericordia, del suo amore.
Dio su questo, non accetta la nostra falsità, l’indifferenza, la tiepidezza: “Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 14-20).
Quante persone che conducono una vita “tiepida”, indifferenti a Dio, superficiali, sono pronte a giurare che credono in Dio e che lo amano. Ma non può essere vero: semplicemente credono, si illudono di amarlo. Credere vuol dire aderire a Dio con tutte le proprie forze, con tutta la propria mente, con tutte le proprie scelte di vita; vuol dire soprattutto essere pronti a combattere, a mettersi in gioco, a rinunciare alla propria onorabilità, a tutto, con perseveranza, fino alla fine, fino al martirio, per difendere la propria fede in Lui. Altrimenti sono solo parole.
Ma torniamo al Vangelo: di fronte alle critiche, all’incredulità dei suoi compaesani, Gesù prova dunque solo tristezza: “Come fate a mettere in discussione ciò che faccio? Come fate a non percepire l’amore, l’apertura, la misericordia contenute in ogni mia parola, in ogni mio gesto, in ogni mio sguardo? Come fate a non rendervi conto che vi amo? Come fate a non riconoscere la vostra ottusità, i vostri attaccamenti, le vostre chiusure?”. E con tanta amarezza deve constatare: “Nessuno è profeta nella sua patria”. Parole che trovano conferma nelle tristi avventure dei profeti dell’intera storia d’Israele; parole che esprimono un’amara rassegnazione al rifiuto della sua persona da parte dei suoi concittadini. E conclude sconsolato: “Neanche se Dio scendesse di persona, voi credereste!”.
Qui sentiamo tutta la delusione di Gesù. Una drammatica, identica sensazione, che quanti credono e vivono in Dio, condividono continuamente nell’avvicinarsi a fratelli che non sanno vedere, che non vogliono vedere, che rifiutano a priori la realtà, la verità.
Il verbo greco “ethàumazen” (da thaumazo) è molto più forte di un semplice “meravigliarsi”: descrive un Gesù che, di fronte alla cecità, all’ottusità di chi ha davanti, rimane costernato, incredulo, senza parole. È traumatizzato dalla loro cocciutaggine, dal loro irrigidimento mentale. Il fisico Einstein – e se ne intendeva di queste cose – amava dire: “È più facile spezzare l’atomo che il pregiudizio dell’uomo!”.
Purtroppo, ancora oggi troppa gente è convinta che la fonte della loro felicità sia il mondo con i suoi lustrini, l’avere tanti soldi, una bella casa, un buon lavoro, una suocera simpatica, un amico e collega disponibile. L’uomo d’oggi, con la sua ostinata presunzione di negare Dio, di combatterlo in tutti i modi, vive in balia di mille illusioni, di continue delusioni e sconfitte: ma non capisce, non vuole capire. C’è veramente da rimanere allibiti, senza parole; è proprio vero: non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, né peggior sordo di chi non vuol sentire. Amen.