giovedì 18 agosto 2022

21 Agosto 2022 – XXI Domenica del Tempo Ordinario


Lc 13,22-30 
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi». (Lc 13,22-30).

Gesù continua il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il riferimento ad un continuo, necessario e irrinunciabile andare incontro al compimento della missione salvifica assegnatagli dal Padre. Una progressione continua e ascendente che dovrebbe animare anche il nostro percorso di perfezione spirituale, segnato invece da eccessive e interminabili soste inutili. Se spiritualmente non ci muoviamo, se non siamo in costante cammino continueremo a rimanere nella mediocrità, non andremo mai da nessuna parte, poiché nell’anima rimaniamo spiritualmente “morti”.
Ci siamo mai chiesto perché il Signore dice ai suoi: “Seguimi”? Perché “seguire” presuppone appunto un “avanzare” continuo e progressivo. Non si può seguire il Signore rimanendo fermi, rimanendo sempre gli stessi, fossilizzati sulle stesse idee, sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si giustifica dicendo: “Ma tutti hanno sempre fatto così!”, vuol dire che nella sua vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni alternative, più appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, più convenienti al suo particolare percorso di cristiano.
Un vuoto immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste, insoddisfatta: perché è ripiegata su sé stessa, non ha idee; perché ripete continuamente senza alcun entusiasmo, passivamente, le stesse cose; non si rinnova, non aggiorna il suo percorso, si rifiuta di accelerare traendo il meglio da se stessa: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui.
Vogliamo fare una piccola verifica su come noi ci comportiamo a questo riguardo? Vogliamo sapere se siamo veri discepoli del Signore, in continua “tensione”? È molto semplice: è sufficiente verificare se le nostre preghiere, la nostra fede, il nostro modo di credere, il nostro atteggiamento nei confronti di Dio e del prossimo, sono gli stessi, identici, di quando eravamo bambini: se è così, vuol dire che il nostro cammino cristiano è rimasto allo stadio infantile; non siamo cresciuti, siamo rimasti fermi ai primi passi; vuol dire che gran parte della nostra vita è passata inutilmente. Se a quarant'anni la nostra coscienza continua a rimproverarci su “bugie... parolacce... preghiere dimenticate... doveri non mantenuti”, vuol dire che siamo ancora ai nostri otto anni, alla prima comunione! Dal punto di vista spirituale siamo rimasti immobili, immaturi; non siamo cresciuti per nulla.
Seguire il Signore vuol dire invece immettersi in un processo di continua crescita, di continua trasformazione, di continua conversione; di rovinose cadute, è vero, ma anche di eroici risollevarci. L’anima è dinamica: la caratteristica essenziale della vita spirituale, come di quella biologica, è appunto crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, portare frutti.
Mentre dunque Gesù percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda chiaramente superficiale, da curioso, di uno che parla tanto per dire qualcosa, per far notare la sua presenza: Gesù giustamente non gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è questo il punto! A Lui preme sottolineare invece l’impegno che tutti devono mettere per raggiungere la propria di salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci riusciranno; allora comincerete a bussare... Signore aprici! Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete!». Eccoci serviti; non serve a nulla conoscere in quanti si salvano: l’unica cosa che ci deve interessare è sapere se noi abbiamo i requisiti per rientrare tra quelli!
E allora non perdiamo tempo, pensiamo a noi stessi, concentriamoci sul nostro cammino.
Più parliamo a vuoto, più spettegoliamo sulla vita altrui, meno riusciremo a concentrarci su come vivere correttamente la nostra, perché, quello di salvarci, è un problema serio, impegnativo: il quadro che Gesù oggi ci presenta è a tinte molto cupe, dure, tragiche. Non sono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze. Il Dio che ci viene presentato è un Dio completamente diverso dal buon samaritano, dal buon pastore, dal padre buono e misericordioso che ama alla follia i figli ribelli; il padre che attende fiducioso il loro ritorno, che perdona ogni cosa, che accoglie sempre tutti e comunque a braccia aperte. Qui è un Dio “intransigente”, un Dio da temere e da rispettare. Quando i ritardatari rimasti “fuori”, distratti e inconcludenti, gli chiedono di aprire la porta, Egli non ha dubbi o ripensamenti: “Non vi conosco, non so di dove siete…”.
Siamo di fronte ad una situazione veramente terribile: una situazione però che non dipende da Dio: non è Dio che ci rifiuta, che ci condanna, che non ci riconosce: Egli sa bene chi siamo; Egli stesso ci ha creati a sua immagine e somiglianza, un’immagine che doveva essere il nostro personale documento di identità. Ma se noi, strada facendo, abbiamo deturpato i nostri lineamenti originali, sovrapponendo tutta una serie di maschere inguardabili: quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; se insomma abbiamo preferito deformare le nostre sembianze divine, luminose, splendide, rendendoci irriconoscibili perfino a Colui che ci aveva plasmato, è naturale che nel presentarci all’ingresso del suo Regno, Egli ci dica, lasciandoci confusi, completamente sbigottiti: “Non vi conosco. Allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia!”. “Ma come Signore? Io un “operatore di ingiustizia”? Impossibile! Tu sai bene che sono un “cristiano adulto”: io prego, vado in chiesa tutte le domeniche, non ho mai fatto male a nessuno, mi sono sempre comportato bene, non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono mai stato un disonesto. Ho “mangiato e bevuto in tua presenza”, sono rimasto nelle tue chiese con te, ho ascoltato le prediche dei tuoi preti, ho mangiato il Pane Eucaristico insieme a tutti gli altri. Come fai a non riconoscermi?”. Il nostro sfogo difensivo però è insufficiente: inutile a quel punto vantare curricula immacolati! Anche perché, in fondo, il motivo di tale rifiuto lo conosciamo molto bene: solo che nella nostra ottusità di egocentrici, ci siamo guardati bene dal prenderlo in considerazione quando avevamo ancora tempo!
Abbiamo fatto tante cose costruttive, buone, ammirevoli, è vero: ma “farle” soltanto non basta: abbiamo agito, rimanendo “fuori”, ci siamo accontentati della visibilità esteriore, dell’apparire, del consenso mondano; non siamo cioè “entrati dentro” di noi, nella nostra anima; abbiamo agito non seguendo la mentalità di Dio, ma quella del mondo, abbiamo preferito lavorare per il piacere immediato, per la soddisfazione momentanea, piuttosto che per amore di Dio, quell’amore che ci proietta nell’infinito: rimanendo “fuori”, infatti, non abbiamo potuto udire la voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi richiami, i suoi consigli, le sue direttive sicure, la sua voce paterna; abbiamo rifiutato l’offerta collaborativa della sua amicizia, gli abbiamo preferito le false prospettive del mondo, lasciandolo nella più completa solitudine.
Ecco allora che il vangelo di oggi, nonostante tutto, ci offre l’opportunità di rimediare, di riprogrammare la nostra vita, prima che sia troppo tardi, facendoci entrare finalmente nell’esatta prospettiva evangelica, lavorando, sudando, sforzandoci a superare le inevitabili difficoltà del nostro percorso.
La porta d’ingresso al Regno di Dio è stretta: se pensiamo di passare rimanendo nella nostra tracotante e mostruosa obesità, dovuta alle stratificazioni di infedeltà, di menefreghismo, di falsità, ci sbagliamo di grosso: in tali condizioni non potremo mai superare nulla, tanto meno la strettoia che introduce nel Regno.
Sforzarsi”, in greco “agonizomai”, significa letteralmente “lottare, combattere, gareggiare”.
“Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare; “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
Nessuno ha mai detto che crescere spiritualmente sia semplice, che vivere seriamente da cristiani autentici sia un gioco da ragazzi; le difficoltà che incontreremo ci faranno talvolta paura; forse ci faranno anche piangere, ci creeranno tensioni, vere lacerazioni interiori. Ma se le ignoriamo, se le lasciamo lì, se le evitiamo facendo finta di nulla, quando verrà all’improvviso il momento della nostra inevitabile “agonia” non potremo fare più nulla, e sarà troppo tardi. Amen.

 

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