giovedì 8 novembre 2018

11 Novembre 2018 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario


“Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (Mc 12, 38-44).

Gesù si trova nel tempio. E guarda, osserva quello che gli accade intorno. E commentando ciò che vede, impartisce una profonda lezione di vita.
“Gli scribi amano passeggiare in lunghe vesti…”. Al tempo di Gesù, tutti indossavano il tallit, una specie di scialle, per andare nel tempio a pregare; quello degli scribi però si distingueva dagli altri perché era molto ampio, lungo e sontuoso. Era impossibile non notarlo, non ammirarlo. Un simile abbigliamento, da solo, qualificava già la persona che lo indossava, ne stabiliva l’alto grado sociale, ne sottolineava le cospicue possibilità finanziarie; essi camminavano lentamente tra la folla, per “ricevere saluti nelle piazze”, per essere ammirati, riconosciuti, temuti; incutevano, nella gente semplice che incontravano, un senso di inferiorità, di soggezione, di sudditanza. Nelle sinagoghe ovviamente avevano un posto riservato, un posto d'onore, di fronte a tutta l'assemblea. Promettevano preghiere e sostegno spirituale alle vedove, che nella società di allora costituivano l’elemento più debole, più sfruttato. In realtà la promessa di difenderle era solo un pretesto per spillare loro quattrini, spogliandole di quei miseri averi che le mantenevano in vita. Insomma erano delle persone poco raccomandabili, questi scribi: pieni di loro stessi, erano tutta e sola apparenza.
“Essi riceveranno una condanna più grave”. Gesù non ha pietà per questo genere di falsari della vita, della religione e del culto, per questi amanti dell'apparire, della pubblica ostentazione delle loro “sontuose vesti”, della loro facciata, del loro apparente benessere, della loro inesistente superiorità. Personaggi che la gente ammira e invidia comunque; personaggi che amano fare notizia, apparire sempre sulle prime pagine dei giornali: sono in pratica gli “scribi” del ventunesimo secolo, quelli che la gente comune ritiene “fortunati” perché hanno tutto dalla vita, quelli che “possono”, gli “arrivati”, i “potenti”, quelli del “lei non sa chi sono io!”
Il mondo è pieno di questi “vip”, miseri commedianti della vita, affamati di “divismo”, che barattano la loro dignità pur di “apparire”, di esibirsi nei salotti televisivi, nelle manifestazioni mondane, cercando ad ogni costo l’applauso mediatico, l’ammirazione di quella massa decerebrata che li adora, ammaliata dal fascino fasullo della loro immagine! Una pletora di personaggi che si illudono di essere insostituibili alla cultura, opinionisti “di tendenza”, sostenitori di qualunque iniziativa trasgressiva, parolai insulsi dei vari salotti televisivi: il gossip che li riguarda è ormai diventato l’animatore assoluto di trasmissioni pomeridiane al limite di una vomitevole idiozia, unico nutrimento culturale e spirituale per la gente d’oggi.
Siamo purtroppo caduti tutti decisamente in basso! Ci lasciamo abbagliare non dalla Luce vera, ma da fuochi fatui, e non ci rendiamo conto che in realtà, dietro una facciata splendida, spesso si cela un abisso di solitudine, un cumulo di cattiverie, di vuoto, di violenze, di lacerazioni interiori. Anche noi, piuttosto che dal calore dell’Amore divino, ci lasciamo sedurre dal gelido scintillio di una vita senza senso! 
Noi “scribi” di oggi siamo infatti disponibili a tutto, arriviamo a qualunque compromesso spirituale, a condizione che la nostra immagine esteriore sia sempre affascinante, luminosa, attraente; purché il nostro nulla, il nostro vuoto di personalità, di amicizia vera, di amore, trapeli agli altri. Siamo uomini di cartapesta, autentici pupazzi, fenomeni da baraccone.
Ce ne rendiamo anche conto, ma ci sta bene così: non vogliamo cambiare, non vogliamo metterci veramente in gioco. Dimostriamo di non aver capito che essere individui veri, genuini, protagonisti aperti alla vita, non vuol dire stare sopra gli altri, apparire, essere osannati, ma essere sé stessi, essere i primi in basso, nell’umiltà; vuol dire fare il bene nel silenzio, senza guardare ai riconoscimenti, agli applausi degli altri; vuol dire primeggiare nella carità, nell’amore. Eppure solo un’esistenza di basso e umile profilo interiore ci renderà primi, vincitori della buona battaglia, benvoluti agli occhi di Dio, fortunati beneficiari della Vita.
Essere vivi vuol dire avere occhi luminosi, sentimenti fluidi; vuol dire ascoltare gli altri con interesse, dire soltanto ciò che ha un senso e non è banale; vuol dire che facciamo spazio per gli altri, che ci sentiamo a nostro agio con le persone più umili; che non abbiamo bisogno di attaccare il prossimo, né di difendere la nostra reputazione; di non assecondare la voglia di elevarci sopra gli altri, sopra i nostri fratelli. Soprattutto vuol dire non inseguire il successo ad ogni costo, ricorrendo a mezzi meschini, come giudicare malignamente, screditare, demolire la dignità della gente. Un percorso purtroppo che talvolta è molto familiare anche per noi: tentiamo cioè, anche noi, di costruire la nostra gloriosa facciata sulle rovine morali dei nostri fratelli. Ma è veramente triste ricorrere a tanta meschinità per ottenere onori, gloria, consensi!
L'egoista (lo scriba, il narcisista) è uno che si preoccupa soltanto della propria immagine; l'uomo di fede invece si interessa della vita. L'egoista crede nella magia dell'apparire e del buon nome; l'uomo di fede invece crede nella vita dello Spirito che lo inabita. La sua preoccupazione non è risultare gradito ad ogni costo, ma sviluppare il divino, lo Spirito che abita nella sua anima.
Agli scribi Gesù dice: “Guai a voi, guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità” (Mt 23,27-28).
Ciò che fa infuriare maggiormente Gesù è che queste persone false, non sono persone anonime, insignificanti; sono “scribi”, sono gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio, i custodi e amministratori della legge. Sono persone che parlano continuamente di Dio, che hanno sempre il consiglio pronto su come ci si deve comportare, su cosa si deve fare; persone che si vantano di saper interpretare la volontà di Dio, ma che lo fanno soltanto per gli altri. Hanno sempre in bocca il nome di Dio, ma il loro cuore è vuoto, arido. Lo conoscono benissimo con la mente, ma lo ignorano totalmente nel cuore.
Un atteggiamento purtroppo molto comune: possiamo infatti sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarci ogni mese, essere insomma “uomini di chiesa”; ma se il nome di Gesù non ci fa sussultare l'anima, se le sue parole non ci fanno vibrare il cuore, se il suo pensiero non ci trasmette desiderio di verità e di ricerca, in una parola se non ci “prende”, se non ci appassiona l'anima, a che ci serve tutto quello che sappiamo, che ce ne facciamo di tutte le nostre conoscenze?
Ebbene, sono proprio questi sedicenti “uomini di Dio”, questi “scribi e farisei”, le persone che Gesù considera false, senza fede, eretiche e ingannatrici. E a tutti noi dice: “State attenti”, non fatevi ingannare: chi ama Dio, non si vede dal vestito o dalla tonaca; da come si esibisce nel tempio, da come predica bene o dal colore dello zucchetto. Chi ama veramente Dio si riconosce dalle opere, dalla coerenza con cui vive, dalla forza d'animo, dall'amore e dalla bontà che gli traspare luminosa dagli occhi e dal cuore.
Concluso questo sfogo contro gli scribi, nauseato, irritato per il loro comportamento, Gesù va a sedersi in prossimità dell'ingresso del tempio, dove stazionavano gli incaricati alla raccolta delle offerte libere. Era lì che i ricchi, con grande sfoggio, contrattavano con i sacerdoti l'entità delle loro cospicue donazioni, accolte dai suddetti con soddisfatti sorrisi di compiacimento; ed era sempre lì che i poveretti, in particolare le povere donne, disponendo di somme molto esigue, erano costretti a subire dagli stessi un malcelato biasimo e disprezzo.
Essere vedove, all’epoca, significava essere senza reddito, senza un minimo di sostentamento: le donne non lavoravano, erano costrette a vivere di elemosina, di carità, di quel poco che altri donavano loro. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli sempre affamati da nutrire.
Probabilmente i pochi spiccioli offerti dalla vedova notata da Gesù, costituivano l’intera somma della sua giornata di elemosina. Agli occhi superficiali e boriosi degli addetti, quella donna non offre praticamente nulla, una cosa irrisoria, un'inezia. Ma agli occhi profondi e misericordiosi di Gesù, quella donna offre il massimo, tutto quello che possiede, tutto quello di cui dispone, tutto di tutto. Il criterio di valutazione di Dio è molto diverso dal nostro. Dio non vuole mai “qualcosa” di noi, Dio vuole “tutto” di noi. Dio non vuole da noi “cose”; vuole soltanto noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Egli vuole che noi, per Lui, ci mettiamo completamente in gioco. Vuole che noi per Lui, cambiamo radicalmente il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di credere; vuole che diamo un ordine diverso alle nostre priorità.
Se non fosse stato per lo sguardo amorevole di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna. Quello che per gli addetti al culto era dozzinale, insignificante, senza valore, per Lui non lo era affatto. Perché anche le cose più umili, più insignificanti, al suo sguardo acquistano valore, lucentezza, splendore!
Gesù ha sempre amato gli umili; ad essere suoi discepoli non ha certo chiamato i sacerdoti del Tempio, né i ricchi farisei, né gli scribi, i sapienti di allora. Gesù ha scelto invece persone di poca cultura, dei pescatori un po’ rozzi, a volte di testa dura e ostinati (come Pietro). I “grandi” maestri dell’epoca lo avranno sicuramente commiserato per questa sua scelta così scombinata. Ma Lui sapeva quel che voleva, Lui vedeva dentro: quelle persone avevano poco o nulla, è vero; ma erano pronte a dare tutto quello che avevano.
Agli occhi di Dio tutto si trasforma: il nostro buio e le nostre sofferenze, in Lui acquistano luce e gioia; la nostra povertà, per Lui è inestimabile ricchezza; il nostro nulla, per Lui è un tesoro prezioso. Ai suoi occhi, il tanto è nulla, il niente è tutto!
Scegliamo allora la vita e non la morte: noi siamo “vita”! Accettiamo la nostra realtà, la nostra vita: noi siamo così, con la nostra storia, le nostre origini, la nostra infanzia, le nostre radici; se vogliamo essere qualcos’altro da quello che siamo, non potremo che fallire. Partiamo da noi: siamo unici; non siamo come nostro padre, né come nostra madre, né come gli altri: spetta solo a noi compiere quel viaggio dentro di noi, per essere ciò che veramente siamo, per essere come Dio ci ha creati. Scegliamo l’amore: facciamo vivere il nostro amore.
L’amore di Dio vive in noi: conosciamolo, sperimentiamolo, usiamolo verso di noi e verso gli altri, con misericordia, tenerezza, compassione.
Scegliamo di donarci piuttosto che di venderci: realizziamoci nel dono di noi stessi. La nostra vita ha bisogno di essere data, versata, spesa per una grande causa: solo allora ci sentiremo al servizio del mondo e di Dio; solo allora saremo utili e, vivere, acquisterà finalmente il suo senso autentico e profondo. Amen.



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