«Per questo a loro parlo con
parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…»
(Mt 13,1-23).
Per
ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo
dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci,
sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto
isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di
distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo:
dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che
abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi
ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare in esse la nostra vita... ci
diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene:
la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge
sul terreno la sua semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo
è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido,
battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e
attecchire. Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono
sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade tra le
fessure; in realtà sono i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità,
la nostra faciloneria; rappresentano le persone volubili: all’inizio la cosa,
la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il
terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le
spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo
ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro
sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a
crescere, ma ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi
esteriori. Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui,
solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Bene:
noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di
esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per
esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a
finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che,
nonostante tutte le mie fatiche, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante
volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo
amato, ma non abbiamo ottenuto assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati.
Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per
amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al
pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è
altrettanto vero che c’è sempre una piccola parte che nasce, che cresce, e col
tempo matura. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre
contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore.
Dobbiamo cioè essere certi che il nostro seminare nella carità, pur in
alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo
poi metterci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono
caduto? In che terreno sono stato
messo? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su
cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà
destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi,
sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora:
“che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In cosa devo crescere, cosa devo
far vivere, cosa sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella particolarità
che è solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? In una parola: qual
è il mio carisma?” È molto importante conoscere le proprie reali possibilità,
perché un uomo identico a tutti in tutto, un uomo che non si distingue dagli
altri è soltanto una fotocopia, la copia perfetta, la riproduzione di un
qualcosa che già c’è: è quindi inutile.
Del
resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è
niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io
nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo
infatti dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare, presente solo in
alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un seme per nascere
deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo nella mia
vita?” Tutte domande che aspettano una risposta, che solo entrando in noi
stessi possiamo dare!
C’è
infine una terza possibilità in questa parabola: quella cioè di metterci dalla
parte del terreno. E allora le domande da porci sono: “Che terreno sono io?”.
Che tipo di terreno penso di essere?”
Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme), ciascuno di noi
(il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo
per esempio questo principio a quanti si accingono a leggere queste righe di “commento”:
è impossibile che esse producano per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni
sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno
immediatamente pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla,
neppure il vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati,
alleggeriti in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno
come prima: vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene
fatta alle persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei
sempre uguale?”. Sono il terreno “sassoso”.
Altri
ancora saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero
tanto poterle adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli
altri, è troppo forte e invadente: “Ma credi ancora a queste panzane? Sono di
uno che parla, parla, e non si accorge che la vita è un’altra cosa”. E così il
mini germoglio appena nato, morirà. È il terreno “con le spine”.
Ma può
anche darsi, infine, che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo
Spirito di Dio, escano da questa pagina in qualche modo “rinnovati”; in futuro
non saranno mai più come sono entrati. Come mai? Perché hanno riconosciuto in
queste parole, apparentemente banali, la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo
stesso testo del vangelo e lo stesso suo “commento”, hanno ottenuto risultati
diversi: perché sono le persone a non
essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma non la fede, le aperture e
le chiusure mentali, i blocchi, i pregiudizi delle persone. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno. Il seme di Dio, uguale per
tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del terreno che lo accoglie. Ciò
che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se
noi fossimo insieme tutti e quattro i terreni di questa parabola? Essa ci
aiuterebbe comunque ad accettare oltre che le conquiste (pochine), anche i
nostri fallimenti (molti). Guardando ai frutti negativi prodotti dalla nostra
vita, non dobbiamo quindi pensare di essere dei falliti in tutto; perché bastano
anche pochi risultati positivi per dare un senso alla nostra vita.
E concludo:
Gesù ci accoglie e ci ama anche se non riusciamo a portare frutto in ogni nostro
tentativo. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente dei terreni
aridi. Dobbiamo certo insistere continuamente nel voler migliorare, nell’essere
più accoglienti, ma senza pretendere da noi stessi l’eroismo, senza pensare di
ottenere immediatamente il massimo della perfezione: la scala della santità è
lunga ed irta di difficoltà: un piccolo passo in avanti, una nostra piccola
parte di terreno fertile e fruttifero nella nostra anima, deve bastare per
infonderci coraggio, per farci guardare al traguardo con fiducia e umiltà: non
deprimiamoci, non rinunciamo a combattere, non desistiamo dal voler salire:
perché la nostra vita ha comunque un senso, ha comunque uno scopo, porta a
maturazione qualche buon frutto, nonostante i nostri quotidiani fallimenti, i
nostri insuccessi, le nostre aridità. Amen.
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