Marco inizia il suo vangelo presentandoci la figura di Giovanni Battista che nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottoporsi al battesimo. Il suo è un battesimo di “conversione”, un battesimo cioè fondato sulla metànoia, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Il battesimo del Battista altro non è quindi che il segno, il simbolo dell’avvenuta conversione: le acque del Giordano provvedono solo a “lavare”, a “ripulire” il convertito da tutti i suoi peccati. Ovvio che a monte deve esserci la conversione, il cambiamento di vita; altrimenti il battesimo avrebbe perduto ogni suo significato; in pratica, il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che voi veniate da me per un semplice lavaggio esteriore che senso ha? non serve assolutamente a nulla”.
Il punto focale è infatti proprio questo: il battesimo di Giovanni poggia tutto sull’individuo, sulla sua ferma volontà di non peccare oltre, di astenersi in futuro da ogni altra colpa. E non è cosa di poco conto, perché il convertirsi sul serio, il cambiare i propri modi di vivere e di pensare, è molto impegnativo, è difficilissimo.
Il Battista tuttavia conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle volte al passato, ma con il dito puntato in avanti, indica l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
“Viene dopo di me colui che è più forte di me”: egli ne è consapevole. Gli altri devono capirlo. L’annuncio di Giovanni presuppone la fede, il suo è un appello che suscita ed esige la fede.
Inutile continuare a vedere Dio assiso solitario nell’alto dei cieli, al di fuori della nostra vita e della nostra storia. Il Cristo, Figlio di Dio, è uomo tra gli uomini, si trova ormai nella storia, nelle singole situazioni concrete, in tutti gli uomini. Qui si vede la superiorità e la infinita potenza che distingue Gesù, il Messia, da Giovanni il precursore. E qui si nota anche la differenza tra i due gesti battesimali: Giovanni usa l'acqua soltanto, mentre Cristo manderà il suo Spirito che assieme all'acqua toglie radicalmente il peccato dal cuore dell'uomo.
Ma procediamo per gradi: il Battista dunque sta portando avanti la sua missione predicando la conversione del cuore e della mente. Einstein diceva: “E' più facile spezzare l'atomo che le abitudini di un uomo”. Difficile ma non impossibile.
Poi però, improvvisamente, succede qualcosa che ha sul serio dell’impossibile; qualcosa di imbarazzante. Cosa succede? Che mentre il Battista sta “lavando” nel Giordano i peccati e le colpe di quanti vanno da lui per ricevere il battesimo, gli compare davanti lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che ha messo non poco in difficoltà i presenti e più tardi i primi discepoli della giovane Chiesa: “ma come, che bisogno aveva Gesù di “lavarsi”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazaret”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell'antica alleanza: non a caso Gesù ha lo stesso nome di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Gesù raggiunge il Battista sul Giordano provenendo da Nazaret di Galilea: Marco, che ha scritto il vangelo più antico, non fa alcun riferimento a Betlemme e ad una sua nascita lì. Quindi Gesù non nasce in Giudea, a Betlemme, ma in Galilea, a Nazaret. E siccome per la Bibbia non era possibile che lui nascesse in una regione pagana e disprezzata come la Galilea, forse è per questo che la sua nascita è stata spostata a Betlemme di Giudea, esattamente come aveva preannunciato la Bibbia (lì doveva nascere il Salvatore).
Quindi Marco dice che Gesù si fa battezzare. Egli si presenta, cioè, all’inizio del suo ministero, in tutto solidale con gli uomini: in fila come tutti gli altri peccatori. Ma egli non confessa i suoi peccati, come tutti gli altri: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita. Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c'è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Questo è il battesimo del Battista. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare tutto questo, ricorrendo ad un verbo particolare: una volta cioè che si trova immerso nelle acque del Giordano, Gesù anabàinon, salendo, vide aprirsi i cieli…”: ci saremmo aspettati un “uscendo dall'acqua, vide… ecc.”; uno entra dentro e poi ne esce fuori. Marco invece descrivendo l'uscita dalle acque di Gesù, usa lo stesso verbo “salire”, utilizzato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Egli “sale” finalmente in cielo. Stesso verbo, stesso significato. Lo scopo del Battesimo di Gesù pertanto non sta tanto nell’eliminazione del peccato originale, nella purificazione dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere su di Lui, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, lacerati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni varco. Dio non si concedeva più, non si comunicava più, al suo popolo. Non c'era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia diceva: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”. Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l'uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l'interposizione di altre chiusure.
Questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l'uomo, torna a donarsi all'uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: come si sono aperti, infatti, così potrebbero anche rinchiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di una deflagrazione. La differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio infatti è un’apertura definitiva, violenta; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso”. Nel tempio un velo enorme lungo 25 metri copriva l’accesso ad una stanza vuota in cui non c'era nulla. Lì entrava il sommo sacerdote, una volta all'anno, per pronunziare il nome impronunciabile, il nome di Dio. E si credeva che in quella stanza vi fosse la gloria di Dio, la sua presenza. Ebbene, che succede? Appena Gesù muore, questo velo si squarcia. E se si è “squarciato” non sarà più possibile rammendarlo. Il Dio che era nascosto dal velo del tempio, il Dio velato, il Dio nascosto nel tempio, si è definitivamente rivelato in Gesù, in Gesù crocifisso. È lui l'immagine visibile di Dio. È il Crocifisso, il segno ormai visibile dell'amore di Dio; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, neppure se lo rifiutiamo, neppure se non lo vogliamo più, neppure se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più ritirare il suo amore nei confronti dell’umanità.
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L'articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù. Non una parte, tutto. Gesù è il possessore de “lo Spirito”. In Gesù si manifesta, non un qualcosa della divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità. “Scese su di lui come colomba”.
Per questo, quando si analizza il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare lo stretto contatto che esiste con il racconto della sua morte. Quando Gesù muore (Mc 15,37) si dice che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non muore mai: non si dice mai infatti, che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Osservando meglio però, vediamo che il verbo ek-pneuo usato da Marco, ha la stessa radice di Spirito, di Pneuma. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) e alla sua “morte” egli emette, Spirito che continua a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui. Pertanto, qui nel battesimo entra quindi in Gesù lo stesso Spirito che Lui poi donerà a tutti nella Pentecoste: il suo spirito d'Amore passerà in eredità a tutti noi, alla sua Chiesa.
E la colomba? È un'immagine, chiaramente. Un proverbio ebraico decantava l'attaccamento della colomba al suo nido, la sua fedeltà. Lo Spirito che scende su Gesù come colomba, vuol dire che scende su di lui con lo stesso attaccamento di una colomba che ritorna al suo nido; lo Spirito di Dio, la forza di Dio, rimarranno in perenne simbiosi con la persona di Gesù.
Poi Marco dice: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito”, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).
È la voce dell'amore di Dio. La voce dell'amore e della vittoria sono infatti all'inizio e alla fine della vita di Gesù. Tutta la vita è nell'amore, immersa nell'amore di Dio che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare ciò che deve realizzare.
È infatti quest'amore, questa voce che ci fa sentire al sicuro, protetti, amati, sorretti, che sarà la forza che ci condurrà ovunque. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre, in ogni caso; un amore che non si ritragga mai per nessun motivo; un amore che non si perda, che non si possa mai perdere. Allora, forti di questo amore, possiamo fare tutto.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce.
Poi, dobbiamo “volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché spesso abbiamo proprio paura di sentire quello che Dio potrebbe dirci; preferiamo non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo calarci in tutti i rumori di questo mondo. E invece no. Dobbiamo al contrario creare intorno a noi il silenzio dell’ascolto! Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le altre voci. Vi ricordate Elia? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12). Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell'amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L'amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché sappiamo contraccambiare. Dio ci ama perché siamo “noi”. Quando in collegio, dovevamo andare a colloquio col Padre spirituale, avevamo imparato che bastava non raccontargli certe cose, e lo facevamo contento, evitando così di ricevere interminabili ramanzine e severe “penitenze”.
Ma con Dio non è così. A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Noi dobbiamo soltanto dirgli: “grazie, Padre!”. Amen.
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