Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori
Ci sono alcune categorie di persone nel Vangelo verso le quali sembra che Gesù abbia una vera allergia, una istintiva incompatibilità di carattere: sono coloro che si ritengono “giusti”.
Di fronte a loro Gesù si sente disarmato e quasi inutile. Non può entrare in dialogo con loro, perché si sentono “a posto”, non hanno bisogno di salvezza né di perdono. Sono persone aride, incapaci di andare al di là della giustizia; la loro religione è quella del “io do, perché tu mi dia”. Gesù ha dipinto il loro atteggiamento nella parabola degli operai della vigna (Mt 20,1-16) che si lamentano della generosità del padrone verso gli ultimi arrivati. Nella parabola del figlio prodigo essi rivestono i panni del figlio maggiore geloso della bontà del padre verso il figlio che ritorna a casa (Lc 15,11-32). Il loro ritratto è quello del fariseo che “paga” a Dio anche la più piccola tassa, ma disprezza cordialmente e giudica dall’alto della sua “giustizia” il pubblicano che invoca misericordia (Lc 18,9-14).
A una religione ridotta alla giustizia dell’uomo, Gesù oppone una religione fondata sulla misericordia divina (Vangelo). Citando Osea (Prima Lettura) egli ricorda che i profeti hanno già ricusato il valore dei riti, anche se perfettamente eseguiti, e l’osservanza meticolosa ma esteriore della Legge, a favore di una religione di amore e di misericordia. Le simpatie di Gesù vanno, invece, verso i peccatori, i disprezzati, gli “scomunicati” del suo tempo, coloro che le persone perbene non osavano nemmeno frequentare per non contaminarsi. Lo accusano come amico dei pubblicani e delle peccatrici. Ma Gesù risponde loro dicendo che pubblicani e prostitute li precederanno nel regno dei cieli e frequenta le loro case incurante delle reazioni scandalizzate che suscita nei benpensanti. Prendendo parte alla stessa mensa con i peccatori, Gesù non solo si pone accanto a loro, ma comincia a realizzare quello che prometteva: «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre» (Mt 8,11-12).
Ogni volta che nel vangelo il Cristo prende la figura dei “Radunatore”, rivolge la sua convocazione specialmente alle categorie scartate dalle assemblee ebraiche. «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi..., perché la mia casa si riempia» (Lc 14,21.23). L’assemblea ebraica escludeva queste persone: «Il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa» (2Sam 5,8), come escludeva i pubblicani e i peccatori. Questi sembrano essere, invece, gli invitati privilegiati di Gesù, perché egli è Gesù, il “Salvatore”.
Questo aprirsi di Cristo a tutta l’umanità peccatrice nel desiderio di portare tutti alla salvezza, incontra resistenza e suscita scandalo anche oggi. Esiste, infatti, anche oggi una tendenza a rinchiudersi in piccole oasi di fervore religioso, a considerare o a desiderare una Chiesa fatta di “puri”, di persone scelte, impegnate, pie. “devote”…
Attenzione: il segno della propria fede non si realizza appartandosi, o dividendo gli uomini in “giusti” e “ingiusti”, in “buoni” e “cattivi”, in “vicini” e “lontani”, in “osservanti convinti” e “tiepidi”. Senza dire, poi, che molte volte il termine di paragone e di confronto per stabilire queste divisioni è soltanto la pratica esteriore, l’appartenenza sociologica, cioè, l’identificazione della vita di fede con il culto, la pratica, l’osservanza. Questo atteggiamento risente di una certa mentalità farisaica, che Gesù ha rifiutato.
La parola di Cristo è efficace e raggiunge l’uomo lì dove vive: per Gesù non ci sono esclusioni, tutti sono chiamati ad accogliere il Vangelo e chi l’annuncia, e ad abbandonare il passato dando ospitalità a Cristo nella propria vita fino alla comunione con i fratelli.
Si, perché la chiesa è comunione, carità, condivisione totale tra tutti.
È questa misericordia, questo amore, questa unione, che rende vero ed efficace il sacrificio, l’Eucaristia.
La misericordia, l’amore, va ben oltre le prescrizioni, ed è ciò che sta a cuore a Dio.
A noi, testimoni del comportamento di Cristo, non resta che imitarlo. Siamo, quindi, invitati a fare nostra la coppia dei verbi “andate e imparate”, cioè andare, fare, agire… Così facendo si impara l’insegnamento di Gesù, lo si capisce a fondo. D’altra parte mentre si agisce si capisce, mente si fa si impara. E questo si attua nell’Eucaristia: mentre si celebra il cuore è trasformato, la vita si apre al Cristo. L’Eucaristia è rivelazione del suo amore per tutti gli uomini. Tutti siamo chiamati a farci carico come lui dei dolori della gente per curarli nonostante la nostra debolezza e piccolezza. Cristo è il modello da seguire e la via per testimoniare oggi la sua misericordia. Per celebrare degnamente l’Eucaristia dobbiamo costantemente verificare il grado di ospitalità che ogni Comunità cristiana esercita nella “pacifica” convivenza tra peccatori e giusti, tra gruppi diversi e popoli diversi. Ogni esclusione è esclusione di Cristo, è lontananza da Lui, è incomprensione di «che cosa significhi misericordia io voglio e non sacrificio» (Vangelo).
Il periodo estivo è alle porte: se da un lato la fine delle attività e degli impegni importanti ci offre l’opportunità di uno “stacco” salutare dalla normale routine, dall’altro tuttavia essa non deve coincidere anche con il termine della frequenza alla Celebrazione Eucaristica domenicale; anzi, il periodo estivo dovrebbe costituire l’occasione per dedicare qualche tempo in più alla preghiera e alla riflessione personale. Per i giovani poi potrebbe anche essere l’occasione per fare qualche esperienza che li aiuti a comprendere la propria vita come una vocazione.
Matteo inserisce nel suo splendido racconto evangelico una vibrante pagina autobiografica. Racconta di quando, molti anni prima, ha conosciuto Rabbì Gesù. Lui, Matteo, faceva il pubblicano, cioè l'esattore delle tasse per conto dei romani: un collaborazionista e un ladro, abituato a fare la cresta sul denaro incassato. La sua giurisdizione era Cafarnao, sul lago di Tiberiade, grosso centro posto sulla strada che da Damasco porta al mare.
Matteo era ricco, molto ricco, spregiudicato e temuto. Odiato, certamente, com'è odiato chi ha fatto fortuna sulle tragedie altrui. E venduto, perché, si sa, il denaro non puzza, e occorreva rassegnarsi alla dominazione romana. Idolatra, per i farisei e i devoti, perché portava in tasca le monete dell'Impero, con il bel faccione dell'imperatore stampato sul conio.
Poi, un giorno, l'incontro con quell'ospite di Pietro e Andrea, i pescatori che gli fornivano due volte a settimana il pesce del lago. Lo aveva già visto altre volte, il Nazareno; sapeva che giocava a fare il mistico, il profeta, Ma lui, Matteo, non aveva tempo per occuparsi di religione.
Accadde, così, semplicemente come Matteo ce lo racconta. Il Nazareno si accostò, sorridendo, al banchetto delle tasse. Lo guardò con intensità. Matteo si aspettava un rimprovero, come spesso accadeva da parte dei devoti che andavano in sinagoga e che sputavano in terra quando lo incrociavano. Invece no. Gesù disse, semplicemente: vieni?
Matteo restò interdetto. Avrebbe voluto fargli mille domande. Non un suono gli uscì dalla gola. Semplicemente andò.
Matteo scrive questa pagina trent'anni dopo. Ci sta dicendo: ne è valsa la pena, non è stato il momento inebriante e fuggente dell'evento spettacolare, del ritiro o del pellegrinaggio, della giornata della gioventù o dell'esperienza di Taizè, esperienze travolgenti che devono poi passare al setaccio della quotidianità e della povertà delle comunità parrocchiali. Trent'anni sono una vita, e Matteo dice a noi suoi lettori: ho lasciato tutto: ricchezza, potere, progetti e ho seguito il folle Nazareno. Ne è valsa la pena, credetemi, è come se la festa che ho dato giunta la sera e a cui Gesù ha voluto partecipare, malgrado fossimo tutti dei rampanti professionisti della truffa, degli spregiudicati manager senza scrupoli, fosse continuata fino ad oggi.
Che tenerezza suscita Matteo! Sentiamo forte la sua emozione, intuiamo la forza rigeneratrice di questo incontro e ci fermiamo alle soglie del mistero dell'incontro fra Dio e l'uomo. Tutela della privacy. Quale argomento ha potuto convincere un uomo così radicato nel proprio delirio di onnipotenza a lasciare tutto per seguire un Maestro farneticante?
La misericordia, fratelli, la misericordia. Matteo ha incontrato in quello sguardo tutta la tenerezza che si era negato e che gli avevano negato, tutto il bene che non pensava possibile, tutto il rispetto di chi ti ama davvero, di chi oltrepassa i tuoi limiti, i tuoi peccati, le tue scelte spregevoli e vede in te ciò che tu non vedi più: il santo che potresti essere.
Gesù lo ama, senza giudicarlo, senza offenderlo, senza astio o rabbia o moralismo.
Lo ama con libertà e, amandolo, lo fa nuovo. Matteo diventerà ciò che Gesù ha pensato di lui, Matteo diventerà il santo che scopre di essere.
Matteo è sconvolto. Non sa dove lo condurrà questa avventura, non sa ancora cosa succederà; i suoi amici lo prendono in giro, non lo capiscono, ma brindano alla sua fortuna. Matteo segue il suo istinto: non ha mai trovato tanta gioia in un momento solo, tanto amore in un solo sguardo.
La misericordia ci converte, fratelli. Non il timore, non il giudizio, non la legge, non la devozione, non l'etica, non la ragione, non la volontà. La misericordia: l'esperienza del cuore di Dio che supera la nostra miseria, l'amore di Dio che mi aiuta a superare la mia e l'altrui fragilità.
Levi si è convertito perché, per la prima volta, si è sentito amato.
Per due volte, oggi, la Parola di Dio se la prende con un atteggiamento di fede esteriore: in Osea il Signore vuole amore e non sacrificio, conoscenza di Dio, non olocausti e, nello splendido brano del vangelo di Matteo, nuovamente Gesù se la prende contro chi giudica il suo atteggiamento spregiudicato, chiedendo ai farisei di avere più misericordia e di non giudicare con durezza la sua disponibilità ad accogliere i peccatori...
Esiste, dunque, un modo di essere discepoli (di fare i discepoli) basato sull'esteriorità e sul sacrificio, dice il Signore. Vero, ci sono infatti molti cristiani che si fermano al senso del dovere, che concepiscono la fede come una specie di tributo (noioso) dovuto alla divinità.
È sempre successo e sempre succederà, tutto avviene a causa della fragilità del cuore degli uomini, della nostra connaturale fatica alla conversione, alla chiusura del cuore che troppe volte avvelena ed inquina la vita. Ma, ammonisce la Scrittura, il Signore non ama l'esteriorità, ma neppure il sacrificio. Ovviamente il Signore intende il sacrificio come gesto cultuale, la preghiera, il rito, la cerimonia che non sia desiderio di incontro e di lode; possiamo - paradossalmente - andare a Messa tutte le domeniche della nostra vita senza mai incontrare la straordinaria bellezza e dolcezza di Dio... Ma "sacrificio" anche nel senso comune di sforzo, di dovere subìto con cristiana rassegnazione. Non è la terribile immagine di cristianesimo che molti si portano nel cuore? Una specie di doverosa ed inevitabile sofferenza da sopportare per meritarci il paradiso?
Macché, non dobbiamo "meritare" un bel niente, il Paradiso è gratis: Gesù è morto per renderci partecipi della sua gloria: l’unica cosa che dobbiamo fare è “accoglierlo”. Completamente!
Quando mai capiremo che Dio desidera solo essere ricambiato nell'amore straordinario che ci offre?
Che la logica del dovere sta stretta alla logica dell'amore? Certo, poi, nella concretezza dell'amore ci troviamo a compiere dei gesti che ci fanno morire a noi stessi, che diventano davvero sacri (sapevate che la parola “sacrificio” significa “sacrum facere”, rendere sacro”?) che rendono più vero e saldo il nostro amore. Ma in genere noi tutti abbiamo l'idea del sacrificio come uno sforzo sterile in nome di una qualche obbedienza di cui non sappiamo la finalità. Sia chiaro, fratelli, Dio vuole amore, non sacrificio.
Come Matteo anche noi siamo chiamati ad incrociare lo sguardo intenso e amorevole del Rabbì Gesù che non giudica, che guarisce, che chiama.
Allora, fratelli e sorelle che casualmente leggete queste righe, permettetemi di dirvi: quando finalmente vi lascerete raggiungere e amare dal Signore? Quando la smetterete di concepire la fede come una specie di tributo da pagare a Dio? No, fratelli: qui non si tratta di “tributi”, qui è di luce che si parla, di tenerezza e di serenità, di pace e di conversione.
Questo Dio che ci viene a stanare per offrirci amore, questo Dio che soffre come un amante ferito quando non viene ricambiato, è lì che ci aspetta. Tutti.
E allora lo ripeto: noi… per quanto tempo ancora fuggiremo l'unica cosa che davvero ci può rendere felici?
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