giovedì 23 maggio 2019

26 Maggio 2019 – VI Domenica di Pasqua


“Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto… Vado e tornerò da voi” ( Gv 14, 23-29).

Rispetto alla Pasqua, dobbiamo fare un passo indietro: il vangelo di oggi ci riporta infatti all'ultima cena. Nel corso del lungo discorso fatto in quell'occasione, Gesù annuncia la propria partenza, che se ne va; ma consapevole del turbamento e dello sconforto che i discepoli avrebbero provato a tale notizia, aggiunge subito: “Vi lascio la pace... Non sia turbato il vostro cuore, non abbia timore”.
Effettivamente lo smarrimento degli apostoli è grande, ma Gesù dice: “Tranquilli, amici miei, perché dopo la mia morte sentirete una presenza dentro di voi che vi sosterrà e vi darà forza. Voi ora soffrite, ma la vostra sofferenza sarà presto cambiata in una gioia indicibile”. Le parole di Gesù, oltre che a consolare gli apostoli, a rassicurarli, anticipano quanto di impensabile succederà dopo la sua partenza: Egli sarà sempre con loro, in maniera diversa ma sarà con loro; una nuova realtà nascerà in loro: lo Spirito di Dio che li proietterà verso una vita completamente nuova.
Anche noi a volte consoliamo chi si trova in difficoltà con tante belle parole: ma le nostre belle parole difficilmente riescono a raggiungere il cuore delle persone: scivolano via, perché non sono convinte, sono solo di convenienza. Spesso invece basterebbe fare silenzio, non dire nulla, ma esserci. Far “sentire” la nostra presenza, il nostro coinvolgimento.
“Consolare” deriva da cum-solus, stare cioè con chi è solo. Affiancarci. A volte infatti non c'è niente da dire. Non c'è niente da fare. Si tratta solo di esserci. Di assicurare la nostra “consolante” presenza. Il dolore, la fatica, l'angoscia, le separazioni, fanno parte della vita. Ne sono il corollario. Non si possono eliminare. In tal caso consolare non significa minimizzare, non significa far finta di niente: consolare vuol dire aiutare a superare le contrarietà della vita.
Il vangelo ci descrive una situazione particolarmente critica per gli apostoli: il mondo sta per crollare loro addosso; tutto quello per cui avevano lottato e vissuto, improvvisamente sta per finire: Gesù, la loro guida, il loro punto di forza, sta per andarsene lasciandoli soli. L'angoscia li sommerge! Ma Gesù: “Non abbiate paura amici miei, non turbate il vostro cuore. È vero, fisicamente non sarò più con voi, ma continuerò comunque a starvi vicino. Avvertirete la mia presenza dentro di voi; non vi sentirete mai soli. Credetemi sarà così”. E fu così.
“Se uno mi ama osserverà la mia parola”.
“Osservare” vuol dire non perdere mai di vista. Qui, allora, non si parla di “osservanza” nel senso “obbedienza”, di comportarci cioè in modo giusto o sbagliato, ma di “custodire” gli insegnamenti di Gesù.
Le parole che Gesù aveva pronunciato durante la sua missione terrena, avevano riscaldato il cuore degli apostoli, la loro anima; erano state il loro nutrimento vitale. Ora, se vogliono continuare ad amarlo, le devono “osservare”; le devono custodire come un tesoro unico e prezioso.
Rimanere fedeli a sé stessi significa che non dobbiamo mai perdere di vista ciò che ci prende l'anima, che ci appassiona il cuore, che è centrale per la nostra vita. Non facciamoci distrarre. Dobbiamo invece chiederci sempre: “Noi cosa vogliamo? Di che cosa siamo affamati? Che cosa ci fa sentire vivi?”. L'anima non si accontenta di quello che le passa davanti. L'anima vuole il suo nutrimento, il suo cibo. E una volta che abbiamo individuato ciò che per lei è vitale, dobbiamo conservarlo, custodirlo, fare in modo che non vada perso.
Oggi il mondo ci offre migliaia di cose da fare. Se guardiamo a tutto ciò che potremmo fare, ci confondiamo. Il rischio è di essere tirati a destra e manca, di voler fare di tutto e di più, senza poi arrivare a nulla di concreto. Per questo dobbiamo ogni tanto fermarci, pregare, e ripartire, avendo ben chiara dentro di noi la direzione del nostro andare.
Conserviamo gelosamente le nostre intuizioni: non perdiamole! Non dimentichiamo mai ciò che appassionava la nostra anima. Perché è diventando sordi ai suoi suggerimenti che moriamo dentro.
Conserviamo le nostre relazioni umane: ci sono delle persone che sono per noi come dei porti, delle ancore di salvezza, dei salvagente nel pericolo; mai perderle, mai lasciarle, perché esse ci aiutano a vivere.
Conserviamo i nostri incontri: ci sono delle esperienze che ci ricaricano, ci fanno rientrare in noi stessi, ci danno forza ed energia per andare avanti, ci riscaldano il cuore, sono sangue e linfa dell'anima. A volte la fatica, la stanchezza, ci distolgono da ciò che per noi è vitale.
Conserviamo le nostre parole: in certi momenti della vita tutti noi abbiamo percepito dei richiami, delle parole che ci hanno toccato il cuore, che ci hanno scosso, che sono rimbombate dentro l’anima; accarezziamole, ritorniamoci sopra, custodiamole perché sono il dono di Dio per ciascuno di noi, sono le indicazioni di chi siamo e di dove andiamo.
Solo così ci renderemo conto di cosa vuol dire avere il Consolatore dentro di noi.
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
Quando il mondo ci cade addosso, quando ci ritroviamo di fronte ad una difficoltà insuperabile, ad un errore colossale, quando dobbiamo fare una scelta che nessun altro può fare per noi, ed è una scelta difficile, dolorosa, scendiamo dentro di noi e cerchiamo: perché da qualche parte c'è Lui, il Consolatore.
È questo che il vangelo di oggi ci dice: è dentro di noi, nella nostra intimità, che troviamo forza e consolazione: perché lì c'è lo Spirito, lì c’è il Dio Amore, lì c’è il “Dio in noi”.
A che servirebbe essere forti all’esterno, belli, grandi, potenti, se poi all’interno non sappiamo attingere dalla Vita, la forza di reggere le difficoltà, di vincere le debolezze, di sostenere i nostri principi?
Purtroppo il mondo si preoccupa esclusivamente dell’apparire: di essere più belli, più affascinanti, più eleganti, più applauditi di qualunque altro. È un'idea illusoria che avvelena la vita di milioni di persone. Per il mondo, è “forte” chi non ha cedimenti, chi non sente la paura, chi non dimostra mai alcun dubbio, alcuna incertezza, alcun cedimento, alcuna debolezza; la “forza” dell’uomo di mondo sta nell'intensità e nella profondità dello sguardo, nel suo portamento “regale”, nel suo incedere affettato; è “forte” chi è “un tipo”, chi conta migliaia di “follower”, di ammiratori che stanno tutti ai suoi piedi, chi ostenta il coraggio di affrontare qualunque rischio, chi sa mascherare bene la propria vita; è “forte” chi è scaltro, chi è astuto, chi è furbo, chi è calcolatore, chi se la cava sempre e comunque, chi come il camaleonte si adatta a tutto, in vista di un tornaconto.
Per il vangelo, la forza di un uomo sta nell’ascoltare la propria coscienza, nel conoscere sé stesso, nel seguire i suggerimenti dell’anima, nell’accettare umilmente ciò che la Vita gli riserva, nel non vergognarsi della propria fede, di chiamare ogni “cosa” con il suo nome, nel chiedere perdono quando sbaglia, nel mettersi a servizio del prossimo, nell’evitare insomma qualunque compromesso, qualunque passo falso, con la propria coscienza, con la propria dignità e integrità, con la propria vita.
Quando guardiamo un albero lussureggiante, siamo portati a dire: “Che belle foglie; com'è alto! E che fiori! E che frutti meravigliosi!”. Ma in realtà dovremmo dire: “La bellezza, il vigore, la forza di quell’albero, dipendono dalle sue radici nascoste nella profondità del terreno, dalla linfa che scorre senza ostacoli e senza barriere al suo interno; è solo grazie a loro che la sua energia interiore, sprigionandosi all’esterno, lo rende bello, fiorito, carico di frutti”. Perché quel che appare all’esterno, è l’esatta proiezione di quello che si nasconde all’interno, in profondità.
Per cui se esaminando la nostra vita, non siamo soddisfatti di come ci comportiamo esteriormente, di quello che dimostriamo all’esterno, una cosa sola ci rimane da fare: modificare, correggere, cambiare radicalmente il nostro interno. Amen


giovedì 16 maggio 2019

19 Maggio 2019 – V Domenica di Pasqua


“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 31-33a. 34-35).

Per comprendere bene il vangelo di oggi dobbiamo leggerlo nel suo contesto originale, altrimenti i riferimenti e il significato delle parole sfuggirebbero alla nostra attenzione.
Il testo infatti inizia con “Quando fu uscito…”: ma a chi si riferisce? Chi è la persona che, una volta uscita, costringe Gesù a dare delle spiegazioni ai presenti su quanto è avvenuto immediatamente prima? Che significa che Gesù ora si sente “glorificato”? per che cosa?
Cerchiamo di dare un senso a questi interrogativi, spostandoci su quanto accaduto immediatamente prima.
La scena si svolge all’interno del cenacolo, durante l’ultima cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai dodici, e sta raccomandando loro di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, di chi ne ha maggior bisogno. È un momento di grande intimità: egli sta impartendo le sue ultime raccomandazioni, sta consegnando loro il suo testamento spirituale: è serio, parla a voce bassa, confidenzialmente, lasciando emergere dal cuore tutta l’amarezza e l’inquietudine per l’imminenza del suo grande Sacrificio; improvvisamente tace, e proseguendo con voce rotta dall’emozione, rivela un particolare tremendo: “Uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21).
Ne segue un silenzio glaciale. I dodici si guardano l’un l’altro: “Uno di noi? Impossibile! Noi siamo tutti con te!”. In loro domina lo sgomento, il dramma, la costernazione, ma si insinua anche il dubbio. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Signore, chi è?”. “È colui per il quale inzupperò il boccone e glielo darò”, risponde Gesù.
Era usanza del tempo che nei banchetti importanti, il padrone di casa offrisse il primo boccone all’ospite d’onore, in segno di deferenza e di stima. È questo l’estremo gesto d’amore e di rispetto di Gesù nei confronti di Giuda, nel tentativo di distoglierlo dal suo insano proposito. Ha provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutta la sua amicizia, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma qualunque suo sforzo non è servito a nulla: Giuda insisterà nel suo rifiuto, ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.
È a questo punto che si allaccia il vangelo di oggi: “Quando fu uscito...”: una volta cioè che Giuda se n’è andato dal cenacolo, Gesù offre ai suoi una spiegazione su quanto successo, ma lo fa con parole di difficile interpretazione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato…”; Giovanni nel riportarle, usa per ben cinque volte, in due soli versetti, il termine “glorificare”: ora, quando noi parliamo di “gloria, glorificare”, colleghiamo immediatamente questi termini alla fama, alla notorietà, al potere di una persona. Avere gloria per noi significa ottenere il pubblico consenso, la pubblica ammirazione; significa essere riconosciuti da tutti, essere arrivati molto in alto nella scala sociale; in genere noi “rendiamo gloria, glorifichiamo” le persone coraggiose, i santi, i martiri, le persone eccezionali che hanno vissuto eroicamente.
Nel linguaggio biblico, invece, “glorificare”, vuol dire “rivelare, mostrare, far vedere”. “Glorificare” è quando Dio si “rivela in tutta la sua maestà”, quando si rende visibile, quando fa conoscere solennemente la sua presenza: nel nostro caso, Gesù “glorifica” Dio, perché, lui stesso Dio, con la sua incarnazione, con la sua vita terrena, lo ha reso visibile, sperimentabile, toccabile con mano, a noi mortali.
Un fatto straordinario che deve valere come programma esistenziale per tutti gli uomini: perché anche noi dobbiamo “glorificare Dio”, dobbiamo farlo “emergere”, rendendolo “presente, visibile, palpabile” nella nostra persona e nella nostra vita: in una parola dobbiamo dimostrare concretamente di essere “suoi” discepoli, amandoci gli uni gli altri.
In questo modo Gesù capovolge completamente il senso delle nostre attuali categorie religiose. Per noi, infatti, è “cristiano”, cioè “di Cristo”, chi è battezzato, chi va a messa, chi rispetta certe regole e certe norme. Ma per Gesù essere cristiani, essere suoi discepoli, significa soprattutto amare come Lui ha amato”, con un amore identico al suo, identico a quello del Padre.
Ma come ama Dio? “Dio è amore”, proclama Giovanni: Dio è l’Amore assoluto e totale che, grazie ai meriti di Gesù, concede gratuitamente e indistintamente il suo “amore” a tutta l’umanità. Perché Dio ama tutti: anche quelli che non lo meritano; anche quelli che lo tradiscono; anche quelli che lo rifiutano.
Il “Figlio dell’uomo”, pertanto, ha “glorificato” il Padre, rivelando questo Amore del Padre all’umanità intera, rendendolo fruibile e sperimentabile concretamente da tutti; per questo stesso motivo il Padre ha “glorificato il Figlio” rendendo cioè noto a tutti la portata e il significato del suo sacrificio sulla croce, veicolo di amore per l’umanità intera.
Come possiamo allora anche noi partecipare alla gloria del Padre? significa amarlo come ha fatto il Figlio, senza chiedere nulla in cambio, senza avanzare pretese. Noi, è vero, non vediamo Dio; ed è altrettanto vero che amare chi non vediamo, è difficile; ma abbiamo i nostri fratelli che ci stanno sempre vicini, abbiamo il nostro prossimo che vediamo continuamente: amando loro, è come se amassimo Lui, perché “chi ama loro, ama me”.
Poi Gesù prosegue dicendo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Perché lo definisce “nuovo”? Perché un tempo il pio ebreo amava solo i componenti della propria famiglia o, al massimo, la gente del suo popolo: per cui “amare tutti”, indistintamente, era certamente una novità: ma non è ancora questa, la vera novità. Il “novum” dell’amore sta nelle parole che seguono: “Come io vi ho amato”. Questa è la “novità”; questo è il cambiamento rivoluzionario dell’amore: amare come ha fatto Gesù, amare con il suo stesso amore.
La vecchia legge stabiliva “ama il prossimo tuo come te stesso”: il termine di paragone era l’uomo. La legge nuova di Gesù, pone invece come termine di paragone l’amore di Dio: “Ama il prossimo tuo come Io ho amato te”. Se per gli Ebrei Dio era l’innominabile, l'invisibile, che incuteva timore, riverenza, lontananza, che esigeva servizi e sacrifici, per i cristiani Dio è gratuità, presenza continua, vicinanza, disponibilità, provvidenza e amore continuo: non siamo noi a dover “dare” qualcosa a lui, ma è lui che si dona a noi, è Lui che si abbassa al nostro livello, che si pone al nostro servizio, rimanendo sempre al nostro fianco; Una vera e propria rivoluzione.
Quindi il vangelo insiste concludendo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Parole di estrema importanza, che meritano una più attenta considerazione proprio da parte nostra, di noi cattolici super praticanti e chiesaioli”, che ci definiamo “osservanti” grazie alle nostre frequentazioni religiose domenicali. Gesù infatti non dice: “Si saprà che siete miei discepoli se andate a messa tutte le domeniche, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose, se siete iscritti a tutte le associazioni cattoliche”. No, Gesù non dice questo. Anzi, all’epoca, egli si è dimostrato particolarmente severo proprio con quella casta di scribi e farisei che si ritenevano gli unici “eletti” da Dio, gli “osservanti” perfetti, i custodi del tempio.
Ciò che ci deve distinguere, non è quindi l’apparire, il “fare”, il “dare”, l’essere giudicati importanti, diversi dagli altri, insostituibili alla parrocchia; il vero “marchio”, quello che ci fa riconoscere come discepoli di Cristo, quello fondamentale, è uno solo, l’amore. I riconoscimenti, gli stemmi, le insegne, gli abiti, le decorazioni, i riti, le celebrazioni, il canto, cose di cui andiamo tanto fieri, contano ben poco, sono solo dei corollari, incapaci da soli a qualificare la nostra fede, la nostra vita interiore.
La nostra risposta alla “chiamata” di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi insegnamenti, va quindi misurata solo ed esclusivamente sull’amore: a Dio, alla famiglia, ai fratelli, al proprio stato, ai propri doveri di cristiano e di cittadino; non su un amore straordinario, eroico, da prima pagina dei giornali o da interviste televisive, ma sull’amore discreto, umile, nascosto: in quei piccoli gesti d’amore che non hanno bisogno di grandi imprese, di grande visibilità, ma che comunque raggiungono subito lo scopo, perché compiuti nella riservatezza, nell’umiltà, nel silenzio. Amen.


giovedì 9 maggio 2019

12 Maggio 2019 – IV Domenica di Pasqua


“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10, 27-30).

Il Vangelo di oggi è formato dai quattro versetti finali del discorso detto del “Buon Pastore”, incluso da Giovanni tra le catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. Sono poche parole, che sintetizzano e documentano tutta la personale e coraggiosa convinzione dei primi cristiani di fronte ad una situazione estremamente ostile nei loro confronti: chi ascolta e segue il Signore non deve temere nulla, perché nessuno riuscirà mai a strapparlo dalle sue mani.
“Ascoltare la voce del pastore”, “essere da lui riconosciuti”, “seguirlo”: tre momenti con un crescendo programmatico che deve determinare anche la nostra vita di cristiani “moderni”.
Approfondiamo come al solito la portata di queste parole.
“Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire” significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente. “Ascoltare” invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro (ausculta o fili), interessando l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per accettarlo volentieri (libenter excipe) ma soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple). “Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’azione consapevole.
Noi in genere “udiamo” tantissime cose, ma non per questo le ascoltiamo.
Ne consegue che “come uno ascolta” così anche si comporterà, così imposterà la sua vita.
Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo.
Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo che ci “costruisce” dentro.
Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver udito tante belle prediche o tante catechesi!
In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamo?
Eppure alcuni santi si sono addirittura convertiti, “ascoltando” anche una sola parola della scrittura: noi al contrario abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza che mai sia scattato qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima.
Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”.
Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “a-surdus” = senza ascolto, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita: siamo sordi!
E non essendoci “ascolto”, da sordi, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!
L’altra parola da approfondire è “conoscere”. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano.
Per noi, “conoscere” significa sapere chi è un tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Ben più profondo ed esplicativo è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia.
La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È in questo modo che Gesù “conosce” coloro che “ascoltano” la sua voce: ed essere individualmente riconosciuti da Lui, essere chiamati ciascuno col proprio nome, sarà un’esperienza unica, indescrivibile, che ci cambierà profondamente, ci destabilizzerà, ci rapirà dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.
Infine, la terza parola è “seguire”. È la conseguenza dell’ascolto e del “conoscere”: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. E così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio.
“Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”.
Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà.
L’ansia è la compagna fedele del nostro viaggio.
Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? A nulla: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo.
Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba.
Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono, do loro la vita eterna, non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
I primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Fidiamoci anche noi di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: e allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dal suo amore! Amen.



giovedì 2 maggio 2019

5 Maggio 2019 – III Domenica di Pasqua


“Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (Gv 21,1-19).

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, e quindi stabiliamo che non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere anche noi come gli apostoli: “No”. Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo soddisfatti per come siamo, ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, scontenti di tutto e di tutti. Di veramente prezioso da offrire, non abbiamo proprio nulla; anzi la prima cosa da fare è dirci francamente: “Così non va!”; perché, per poter guarire, dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che i malati siamo noi, e non gli altri: siamo noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo darci da fare.
Dio ci aiuta certamente, ci mette sicuramente del suo in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con effetto istantaneo: un evento, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
Esattamente come accadde quel mattino sulle rive del lago di Tiberiade.
Dopo una notte intera di faticoso lavoro senza alcun risultato, Gesù rimanda gli apostoli in “mare”, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora ripartono con un obiettivo ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”.
La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, della superficialità, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
Lo stesso ordine Gesù lo ripete anche a noi; dopo i nostri fallimenti, puntualmente ci rimanda nella nostra vita, nel nostro quotidiano; non ci impone di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di sconvolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. Ma: “Fate le cose di prima, le stesse, ma adesso fatele in maniera razionale, consapevole. Non vivete più con la testa fra le nuvole; non aspettate che le difficoltà spariscano magicamente, fatevi delle domande serie, osservatevi, guardatevi, chiedetevi cosa volete da voi stessi, qual è il vostro ideale, cosa vi appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire scioccamente la maggioranza, chiediamoci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Quali ideali mi muovono? Quali paure mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono sincero in quel che faccio? O preferisco nascondermi indossando delle maschere?”. Dobbiamo convincerci che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa.
Noi ci illudiamo invece che le cose in grado di saziare i nostri cuori si trovino all’esterno, al di fuori di noi. Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci rende pieni di gioia, ciò che ci fa sentire amati da Dio, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova al di fuori ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi stessi che dobbiamo lavorare continuamente, con noi e con il Dio che ci inabita.
Questo fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava: un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!”.
Il messaggio è chiaro: anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e fragilità, potremo un giorno “vedere e riconoscere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia.
Purtroppo la gente cerca Dio nelle “visioni” dei ciarlatani, nelle pseudo apparizioni, perché non “lo vede” nella propria vita. Ma Dio ci appare, ci incontra, soprattutto nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità, un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è sempre per noi, è a nostra disposizione; il suo luogo preferenziale è “dove c’è carità e amore”: dobbiamo soltanto imparare a “vederlo”.
Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo, senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, non riescono a “vedere” il Signore. Come è successo a Pietro: lui l’uomo razionale, efficiente, irruento, l’uomo d’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore, non riconosce il Signore: Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e lo indica a Pietro: “È il Signore!”.
Pietro assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
È interessante notare come Pietro, grazie a questo suo carattere altalenante, compia una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica: una volta riconosciuto Gesù, per esempio, senza alcuna esitazione, si getta in mare per raggiungerlo: era al largo, stava tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Una decisione improvvisa, quella di Pietro, che però, secondo i Padri della Chiesa, contiene un forte simbolismo: egli cioè “deve” buttarsi in acqua, prima di raggiungere Gesù, perché deve “bagnare” la propria presunzione, la propria sicurezza; deve cioè fare un bagno di umiltà, deve ricredersi, deve immergersi, anche lui come Giovanni, nel “mare” dell’amore.
Altro particolare curioso: prima di buttarsi in acqua, “si veste”: ma se mentre pescava era nudo, che senso ha “rivestirsi” per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa per Pietro, indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno sempre bisogno di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. È Lui infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra, ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora”. Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima infatti di conferire a Pietro il mandato di “guida”, di “pastore”, Gesù mette alla prova l’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèo”. Ora, in greco, “Agapào” indica un amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece si riferisce ad un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. Gesù è diretto nella sua domanda, esige una risposta netta, un amore incondizionato, da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèo”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, assoluto, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene…” (“filèo”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” e passa a “filèo”, lo stesso verbo usato da Pietro, e gli chiede: “Simone, mi vuoi bene” (Sìmon, filéis me)?
In pratica si accontenta del suo “ti voglio bene”, si abbassa, si adatta, si adegua alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento, ancorché incompleto, è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore; tre volte gli ha in pratica detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti senta esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione, solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù conclude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi sì decidere la direzione da percorrere, ma devi anche lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire lui dove andare. Ma avere fede in Dio, amare Dio, significa lasciare spazio a Lui, abbandonarci a Lui, lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno a priori può essere certo che Dio ad un certo giorno non decida di rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non desideri qualcosa di più impegnativo da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia abbandonare progetti, amicizie, ideali, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e il nostro presente?
Noi amiamo immaginarci celebri, ricchi, realizzati, magari sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili; con una vecchiaia serena e piena di soddisfazioni: ma chi può assicurarci che il nostro domani non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa? L’importante è che noi siamo sempre e comunque pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.


venerdì 26 aprile 2019

28 Aprile 2019 – II Domenica di Pasqua


“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. (Gv 20,19-31).

I discepoli dopo essere stati testimoni della tragica fine di Gesù, si rifugiano nel cenacolo: sono molto tristi e scossi per la sua scomparsa, ma anche colmi di rabbia pensando a ciò che è accaduto: il popolo, sobillato dai capi religiosi, ha condannato a morte e ucciso il loro maestro, loro punto di riferimento, ricorrendo a motivazioni pretestuose e false.
Per questo, nel cenacolo, regnava un’atmosfera molto pesante: in un clima di paura per le loro vite, di inconsolabile tristezza per la perdita del loro maestro, di rabbia e odio per i suoi carnefici, Gesù improvvisamente appare in mezzo a loro, e cerca di tranquillizzarli: “Pace a voi”; ossia “state sereni, siate forti, fidatevi di me, perché, come il Padre ha mandato me, io mando voi; dovrete uscire da questo rifugio, andare per il mondo e continuare la missione che io ho iniziato. Andrete senza di me, ma il mio Spirito vi accompagnerà. Ricordate una cosa importante: a chiunque perdonerete i peccati, Dio li perdonerà loro”.
Probabilmente qui Giovanni mette in bocca a Gesù una formula sacramentale, entrata già in uso corrente negli anni in cui egli scrive il suo vangelo. Il senso è comunque molto più vasto di quello strettamente assolutorio del nostro sacramento della penitenza, ed implica anche un comportamento personale che i discepoli devono fare proprio nella loro nuova attività pastorale: un significato suggerito dal verbo greco “afiemi”, che oltre a perdonare significa “lasciate correre”: quindi, nella loro missione tra i popoli, di fronte al male subito, la parola d’ordine è: Perdono, nessuna ritorsione, nessuna vendetta: “Perdona, lascia andare, lascia correre; raccogli i sentimenti negativi che conservi nel tuo cuore (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), tirali fuori, liberali, lasciali andare; non conservare nulla di negativo nel tuo cuore, accetta la tua vita così com’è”.
Se non perdoniamo, se non lasciamo correre, significa trattenere dentro di noi emozioni forti come la rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta, tutti sentimenti che soffocano il nostro cuore, ci inaridiscono, ci avvelenano la vita, rendendola insensibile a qualunque sollecitudine.
Ci siamo mai chiesto come mai tanta gente sia perennemente stizzita, infuriata, scontrosa, arrabbiata, nervosa? Semplice, perché non perdona, non lascia correre, si offende per ogni sciocchezza, trattiene tutto dentro di sé.
Del resto Gesù raccomanda agli apostoli proprio questo: “Se entrate in una città e i suoi abitanti non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatevene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquilli” (Lc 10,11). Quindi: “Vi hanno rifiutato, vi hanno detto di no? Siate superiori, lasciate lì vostro disappunto, non portatevelo appresso, non fatevi condizionare, ma proseguite il vostro cammino a testa alta”.
C’è un’altra cosa poi, molto importante, che Giovanni ci sottolinea attraverso il comportamento di Tommaso: che la nostra fede, il nostro amore per Dio cresce, si affina, prende vigore, proprio dalle ferite, dalla nostra vulnerabilità, dai nostri traumi, dal toccare, dal verificare, dal constatare le nostre debolezze.
Nella prima visita fatta da Gesù risorto ai suoi, mancava infatti Tommaso, l’apostolo diffidente, il quale per credere, per immedesimarsi nel Risorto, deve prima di tutto sincerarsi della sua identità, controllando, toccando con la mano le sue ferite. Tommaso, soprannominato “Didimo”, che in greco significa “gemello”, ha anticipato un’esperienza di fede, di tanti suoi “gemelli”, di quelle persone cioè che si decidono a credere in Dio, ad amarlo come merita, soltanto dopo aver “toccato”, “sperimentato” il valore delle prove, delle ferite: in altre parole il loro cammino di fede coincide con il verificarsi di prove dolorose, di prove che lasciano piaghe profonde: solo ragionando, meditando su queste lacerazioni interiori, arrivano alla fede, arrivano cioè a rifugiarsi in Dio, a chiedergli conforto, ad esprimergli tutta la loro debolezza ed il bisogno del suo aiuto. Sono persone che si pongono il problema della fede e del soprannaturale, di un Dio che le ama e le può aiutare, solo di fronte a situazioni estreme, solo quando tutto quello che ritenevano importante, unico, essenziale nella loro vita, improvvisamente frana, scompare, e rimangono soli, a mani vuote, bisognosi di conforto, di rassicurazioni, di protezione, di cure riabilitative.
Quanti cristiani si ricordano di Dio solo in situazioni simili! Solo allora ascoltano la sua voce, solo allora sentono il bisogno di ricorrere a Lui, di mostrargli il loro cuore ferito; solo allora capiscono il valore del suo aiuto, della sua pietà, della sua misericordia.
Tutti nella vita, chi più chi meno, hanno dovuto fare i conti con delle prove, con dei momenti dolorosi, con delle ferite profonde. Sicuramente anche noi. Anche noi siamo diventati inabili, incapaci, dal cuore indurito, a causa delle nostre infedeltà di cristiani tiepidi e superficiali.
E allora dove incontrarlo? Nel nostro “cenacolo”. Corriamo allora anche noi, come i discepoli, entriamo nelle nostre Chiese: entriamo nella casa di Dio con le nostre ferite, le nostre paure, le nostre miserie; accostiamoci umilmente a lui Eucaristia, prendiamolo nelle nostre mani, tocchiamolo, mangiamolo, perché così, come a Tommaso, il nostro cuore esploderà di gioia, di consolazione, di nuovo vigore. È il nostro incontro con Dio, quell’incontro ravvicinato, intenso, potente, che ci permette di sentire la sua voce nitida e suadente: “Metti la tua mano su ciò che ti fa male; tocca ciò che ti fa soffrire, va incontro al tuo dolore; prenditi cura della tua sofferenza, perché, con me, anche tu risorgerai! Non essere più incredulo, ma sii sempre fedele!”. Ecco, è Lui, l’abbiamo finalmente ritrovato: e il nostro cuore non può che ammettere in tutta umiltà e riconoscenza: “Mio Signore e mio Dio!”
Nulla per il cristiano è più terapeutico, nulla è più risanatore, più curativo, più lenitivo dell’Eucarestia. Per noi infatti è impossibile incontrare Dio in sembianze umane, come avvenne per Tommaso: noi su questa terra non potremo mai incontrarlo per strada, in carne ed ossa. Egli si è incarnato una sola volta, si è reso visibile, uomo come noi, in Gesù: ma Gesù è morto oltre duemila anni fa, è risorto e ha raggiunto il Padre in cielo: ha cioè concluso la sua “manifestazione” umana.
Gesù però sapeva di questa nostra maggiore difficoltà nel credere, nel compiere il nostro percorso di fede, rispetto a Tommaso; tant’è che precisa: “Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”.
Ebbene, quei “beati” siamo noi, ma solo se crederemo realmente e completamente in Lui.
Cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci, per coltivare la nostra fede, per fortificarla, per purificarla, renderla assoluta, in modo da credere profondamente nel Signore pur non avendolo incontrato durante la sua vita umana? C’è un metodo eccellente: frequentando l’Eucaristia. Solo nella Messa noi possiamo infatti incontrare Gesù, possiamo vederlo, sentirlo, toccarlo. E questo ci deve spingere a frequentare sempre con grande attenzione e spiritualità le nostre Eucaristie, senza confondere mai il “fine” con i “mezzi”, con gli “accessori scenici che tanto piacciono al nostro esibizionismo: perché i “mezzi” - come il canto, le letture, l’omelia, i riti liturgici - servono solo per farci raggiungere il fine, l’essenziale, che è appunto quello di “incontrare” Dio, di parlargli, di toccarlo con le nostre mani, di adorarlo. Se la nostra messa non raggiunge tale intimità, se usciamo dalla Chiesa senza portare con noi la sensazione chiara, netta, lucida, di averlo sentito vivo, presente, palpitante in noi e attorno a noi, dobbiamo porci delle serie domande sulla nostra fede, sulla nostra vita cristiana; perché l’Eucarestia non è una sacra rappresentazione, non celebra la memoria di un morto, ma rende vivo un Vivo: ogni volta che facciamo Eucaristia noi riviviamo infatti l’intera esperienza pasquale, Dio riattualizza con noi e per noi il suo sacrificio di salvezza, facendosi per noi realmente carne e sangue, cibo insostituibile per la crescita soprannaturale della nostra fede.
Ecco allora perché per noi cristiani l’Eucarestia è un’esperienza sanante, guaritrice, un incontro autentico con Colui che è Vita, con Colui che ci dà vita.
Dobbiamo dunque avere il coraggio di porci delle domande dure, precise, oneste, per non continuare a prenderci in giro: “Le mie Eucarestie sono veri momenti di vita? Sono esperienze vive col Signore Risorto? Sono un’abitudine da portare avanti, spesso malvolentieri, oppure sono vere occasioni per incontrarmi con Gesù? Dopo l’Eucarestia mi sento di dire a me stesso: Sì, io l’ho visto, l’ho taccato, l’ho incontrato e Lui ha parlato al mio cuore?”.
Giovanni, concludendo il vangelo di oggi, dice: ho scritto tutto questo perché voi tutti “crediate che Gesù è il Cristo, e perché abbiate la vita”: ecco, questo in sintesi significa fare Eucaristia: credere e vivere la Vita. Amen.


giovedì 18 aprile 2019

21 Aprile 2019 – Solennità di Pasqua


“Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!” (Gv 20,1-9).

Oggi celebriamo la Pasqua, il giorno della Risurrezione del Signore: esultiamo e rallegriamoci, perché in questo giorno particolare Dio ha “ricreato” il mondo, l’umanità intera.
Dio, fedele nell’amore eterno per le sue creature, non si è mai rassegnato al crollo del suo capolavoro, non è mai rimasto indifferente alla distruzione di quel rapporto di intima amicizia che lui con tanto amore aveva instaurato con l’uomo.
Oggi Dio fa “tabula rasa” del passato, riparte da zero, ripristina ex novo il creato. Questa volta non in prima persona, ma per mezzo di suo Figlio Gesù, il Verbo presente con Lui fin dal “principio”, che per consentire alle creature di tornare ad essere l’originale immagine del Padre, si è “incarnato”, è diventato anche lui “creatura.
È la vita nuova in Cristo. È la nuova creazione. Grazie alla Pasqua del risorto, il mondo, le creature, l’intera creazione, si sono finalmente riconciliati col Padre. L'uomo, ha potuto riprendere il dialogo interrotto con il suo Dio, ha potuto finalmente ritrovare il vero, autentico senso della vita, della sua esistenza.
Ma l’azione redentrice di Cristo non si è fermata al passato: Egli non si è limitato a risorgere solo allora, ma continua ogni giorno, ogni ora, a risorgere in noi: è il “Risorgente”, è colui che con la sua vittoria sulla morte, continua a far cadere quei massi che, per le nostre ricorrenti infedeltà, continuano ad ostruire la sensibilità del nostro cuore. La Pasqua del Cristo è per noi energia rigenerante, apertura a vita nuova, risveglio dal nostro dormire, ascesa in alto.
Pasqua insomma è la festa dei macigni che rotolano via dal nostro cuore, spalancandolo ad una primavera di rapporti divini e di vita nuova.
Ma, in pratica, cosa significa “risurrezione” per noi? È un’esperienza che faremo solo dopo la nostra morte, oppure va affrontata nel presente, giorno dopo giorno? In tal caso, quando e come viverla? Quali i suggerimenti, i messaggi, le indicazioni che possiamo trarre dal vangelo di oggi? Leggiamolo con attenzione.
Ciò che immediatamente colpisce è senza dubbio il comportamento dei tre protagonisti: Pietro, Giovanni il discepolo che “Gesù amava”, e Maria Maddalena.
Tutti e tre, la domenica di buon mattino, vanno al sepolcro: Maddalena per prima, da sola, gli altri, subito dopo, riaccompagnando la donna per appurare se la notizia della sparizione del corpo di Gesù, da lei riferita, corrisponda al vero.
E qui abbiamo un primo messaggio: per verificare la nostra risurrezione dobbiamo prima di tutto “andare” al sepolcro, entrarvi dentro: dobbiamo cioè scendere materialmente in noi, raggiungere la nostra “tomba”. Dobbiamo vincere quell’innato sgomento che proviamo nel confrontarci con i grandi misteri della vita: con la morte, la fine di ogni cosa, la rottura di ogni equilibrio, il buio totale con cui il tempo si avvolge: dobbiamo esorcizzare queste umane realtà, dobbiamo entrare in noi, con forza e determinazione, perché solo così potremo scorgere la luce sfolgorante della nostra “risurrezione”. Prima però dobbiamo fare i conti con quella “pietra” enorme, con quel pesante macigno, che ostruisce l’entrata: è la nostra arroganza, è l’orgoglio atavico che frena, che blocca sul nascere qualunque nostro tentativo di rinnovamento, di rinascita interiore, di risurrezione: “Adesso cosa faccio?”. La difficoltà ci frena: è una pietra troppo pesante, ingombrante, inamovibile: non ce la faremo mai! Quante volte ci arrendiamo in partenza, quante volte ci rassegniamo al nostro puntuale cadere, senza opporre alcuna resistenza, senza neppur tentare qualche manovra di riscatto. È proprio vero: siamo dei rinunciatari, siamo dei perdenti.
Amiamo cullarci beatamente in quell’orgoglio nefasto che inibisce, vanifica ogni nostra timida aspirazione di risurrezione: dobbiamo spogliarci ad ogni costo del nostro falso perbenismo, della nostra ipocrisia, dobbiamo avere il coraggio di manifestare le nostre fragilità, le nostre debolezze, le sofferenze che ci tormentano l’anima, le prepotenze, le cattiverie, le umiliazioni, che abbiamo fatto o subito nella solitudine, nel silenzio, nel pianto. Dobbiamo insomma rimuovere la “pietra” dei nostri segreti inconfessati, talvolta inconfessabili; la “pietra” del non riuscire a lasciarci andare, ad abbandonarci nelle mani di Dio, a godere del suo amore; la “pietra” del sentirci vuoti, del non-riuscire a dare un senso alla nostra vita; la “pietra” del terrore della morte, della solitudine, delle sofferenze. Tutti dobbiamo fare i conti con una “pietra” del genere: una pietra che in ogni caso deve essere rimossa, deve assolutamente “rotolare via”, per consentirci di realizzare la nostra risurrezione.
Ma proseguiamo nella nostra lettura. Appena La Maddalena annuncia ai discepoli la scomparsa del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni corrono immediatamente al sepolcro: Giovanni, più giovane, corre più veloce ed arriva per primo: ma, una volta giunto, aspetta che anche Pietro, più anziano e quindi più lento di lui, sopraggiunga. A questo punto Giovanni evidenzia una sottile diversità nel loro comportamento: entrambi corrono al sepolcro: ma solo Giovanni, prima di entrare, si china verso l’interno, guarda, intuisce qualcosa; Pietro al contrario entra deciso e osserva distrattamente gli oggetti: “i teli posati là e il sudario”. Ora, “inchinarsi”, indica l’atteggiamento di umiltà di chi è disposto a mettere da parte, ad abbandonare, le proprie idee, i propri ragionamenti, i propri schemi; Giovanni, di fronte a ciò che vede, è disponibile a lasciarsi plasmare, a mettersi in gioco, a cambiare mentalità, mentre Pietro, testa dura, non si china, gli manca quell’umile disponibilità, non percepisce alcunché di speciale, continua a rimanere nelle sue convinzioni.
Entrambi fanno una bella corsa: condizione fondamentale, decisiva. Se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se ci paralizziamo, convinti che non c’è più niente da fare, che la vita non ha più senso, nulla ci sarà mai possibile. Se non ci muoviamo dalle nostre fissazioni, se rifiutiamo di provare, di metterci in gioco, il fallimento è assicurato in partenza!
Pietro e Giovanni, con il loro comportamento, ci suggeriscono due modi diversi di accostarci al Dio della vita, alla fede in lui: quello della razionalità e quello del sentimento. Se da un lato la mente, il raziocinio, ci servono per capire, per spiegare, per interpretare il senso del suo esistere, dall’altro c’è il cuore, c’è l’anima, la vitalità, lo stupore, che ci spiegano il suo Amore per noi, facendoci appassionare, innamorare, inebriarci completamente di lui.
Allora, quando parliamo con chi ci sta a cuore, con le persone che amiamo, con i nostri figli, impariamo a guardarli negli occhi, entriamo dentro la loro anima: prestiamo attenzione non solo a quel che dicono ma soprattutto alle vibrazioni del loro cuore; in altre parole “ascoltiamo” la loro anima, cogliamo la sua loro gioia, il loro amore, i loro entusiasmi e le loro delusioni, la loro gioia e la loro tristezza.
Quando andiamo in chiesa, ascoltiamo nel silenzio il nostro cuore che vibra percependo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi, di Qualcuno con cui parlare, con cui confrontarci, con cui aprirci, a cui affidarci. Forse all’inizio sentiremo emergere dal passato solo lo strepitare di demoni e mostri: momenti brutti della vita, situazioni tragiche, scelte errate, cadute dolorose. Ma poi, nel riconoscere umilmente le nostre infedeltà, nell’abbandonarci fiduciosi alla sua misericordia, sentiremo solo Lui, lo Spirito avvolgente dell’Amore, la sorgente inesauribile della Vita, lo splendore abbagliante della Grazia e del perdono ottenuto; scopriremo allora che sì, uscire dal gelo della morte, dalla tirannia del male, è veramente possibile; scopriremo che quello che stiamo provando è la nostra Pasqua, è la nostra risurrezione.
Terzo personaggio, a colpire la nostra attenzione, è Maria Maddalena.
Maria, come ce la presenta Giovanni, è una donna che ha amato follemente Gesù: lo ha amato in maniera forte, passionale, viscerale. Gesù le aveva ridato la vita, liberandola da sette demoni, e lei in cambio gli aveva donato tutta sé stessa. Quella mattina, strada facendo, si rende conto che “il suo grande amore” non c’è più, è morto; lei è rimasta sola: l’unica consolazione rimastale è di stare più vicina possibile a quel corpo martoriato, averne amorevole cura. Giunta però al sepolcro, un nuovo angosciante dolore si aggiunge al precedente: il corpo di Gesù è scomparso: impietrita, col pianto in gola, corre dai discepoli: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”, comunica loro tra i singhiozzi.
È sconvolta, c’è da capirla, può succedere a chiunque: anche perché lei considerava quel corpo scomparso una sua esclusiva proprietà, era il “suo” Signore, di nessun altro.
Un’abitudine abbastanza comune quella di considerare gli amici, i nostri cari, le persone che amiamo come se ci appartenessero, come se fossero una nostra “esclusiva”: in realtà nessuno è “nostro”, nessuno ci appartiene. Pretenderlo è fuorviante, improponibile. È senz’altro giusto e doveroso amare le persone care, i nostri famigliari, i nostri figli: ammiriamoli, siamone orgogliosi, riserviamo loro tutto il nostro amore, ma non soffochiamoli con le nostre gelosie, con le nostre asfissianti attenzioni. Non “possediamoli”, non fagocitiamo la loro vita. Seguiamoli, indirizziamoli sulla strada della maturità interiore, rimaniamo sempre presenti al loro fianco, offriamo loro il supporto della nostra esperienza e del nostro amore, ma non permettiamoci mai di annullare la loro personalità. Ammiriamoli, gioiamo con loro, esultiamo per i loro successi, consoliamoli e incoraggiamoli nei loro fallimenti: ma non dimentichiamo mai che ciascuno ha davanti a sé la strada della propria vita da percorrere: e quella che stiamo percorrendo noi è decisamente diversa dalla loro.
Tutto ciò che ci riguarda nel presente è destinato a passare, a lasciarci, a morire. Rimanere costantemente condizionati da ciò che è stato, equivale a morire, significa “morte”, significa “immobilismo”, significa rinunciare ad andare avanti. Se ci fermiamo a guardare indietro non andremo mai avanti. E allora, non attacchiamoci morbosamente a nulla: non alle persone, non alle cose, non ai problemi: se siamo arrabbiati per degli insulti; se ci brucia l’essere stati diffamati e calunniati in pubblico, se ci sentiamo traditi, umiliati, messi da parte da chi stimiamo, da chi amiamo, non tratteniamo nulla: perdoniamo, lasciamo correre, non rimaniamo schiavi degli eventi: piuttosto viviamo, prendiamo in mano la nostra vita, guardiamo in alto, concentriamoci solo su ciò che vale, su ciò che è eterno: Se vogliamo “vivere” la Vita vera, dobbiamo prima affrontare la morte, dobbiamo uscirne vincitori. È la grande verità della Pasqua: per risorgere, dobbiamo accettare di morire a noi stessi, al nostro egoismo, al nostro orgoglio, al nostro mondo. È sradicando il male dal nostro cuore “traviato” che torneremo a vivere.
Siamo figli della Vita, stiamo con la Vita, risorgiamo col Dio della Vita. Questa è la nostra risurrezione, questa è la Pasqua che auguro a tutti. Amen.


BUONA PASQUA!


giovedì 11 aprile 2019

14 Aprile 2019 – Domenica delle Palme


Passione di nostro Signore Gesù Cristo 
(Lc 22,14-23,56).

La liturgia di oggi ci presenta la storia della passione. Ogni evangelista offre un resoconto “personalizzato” di come si sono svolti i fatti, di come lui li ha “visti” con i suoi occhi. Un evento traumatico che ha “segnato” il cuore di ciascuno in maniera diversa. Abbiamo infatti uno stesso racconto, ma con sfumature diverse, con chiavi di lettura differenti: piccoli elementi che rendono il racconto della passione non una semplice cronaca, ma una raccolta di esperienze e di emozioni personali, con le quali ogni singolo autore ha voluto lasciarci, di Gesù sofferente, una sua immagine personale, quella che lui, rivivendola nella sua memoria, ha poi descritto per noi.
Si tratta, ripeto, di lievi sfumature, di piccole sottolineature, che possiamo rilevare soltanto attraverso una lettura trasversale dei racconti: annotazioni personalissime, quasi intime, ma di grande incisività, dalle quali possiamo sicuramente trarre interessanti considerazioni e utili suggerimenti per la nostra vita spirituale.
Accostiamoci allora umilmente alla lettura di questi testi: sicuramente anche questa volta, come ogni anno, essi ci suggeriranno cose nuove, apriranno il nostro cuore a nuove emozioni: ci parleranno della passione di Gesù, ma in maniera diversa; forse avremo modo di identificarci meglio in un personaggio piuttosto che in un altro; probabilmente ci colpiranno più in profondità espressioni, che in passato non abbiamo colto, e che susciteranno in noi sentimenti ed emozioni fino ad oggi sconosciuti.
Partiamo per esempio dal racconto di Luca.
Per Luca Gesù è colui che perdona tutti. Egli rende migliori i vari personaggi: i discepoli rimangono fedeli a Gesù nelle prove; nel Getsemani essi si addormentano solo una volta e non tre come negli altri racconti, e il loro è un sonno particolare, di “profonda tristezza”; gli accusatori non presentano “falsi testimoni”; Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché lo ritiene innocente; il popolo è addolorato” per ciò che succede e perfino uno dei due ladroni è fondamentalmente buono. In Luca Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l’orecchio del servo durante l’arresto, si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario, perdona i suoi crocifissori e promette il paradiso al ladrone pentito.
Per Marco, Gesù è l’abbandonato. Tutti lo abbandonano, ma proprio tutti. I discepoli, dal monte degli Ulivi in poi, lo lasciano solo: mentre Gesù prega, per ben tre volte si addormentano; Pietro, riconosciuto come uno dei suoi discepoli, nega imprecando di conoscerlo; un altro discepolo, Giuda, lo tradisce. Tutti fuggono: uno perfino lascia lì la veste pur di fuggire lontano da lui. Romani e Giudei sono cinici: lo lasciano appeso alla croce sei ore e durante tutto questo tempo lo scherniscono. Perfino quando Gesù, morendo, esclama: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, lo deridono. Insomma in Marco i suoi amici più cari, quelli più intimi, quelli con i quali aveva condiviso le gioie e le fatiche, quelli che avevano detto: “Noi, non ti abbandoneremo mai”, perfino quelli, nel momento critico lo lasciano solo.
Per Giovanni, invece, Gesù è l’uomo/Dio che va incontro consapevolmente e volontariamente al suo destino. Anche se viene giustiziato, in realtà è Lui il vero vincitore. È il sovrano per eccellenza, il padrone di sé stesso che lancia una sfida al mondo: “Io offro la mia vita per la salvezza di tutti, ma poi me la riprendo di nuovo. Perché nessuno potrà mai togliermela!”.
Nel Getsemani egli non prega il Padre di liberarlo dall’ora della prova e della morte, come avviene negli altri vangeli, perché quell’ora costituisce il traguardo finale di tutta la sua vita terrena.
I soldati romani e le guardie del tempio, che vanno ad arrestarlo, cadono a terra tramortiti quando egli ammette la sua identità dicendo: “Sono io”. Gesù è così sicuro di sé che il sommo sacerdote si sente offeso; Pilato ha paura di fronte al Figlio di Dio che gli dice: “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse dato dall’alto”. Inoltre: Gesù porta da solo la propria croce, senza l’aiuto del Cireneo; la sua regalità è confermata in tre lingue; Egli non è solo ai piedi della croce, ma con lui c’è sua madre e il discepolo che egli amava; non grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, perché il Padre è sempre con lui; le sue ultime parole esprimono la fine di una “missione”, la consapevolezza di aver eseguito puntualmente quanto previsto dal Padre: “Tutto è compiuto”. Perfino la sua morte è fonte di vita perché dal suo cuore squarciato sgorga acqua viva. La sua sepoltura non è improvvisata, come negli altri vangeli; grazie a Nicodemo, il corpo è cosparso di cento libbre di mirra e aloe, come si conviene ad un re. Perché lui, per Giovanni, è l’unico vero re: è colui che dominando sempre la scena, porta a compimento la sua missione fino in fondo, con grande dignità e regalità.
Infine Matteo. Egli cerca di dare una risposta al quesito drammatico che lacera la sua anima: chi è il vero colpevole della morte di Gesù? Egli è categorico: tutti, in qualche modo, hanno contribuito alla sua crocifissione, chi direttamente, chi indirettamente, chi attivamente, chi passivamente, non facendo nulla per fargliela evitare.
Per esempio Giuda? Giuda s’impicca perché si rende conto di essere stato un fantoccio in mano ai sommi sacerdoti: non è stato altro che una insignificante pedina mossa da imbroglioni e bari in una partita truccata. È una nullità che per denaro, per avidità, vende Gesù e, tutto sommato, vende sé stesso. Poi schiacciato dai rimorsi, non regge e si uccide. Come lui sono tutte quelle persone pronte a disfarsi di tutto ciò che hanno di più bello: non si accorgono che per il successo, per la carriera, per il denaro, per i soldi, stanno svendendo l’anima. Poi un bel giorno si svegliano e si accorgono di essere dei falliti, vuoti, insoddisfatti, senza più nulla; si lasciano andare alla deriva, consumano inutilmente la loro vita nell’apatia e nell’indifferenza, finché un giorno, davanti alla morte, si accorgeranno che la loro anima è morta già da molto tempo!
Come Pietro? Pietro è l’uomo dei grandi entusiasmi: “Io non ti rinnegherò mai, Signore”. È l’uomo dalle acute intuizioni, dalle solenni affermazioni, cui fanno seguito rovinose cadute, immediati ripensamenti, che annullano ogni sua fermezza, ogni suo proposito. È l’uomo “roccia” per eccellenza, il più affidabile tra i discepoli, che però, in maniera puerile, d’impulso, tradirà per ben tre volte il suo maestro e amico. Come Pietro sono tutti coloro che non si conoscono in profondità: gente che si eccita all’idea di spaccare il mondo, che fa progetti ambiziosi, che promette amore eterno, che giura eterna fedeltà, ma che al dunque si defilano, si rivelano degli eterni inconcludenti. Forse in cuor loro sono anche convinti nei loro entusiasmi, ma purtroppo sono dominati da tanta, troppa, presunzione; o, più semplicemente, da tantissima ignoranza: insomma non si conoscono, non conoscono i risvolti, le conseguenze delle loro affermazioni; non sanno cosa significhi “fedeltà, continuità, sacrificio, lotta”. Sono tutti quei cristiani tiepidi, superficiali, che si accostano puntualmente ai Sacramenti, che vanno a messa tutte le domeniche, che pregano Dio ogni giorno, che gli promettono a cuore aperto, amore, dedizione, lealtà: ma poi? Sono quelli che dopo una meditazione, una catechesi, un ritiro, una bella predica, giurano con entusiasmo a Dio di seguirlo con passione, di amarlo concretamente nei fratelli, attraverso una vita di intensa carità: ma poi? Sono quelli che, dopo ogni peccato, dopo ogni caduta, ogni infedeltà, si pentono sinceramente, fanno voti a Dio di non ricadere mai più nelle loro miserie umane, promettono di convertirsi, di cambiare completamente vita: ma poi?...
Colpevoli come Pilato? Pilato se ne lava le mani e con questo gesto crede di tirarsi fuori, di essere esente da ogni responsabilità. Ma come lui sono tutti quelli che dicono: “Io non c’entro”, e si credono a posto, si sentono tranquilli. Se c’è un problema in famiglia con i figli, spariscono, tanto c’è la madre! Se c’è un problema in parrocchia o nel condominio dove vivono, non è problema loro. Di fronte a chi soffre, a chi vive nella disperazione, a chi è in grave difficoltà, si tirano indietro: “cosa c’entro io? Ci pensino quelli che sono incaricati a questo!”.
Come la folla? La folla è “il popolo bue”, la gente che si lascia condizionare dall’ultima moda, dall’ultima tendenza. I sacerdoti e gli anziani la persuadono a gridare “Barabba”: e tutti loro eseguono: uno li precede urlando, e tutti a seguirlo urlando. La folla raccoglie in particolare le persone deboli che si lasciano condizionare, influenzare: quelli che si rifiutano di ragionare sulle cose, che vivono di frasi fatte, preconfezionate, delle chiacchiere che raccolgono in giro.; quelli che non riescono a sostenere un ideale, una posizione personale; quelli che assorbono avidamente qualunque panzana del personaggio di turno; quelli che stupidamente pensano che il Grande Fratello o l’Isola dei Famosi, rappresentino importanti esperienze culturali di vita.
La folla non ha personalità: si presenta soprattutto in “gruppi”, associazioni, movimenti, nei quali i “singoli” che ne fanno parte, si sentono esenti da qualunque responsabilità diretta; è successo all’epoca con Gesù, e succede ancora oggi, ogni santo giorno, in cui la folla moderna continua tranquillamente a crocifiggerlo.
Gesù, nella sua misericordia, continua comunque a perdonare tutti, continua a “giustificare” il mondo: “non sanno quello che fanno!”. La gente si comporta così, perché vive nel buio, nelle tenebre, nell’ignoranza: fondamentalmente non è cattiva, ma è profondamente inquieta, turbata, ansiosa, vive in una totale cecità spirituale: non riesce a liberarsi, a dar voce al proprio caos interiore; non conosce sentimenti vitali, come la misericordia, la tenerezza, l’amore.
Gesù ci perdona non perché condivide ciò che facciamo; ma perché sa che siamo ignoranti, che siamo ciechi, che confondiamo facilmente il male con il bene e il bene con il male; che siamo convinti di essere religiosi, praticanti, quando al contrario viviamo lontani da Lui.
Quante persone oggi vivono così! Convinti di essere i padroni della loro vita, i programmatori della loro esistenza, quando invece sono semplici spettatori, oziosi e indifferenti, degli eventi che fuggono. Dicono: “La vita è mia, tutto dipende da me”, ma non si accorgono che è la vita che li trascina nelle varie situazioni. Credono di conoscersi, ma non sanno dire né chi sono, né cosa realmente vogliono; credono di conoscere Dio, la religione cattolica, la Chiesa, i sacramenti, perché hanno letto qualche libro, hanno visto qualche trasmissione televisiva, o ascoltato qualche catechesi. Ma non è con le chiacchiere, non è facendo sfoggio di una pseudo cultura, posticcia e approssimativa, che si dimostra di conoscere e amare Dio. Anzi è proprio l’ignoranza, soprattutto quella “travestita” orgogliosamente da “conoscenza”, che uccide, che distrugge, che umilia ogni nostro tentativo di avvicinarci ad una fede autentica.
Ebbene, nonostante ciò, nonostante la nostra vita continui ad essere tiepida e inconcludente, al minimo cenno di un nostro risveglio, di un nostro pentimento, Dio è sempre pronto a perdonarci. Perché proprio per questo Egli ha accettato il patibolo della croce.
Viviamo allora questa settimana santa, in preparazione alla Pasqua, meditando nel silenzio del nostro cuore i racconti della Passione di Gesù: leggiamo e ascoltiamoci. Sentiremo ancora parole che già conosciamo bene: ma quest’anno siamo noi ad essere diversi rispetto all’anno scorso: siamo più anziani, forse il nostro cuore ha bisogno di ulteriori nuove rassicurazioni. E allora, nel silenzio adorante di chi è consapevole di trovarsi di fronte non solo alle vicende del Figlio di Dio, ma anche alle nostre vicende umane, lasciamo che quelle parole ci entrino dentro, ci portino pace e serenità alla nostra anima. Amen.