giovedì 16 novembre 2017

19 Novembre 2017 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30). 

La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa succede allora?
Ciascuno riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa di doverlo un giorno riconsegnare a chi glielo ha affidato. C’è però in questo affidare, una diversità di trattamento: non tutti ricevono la stessa quantità. Ciascuno, dice il vangelo, riceve secondo le proprie capacità: tutti cioè hanno in consegna talenti diversi perché ognuno è diverso, ma tutti hanno comunque il massimo delle loro possibilità. Ciascuno nella vita ha il suo talento. Il talento sono le possibilità che uno ha, il patrimonio che uno può "incarnare" nella sua vita, che uno ha dentro di sé, il patrimonio che Dio ha riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità, talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere.
La grande domanda che ogni uomo deve pertanto porsi è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio? Quali sono le mie possibilità”. La gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare al “chi sono”, insegue cose che non sono “Lui”, che non gli sono proprie, non sono alla sua portata, e che pertanto sono per lui irraggiungibili.
Una volta stabilita l'entità del nostro talento, del nostro “patrimonio”, della nostra essenza, della nostra peculiarità, è di quello che dobbiamo essere fieri, è con quello e su quello che dobbiamo lavorare.
Spesso invece chi ha un talento, anche prezioso, lo nasconde, lo camuffa, lo gonfia. Perché? Semplice: perché lo confronta con i talenti degli altri. Brutta cosa vivere di confronti! Se ci confrontiamo continuamente con gli altri, è chiaro che non saremo mai contenti di ciò che siamo, di come siamo, di quello che abbiamo. E troveremo sempre che gli altri hanno di più, che sono più fortunati, che sono più privilegiati di noi, che se noi fossimo al loro posto, saremmo sicuramente migliori di loro. E viviamo male. Ma è così solo perché, invece di guardare noi stessi, la nostra realtà, invece di apprezzare quel che abbiamo, invece di ringraziare Dio per quel che ci ha concesso, continuiamo a roderci dentro invidiando quello che hanno gli altri.
Cosa dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta corrente ma una unità di misura, e denotava una cifra enorme. Sarebbe come dire una “tonnellata” di euro: non si può girare con una tonnellata di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva più o meno a 60 “mine”, a 6000 “dracme”, a 6000 “denari” (la dracma era parificata infatti ad un denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora: anche colui che ha ricevuto un talento, ha ricevuto tantissimo, molto più del necessario. Certo, se guardiamo a chi ne ha ricevuti due o cinque, se facciamo il confronto, se ci misuriamo con loro, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Ma se invece guardiamo onestamente a noi stessi, alle nostre possibilità, al nostro tenore di vita, troveremo che siamo ricchi, che nuotiamo nell'abbondanza.
La gente non è povera di doti, di “talenti” o vitalità: è che vuole sempre di più, guarda sempre quello che non ha; e quindi invidia i risultati raggiunti dagli altri, quello cioè che gli altri hanno saputo sviluppare con intelligenza, applicazione e sacrificio. La gente vorrebbe avere a basso costo, senza fatica, senza impegno e subito, quello che gli altri hanno invece conquistato nel tempo, con grande applicazione, con grande coraggio, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora: soltanto fissando lo sguardo su noi stessi, su quello che abbiamo, potremo essere soddisfatti e felici. Anche perché nessuno di quei servi è proprietario di ciò che ha. Anche a lui tutto è stato dato in “consegna”: quindi avere più talenti comporta anche maggiori responsabilità, maggior impegno, maggiori preoccupazioni; e neppure un maggiore arricchimento personale, visto che poi dovrà riconsegnare tutto al padrone.
Ma torniamo al vangelo: cosa succede a questo punto? I primi due, quelli dei cinque e dei due talenti, investono il loro patrimonio e lo fanno crescere, lo fanno moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e vi nasconde dentro il suo unico talento.
La differenza è tutta qui: i primi due vivono, osano, si buttano, rischiano. Il terzo, invece, ha paura e la paura lo blocca.
In pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che avete ricevuto, ciò che siete, perché i talenti avuti in consegna sono la vostra vita”. Allora, perché non metterla a frutto? Perché non viverla? Perché aspettiamo tanto a scendere in campo, a buttarci nella mischia? Alcune persone passano i loro giorni da “panchinari”: sono presenti, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, un sapore alla loro vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità, tono. Scelgono di non scegliere mai: un partner per la vita? il primo che capita; gli amici? quelli che incontrano; gli hobby? gli stessi che praticano tutti; le idee? quelle di tutti. Non si chiedono mai: “Ma io cosa voglio? Cosa mi sta bene? Cosa mi aspetto dalla vita?”. E così sciupano la loro esistenza, guardano indifferenti i giorni scorrere veloci, inutilmente. Hanno la possibilità di viverla, questa loro vita, e invece si lasciano vivere: il carro del tempo passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi, progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché non sono loro, ma è il tempo che va avanti, che cammina, che passa: loro si lasciano trasportare, vanno semplicemente dove va lui.
Alcune persone, come fa l’uomo del vangelo, nascondono la loro esistenza sottoterra, pensano di essere invisibili, di passare inosservati alla loro vita, e muoiono senza vivere.
Solo la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono più prezioso che Dio ci fa: è una tela grezza, bianca; solo se noi la dipingiamo, solo se la copriremo di colore e di calore, la nostra vita si trasformerà in un dono, in un regalo “nostro” che, grati, potremo restituire, a Dio.
La vita restituisce sempre quello che diamo. Il padrone ritorna, e regola i conti: il risultato dipende da come uno si è comportato con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono un premio proporzionale a quanto ricavato; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente guadagnato, ma perché hanno provato, si son dati da fare, hanno avuto fiducia in loro stessi, hanno osato, si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. La paura lo ha immobilizzato, gli ha impedito di mettersi in gioco. Non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo, se avesse rischiato, se avesse “vissuto”, avrebbe anche potuto sbagliare e perdere il suo talento, avrebbe potuto esser giudicato o criticato per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un risultato soddisfacente. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
La vita è così: un patrimonio da mettere a frutto, da investire, da far fruttare. La vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di cambiare, di migliorare. Tutti noi abbiamo avuto occasioni che ci hanno portato in tutt’altre direzioni. Tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno consigliato, che ci hanno prospettato soluzioni valide. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci, ce la puoi fare!”. A tutti noi sarà capitato di vivere una situazione difficile (morte di un figlio, di un amico, di un parente; un momento preoccupante; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci ha messi di fronte ad un bivio: cambiare stile di vita, invertire la rotta, vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Ti sei cullato sui tuoi sogni? Questo è quanto hai guadagnato!”. Allora sarà inutile protestare, sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.



giovedì 9 novembre 2017

12 Novembre 2017 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario


«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).

La parabola di oggi è molto significativa, di facile interpretazione. Anche se, ad una lettura superficiale, il comportamento dei vari protagonisti potrebbe apparirci non del tutto ineccepibile; in pratica farebbero tutti indistintamente una brutta figura: la fa lo sposo perché, giunto alle nozze con un ritardo enorme, respinge quelle vergini che, poverette, a causa della lunga attesa hanno esaurito l’olio della loro lampada, e indispettito le liquida immediatamente: “Non vi conosco!”. Ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che lui stesso le aveva invitate, e quindi le conosceva perfettamente? Tuttavia ciò non le esime dal fare anch’esse una brutta figura, dimostrando di essere delle sprovvedute, delle stupidotte, poco intelligenti, per nulla previdenti. Ma anche le vergini sagge, quelle prudenti, quelle accorte, non sono da meno, non eccellono certo in signorilità, rifiutando sdegnosamente di condividere con le amiche un po’ del loro olio: visto che lo sposo era finalmente arrivato, perché non donarne loro qualche goccia, togliendole dall’imbarazzo? Lo fanno perché sono invidiose, cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è speciale, strettamente personale, incedibile, per cui anche volendo non possono cederlo? In tal caso si tratterebbe di un olio “particolarissimo”, unico, strettamente personale, al punto che o ce l’hai di tuo, o devi rimanere senza perché nessuno può cedertene del suo. “Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché sono così scostanti? Come possono quelle meschine trovare un venditore d’olio nel cuore della notte? Ma non è una  burla: effettivamente si comportano così perché non hanno altre possibilità, non possono cedere alle altre un “olio” che “non si può” dare, che è incedibile.
Insomma, questa è una parabola in cui nessuno sembra comportarsi in maniera corretta, un racconto che, nella sua chiarezza, suscita anche molti interrogativi.
Ovviamente, per capirla nella sua pienezza, dobbiamo prima di tutto riferirci al significato di questi simbolismi, così lontani da noi, dalla nostra cultura, essendo essi strettamente legati agli usi matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando comunque il testo, appare chiaro che lo sposo è Gesù e le vergini, sia le prudenti che le stolte, siamo noi. A questo punto viene spontaneo chiederci: perché Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? Cos’è quest’olio unico, personale, così importante da condizionare l’ingresso alle nozze celesti?
Matteo, parlando delle vergini che si sono dimenticate di prendere l’olio a scorta, le chiama “morai”: un termine che letteralmente significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate, stupide, sciocche, smemorate”.
E lo fa a ragion veduta: perché giusto uno stupido, un superficiale, avrebbe dimenticato di portare con sé una quantità di olio sufficiente ad alimentare la sua “lampada” per l’intera notte, assicurandosi la luce per l’intera attesa.
Queste vergini “stolte”, queste distratte, imprevidenti, rappresentano pertanto quelle persone che accettano di incontrare lo “Sposo”, ascoltano la parola di Dio, accolgono il suo messaggio, ma poi non sono sufficientemente interessate a metterlo in pratica: lasciano cioè che l’iniziale entusiasmo si spenga nel tempo, diventi lettera morta, preferendo procedere alla cieca nell’oscurità della vita. Sono quelle persone che vivono alla giornata senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema. Non si preoccupano minimamente di ciò che invece è essenziale per dare una risposta illuminata cosciente e mirata alla chiamata di Dio: come per esempio saper ascoltare interiormente la sua voce, coltivare e meditare nel silenzio la sua Parola, garantire salute e pace alla propria anima, esprimere un “grazie” sincero per l’aiuto costante dello Spirito, essere sensibile alle necessità dei fratelli. Vanno avanti come se niente fosse. Salvo poi chiedersi: “Come mai mi è capitato questo? Perché proprio a me? Com’è possibile?”. Pensavano forse di non dover mai rispondere del loro ottuso comportamento? Pensavano forse che non servisse una scorta sufficiente di “olio”, una scorta cioè di opere buone?
Già, ma in cosa consistono concretamente queste “opere buone”? Il Vangelo parla chiaro: ricordate la parabola del buon samaritano? Non sono le preghiere di routine del sacerdote, non i gesti “sacri” del levita, persone che, passando accanto all’uomo ferito, tirano via entrambe ignorando le sue sofferenze e le sue necessità; opere buone sono invece i gesti d’amore del buon samaritano, di colui che oltretutto era considerato un nemico (Lc 10,29-37). Perché solo questo conta davanti a Dio: l’amore, la misericordia, la nostra dedizione per il prossimo. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
Praticare la carità, amare il prossimo, essere ricettivi, dinamici, attivi, aperti alla condivisione: questo significa, in pratica, approvvigionarsi di olio a scorta: in altre parole il nostro spirito di carità, il nostro amore, il nostro voler bene, deve essere concreto, reale, quotidiano, fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. Perché è questo l’unico metro di valutazione usato da Dio. Preghiere, riti, meriti, studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono messe a servizio dell’Amore. Gesù lo ha dichiarato apertamente: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21). Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, disporre di grandi chiese, di grandi cattedrali per andare a messa la domenica; non basta tirare continuamente in ballo il nome di “Dio”, promettergli a parole grandi cose, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini sprovviste di olio, di opere buone. Soltanto chi possiede e pratica un amore autentico può disporre della luce sufficiente per “aspettare” lo Sposo, ed entrare con Lui alle nozze, nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”. Ma non è Dio che deve riconoscerci, promuoverci, premiarci. Lui non condanna mai: siamo noi a condannarci, siamo noi gli unici responsabili della nostra eternità, perché quel che otterremo sarà l’ovvia conseguenza del nostro vivere attuale; siamo noi che non ci “riconosciamo” come “invitati”, se abbiamo vissuto sempre nella superficialità, dando la priorità ai piaceri, all’egoismo, alle futili banalità: perché non sappiamo più chi siamo né cosa vogliamo o che sentimento proviamo; non abbiamo più alcun colloquio con noi stessi e con il prossimo e, conseguentemente, saremo noi ad autoescluderci dalla Vita, dalle nozze eterne.
Non è affatto difficile finire in situazioni simili; è molto più facile di quanto non si possa pensare. Anzi è un classico, succede quasi sempre così: crogiolandoci nell’indifferenza, nella superficialità, arriveremo gradualmente ad indurire talmente il nostro cuore, a renderlo così gelido e insensibile, da non essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento profondo; ci sentiremo, soli, isolati, frastornati: così, quando un pianto salutare vorrebbe liberarci l’anima, sarà costretto a dirci “non ti conosco”; similmente quando la gioia vorrebbe consolarci, anch’essa dovrà dirci “non ti conosco”, perché non saremo più noi, non sapremo più gioire, abbracciare, lasciarci andare; anche l’amore, di fronte all’impossibilità di emozionarci, di innamorarci, dovrà ripeterci “non ti conosco”; e così, via via, la tenerezza, la compassione, la dolcezza: insomma tutti i sentimenti più esaltanti della vita.
Vivere così è un non vivere, perché la distanza che ci divide dall’Amore è troppo grande. Ci siamo quasi spinti oltre il punto di non ritorno: il punto in cui tutto sarà “troppo tardi”; il punto in cui non avremo più tempo a nostra disposizione, non avremo più possibilità di porvi rimedio.
Il messaggio dunque che questa parabola intende oggi trasmetterci è estremamente serio e pressante: “Non lasciare che la tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue opere buone; perché saranno esse la scorta che in quel momento determinerà la luce o le tenebre, la salvezza o la condanna, la beatitudine o la disperazione”.
Facciamo molta attenzione, non sottovalutiamo questo invito, perché la possibilità di cadere improvvisamente nel buio più totale è veramente concreta e reale. Perché dipende da noi. Amen.

giovedì 2 novembre 2017

5 Novembre 2017 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario


«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito...»

Oggi Matteo ci riporta un ennesimo scontro di Gesù con gli scribi e i farisei, nel quale Egli denuncia apertamente il loro comportamento incoerente e ipocrita. Ormai conosciamo molto bene il comportamento di questi personaggi: conoscevano perfettamente la legge della Bibbia, la insegnavano, ma erano anche molto esperti nel trovare scappatoie ed eccezioni che li esentassero dal mettere in pratica ciò che insegnavano. Quando invece la osservavano, lo facevano solo esteriormente, mettendosi bene in mostra, esibendosi come persone religiose, fedeli, osservanti, e disprezzando apertamente quanti non erano “giusti” come loro; non tolleravano cioè le debolezze altrui, e invece di aiutarli, li condannavano pubblicamente deridendoli. Ebbene: Gesù, gente come quella, non la sopporta. La disprezza senza mezzi termini, offrendo alla gente un giusto atteggiamento nei loro confronti: “Siate rispettosi di quello che insegnano, perché la Legge la conoscono e la sanno predicare molto bene, ma non seguite il loro esempio; non fate come loro, non meritano la vostra attenzione, perché sono incoerenti, fasulli, gente che predica bene ma razzola male”.
Parole forti: parole che Gesù non pronuncia ad esclusivo beneficio dei suoi discepoli e di quanti lo seguivano: ma parla anche noi, a noi persone evolute e razionali del nostro secolo: parla soprattutto ai catechisti impegnati, ai cattolici praticanti, religiosi e istruiti; parla a quanti sono chiamati a testimoniare il vangelo, a noi che, col battesimo, abbiamo il compito importante di portare il lieto annuncio di liberazione e di vita, ai poveri, ai peccatori, ai deboli del nostro tempo.
Gesù parla alludendo alla vita concreta di allora: ma è come se vedesse la nostra di vita, quella tanto civile dei nostri giorni.
Si, perché noi, figli di quest’epoca tanto emancipata e colta, siamo proprio ben strani! Ci dichiariamo in tutti i modi contrari, a volte anche con la violenza, a qualsiasi imposizione, a qualsiasi forma di autoritarismo, di coercizione; ci indispettiamo se qualcuno si permette di far pesare la sua carica, il suo ruolo su di noi; pretendiamo tutti, e giustamente, la massima autonomia e libertà: eppure, da autentici idioti, non sappiamo fare a meno dei “guru” di turno, dei “profeti”, dei “mistici” che, da buoni ciarlatani, pretendono di darci il rimedio infallibile per i nostri problemi, la dritta sicura su come evitare efficacemente le fragilità della nostra esistenza.
Il nostro è un tempo stracolmo di opinionisti, di sedicenti maestri, di tuttologi; più aumenta il relativismo, l’insicurezza, il dubbio, più aumentano coloro che hanno sempre qualcosa da dire, che si propongono come unici esclusivisti della giusta soluzione. E purtroppo anche noi, pur nel nostro tanto decantato scetticismo, ci lasciamo stupidamente fagocitare da una moltitudine di questi “maestri” fasulli, che si esibiscono in televisione, sui giornali, nei mezzi di comunicazione, negli ambienti di lavoro, nella scuola, in politica, in campo sociale! Maestri che straparlano, che sbraitano, che urlano, che vogliono imporsi ad ogni costo: non importa su chi e su che cosa, se in positivo o in negativo, l’importante è urlare, apparire, esserci.
Gesù invece, nella sua compostezza, è pratico, chiaro come sempre: egli ci spiega come dobbiamo vivere nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, come dobbiamo edificarci vicendevolmente nell'amore e nella pace, come dobbiamo educare i nostri figli.

È importante quindi che ci esaminiamo continuamente sulla nostra coerenza e sincerità, per non incorrere nella facile contraddizione, nell'ipocrisia. È una cosa che in qualche modo ci tocca tutti da vicino: sia quelli che hanno un ruolo educativo, come preti, frati, suore, insegnanti, come pure tutti noi genitori; tutti dovremmo chiederci con sincerità: “sono realmente convinto di quello che insegno? Vivo coerentemente, col cuore, con amore, quello che insegno, quello che predico? Io che raccomando agli altri la preghiera, amo la preghiera? Dedico del tempo alla preghiera personale? Io, genitore, che mando i miei figli in parrocchia per il catechismo, per la messa domenicale, sono assiduo nei miei doveri di cristiano? Un semplice esame di coscienza riferito ai doveri e agli impegni della nostra vita sociale, della famiglia, della scuola, del lavoro.
Ovviamente, chi vive compiti istituzionali, sociali, politici, informativi o altro, chi in altre parole gode di maggior prestigio e visibilità, è ancor più responsabile della sua coerenza; non serve a niente fare bellissimi discorsi se poi non si vive per primi l'onestà, la correttezza, lo spirito dei valori umani e cristiani.
Oggi purtroppo pullula una grande quantità di cosiddetti “maestri”, di pseudo incantatori, che operano indisturbati all’aperto o nell’occulto; come l'opinione della gente, il “si dice”, le nostre voglie inconfessabili, il prepotente di turno, la grande star del momento, il politico di spicco, il prete mediatico e onnipresente. Quello che importa è che dobbiamo imporci di evitare questi falsi “dottori”, questi venditori di angoscia; noi cristiani abbiamo già il nostro Maestro a cui ricorrere, a cui appoggiarci, su cui contare con tutta la nostra fiducia; è quello autentico, l’unico: il Cristo.
Non ci servono surrogati, sedicenti profeti, santoni, futurologi, imbroglioni e parolai da strapazzo: abbiamo già a nostra disposizione il Migliore in assoluto. È Lui soltanto che dobbiamo seguire, è Lui soltanto che dobbiamo porre al centro della nostra vita; sono Sue le Parole e gli esempi che dobbiamo seguire; e dobbiamo farlo con riflessione adulta, con passione ferma e critica, con la verità del cuore, senza deleghe fuorvianti. Siamo tutti chiamati alla scoperta di un Dio adulto che ci tratti da adulti. In che modo? Vivendo come Lui ha fatto, facendosi servo di tutti fino alla morte: “Il più grande tra voi sia servo”: è questa per Lui la portata della vera “autorità”: una parola che in Lui acquista un senso particolare, assolutamente inusuale: non è dominio, non è potere, non è comando, ma puro servizio, umile ministero.
«Voi siete tutti fratelli…». È la conseguenza del nostro metterci a servizio come Lui: perché in questo modo dimostriamo di essere tutti fratelli in quanto tutti salvati, tutti perdonati.
Ognuno di noi ha un ruolo, un compito, un ministero appunto, tutti uniti nella comune e primissima appartenenza alla fede attraverso il Battesimo; nessun Maestro, ma solo fratelli chiamati a ruoli specifici: e più aumenta la responsabilità, più deve crescere l'amore al Regno e ai fratelli che si servono. Perché, in buona sostanza, essere fratelli significa che tutti ci prendiamo cura del buon andamento della comunità, passando da una appartenenza alla Chiesa in maniera asfittica e senza vita, ad una meravigliosa scoperta di essere tutti figli di Dio, nella fatica della sopportazione reciproca e della visione evangelica delle scelte obbligatorie. Essere fratelli significa evitare in tutti i modi che nelle comunità prevalga l'aspetto umano, le simpatie, le antipatie, introducendo il rischio descritto da Gesù, di diventare cioè professionisti del sacro, primi della classe, ma con l’anima vuota.
Una cosa è assolutamente trasversale, valida per tutti: chi vuole essere “grande”, deve “abbassarsi”. Non c’è alternativa. Perché è nell'abbassamento che sta il segreto della vita cristiana. Chi vive l'umiltà, sa dare valore a quelle cose che sembrano piccole, ma che sono grandi, importanti, essenziali. Per chi vive lo stile di Gesù non esistono posizioni trascurabili, tutto acquista nuovo valore, nuovo significato: perché ognuno vive i carismi avuti da Dio. È Lui che ci unisce; è Lui l'unico Maestro sicuro e infallibile. Amen.

 

giovedì 19 ottobre 2017

29 Ottobre 2017 – XXX Domenica del Tempo Ordinario


«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (Mt 22,34-40).

Dopo aver fatto ripetute brutte figure con Gesù, i farisei per metterlo alla prova scelgono questa volta una persona competente, il meglio del meglio, nientemeno che un dottore della legge. E questi lo affronta subito impostando il discorso sulla “sua” materia. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” usato qui da Matteo, è quello stesso peirazo usato per descrivere le “tentazioni” di satana: in pratica l’evangelista paragona il comportamento dei sacerdoti del tempio, degli scribi, dei farisei, sempre pronti a tentare, a mettere alla prova Gesù, come opera di satana: un particolare che dovrebbe farci riflettere!
Ma cosa gli chiede dunque questo dottore, questo esperto legale? “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
Da come si pone, lascia subito intendere il suo reale proposito: già l’appellativo di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, è pronunciato in maniera chiaramente provocatoria: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico; vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei comandamenti e della legge?
La verità non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere realmente il pensiero di Gesù; vuole semplicemente sfruttare l’occasione per avere la conferma di cosa egli pensasse in merito ad una questione fondamentale e delicata: il valore cioè dei comandamenti della Legge, visto che nella sua predicazione non solo ne prende le distanze ma arriva pure a trasgredirli. Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei comandamenti che tutti ritenevano validi, e che tutti si sentivano obbligati ad osservare. Una “interpretazione”, quella di Gesù, che inquietava seriamente le autorità religiose; per cui la sua risposta serviva soltanto come riprova della sua ortodossia, oppure come motivo di denuncia ufficiale.
Ma Gesù sa perfettamente cosa vorrebbero sentirsi dire le autorità tramite il suo interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è il sabato!”. Sì, perché l’osservanza del “sabato” era il comandamento più grande, più considerato dagli ebrei; Dio stesso lo aveva rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della creazione. La sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Sappiamo però che per Gesù questo comandamento non è per nulla importante, non è affatto prioritario, tant’è che non ne tiene conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lui lo fa tranquillamente anche di sabato, perché per lui l’amore è molto più importante della legge.
Una domanda ben congegnata, perché se Gesù avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, (“il sabato”), il dottore della legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio per Gesù.
Il dottore dimostra in questo modo di essere un esperto, un vero conoscitore delle dispute legali: ma Gesù dimostra di non essere da meno, e gli risponde a tono citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene: gli fa capire cioè che il testo non va interpretato sulla base di una singola citazione letterale, ma attraverso una visione d’insieme, una lettura completa dei testi: e gli cita infatti un altro comandamento – altrettanto “grande” ma sicuramente il “primo”, il più importante – riferito cioè a quella “preghiera” che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: questa volta le autorità sono salve, Gesù non le condanna! Ma il problema nasce subito dopo, con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia, ma è evidente a tutti che le autorità non lo tengono per nulla in conto.
A rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come andavano allora le cose, introduce una grande novità: condiziona cioè l’amore per Dio all’amore per il prossimo: crea un legame indissolubilmente tra i due amori. Come dire: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno (visto che lo dite), mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole, non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso, ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46).
Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde attenendosi scrupolosamente a quanto già prescritto dalla legge ebraica. E poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”.
Ma non è tutto qui: il “novum” introdotto da Cristo nella legge antica dell’amore è a dir poco rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; per Gesù, invece, “prossimo” è l’intera umanità; inoltre, altra novità, dobbiamo amare questo prossimo “come noi stessi”: ma attenzione, perché se ci fermassimo a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe comunque perfetto: per logica infatti se io mi amassi poco o nulla, amerei poco o nulla anche il mio prossimo. Gesù annulla questo aspetto riduttivo, e riconosce alla legge dell’amore una valenza divina, universale: in altre parole, ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Una nuova e straordinaria prospettiva si apre quindi davanti a noi: il termine di riferimento dell’amore al prossimo non sarà più quello riduttivo, il “nostro”, ma quello di Dio, universale, straordinario, senza limiti.
Per Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Risultato: l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Il vero credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.
Un’attenta lettura di questo vangelo ci offre poi altre considerazioni su cui meditare.
Prima di tutto, ci siamo mai chiesto cosa significhi la parola “amore”? Etimologicamente deriva dal latino “a-mors” (“a” privativo e “mors”, morte) che letteralmente vuol dire “togliere la morte a qualcuno”, “dare la vita”; per cui “amare” significa “rendere vivo”, vitale, colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a sé soprattutto persone che soffrivano: persone colpite da gravi malattie, come ciechi, sordi, paralitici, lebbrosi, o addirittura persone morte. Egli le “amava”: il suo amore le guariva, le toglieva dalla morte, reale o simbolica, rimettendole in contatto con la vita. Egli dispensava amore a piene mani, e lo faceva (altro insegnamento fondamentale per noi) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un riconoscimento: neppure in termini di fama, perché chiedeva sempre a tutti di non divulgare la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per proselitismo: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e con il suo “amore” lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
Questo è l’amore di Gesù, e questo deve essere anche il nostro amore: chi ama rende vivo l’altro; chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò ci costa fatica e sacrificio; perché ciò che è meglio per l’altro, non sempre coincide con quello che è meglio per noi.
Altra considerazione: in passato per l’ascetica cristiana amare il prossimo “come noi stessi” comportava un far passare in second’ordine l’amore per se stessi, per la propria persona; significava riconoscere all’amore per l’altro la priorità assoluta: in questo modo amare se stessi, “amarsi”, era ritenuto una “debolezza umana”, un peccato; equivaleva ad essere egoisti, narcisisti. La via maestra per la santificazione personale passava quindi attraverso il sacrificarsi, l’immolarsi completamente per gli altri; tant’è che a quanti volevano intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, venivano continuamente ricordate le parole: “Se uno non rinnega se stesso e non prende la sua croce...”: era un cammino di vita che “doveva” essere impostato solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla spersonalizzazione, sulla tolleranza, sulla totale dedizione per gli altri. Oggi questa lettura del vangelo è stata profondamente rivista: nessuno si permette più di affermare che Dio accetta al suo servizio soltanto gli infelici, i frustrati, i pieni di sventure: perché in effetti non è vero!
Ma allora come dobbiamo amare noi stessi? Esattamente come amiamo gli altri. “Amarci” infatti significa volere il nostro bene, renderci vivi, vivere da vivi; significa lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile e rispettata. Gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono? Invece di continuare ad arrabbiarci, amiamoci! “Amarci” vuol dire migliorare il nostro carattere, la nostra personalità; significa trasformarci, diventare amabili, accettabili, ricercati; significa essere più aperti con gli altri, più elastici, meno saccenti, meno giudicanti, meno pretenziosi; in una parola “amarci” significa diventare migliori.
Pretendere dagli altri ciò che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi, è autentico parassitismo.
Infine un’ultima considerazione: il nostro amore deve essere “pieno”: dobbiamo cioè “amare in pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze (Lc 10,27), cioè con la concretezza, con le azioni. L’amore, per essere vero amore, deve interessare tutte le nostre facoltà, tutte le nostre possibilità, l’intera nostra persona, a tutti i livelli: altrimenti non è amore. Infatti: amare solo con mente e forze senza cuore, è volontarismo, è azione, è amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore senza le forze, le opere, è sentimentalismo, non c’è azione. Amare con cuore e forze senza mente, è istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza, non c’è lucidità. Soltanto quando l’amore è mosso dall’intera nostra persona, da tutto di noi: mente, cuore e forze, solo allora è pieno, completo, perfetto. Solo in questo modo “ameremo” veramente il prossimo; lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, esattamente come Lui stesso ci ha amati e continua ad amarci: senza condizioni, senza tornaconti, senza pretese. Amen.




22 Ottobre 2017 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
(Mt 22,15-21).

È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù: i personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, approfittano infatti della loro posizione per compiere indisturbati i loro loschi affari. Questa élite, che Gesù aveva più volte redarguita pubblicamente definendola più indegna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai come il nemico più accanito da combattere, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, le scredita continuamente e apertamente in pubblico!
I farisei pertanto si riuniscono per decidere il da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta. Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti contro Gesù, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Si tratta di eliminare un nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, ostentato, volutamente adulatorio: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Gesù però, di fronte a questa “incensata” non si scompone: li conosce molto bene, e con calma chiede loro: “Perché mi tentate?”. Parole forti: nella Scrittura il verbo “tentare” è riservato esclusivamente all’azione malefica di satana, il “tentatore”.
Gli interlocutori non raccolgono tale significato ed entrano subito nel vivo del discorso: vogliono cioè che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani e delle loro tasse”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli dia, gliela ritorceranno contro; dicendo “sì”, infatti, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); se invece dice “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e sicura.
Gesù dunque è incastrato. Se accetta di rispondere alla provocazione, qualunque cosa dica è un perdente. Deve necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente, ponendo a sua volta una richiesta facile facile: “Mostratemi la moneta del tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Era praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore.
Quelli ovviamente gliela mostrano, e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
Cosa vuol dire? Prima di tutto che le tasse vanno sicuramente pagate: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma c’è dell’altro: “Rendete a Dio quello che è di Dio”. I doveri in pratica sono due: uno nei confronti del potere temporale, politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. Gesù, insomma, piuttosto irritato, coglie al volo l’ennesima provocazione maldestra dei suoi nemici per richiamarli all’ordine: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, voi che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che solo temporaneamente ha affidato alla vostra guida; quel popolo che Voi invece cercate di soggiogare al vostro volere, inducendolo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo predicando un Dio che non è il vero Dio. In pratica subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti: e questo è un oltraggio tremendo nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è solo quello di ricondurlo a Lui”. Parole chiare ed esplicite che, come tutto il Vangelo, ci offrono diversi spunti di meditazione, essendo sempre di grande attualità.
Prima di tutto la domanda: “Di chi è quest’immagine?”.
L’immagine riflette la persona, esprime i particolari, le caratteristiche dell’originale, del padrone: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui e quindi gli appartiene.
Ma c’è un’altra “immagine” che ci deve stare particolarmente a cuore: è l’immagine nostra, del nostro “io”. Ciascuno di noi, come dice la Genesi, è stato creato da Dio a sua “immagine” e somiglianza (Gn 1,26): noi pertanto Gli apparteniamo, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare. Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile appartenenza a Dio-Vita, significa vivere una non-vita, significa cadere in una catastrofe, in un dramma senza fine. Qualunque nostro attaccamento, qualunque nostro legame a persone, a cose, a qualunque realtà che non sia Dio, svilisce, deturpa la nostra somiglianza, sfigura la nostra immagine divina rendendoci schiavi, dipendenti, prigionieri; e lontani dalla Sua immagine, non saremo più in grado di amare, di apprezzare la bellezza e la bontà della vita che ci circonda.
Tutto il creato ci parla di Dio, e ci ricorda continuamente che siamo sue creature, plasmate a sua immagine. Ci è mai capitato, per esempio, guardando avvolti in un silenzio tombale il cielo stellato sopra di noi, di ammirare la meraviglia di tutti quei puntini luminosi, di pensare che è da lì che veniamo, ed è lì che un giorno torneremo, di avvertire un richiamo pressante di eternità, di provare una struggente nostalgia della nostra “casa”, di sentire un desiderio angosciante di grandiosità, di infinito, di soprannaturale? O siamo morti dentro? Così pure ci è mai capitato di veder riflettere il sole nel volto e negli occhi delle persone amate? Di ammirare lo sguardo ansioso dei bimbi che cercano il volto della mamma e del papà? Di sentirci pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, sono tutti momenti di vicinanza con Dio, con i suoi capolavori: momenti che ci fanno appunto percepire distintamente tutta la nostra dignità di figli, tutta la nostra nobiltà spirituale di essere “immagine” del Padre.
La più grande tragedia che ci possa capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e dimenticarci, quando abbiamo finito e usciamo di scena, la maschera addosso . È importante che nel nostro intimo, nel nostro cuore, nella nostra anima, ci ripetiamo continuamente: “Io sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, un giorno è da Lui che dovrò tornare!”.
Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai divorziati risposati: ma nessuno, dico nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia, ha mai sollevato il problema ben più grave, di negarla anche a quelli che sperperano nel gioco interi patrimoni, gettando sul lastrico e nella disperazione le loro famiglie, per quelli che fanno fallire le aziende per un arricchimento personale indebito, per quelli che colludono con la mafia per ottenere ricchezza e potere, per i pubblici funzionari che si portano a casa milioni di euro in tangenti alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e tranquillamente possono accostarsi alla comunione.
Ma la risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo restituire anche alle persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene loro: valore, importanza, dignità. Tutto il creato ha le sue qualità: sta a noi riconoscerle, apprezzarle e restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Per esempio, tra i doni che Dio ci ha concesso in uso, ce n’è uno, il più prezioso in assoluto, che merita tutto il nostro rispetto e la massima cura: la nostra vita! Più gli scienziati studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la cosa più grande di questo mondo, il poter dire: “Sono vivo”. Purtroppo per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano, non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione, e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi lo dobbiamo riconoscere, amare, onorare questo dono gratuito che è la vita; la vita non ci è “dovuta”, è solo “dono”: e verrà giorno in cui dovremo riconsegnare nelle mani di Dio questo dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare al tempo perso; quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola allora sul serio questa nostra vita, viviamola in pieno, con intensità: abbiamo questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione, per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo; voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi, correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo, saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La gente impreca e si lamenta quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare Dio e viverle intensamente quando ancora ci sono. Non capisce che alla Vita si risponde con la vita, all’Amore si risponde con l’amore. Tutto ci è stato donato per amore: e noi per amore dobbiamo restituirlo. Amen.




giovedì 12 ottobre 2017

15 Ottobre 2017 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


«Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,1-14).

La parabola di oggi è una potente allegoria. Si tratta della stessa parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24), decisamente con toni diversi, meno accesi, meno categorici rispetto a Matteo: dobbiamo tener presente però che i due evangelisti riportano il messaggio di Gesù adattandolo alle loro rispettive comunità: così per esempio il semplice “uomo” di Luca, diventa in Matteo un re, (figura che richiama il giudizio universale alla fine dei tempi!); la grande cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re (che per Matteo è Gesù: la grande cena diventa pertanto il giudizio per quanti hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano); in Luca gli invitati si giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi del re. Perché sottolineare con insistenza tanti particolari? Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze, ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, al rifiuto dei primi invitati, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad altri; Matteo invece ci tiene a sottolineare l’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a tavola (la cena è già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere gli assassini dei suoi servi e per bruciare la loro città. Ma che senso ha compiere tutto questo immediatamente prima di cena? Poteva farlo con tutta calma dopo aver cenato con gli invitati: ma Matteo lo fa proprio perché si riferisce ad ebrei e alla storia di Israele; vuole cioè identificare nei messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: inviati da Dio, hanno fatto esattamente quella fine. La punizione pertanto doveva essere immediata, prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel 70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne peccatrici, eretici, senza-Dio, e loro lo hanno accolto.
Non è difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i cristiani d’oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima personale giustificazione per rifiutare l’invito di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso! E poi, prego già tanto Dio per conto mio!”. Tutte risposte che portano ad una considerazione: “Lo vogliamo o non lo vogliamo questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente a “non ne ho voglia”.
Eppure nel vangelo ci sono mille dimostrazioni di quanto Dio faccia per noi. Egli in sostanza vuole starci vicino, vuole essere la nostra forza, darci sostegno, non farci sentire soli; vuole perdonarci, vuole amarci, in una parola, vuole che siamo felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli qui, prendili!”; noi che facciamo? Non li accettiamo, li rifiutiamo! Perché? Perché siamo troppo orgogliosi, perché pensiamo che quel tale ci stia prendendo in giro; che la tanta bontà e generosità di Dio, preti, chiesa ecc. sia soltanto una solenne fola, un falso; e noi, da persone scaltre quali siamo, non ci caschiamo, non ci fidiamo!
Eppure, quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla sempre come di un padre misericordioso, dal cuore enorme, e ce lo documenta con esempi di vita vissuta: come quel padre che, nonostante suo figlio gli abbia sbattuto la porta in faccia, e stia sperperando nei vizi tutti i suoi beni, la sua stessa vita, rispetta in ogni caso la sua libertà, nell’attesa fiduciosa e trepidante del suo ritorno a casa; e appena lo vede da lontano, gli corre incontro, lo riabbraccia, e organizza una grande festa, per dimostrargli tutto il suo incalcolabile amore, un amore profondo e struggente.
Ma a noi questo non interessa: che Dio ci ami, che sia misericordioso con noi, è una cosa che ci lascia del tutto indifferenti. Preferiamo per assurdo che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca, che ci tiri pure delle sberle, purché se ne stia per conto suo, a casa sua; non gradiamo intrusioni, non vogliamo soprattutto ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, dovremmo quantomeno rivoluzionare la nostra vita dalle fondamenta. Noi vogliamo sentirci “liberi”, indipendenti, autonomi, salvo poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a pretendere il suo sollecito intervento, quasi ricattandolo, appellandoci proprio a questo suo immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché lo rifiutiamo? Perché siamo stupidamente orgogliosi; perché non crediamo nella gratuità del suo amore; perché temiamo ritorsioni, ricatti morali, compromessi; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non possa essere autenticamente disinteressato; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti, di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato. Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si conquista: soltanto eseguendo fedelmente la volontà di papà e mamma, infatti, ci sentivamo amati. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare il papà! Non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che siamo amati solo se facciamo quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza: per guadagnarcelo dobbiamo faticare, rinunciare ai nostri desideri, ai nostri progetti di vita. Diventati adulti, continuiamo a nutrire questa errata convinzione anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto i meritevoli, quelli che soffrono, che faticano, che si impegnano, che si sacrificano per lui. Troppo difficile! E quando sentiamo le parole del vangelo: “Dio ama gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crediamo: “Non è vero; siamo certi del contrario; sappiamo per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco, vedi come sono diventato bravo? Vado a messa tutte le domeniche, osservo i tuoi comandamenti; sono perfetto. Ora devi amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono sincero e totale in Lui, lasciare che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo come un terribile nemico, un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza. E se si aspetta qualche minima risposta da noi, la vuole esclusivamente per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue, intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Il vangelo ci dice poi che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni. Lo fa sempre per amore: vuole offrire a tutti la stessa opportunità di quanti hanno rifiutato il suo invito; Egli ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora come mai, quando questo Re entra nella sala del banchetto e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi a quel malcapitato e ordina che venga gettato fuori, nelle tenebre e nel dolore. Ma non aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa scena negli ultimi tempi, nel giudizio finale, Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente appartenere in questa vita ad una comunità di credenti, essere “chiesa”, trovarsi tra i “chiamati”, aver accettato l’invito: ciò non offre alcuna garanzia o diritto di entrare e rimanere nel “Regno”. L’unica condizione, valida per tutti, è quella di indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla significa aver accettato la chiamata di Dio solo formalmente, per tradizione, perché così fanno tutti, per interesse, per moda, senza alcun personale contributo al grande dono d’amore fatto dal Re: significa avere un cuore arido; significa aver seminato cattiveria piuttosto che amore, significa avere l’anima completamente inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
Una parabola, quella di oggi, che contrasta decisamente con l’idea, anche questa molto di moda, di un Dio bonaccione, che risolve qualunque situazione assicurando indistintamente a tutti una misericordia finale assoluta, indiscriminata, a costo zero. Nossignori: l’arrogante pretesa del “lei non sa chi sono io” con Dio non funziona: buono, comprensivo, amoroso sicuramente, ma Dio è anche “giusto giudice”.
Dobbiamo fare molta attenzione su questo, perché purtroppo l’uomo “indegno” del vangelo, quello sprovvisto di “veste nuziale” è, anche oggi, in ottima compagnia: quanti di noi infatti si professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato a suo tempo l’invito di Dio, senza peraltro preoccuparsi mai di indossare l’abito della coerenza e del servizio! Un giorno, alla chiamata finale, concluso il “tirocinio”, quando il Re ci esaminerà (perché Dio ci giudicherà singolarmente, statene certi, con buona pace dei “sapienti” contemporanei!) dovremo darne conto, e ogni nostro rimpianto, ogni nostra promessa di ravvedimento sarà tardiva, fuori tempo massimo: allora capiremo quanto siamo stati stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i suoi ripetuti inviti, i suoi continui suggerimenti di Padre amoroso.
Ciò che ci capiterà allora non sarà un caso, non sarà colpa del “giusto e tremendo giudice”, ma sarà la logica conseguenza delle nostre azioni. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati, ma non ce n'è importato nulla. Noi, e solo noi, abbiamo volutamente scelto di non vivere da figli, preferendo spenderci nelle soddisfazioni materiali, più comode ed immediate. Ognuno, alla fine, avrà una sentenza coerente e proporzionale al proprio servizio nella carità. E se ci presenteremo da straccioni totali, sprovvisti ancorché della più povera ma dignitosa “veste nuziale” di rito, sappiamo già quel che ci aspetta: ma non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà fuori dal “Regno eterno”: siamo noi, noi stessi, che vivendo nell’indifferenza, nell’apatia, nel rifiuto del vangelo (l’abito nuziale), abbiamo fatto di tutto per eliminarci, per distruggerci. Non per niente il vangelo amaramente conclude: “molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Amen.


giovedì 5 ottobre 2017

8 Ottobre 2017 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano».

C’è dunque un padrone che decide di investire i suoi capitali in maniera proficua anche per gli abitanti del luogo: “pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava il frantoio, vi costruisce la torre” e poi l’affida a dei vignaioli, a quelli cioè che avrebbero dovuto coltivarla. La cura che il padrone mette nel costruire le infrastrutture ci dimostra quanto egli amasse questo suo terreno, questa sua vigna. Arrivato il tempo della maturazione, egli manda ovviamente “i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”. E fin qui tutto è nella normalità, tutto secondo le regole e le usanze dell’epoca.
Ma poi succede l’imprevisto. Cosa fanno i vignaioli? Hanno una reazione furiosa, esplosiva: prendono i servi e “uno lo bastonano, uno lo uccidono, uno lo lapidano”. Come mai tanta violenza? che colpa ne hanno questi “colleghi” anch’essi servi dello stesso padrone? Erano semplicemente degli incaricati, dei rappresentanti, dei messaggeri. Ma è proprio l’essere gli “inviati”, le persone che in quel momento rappresentano il padrone, che fa scattare la ribellione nei vignaioli che, con un crescendo di violenza, arriva ad uccidere.
Ciò che risalta immediatamente in questo susseguirsi di eventi è il comportamento illogico, paradossale, sia dei contadini che del padrone. È assurda la reazione dei vignaioli, perché avrebbero dovuto pensare alla inevitabile replica repressiva del padrone. Ma è assurdo anche il comportamento del padrone che continua impassibile, nonostante la violenza subita dai suoi rappresentanti, ad inviarne continuamente di nuovi, non risparmiando, alla fine, nemmeno il suo stesso figlio. È chiaro comunque che se il comportamento finale del padrone è dettato dalla logica dell’amore: “Avranno rispetto per mio figlio!”, il comportamento dei vignaioli è dettato ancor più dall’ostilità e dall’odio: “Uccidiamolo e avremo noi l’eredità”. Un ragionamento da stupidi, perché non hanno tenuto in alcun conto l’immediata e altrettanto violenta rappresaglia del padre, una volta messo di fronte all’uccisione del figlio.
A questo punto Gesù, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo presenti, pone una domanda a risposta scontata: “Secondo voi, che cosa farà il padrone della vigna a quei vignaioli?”. E loro ovviamente: “li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini”, sottoscrivendo la conseguente, logica, condanna.
Sì, perché è chiaro che il contenuto della parabola riguarda proprio loro, è diretto a Israele e ai suoi capi. A noi i particolari non dicono molto, ma tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’oracolo di Isaia che dice inequivocabilmente: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda, la sua piantagione preferita” (Is 5,1-7). Israele era infatti l’orgoglio, il popolo preferito, la vigna di Dio. E loro erano fieri di esserlo! Per cui chi doveva capire, ha capito perfettamente: “I sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro” (Mt 21,43). E lo capirono molto bene anche perché il testo della parabola affronta lo stesso tema, usa le stesse parole di Isaia: “siepe, frantoio, torre”. La vigna quindi è Israele; il padrone è Dio; i vignaioli sono i capi religiosi; i servi del padrone, infine, sono i profeti. Tutto è chiaro.
Dio (il padrone) ha amato il suo popolo (la vigna) ma questo ha rinnegato il suo amore, ha ignorato i messaggi d’amore dei suoi servi (i profeti): Isaia, Geremia, Ezechiele, e tutti i profeti, non sono stati mai ascoltati. Erano dei messaggeri che richiamavano Israele a convertirsi, a ritornare sulla retta strada, ma non furono ascoltati. Anzi, spesso furono uccisi o lapidati.
E il figlio? Il figlio, è evidente, è Gesù. Dio manda ciò che ha di più caro, di più prezioso: suo figlio. Come a dire: “Più di così, cosa posso fare per voi? Cosa posso dirvi di più perché possiate cambiare?”. Più di così Dio non poteva fare: tenta anche la soluzione estrema, ma tutto è inutile quando uno non vuol capire. E sono loro stessi ad autocondannarsi: il padrone “farà morire miseramente quei malvagi e darà ad altri la vigna”. E sarà proprio così: a Israele sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad altri (ai pagani, alla Chiesa) e la pietra (Gesù) che essi hanno scartato, ucciso, fuori da Gerusalemme (“fuori dalla vigna”) sarà invece la pietra d’angolo, la pietra su cui poggerà l’intera nuova costruzione.
In pratica cosa ci dice questo vangelo? Che chi è inutile, chi ha perso la sua autenticità, la sua “caratura” originale, viene inesorabilmente “scartato”, accantonato, superato.
Purtroppo oggi anche la Chiesa di Cristo sta attraversando un momento difficile; per il suo voler mettersi “al passo coi tempi”, per la sua tacita rinuncia ad essere “una, santa, cattolica e apostolica”, sta gradualmente scomparendo dalle nazioni “civili”, dalle nostre città, da gran parte del mondo. Inutile attribuire la colpa a fattori esterni (consumismo, individualismo, relativismo, amoralità, ecc.), questo non ci giustifica; il vero motivo va cercato purtroppo al suo interno, nella perdita degli autentici valori cristiani da parte dei pastori e dell’intero gregge.
La storia ci insegna che quando il Vangelo di Cristo non è più vitale, significativo, fondamentale per una comunità, questa è destinata nel tempo a scomparire dalla scena religiosa, sociale, culturale. È stato così per Israele, è stato così per molte comunità cristiane dei primi secoli; e sarà così anche per molte comunità cattolico cristiane della nostra Europa, che di Cristo hanno conservato solo la radice del nome.
Dio, il padrone della vigna, continua a fare egregiamente anche oggi la sua parte: pianta, circonda, scava, costruisce, affida: la sua attenzione, il suo interessamento, il suo amore non vengono mai meno. Il Vangelo ce lo attesta chiaramente: “Vi ho guariti, vi ho fatto resuscitare, vi ho sfamati, perdonati, illuminati; vi ho provato e vi provo continuamente tutto il mio amore; cosa devo fare ancora?”. Sappiamo bene quanto ha fatto il padrone della vigna, ma a noi questo non interessa: imperterriti, continuiamo a comportarci come i vignaioli: sperimentiamo la sua bontà nell’averci chiamati nella “vigna”, ma non vogliamo essergli riconoscenti; conosciamo il lavoro da eseguire, ma ci rifiutiamo di farlo; ascoltiamo ogni domenica la sua Parola, ma il nostro cuore si è inaridito, non si lascia scalfire; conosciamo i suoi messaggi, la sua presenza discreta e insostituibile, ma la nostra mente è chiusa in sterili discussioni neoteologiche, con lo scopo di eliminarlo, di ucciderlo ancora una volta, perché continua a farci troppa paura.
Eppure Dio non deve fare più nulla per il mondo, non deve dimostrare più nulla. Il problema non è Lui, siamo noi: è il cuore degli uomini che è diventato insensibile, pietrificato! Siamo noi che siamo allo sbando, che pretendiamo di andare avanti con gli occhi bendati, aspirando più al consenso dei popoli, alla notorietà, all’affermazione egoistica del nostro io, piuttosto che a lavorare fedelmente e umilmente nella sua vigna.
Ma così non riusciremo mai ad accorgerci delle migliaia di gesti d’amore che molte persone continuano a compiere in suo nome nel silenzio e nell’umiltà; non potremo mai vedere la bontà che nonostante tutto cresce intorno a noi; continueremo a non apprezzare chi ci aiuta, chi ci sostiene; non potremo godere della bellezza del creato, espressione dell’amore di Dio, che circonda e illumina i nostri passi ogni santo giorno; non potremo insomma capire mai quanto sia preziosa la Vita. Continueremo invece a recriminare, a prendercela con Lui, a lamentarci con Lui per qualunque contrarietà, per qualunque presunta ingiustizia ci capiti nella vita.
Quello di oggi è un vangelo che si presta molto bene ad una attenta lettura autobiografica: la vigna è la nostra vita, è la nostra esistenza: ed è una vigna bellissima, meravigliosa! Dio, il padrone, ce l’ha concessa in gestione gratuitamente con molta generosità. Ci ha detto però: “Attento che la vigna, la vita, non è tua. Non essere così stupido da pensare il contrario. È solo un dono. Lavoraci, usala bene, godi della sua fertilità, ma soprattutto falla fruttificare. Ma ricorda: non è tua, è mia”. E poiché di tanto in tanto si accorge che sbandiamo, che “usciamo” di strada, dal seminato, ci manda un preciso messaggio: “Attento, così non va! Se vivi così, muori dentro, lasci inaridire il tuo cuore, lasci soffocare la tua anima, ecc.”. Ma noi ce ne infischiamo altamente dei suoi messaggi e continuiamo a vivere come prima.
Ma Dio non desiste: ci manda un altro messaggio, un altro ancora, e poi tanti altri: gli sta troppo a cuore che la “nostra” vigna sia rigogliosa, non vuole perderla; ma noi ce la ridiamo, ci disinteressiamo, spensieratamente. Fino a quando, ci dice il Vangelo, arriva il momento in cui è troppo tardi: i “vignaioli” si sono talmente rinchiusi nelle loro idee, nella loro presunzione, nella loro cattiveria, da diventare insensibili a tutto; e a questo punto nessuno può fare più niente per loro!
Quando leggiamo questa parabola ci viene spontaneamente da esclamare: “Ma come hanno fatto quegli idioti di vignaioli a non capire? Come potevano pensare di farla franca, evitando la reazione del padrone?”. Ebbene, quei vignaioli siamo noi; siamo noi che ci comportiamo così apertamente da stolti, da insensati, da sprovveduti.
Dio con noi è sempre buono: ci manda dei messaggi, degli angeli custodi (angelo, in greco significa appunto messaggero), ci manda cioè dei consiglieri, delle guide, dei santi, che ci indicano la via giusta, la condotta da seguire. Dio non ci costringe, non ci forza, non ci toglie la libertà. Ci invita, ma mai ci obbliga. Noi però dobbiamo accettarli questi messaggi, dobbiamo essere ricettivi, dobbiamo capirli. Non esiste alcun sistema di decodifica: ogni messaggio è unico, ognuno lo “sente” in base al suo vissuto. Qualunque cosa ci accada, dobbiamo sempre chiederci: “Cosa mi vuol dire Dio questa volta? Cosa devo ancora imparare?”. Solo così ogni giornata di lavoro nella nostra “vigna” diventa fruttuoso, è per noi una lezione di vita. Fino a quando arriverà la sera della nostra vita, continueremo a imparare, a capire, ad apprezzare i frutti della vigna.
Non c’è maestro più grande della Vita per chi l’ascolta: è solo “vivendo” la Vita che impareremo a vivere. Per chi invece non ascolta, per chi non accetta questa scuola, l’esistenza diventa un peregrinare stupido, insignificante, senza senso, a volte estremamente doloroso. Più che un amico, la vita è un nemico da cui difendersi. Allora non diamo la colpa a Dio; non imprechiamo contro la vita, perché l’unica responsabile del suo fallimento è la nostra caparbia ottusità! Amen.