giovedì 26 marzo 2020

29 Marzo 2020 – V Domenica di Quaresima


“Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11,1-45).

Oggi, ultima tappa del nostro percorso di conversione quaresimale (tra 15 giorni saremo insieme al Cristo risorto, vincitore della morte), il vangelo ci parla di morte, di vita, di amicizia, di commozione, di tristezza, di dolore, di “silenzio di Dio” di fronte alle nostre tragedie.
Giovanni descrive, come al solito con grande ricchezza di particolari, quanto è successo in Betania, a Marta, Maria, Lazzaro, amici di Gesù. Un testo chiaro, comprensibile, che offre via via anche la spiegazione di quello che Gesù fa e dice.
Accennavo alla “conversione”. Non possiamo parlare di autentica conversione se non andiamo alla radice, se non rivediamo il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni, il nostro modo di porci di fronte alle realtà ultime dell’umana esistenza.
C’è un’altra morte, decisamente meno esteriore, meno visivamente percepibile, meno concretamente rilevabile, rispetto a quella corporale, ma altrettanto, e forse più, traumatica: una morte che paralizza l’anima, che la debilita, che vanifica in noi ogni slancio di vita; una grande ubriacatura di mondo, di “attuale”, di falsa libertà, di egoismo, di divertimento, che ci allontana sempre più da Dio; una disaffezione nei suoi confronti, che ci porta a disertare le chiese, a perdere ogni desiderio di “stare” con Lui, a preferirgli il piacere compulsivo dei sensi, del possedere sempre più ricchezze, onori, fama, dell’ottenere ogni cosa “ora e subito”.
Quando poi rientriamo in noi stessi, più che pentirci dei nostri tradimenti, ci sentiamo offesi, dimenticati da Dio; e con lo stesso tono del rimprovero di Marta gli gridiamo: “se tu fossi stato qui con me, la mia anima non sarebbe morta!”: un’espressione di rabbia per un Dio ritenuto assente, per un Cristo che non ci ha soccorso in tempo debito.
Quanta prosopopea, quanta ignoranza mettiamo nelle nostre insulse recriminazioni! A quale cecità ci spinge la nostra ingratitudine! Abbiamo calpestato il suo Vangelo, abbiamo ignorato il suo amore, non abbiamo ascoltato la sua Parola, con cui continuava a ripeterci: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà in eterno”. Nel nostro delirio di onnipotenza, di perdizione, di superficialità, accusiamo Dio di averci abbandonato; gli lanciamo quasi una sfida assurda, condizionando il nostro ritorno a Lui, la nostra “conversione” ad un suo incondizionato e “tangibile” intervento: vogliamo, come davanti al sepolcro di Lazzaro, vederlo piangere per noi, vogliamo sentirlo dire: “togliete quella pietra che lo rinchiude”, vogliamo sentirlo gridare: “vieni fuori dal tuo sepolcro!”. 
È vero: Gesù davanti alla morte di Lazzaro si commuove, piange, si unisce al dolore e al lutto delle sorelle. Egli non può accettare tanto dolore e disperazione per la scomparsa dell’amico e compie il miracolo della risurrezione. Poteva dire a Marta ed a Maria: “Non piangete. Ritroverete vostro fratello nella vita eterna”. Invece no. Lui che aveva il potere di farlo, lo risuscita.
Certo, con lui al nostro fianco che agisce per noi, sarebbe tutto troppo facile. Ma anche in questo caso sarebbe “più facile” solo nella misura in cui noi rispondiamo alla sua domanda iniziale: “Credi questo?”. Quindi nessun diritto, come vorremmo, nessuna pretesa, nessun merito vantato; ma solo fede, tanta fede. Tutto il resto è stupida ebbrezza di personalismo.
La risurrezione di Lazzaro è un segnale forte per la nostra fede e per la nostra speranza. È un segnale programmatico. Anche noi risorgeremo, sicuramente. La vita che viviamo è un rapido passaggio, la nostra stessa morte non è definitiva, essendo tutti destinati ad una vita intramontabile, ad una vita eterna. Nella Pasqua ormai imminente celebriamo Gesù che risorge dalla morte e ci apre il passaggio a questa visione di eternità. Anche noi risorgeremo e saremo immortali, in seno al Padre, nel tripudio dell’amore.
Ecco perché non dobbiamo guardare alla morte, in tutta la sua tragicità, come all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere lapidata: e l’ha salvata. La morte fisica è pertanto soltanto il simbolo di numerose altre morti altrettanto dolorose che incombono anche oggi sull’uomo.
Il vangelo di oggi oltre che riproporci una situazione di morte, ci spalanca una visione di vita: è un inno alla vita, perché la vita è più forte di tutto, anche della morte, perché la vita vuol vivere, vuole esprimersi, vuole espandersi, non si rassegna mai, non si dà mai per vinta. Quando tutto sembra finito, la vita ci crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di rinascere e di sbocciare nei modi più incredibili e inaspettati.
Ecco perché a tutti i “Lazzari”, a tutte le vittime dell’ignoranza, della violenza, dell’odio, del peccato, dell’egoismo, Gesù dice: “Uscite fuori”. Cioè: “Non siate passivi, indifferenti, non permettete a nessuno di farvi morire dentro, di costringervi a vivere in un sepolcro, in cui la vostra anima e la vostra vita finiscono per marcire. Non vi accartocciate in voi stessi, nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti umani. Liberatevene, Venite fuori. Abbiate il coraggio e la forza di sottrarvi al vostro lento morire quotidiano, alla vostra rinuncia graduale ma inarrestabile che porta alla morte. Venite fuori... seguite me, perché io sono la Vita!”.
Di fronte a tanto amore, a tanta sollecitudine, dobbiamo avere il coraggio di non nasconderci dietro ad una “pietra”: se abbiamo sbagliato, riconosciamolo francamente, cambiamo rotta, modifichiamo i nostri atteggiamenti; se c’è qualcosa da portare a galla, facciamolo, con fiducia, senza paura, senza sentirci delle schifezze o essere distrutti dalla vergogna. Amare non è non sbagliare mai, essere sempre al massimo, sempre irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; amare è accorgersi, riconoscere che certe nostre soluzioni, che certe nostre scelte non portano vita, ma solo morte. E “venirne fuori”. Amen.


giovedì 19 marzo 2020

22 Marzo 2020 – IV Domenica di Quaresima


Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,1-41).

Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo di Giovanni che, con la figura di Gesù, pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano; un vangelo di luce e di tenebre, di chi vede e di chi non vede perché non vuol vedere; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, tra cui l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei, i sapientoni interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti sono molto attenti, si interessano di ogni cosa, di ogni particolare, tutti vogliono dire la loro sull’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardavano da sempre, ma nessuno lo ha mai “visto”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi, di difendere le loro convinzioni, i loro pregiudizi.
Prendiamo per primi i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Ecco, questo è il problema dei discepoli: stabilire chi è il colpevole della cecità dell’uomo, individuare l’errore, chi ha sbagliato. Vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: e in ogni caso non vogliono essere coinvolti personalmente nelle sue vicissitudini: “È colpa sua, noi non c’entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi, è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca quotidiana, come corruzioni, truffe, sporcizia, delinquenza; genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, criminalità minorile in aumento esponenziale; l’unica nostra preoccupazione è quella di scaricare la colpa su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Trovatolo, ci buttiamo tutto alle spalle, ci sentiamo più tranquilli, con la coscienza a posto. Individuare invece i motivi, le ragioni scatenanti di questi mali della società, cercare di porvi rimedio con i mezzi a nostra disposizione, non ci riguarda, sono cose che non ci competono. Ma, è giusto comportarci così?
Passiamo poi agli amici, ai conoscenti del cieco che, di fronte alla sua guarigione, alcuni dicono: “Sì, è lui, è proprio quello che era cieco”; altri: “no, non può essere lui, semplicemente gli assomiglia”. Rappresentano un po' quelle persone per le quali nessuno può cambiare: magari dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi miglioriamo, che diventiamo “altri”, soprattutto se il nostro cambiamento altera in qualche modo il rapporto esistente con loro. “Era cieco ed ora ci vede? Non può essere!” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo; sono loro che hanno stabilito chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa possiamo dire, cosa tacere.
Prendiamo poi i genitori: chiamati a testimoniare, hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: finire “scomunicati” dalla sinagoga, a quel tempo, significava morire socialmente; e allora: “È abbastanza grande, chiedetelo a lui; è lui che può raccontarvi ciò che gli è successo, che c’entriamo noi? È un problema suo!”.
Per un figlio non c’è peggior tradimento che constatare questo disinteresse, questo abbandono, per paura del giudizio della gente, da parte dei genitori, da parte delle persone più care, di coloro dei quali si fidava ciecamente. Oppure, peggio ancora, sentirsi calunniato, svergognato, rifiutato, da chi invece doveva difenderlo, proteggerlo.
È una situazione fin troppo comune: il figlio, sentendosi solo, abbandonato, tradito da genitori che pensano più a loro stessi, al loro tornaconto che a lui, talvolta può ricorrere a comportamenti estremi, tragici.
Prendiamo ancora i farisei: che in questo caso fanno una ben misera figura, dimostrano tutta la loro ridicolaggine. Di fronte all’evidenza di una guarigione, negano: “Non può essere, noi sappiamo come stanno le cose, siamo figli di Mosè: quell’uomo, che di sabato ha sputato per terra ed ha impastato la polvere con la saliva, andando contro la legge, non può operare miracoli in nome di Dio, è soltanto un peccatore: come può pretendere di imbrogliare anche noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come essi le vedono: sono cambiate. Sono terrorizzati dalla prospettiva di dover anch’essi cambiare atteggiamento, di cambiare il loro cuore. Sono maturati altri tempi, ma per essi è impossibile: piuttosto che cambiare idea, preferiscono negare la realtà. Sono troppo preoccupati per la loro figura di autentici discepoli di Mosè; piuttosto che ammettere l’evidenza, preferiscono difendere la loro posizione, la loro fama, il loro apparire.
Esattamente come loro, sono tutti quelli che negano l’evidenza: è sufficiente che la verità si discosti dalle loro convinzioni, che essi, per principio, non la vogliono ammettere, non l’accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del lato negativo che c’è in loro, dovrebbero essere disponibili a rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Anche per loro, come per i farisei, “ammettere” significa dover “cambiare” la loro mentalità: meglio quindi non vedere, ignorare volutamente qualsiasi novità.
Infine, prendiamo la persona di Gesù. Egli non deve difendere il suo operato di fronte a nessuno: egli è libero. Libero come Colui che accetta di passare per incapace, di essere deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, il Suo essere. Gesù non deve salvarsi la faccia, non deve preoccuparsi di cosa pensano gli altri, di cosa diranno. Anche in questo caso è Lui che si preoccupa dell’altro. Lui soltanto lo “vede”, lo scorge, capisce il suo problema. Tutti gli altri, preoccupati dei loro problemi, non possono occuparsi di nessun altro.
Solo imitando Gesù, anche noi potremo essere veramente liberi; solo allora potremo guardare positivamente il nostro prossimo, riservargli la nostra attenzione. È infatti la fiducia che riponiamo nelle persone, è il nostro amore, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non il disprezzo per le loro debolezze, per i loro lati negativi.
C’è una frase che in particolare ci deve far riflettere: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato rimane”.
Cosa significa? Il Signore in pratica ci dice che quanti si trovano nella impossibilità di “vedere”, di giudicare ciò che è bene e ciò che è male, non commettono peccato: il vero peccato, al contrario, lo commette chi “non vuol vedere”, chi rifiuta per principio ogni correzione, ogni messaggio di salvezza. Significa quindi che il peccato comune a tante persone è quello di essere “convinte di vedere”, di sentirsi cioè le uniche titolari della Verità; persone che si propongono come esempio da seguire, persone che credono di conoscere Dio, di sapere cosa gli altri devono fare per seguirlo; gente che è convinta di essere ottime persone, bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, bravi cittadini. Persone convinte di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione, ritenendosi giuste, in regola, uniche depositarie della verità.
Una gran brutta cosa! Gesù a quelli che si ostinano a rimanere ad ogni costo nella loro cecità, continua a ripetere: “Il vostro dramma è che siete voi a voler vivere nell’oscurità, nel buio più totale; ciò nonostante, non esitate a proporvi come guide esperte per gli altri”. Ma ciò è impossibile: “può forse un cieco guidare un altro cieco?”. Troppi uomini, purtroppo, pur con una grossa trave nei loro occhi, si sentono autorizzati a criticare “la pagliuzza” nell’occhio del prossimo.
Chiariamoci bene le idee: vedere la luce, avere occhi aperti, che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare “figli della luce”, quelli che “vedono” dove camminano, che si rendono conto di avere dei doveri, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i “figli delle tenebre”, sono quelli che preferiscono vivere nell’oscurità, nel rifiuto di Dio, nel peccato, nella notte dell’ignoranza. Il grande peccato, l’unico, è pertanto rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, quella più impegnativa, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”? In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue errate convinzioni, alla tua fede personalizzata, alla tua vita ottenebrata?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, l’amore, non possiamo che rispondere “si”.
Accogliamo allora la sfida del mondo, di quelli che ignorano Dio, di quelli che non lo “vedono” perché non lo vogliono vedere: indichiamo loro, coraggiosamente, la strada della Luce; mettiamoli di fronte alla misericordia di Dio, al Suo amore; e preghiamo.
Preghiamo umilmente perché, come ha fatto con noi, Gesù tocchi anche i loro occhi e i loro cuori, e li guarisca, come solo Lui sa fare.
“Dio”, in sanscrito, vuol dire “luce”: solo chi vive in Lui, potrà sperimentare la calda luminosità della sua Luce, la gioia infinita del suo Amore. E sarà eternamente felice. Amen.


venerdì 13 marzo 2020

15 Marzo 2020 – III Domenica di Quaresima


“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere» tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”
(Gv 4,5-42).

È l’evangelista Giovanni, scelto dalla liturgia in sostituzione di Matteo per oggi e per le prossime due domeniche, che ci descrive in maniera stupenda l’incontro e il colloquio di Gesù con una donna samaritana, avvenuto presso il pozzo di Sichem.
I particolari sono noti: siamo nel periodo dell’anno che precede la mietitura, quindi già in estate avanzata. Gesù, stanco per il lungo camminare, si ferma a riposare in prossimità di Sicar, ai bordi di quel pozzo che fu di Giacobbe. Gesù è solo, poiché i suoi discepoli sono andati a cercare qualcosa per il pranzo; il caldo è insopportabile, ha una gran sete, ma il pozzo, troppo profondo, gli impedisce di attingere acqua senza un adeguato recipiente. Improvvisamente, caso veramente fortunato data l’ora, si presenta una donna che ha con sé una brocca: una donna piuttosto singolare, se ha scelto di andare al pozzo nell’ora meno indicata, sotto il solleone; una donna che lo fa sicuramente per evitare incontri imbarazzanti o per sottrarsi all’ascolto delle maldicenze sussurrate dalle altre donne nei suoi confronti. La sua reputazione, per motivi sentimentali, è in realtà molto compromessa: è una donna leggera, una poco di buono, giudicata e condannata dai benpensanti di ieri e di oggi. Per questo il giudizio su di lei è molto pesante, come molto pesante ed arido è il suo cuore, per essersi dissetata fino ad allora soltanto con acqua “inquinata”.
Ed è lì, al pozzo, che incrocia quell’ebreo stanco e assetato, che attacca bottone, e le chiede da bere.
Lei è guardinga: è stufa di farsi sedurre, è stufa di essere illusa, e pensa subito che quel tale che le chiede da bere, voglia corteggiarla. Non sa ancora che quell’incontro è unico, irripetibile, determinante, profondo e miracoloso proprio per entrambi: si, perché Gesù trova la fede in una persona che, a giudizio di tutti, non l’aveva mai avuta o non l’aveva più; la donna invece incontra l’Amore: l’Amore quello vero, quello totale e coinvolgente, quell’Amore che tutti aspettavano da secoli.
Un incontro, quello tra i due, che sconvolge ogni regola, va contro il buon senso, è contrario ad ogni norma religiosa. Gesù, il maestro, scavalca impassibile tutte le barriere di quel tempo: la barriera del sesso (un rabbino, un maestro, non doveva mai rivolgere la parola ad una donna fuori di casa, fosse pure la moglie!); la barriera di razza (i samaritani erano considerati dei bastardi, nemici tradizionali degli israeliti in quanto erano una mescolanza con gli assiri); la barriera di nazionalità (i samaritani erano considerati forestieri); la barriera di religione (erano considerati scismatici e impuri); la barriera del buon comportamento (parlare al pozzo ad una donna era corteggiarla, farle delle avances, “provarci” insomma, e la cosa sarebbe andata sulla bocca di tutti; gli stessi discepoli ne rimangono scandalizzati!).
A Gesù tutto questo non interessa, egli rompe ogni schema e le parla. Egli è un uomo al di sopra di qualunque pregiudizio, ed è per questo che nella sua vita ha sempre fatto incontri meravigliosi. Gesù non si ferma a ciò che si dice in giro; è completamente indifferente a ciò che gli uni pensano e dicono degli altri. Gesù non dice: “Questo è ricco (Zaccheo), questa è una donna di malaffare (adultera, samaritana), questo è un ladro (Matteo Levi), questo la legge non lo permette (guarire di sabato), questo non sta bene (la donna che lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò), questi sono pagani, eretici (samaritani), questi sono peccatori (pubblicani, prostitute)!” Gesù è al di fuori di ogni schema umano: per questo risulta scomodo e fastidioso a tutte quelle persone che sono piene di regole, persone rigide, con una mentalità bacchettona e ristretta.
Il dialogo che Gesù intavola con la Samaritana è dunque un capolavoro di finezza psicologica e di delicatezza divina.
Allo straniero che gli chiede umilmente un po' d’acqua da bere, la Samaritana gli risponde in maniera secca, indisponente: “Come mai un Giudeo si abbassa a chiedere da bere a me che sono samaritana?”; una risposta che a Gesù è comunque sufficiente per portare il discorso là dove Egli vuole: far nascere in lei la sete per “un’altra acqua”, quella soprannaturale: tant’è che egli dimentica immediatamente la sua “arsura”, e rivolge tutta la sua attenzione su di lei: sulla sua persona, sul suo credo, sul suo cuore.
Ebbene, quella samaritana ci rappresenta: siamo tutti noi, con le nostre necessità, i nostri problemi, le nostre difficoltà. Succede sempre così: se da un lato il Signore ci chiede qualche piccola cosa, dall’altro è sempre pronto ad offrirci il massimo. La samaritana è proprio come noi: in apparenza molto disinvolta e sicura di sé, ma in realtà, nell’intimo, molto angosciata e insoddisfatta, assetata di novità: anche noi siamo sullo stesso piano, sentiamo che qualcosa ci manca, qualcosa di veramente importante; percepiamo anche noi quella sete, quel bisogno profondo di bene, di amore, di luce, di pace, di un segno soprannaturale che tranquillizzi la nostra esistenza.
È una sete profonda, misteriosa, che rischiamo di sottovalutare o, peggio, di saziare con acqua inquinata e “salata” che, dopo una prima apparente soddisfazione, amplifica a dismisura l’arsura e il desiderio di bere ancora. Lei ne sa qualcosa. E anche noi. Perché entrambi siamo fragili, non abbiamo ancora trovato in questo mondo qualcosa o qualcuno che ci disseti sul serio. Abbiamo ancora sete, sete di quell’Amore che ci donato la vita.
Gesù ci ha aspettato la prima volta al nostro pozzo battesimale: ed ora continua ad aspettarci alle sorgenti di acqua viva dei suoi sacramenti: ha una sete incontenibile di ciascuno di noi, non per giudicarci, ma per dissetarci, per insegnarci a credere e ad amare; è stanco di aspettare, è stanco di correre dietro alle sue pecore infedeli, che insistono a dissetarsi in cisterne fatiscenti, piene di acqua putrida, ignorando volutamente le fresche e vive sorgenti di acqua limpida che sgorgano dal suo cuore.
“Se vuoi essere dissetata - fa capire Gesù alla donna - devi essere onesta con te stessa. Dio non ti giudica, Dio non ti condanna, gli altri sì, sempre, sistematicamente, tutti, anche quelli che si dicono uomini di Dio: più si sentono di chiesa, peggio ti giudicano; no, stai serena: con me non hai nessun esame da superare, devi solo renderti conto dei tuoi limiti, nella preghiera”.
La donna però svicola, non capisce e la butta sul religioso: “Ma Dio non bisogna pregarlo nel suo tempio a Gerusalemme, o qui in Samaria sul Garizim?”. Domanda pretestuosa, fatta per prendere tempo: lei sa perfettamente infatti che, pubblica peccatrice, non può entrare in alcun Tempio, né in quello di Gerusalemme, né tantomeno in quello dei Samaritani già distrutto. La religione esteriore ha le proprie regole, e lei è decisamente fuori. “E invece no”, dice Gesù: “il tuo cuore è già un tempio; la tua verità, il tuo spirito, il tuo cuore ti permettono di entrare nella gloria. Tu sei un tempio e lì puoi incontrare Dio”.
La donna tace. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l’aveva amata: il mondo era diviso in chi l’aveva usata e in chi l’aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. E beve ora, la samaritana: beve avidamente, come se non avesse mai provato il gusto dell’acqua, come sei mai avesse assaggiato l’acqua fresca di sorgente. Beve, e sente dentro di lei una forza impetuosa, sente il suo cuore, costretto e inaridito dal dolore, spalancarsi con l’impeto di un fiume in piena, sente la roccia del suo cuore frantumarsi in un Amore nuovo, sconosciuto, senza limiti, un Amore che la travolge. E corre. Abbandona la brocca (che le importa, ora?), corre dai suoi vicini, dai suoi concittadini e grida: è arrivato il Messia! La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, si trasforma in missionaria. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l’epifania del volto di Dio.
Scriveva il filosofo Søren Kierkegaard che ogni uomo, ogni donna, si porta nel cuore “un crepaccio assetato di Infinito”. È la sete dell’Amore infinito di Dio, quella sete congenita del divino che ogni uomo si porta inconsciamente nel cuore, e che spesso nella vita emerge imperiosa per essere finalmente saziata.
L’uomo però, creatura inaffidabile, preferisce vagabondare da un pozzo all’altro, illudendosi di saziare questa sua sete con cento, mille sorsi di un’acqua torbida e imbevibile: solo che così facendo la sete aumenta: la sua ricerca spasmodica di felicità, di bellezza, di consensi umani, diventa una corsa ossessiva, disperante e disperata: la vita si riduce ad un convulso correre, comprare, consumare, fare esperienze sempre nuove, provare emozioni sempre più forti, guadagnare sempre di più, godere più che si può, ottenendo soltanto una crescente insoddisfazione, una nausea dominante, un precipitare nel baratro della noia, della depressione, della disperazione.
È questo il deserto che l’umanità moderna deve attraversare: e, divorata dalla sete, continua a gridare come gli Ebrei a Mosè: “Dacci da bere! Stiamo morendo di sete...”.
Lo stesso grido accorato che oggi viene rivolto alla Chiesa di Cristo: “Dacci da bere!” Un grido che, volenti o nolenti, raggiunge anche noi, popolo di Dio: che fine ha fatto l’acqua viva che dovremmo offrire ai nostri fratelli assetati? Cosa possiamo offrire di nostro alle vitali attese dell’uomo contemporaneo? Che ne abbiamo fatto del nostro Battesimo? Dove abbiamo messo l’acqua viva che ci è stata donata nei Sacramenti? Dove sono i nostri pozzi, le nostre riserve, di cristiani? È una tremenda richiesta di aiuto: ed è una nostra precisa responsabilità se, per negligenza, abbiamo lasciato ostruire in noi i canali di trasmissione della Grazia divina!
Certo, è inquietante pensare che Dio raccoglie per strada gli emarginati come la samaritana e i nullafacenti come noi, per innalzarli alla dignità di discepoli! È inquietante, ma ci deve far coraggio, ci deve dare la spinta per riallacciarci immediatamente alla Sorgente divina, e diventare torrenti, canali, fiumi impetuosi di Grazia e di Amore: di quell’Acqua Viva che è l’unica che può mitigare la sete ardente e implacabile del mondo. Affrettiamoci, perché il tempo è breve: il sole della nostra vita ha già superato lo zenit, e il tramonto della sera si avvicina inesorabilmente! Amen.


giovedì 5 marzo 2020

8 Marzo 2020 – II Domenica di Quaresima


“E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…” (Mt 17,1-9).

Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambientazione, la sua “location”. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli. Oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza, dal “toccare il cielo, Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. Ad un Gesù troppo umano, che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù troppo divino che si trasfigura.
Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata al sacrificio e alla preghiera continua? Dov’è il giusto? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci. Oggi, in particolare, Egli cerca di dare una risposta su ciò che può rendere felice l’uomo su questa terra; ci dà cioè un piccolo assaggio di cielo, di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci vuol dire che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “conversione” fatto con il sorriso e la fiducia. Gesù ci dice insomma, che la vita, attraverso l’amore, può diventare radiosa; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un anticipo paradisiaco di quello che è l’immenso amore di Dio per ciascuno di noi.
In questo sta dunque la nostra “trasfigurazione”: vedere e sperimentare con gli occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano potrà mai vedere. Questo ci dice il vangelo di oggi. Ma per capirlo, dobbiamo prima capire bene cos’è l’amore, perché, come ci conferma Giovanni, solo chi sa aprirsi all’amore e viverlo, può capire Dio. Tutti quelli che tengono chiuso il loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo, conoscerlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, continueranno a cercarlo invano.
Trasfigurarsi: ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati veri, quelli che sono persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce ridente negli occhi di un bambino, l’universo intero che si riflette sul volto rugoso di un vecchio, le stelle, l’universo e tutti i soli che brillano negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso che tutti avremo avuto l’occasione di piangere davanti ad un volto disperato, al dolore di una perdita, a scene di altruismo e di amore eroico, come pure davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di esserci sentiti così pieni di gioia, di sensazioni profonde, di una commozione così intensa, da non aver potuto trattenere le lacrime. Una volta pensavo che commuoversi fosse un segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Oggi so che vuol dire invece essere vivi, percepire ciò che proviamo dentro, ciò che gli “altri” vivono dentro; vuol dire lasciarsi toccare il cuore, vuol dire lasciarsi colpire, coinvolgere da ciò che succede intorno a noi, non essere di ghiaccio, impenetrabili come il marmo, gelidi, indifferenti, impassibili: in altre parole significa lasciarsi coinvolgere nel cuore, “trasfigurarsi” dentro. Sono questi i momenti della nostra “trasfigurazione”: momenti in cui sentiamo con assoluta certezza che vale la pena di vivere, anche solo per pochi istanti; momenti in cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità di esistere, di amare, di credere; momenti che ci danno l’energia, la forza e il coraggio di andare avanti e di affrontare le “discese dal monte”, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di felicità, di vita, di infinito, di “Dio”, tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, “nero”, inutile di essere vissuto. Dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci invada, dobbiamo lasciare che la Vita viva in noi, che sussulti, che si muova (e-mozione), che si rinnovi continuamente. E se questo non succede, dobbiamo preoccuparci seriamente, perché vuol dire che il nostro cuore, insensibile ad ogni emozione, è già morto.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione, in ebraico significa “ombelico”. 
La trasfigurazione, allora, per essere veramente tale, richiede un taglio netto di tutti i nostri “cordoni ombelicali”, dei nostri legami col male, delle nostre concessioni al peccato. Uno solo è il cordone ombelicale che non dobbiamo mai recidere: è quello che ci lega a Dio; un cordone che deve sempre rimanere collegato, perché è il canale attraverso cui Dio trasmette alla nostra anima la sua linfa vitale, al nostro cuore il suo infinito amore.
Soltanto con questo incessante nutrimento, con questo “Tabor” del Dio in noi, potremo affrontare serenamente qualunque “Golgota”, qualunque nostra “passione e crocifissione”.
Viviamola allora ogni giorno questa nostra “trasfigurazione”, e gridiamo anche noi a Gesù, con l’umile sincerità di un Pietro completamente estasiato: “Signore, è bello per noi stare qui!”.
Scrolliamoci di dosso le inevitabili brutture di una realtà con cui dobbiamo ogni giorno confrontarci: le orribili e sguaiate trasmissioni televisive, le martellanti proposte di una idiota pubblicità, gli ottusi e vanesi messaggi di una classe politica dimentica di Dio, di una faziosa informazione, asservita all’egoismo e alla insaziabile fame di profitto delle grandi potenze finanziarie.
Ritagliamoci in questa quaresima più spazi di silenzio, per entrare in sintonia con Dio. Apriamo completamente cuore e orecchi della nostra anima, e nel silenzio profondo “trasfiguriamoci”, ascoltiamo il Figlio che ci parla, ascoltiamo la sua Parola, ascoltiamo noi stessi, il nostro cuore, ascoltiamo ciò che di bello ha da dire il mondo, il creato, l’umanità intera, ogni uomo, ogni nostro fratello. Viviamo, in concreto, l’esperienza sublime del nostro Tabor.
Il mondo ci dirà che siamo matti, degli esaltati: non ci capirà mai! Ma mentre i suoi schiavi continueranno ad agitarsi nell’infelicità, nell’ansia, nell’invidia, nell’odio, noi ci sentiremo felici, pieni di entusiasmo, di tanta serenità, di tanto amore. Amen.