giovedì 30 maggio 2019

2 Giugno 2019 – Ascensione del Signore


“Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,46-53).

Oggi la liturgia pone alla nostra attenzione l'ultimo saluto di Gesù ai suoi: la sua benedizione finale mentre, distaccandosi dalla terra, sale verso il cielo; sono i pochi particolari che Luca ci racconta nell’ultima pagina del suo Vangelo. Sono in tutto un paio di versetti nei quali, in estrema sintesi, egli intende dirci: “Gesù è asceso al cielo: da questo momento egli non c'è più; ma ora ci siete voi. Quindi voi, la chiesa, non state lì a fissare il cielo imbambolati, non continuate a guardare in alto con le mani in mano; datevi da fare! Lui non c'è più, va bene; ma ha lasciato voi a continuare la sua opera! In tre anni non si è certo risparmiato nel ripetervi cosa dovete fare”.
Ed è proprio così: Gesù ci ha lasciato, è tornato in cielo. Ma noi siamo qui, e qui c’è la sua Chiesa. Tocca ora a noi, a me, a voi, e non “agli altri”, trovare la giusta soluzione ai problemi della vita, come faceva Lui per le strade della Palestina.
Non continuiamo a perder tempo chiedendoci per chi suona la campana: la campana suona per noi. Punto. È ora di muoverci. Soprattutto non dobbiamo aver paura alcuna, perché non siamo soli: come già con gli apostoli, Gesù ce l’abbiamo sempre nel cuore, dentro di noi. Quando Luca dice che gli apostoli “stavano sempre nel tempio lodando Dio”, non intendeva dire che giorno e notte essi se ne stavano rintanati nel tempio: “stare nel tempio” vuol dire semplicemente “rimanere in contatto con Lui”, vuol dire desiderarlo, cercarlo, sentirlo, ascoltarlo, amarlo: ovunque siamo, dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo.
Anche Gesù ha passato l’intera sua vita terrena “rinchiuso” nel tempio, dall'inizio alla fine. Non perché anche lui fosse sempre lì. Ma perché era in continuo contatto con il Padre; lo sentiva, gli parlava. Del resto, possiamo anche essere materialmente in chiesa, ma non per questo siamo nel “tempio” di Dio; come pure possiamo trovarci in qualunque angolo di questo mondo, e continuare ad essere nel suo tempio. L’essenziale è rimanere strettamente “collegati” con Lui.
Purtroppo gran parte della gente oggi ha perso il collegamento con Dio, è “sconnessa”: è sempre di corsa, lavora, è occupata in mille faccende, domestiche e non, fa sport, va in palestra, si diverte, ride, canta; eppure non c'è: è sempre altrove, non è mai veramente presente a sé stessa; è sempre lontana, distante. Fa tantissimo, ma non sente, è sorda a qualunque richiamo del Dio della Vita. In una parola è “scollegata” da Lui.
Noi viviamo illudendoci di poter fare da soli qualunque cosa, indipendentemente da Dio.
Ma nulla è lasciato al caso; nulla di ciò che ci riguarda è lontano dal suo sguardo amoroso di Padre. Egli non ci lascia mai soli: ci conosce troppo bene, conosce perfettamente la nostra indecisione, i nostri dubbi, davanti ad un bivio; conosce le nostre gioie, le nostre delusioni, le nostre lacrime, i sussulti del nostro cuore, le nostre fatiche nel prendere una decisione, la gioia e lo slancio dopo una nuova scelta; Lui sa...
Che Dio stupendo ci ha rivelato Gesù durante la sua permanenza su questa terra! E che missione impegnativa ci ha affidato prima di salire al cielo! Sì, un incarico notevole perché ora tocca a noi mantenere presente, rivelare a tutto il mondo il Suo Volto, sottratto alla nostra vista in seguito alla sua ascensione in cielo.
L'annuncio del Vangelo a tutte le genti, non è stato una sua missione esclusiva, un compito riservato soltanto alla sua persona: anzi lui stesso ha detto: “andate e predicate a tutte le genti…”.
Quindi, all’interno del nostro tempio, con lo sguardo rivolto a Lui in cielo, dobbiamo imparare a valutare questo mondo, e nell'amore del Signore risorto, dobbiamo impegnarci a costruirlo in tutto corrispondente al Suo nuovo progetto di vita. 
Nello specifico noi, i nuovi discepoli di Gesù, non siamo chiamati a cose eclatanti, a disinteressarci della terra per occuparci solo delle cose di lassù; ma dobbiamo vedere quelle di lassù abitando quaggiù, con i piedi per terra, continuando a camminare su di essa. In altre parole dobbiamo sì guardare a Gesù in cielo, nella sua gloria, ma dobbiamo anche vedere l'uomo come figlio di Dio; vedere l'umanità intera come un’unica famiglia; vedere nel futuro di ogni persona non la morte, ma una vita per sempre... È questo lo sguardo che l'ascensione del Signore ci sollecita a coltivare nella nostra vita quotidiana. Oggi, guariti dall'amore di Cristo, possiamo finalmente spalancare i nostri occhi alla luce dello Spirito, nonostante siano deboli, fragili, sensibili, bisognosi di tempo, per abituarsi alla sua luce intensissima.
Noi ora vediamo Gesù vivere glorioso nel cielo: ma lo vediamo anche vivere misterioso qui su questa terra: vive per mezzo della grazia nell'intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio eucaristico; vive nei tabernacoli del mondo prolungando la sua presenza reale e redentrice; vive nella sua Parola che risuona nell'intimo delle coscienze; è rimasto e si fa presente nel papa, nei vescovi, nei sacerdoti, chiamati a rappresentarlo davanti agli uomini con le loro labbra e con le loro mani, con la loro vita.
È una presenza reale che ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, anche se non è visibile e palpabile. Una presenza da amico, da confidente, da padre amoroso e comprensivo, che sa ascoltare i nostri segreti e le nostre intimità, con affetto, con pazienza, con bontà, con misericordia; che sa ascoltare allo stesso modo le nostre apparenti difficoltà, le nostre piccole fragilità quotidiane, al pari delle nostre ribellioni interiori, dei nostri sfoghi d'ira, delle nostre lacrime di orgoglio, della nostra disperazione nel dolore e nella sofferenza...
Questa è la consolante realtà: Cristo è rimasto con noi, al nostro fianco. È rimasto con noi per salvarci, per aiutarci con il suo Spirito, a costruire dentro di noi l'uomo interiore, l'uomo nuovo, la sua “immagine vivente” nella storia: perché noi siamo chiamati ad essere i "Gesù" di oggi: dobbiamo cioè far conoscere e sperimentare l'amore di Dio Padre a tutte le persone che incontriamo, alle persone con le quali viviamo, e soprattutto a quelle lontane, che dobbiamo aiutare nelle cose importanti della fede e della vita. 
È questa la nostra missione: è questo il bello della nostra vita. Una missione, una grande opera, che non è una esclusiva del Papa, dei vescovi, dei preti o delle suore; ma è “nostra”, di tutti i cristiani, di tutti i battezzati. Una missione che non deve costituire un peso, ma un onore, una gioia unica: perché è la nostra possibilità di essere i “sosia” di Gesù Risorto, di poter portare il suo Volto in tutte le strade del mondo, al pari dei suoi primi dodici discepoli. Amen.



giovedì 23 maggio 2019

26 Maggio 2019 – VI Domenica di Pasqua


“Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto… Vado e tornerò da voi” ( Gv 14, 23-29).

Rispetto alla Pasqua, dobbiamo fare un passo indietro: il vangelo di oggi ci riporta infatti all'ultima cena. Nel corso del lungo discorso fatto in quell'occasione, Gesù annuncia la propria partenza, che se ne va; ma consapevole del turbamento e dello sconforto che i discepoli avrebbero provato a tale notizia, aggiunge subito: “Vi lascio la pace... Non sia turbato il vostro cuore, non abbia timore”.
Effettivamente lo smarrimento degli apostoli è grande, ma Gesù dice: “Tranquilli, amici miei, perché dopo la mia morte sentirete una presenza dentro di voi che vi sosterrà e vi darà forza. Voi ora soffrite, ma la vostra sofferenza sarà presto cambiata in una gioia indicibile”. Le parole di Gesù, oltre che a consolare gli apostoli, a rassicurarli, anticipano quanto di impensabile succederà dopo la sua partenza: Egli sarà sempre con loro, in maniera diversa ma sarà con loro; una nuova realtà nascerà in loro: lo Spirito di Dio che li proietterà verso una vita completamente nuova.
Anche noi a volte consoliamo chi si trova in difficoltà con tante belle parole: ma le nostre belle parole difficilmente riescono a raggiungere il cuore delle persone: scivolano via, perché non sono convinte, sono solo di convenienza. Spesso invece basterebbe fare silenzio, non dire nulla, ma esserci. Far “sentire” la nostra presenza, il nostro coinvolgimento.
“Consolare” deriva da cum-solus, stare cioè con chi è solo. Affiancarci. A volte infatti non c'è niente da dire. Non c'è niente da fare. Si tratta solo di esserci. Di assicurare la nostra “consolante” presenza. Il dolore, la fatica, l'angoscia, le separazioni, fanno parte della vita. Ne sono il corollario. Non si possono eliminare. In tal caso consolare non significa minimizzare, non significa far finta di niente: consolare vuol dire aiutare a superare le contrarietà della vita.
Il vangelo ci descrive una situazione particolarmente critica per gli apostoli: il mondo sta per crollare loro addosso; tutto quello per cui avevano lottato e vissuto, improvvisamente sta per finire: Gesù, la loro guida, il loro punto di forza, sta per andarsene lasciandoli soli. L'angoscia li sommerge! Ma Gesù: “Non abbiate paura amici miei, non turbate il vostro cuore. È vero, fisicamente non sarò più con voi, ma continuerò comunque a starvi vicino. Avvertirete la mia presenza dentro di voi; non vi sentirete mai soli. Credetemi sarà così”. E fu così.
“Se uno mi ama osserverà la mia parola”.
“Osservare” vuol dire non perdere mai di vista. Qui, allora, non si parla di “osservanza” nel senso “obbedienza”, di comportarci cioè in modo giusto o sbagliato, ma di “custodire” gli insegnamenti di Gesù.
Le parole che Gesù aveva pronunciato durante la sua missione terrena, avevano riscaldato il cuore degli apostoli, la loro anima; erano state il loro nutrimento vitale. Ora, se vogliono continuare ad amarlo, le devono “osservare”; le devono custodire come un tesoro unico e prezioso.
Rimanere fedeli a sé stessi significa che non dobbiamo mai perdere di vista ciò che ci prende l'anima, che ci appassiona il cuore, che è centrale per la nostra vita. Non facciamoci distrarre. Dobbiamo invece chiederci sempre: “Noi cosa vogliamo? Di che cosa siamo affamati? Che cosa ci fa sentire vivi?”. L'anima non si accontenta di quello che le passa davanti. L'anima vuole il suo nutrimento, il suo cibo. E una volta che abbiamo individuato ciò che per lei è vitale, dobbiamo conservarlo, custodirlo, fare in modo che non vada perso.
Oggi il mondo ci offre migliaia di cose da fare. Se guardiamo a tutto ciò che potremmo fare, ci confondiamo. Il rischio è di essere tirati a destra e manca, di voler fare di tutto e di più, senza poi arrivare a nulla di concreto. Per questo dobbiamo ogni tanto fermarci, pregare, e ripartire, avendo ben chiara dentro di noi la direzione del nostro andare.
Conserviamo gelosamente le nostre intuizioni: non perdiamole! Non dimentichiamo mai ciò che appassionava la nostra anima. Perché è diventando sordi ai suoi suggerimenti che moriamo dentro.
Conserviamo le nostre relazioni umane: ci sono delle persone che sono per noi come dei porti, delle ancore di salvezza, dei salvagente nel pericolo; mai perderle, mai lasciarle, perché esse ci aiutano a vivere.
Conserviamo i nostri incontri: ci sono delle esperienze che ci ricaricano, ci fanno rientrare in noi stessi, ci danno forza ed energia per andare avanti, ci riscaldano il cuore, sono sangue e linfa dell'anima. A volte la fatica, la stanchezza, ci distolgono da ciò che per noi è vitale.
Conserviamo le nostre parole: in certi momenti della vita tutti noi abbiamo percepito dei richiami, delle parole che ci hanno toccato il cuore, che ci hanno scosso, che sono rimbombate dentro l’anima; accarezziamole, ritorniamoci sopra, custodiamole perché sono il dono di Dio per ciascuno di noi, sono le indicazioni di chi siamo e di dove andiamo.
Solo così ci renderemo conto di cosa vuol dire avere il Consolatore dentro di noi.
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
Quando il mondo ci cade addosso, quando ci ritroviamo di fronte ad una difficoltà insuperabile, ad un errore colossale, quando dobbiamo fare una scelta che nessun altro può fare per noi, ed è una scelta difficile, dolorosa, scendiamo dentro di noi e cerchiamo: perché da qualche parte c'è Lui, il Consolatore.
È questo che il vangelo di oggi ci dice: è dentro di noi, nella nostra intimità, che troviamo forza e consolazione: perché lì c'è lo Spirito, lì c’è il Dio Amore, lì c’è il “Dio in noi”.
A che servirebbe essere forti all’esterno, belli, grandi, potenti, se poi all’interno non sappiamo attingere dalla Vita, la forza di reggere le difficoltà, di vincere le debolezze, di sostenere i nostri principi?
Purtroppo il mondo si preoccupa esclusivamente dell’apparire: di essere più belli, più affascinanti, più eleganti, più applauditi di qualunque altro. È un'idea illusoria che avvelena la vita di milioni di persone. Per il mondo, è “forte” chi non ha cedimenti, chi non sente la paura, chi non dimostra mai alcun dubbio, alcuna incertezza, alcun cedimento, alcuna debolezza; la “forza” dell’uomo di mondo sta nell'intensità e nella profondità dello sguardo, nel suo portamento “regale”, nel suo incedere affettato; è “forte” chi è “un tipo”, chi conta migliaia di “follower”, di ammiratori che stanno tutti ai suoi piedi, chi ostenta il coraggio di affrontare qualunque rischio, chi sa mascherare bene la propria vita; è “forte” chi è scaltro, chi è astuto, chi è furbo, chi è calcolatore, chi se la cava sempre e comunque, chi come il camaleonte si adatta a tutto, in vista di un tornaconto.
Per il vangelo, la forza di un uomo sta nell’ascoltare la propria coscienza, nel conoscere sé stesso, nel seguire i suggerimenti dell’anima, nell’accettare umilmente ciò che la Vita gli riserva, nel non vergognarsi della propria fede, di chiamare ogni “cosa” con il suo nome, nel chiedere perdono quando sbaglia, nel mettersi a servizio del prossimo, nell’evitare insomma qualunque compromesso, qualunque passo falso, con la propria coscienza, con la propria dignità e integrità, con la propria vita.
Quando guardiamo un albero lussureggiante, siamo portati a dire: “Che belle foglie; com'è alto! E che fiori! E che frutti meravigliosi!”. Ma in realtà dovremmo dire: “La bellezza, il vigore, la forza di quell’albero, dipendono dalle sue radici nascoste nella profondità del terreno, dalla linfa che scorre senza ostacoli e senza barriere al suo interno; è solo grazie a loro che la sua energia interiore, sprigionandosi all’esterno, lo rende bello, fiorito, carico di frutti”. Perché quel che appare all’esterno, è l’esatta proiezione di quello che si nasconde all’interno, in profondità.
Per cui se esaminando la nostra vita, non siamo soddisfatti di come ci comportiamo esteriormente, di quello che dimostriamo all’esterno, una cosa sola ci rimane da fare: modificare, correggere, cambiare radicalmente il nostro interno. Amen


giovedì 16 maggio 2019

19 Maggio 2019 – V Domenica di Pasqua


“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 31-33a. 34-35).

Per comprendere bene il vangelo di oggi dobbiamo leggerlo nel suo contesto originale, altrimenti i riferimenti e il significato delle parole sfuggirebbero alla nostra attenzione.
Il testo infatti inizia con “Quando fu uscito…”: ma a chi si riferisce? Chi è la persona che, una volta uscita, costringe Gesù a dare delle spiegazioni ai presenti su quanto è avvenuto immediatamente prima? Che significa che Gesù ora si sente “glorificato”? per che cosa?
Cerchiamo di dare un senso a questi interrogativi, spostandoci su quanto accaduto immediatamente prima.
La scena si svolge all’interno del cenacolo, durante l’ultima cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai dodici, e sta raccomandando loro di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, di chi ne ha maggior bisogno. È un momento di grande intimità: egli sta impartendo le sue ultime raccomandazioni, sta consegnando loro il suo testamento spirituale: è serio, parla a voce bassa, confidenzialmente, lasciando emergere dal cuore tutta l’amarezza e l’inquietudine per l’imminenza del suo grande Sacrificio; improvvisamente tace, e proseguendo con voce rotta dall’emozione, rivela un particolare tremendo: “Uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21).
Ne segue un silenzio glaciale. I dodici si guardano l’un l’altro: “Uno di noi? Impossibile! Noi siamo tutti con te!”. In loro domina lo sgomento, il dramma, la costernazione, ma si insinua anche il dubbio. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Signore, chi è?”. “È colui per il quale inzupperò il boccone e glielo darò”, risponde Gesù.
Era usanza del tempo che nei banchetti importanti, il padrone di casa offrisse il primo boccone all’ospite d’onore, in segno di deferenza e di stima. È questo l’estremo gesto d’amore e di rispetto di Gesù nei confronti di Giuda, nel tentativo di distoglierlo dal suo insano proposito. Ha provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutta la sua amicizia, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma qualunque suo sforzo non è servito a nulla: Giuda insisterà nel suo rifiuto, ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.
È a questo punto che si allaccia il vangelo di oggi: “Quando fu uscito...”: una volta cioè che Giuda se n’è andato dal cenacolo, Gesù offre ai suoi una spiegazione su quanto successo, ma lo fa con parole di difficile interpretazione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato…”; Giovanni nel riportarle, usa per ben cinque volte, in due soli versetti, il termine “glorificare”: ora, quando noi parliamo di “gloria, glorificare”, colleghiamo immediatamente questi termini alla fama, alla notorietà, al potere di una persona. Avere gloria per noi significa ottenere il pubblico consenso, la pubblica ammirazione; significa essere riconosciuti da tutti, essere arrivati molto in alto nella scala sociale; in genere noi “rendiamo gloria, glorifichiamo” le persone coraggiose, i santi, i martiri, le persone eccezionali che hanno vissuto eroicamente.
Nel linguaggio biblico, invece, “glorificare”, vuol dire “rivelare, mostrare, far vedere”. “Glorificare” è quando Dio si “rivela in tutta la sua maestà”, quando si rende visibile, quando fa conoscere solennemente la sua presenza: nel nostro caso, Gesù “glorifica” Dio, perché, lui stesso Dio, con la sua incarnazione, con la sua vita terrena, lo ha reso visibile, sperimentabile, toccabile con mano, a noi mortali.
Un fatto straordinario che deve valere come programma esistenziale per tutti gli uomini: perché anche noi dobbiamo “glorificare Dio”, dobbiamo farlo “emergere”, rendendolo “presente, visibile, palpabile” nella nostra persona e nella nostra vita: in una parola dobbiamo dimostrare concretamente di essere “suoi” discepoli, amandoci gli uni gli altri.
In questo modo Gesù capovolge completamente il senso delle nostre attuali categorie religiose. Per noi, infatti, è “cristiano”, cioè “di Cristo”, chi è battezzato, chi va a messa, chi rispetta certe regole e certe norme. Ma per Gesù essere cristiani, essere suoi discepoli, significa soprattutto amare come Lui ha amato”, con un amore identico al suo, identico a quello del Padre.
Ma come ama Dio? “Dio è amore”, proclama Giovanni: Dio è l’Amore assoluto e totale che, grazie ai meriti di Gesù, concede gratuitamente e indistintamente il suo “amore” a tutta l’umanità. Perché Dio ama tutti: anche quelli che non lo meritano; anche quelli che lo tradiscono; anche quelli che lo rifiutano.
Il “Figlio dell’uomo”, pertanto, ha “glorificato” il Padre, rivelando questo Amore del Padre all’umanità intera, rendendolo fruibile e sperimentabile concretamente da tutti; per questo stesso motivo il Padre ha “glorificato il Figlio” rendendo cioè noto a tutti la portata e il significato del suo sacrificio sulla croce, veicolo di amore per l’umanità intera.
Come possiamo allora anche noi partecipare alla gloria del Padre? significa amarlo come ha fatto il Figlio, senza chiedere nulla in cambio, senza avanzare pretese. Noi, è vero, non vediamo Dio; ed è altrettanto vero che amare chi non vediamo, è difficile; ma abbiamo i nostri fratelli che ci stanno sempre vicini, abbiamo il nostro prossimo che vediamo continuamente: amando loro, è come se amassimo Lui, perché “chi ama loro, ama me”.
Poi Gesù prosegue dicendo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Perché lo definisce “nuovo”? Perché un tempo il pio ebreo amava solo i componenti della propria famiglia o, al massimo, la gente del suo popolo: per cui “amare tutti”, indistintamente, era certamente una novità: ma non è ancora questa, la vera novità. Il “novum” dell’amore sta nelle parole che seguono: “Come io vi ho amato”. Questa è la “novità”; questo è il cambiamento rivoluzionario dell’amore: amare come ha fatto Gesù, amare con il suo stesso amore.
La vecchia legge stabiliva “ama il prossimo tuo come te stesso”: il termine di paragone era l’uomo. La legge nuova di Gesù, pone invece come termine di paragone l’amore di Dio: “Ama il prossimo tuo come Io ho amato te”. Se per gli Ebrei Dio era l’innominabile, l'invisibile, che incuteva timore, riverenza, lontananza, che esigeva servizi e sacrifici, per i cristiani Dio è gratuità, presenza continua, vicinanza, disponibilità, provvidenza e amore continuo: non siamo noi a dover “dare” qualcosa a lui, ma è lui che si dona a noi, è Lui che si abbassa al nostro livello, che si pone al nostro servizio, rimanendo sempre al nostro fianco; Una vera e propria rivoluzione.
Quindi il vangelo insiste concludendo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Parole di estrema importanza, che meritano una più attenta considerazione proprio da parte nostra, di noi cattolici super praticanti e chiesaioli”, che ci definiamo “osservanti” grazie alle nostre frequentazioni religiose domenicali. Gesù infatti non dice: “Si saprà che siete miei discepoli se andate a messa tutte le domeniche, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose, se siete iscritti a tutte le associazioni cattoliche”. No, Gesù non dice questo. Anzi, all’epoca, egli si è dimostrato particolarmente severo proprio con quella casta di scribi e farisei che si ritenevano gli unici “eletti” da Dio, gli “osservanti” perfetti, i custodi del tempio.
Ciò che ci deve distinguere, non è quindi l’apparire, il “fare”, il “dare”, l’essere giudicati importanti, diversi dagli altri, insostituibili alla parrocchia; il vero “marchio”, quello che ci fa riconoscere come discepoli di Cristo, quello fondamentale, è uno solo, l’amore. I riconoscimenti, gli stemmi, le insegne, gli abiti, le decorazioni, i riti, le celebrazioni, il canto, cose di cui andiamo tanto fieri, contano ben poco, sono solo dei corollari, incapaci da soli a qualificare la nostra fede, la nostra vita interiore.
La nostra risposta alla “chiamata” di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi insegnamenti, va quindi misurata solo ed esclusivamente sull’amore: a Dio, alla famiglia, ai fratelli, al proprio stato, ai propri doveri di cristiano e di cittadino; non su un amore straordinario, eroico, da prima pagina dei giornali o da interviste televisive, ma sull’amore discreto, umile, nascosto: in quei piccoli gesti d’amore che non hanno bisogno di grandi imprese, di grande visibilità, ma che comunque raggiungono subito lo scopo, perché compiuti nella riservatezza, nell’umiltà, nel silenzio. Amen.


giovedì 9 maggio 2019

12 Maggio 2019 – IV Domenica di Pasqua


“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10, 27-30).

Il Vangelo di oggi è formato dai quattro versetti finali del discorso detto del “Buon Pastore”, incluso da Giovanni tra le catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. Sono poche parole, che sintetizzano e documentano tutta la personale e coraggiosa convinzione dei primi cristiani di fronte ad una situazione estremamente ostile nei loro confronti: chi ascolta e segue il Signore non deve temere nulla, perché nessuno riuscirà mai a strapparlo dalle sue mani.
“Ascoltare la voce del pastore”, “essere da lui riconosciuti”, “seguirlo”: tre momenti con un crescendo programmatico che deve determinare anche la nostra vita di cristiani “moderni”.
Approfondiamo come al solito la portata di queste parole.
“Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire” significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente. “Ascoltare” invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro (ausculta o fili), interessando l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per accettarlo volentieri (libenter excipe) ma soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple). “Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’azione consapevole.
Noi in genere “udiamo” tantissime cose, ma non per questo le ascoltiamo.
Ne consegue che “come uno ascolta” così anche si comporterà, così imposterà la sua vita.
Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo.
Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo che ci “costruisce” dentro.
Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver udito tante belle prediche o tante catechesi!
In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamo?
Eppure alcuni santi si sono addirittura convertiti, “ascoltando” anche una sola parola della scrittura: noi al contrario abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza che mai sia scattato qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima.
Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”.
Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “a-surdus” = senza ascolto, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita: siamo sordi!
E non essendoci “ascolto”, da sordi, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!
L’altra parola da approfondire è “conoscere”. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano.
Per noi, “conoscere” significa sapere chi è un tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Ben più profondo ed esplicativo è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia.
La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È in questo modo che Gesù “conosce” coloro che “ascoltano” la sua voce: ed essere individualmente riconosciuti da Lui, essere chiamati ciascuno col proprio nome, sarà un’esperienza unica, indescrivibile, che ci cambierà profondamente, ci destabilizzerà, ci rapirà dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.
Infine, la terza parola è “seguire”. È la conseguenza dell’ascolto e del “conoscere”: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. E così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio.
“Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”.
Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà.
L’ansia è la compagna fedele del nostro viaggio.
Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? A nulla: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo.
Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba.
Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono, do loro la vita eterna, non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
I primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Fidiamoci anche noi di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: e allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dal suo amore! Amen.



giovedì 2 maggio 2019

5 Maggio 2019 – III Domenica di Pasqua


“Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (Gv 21,1-19).

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, e quindi stabiliamo che non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere anche noi come gli apostoli: “No”. Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo soddisfatti per come siamo, ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, scontenti di tutto e di tutti. Di veramente prezioso da offrire, non abbiamo proprio nulla; anzi la prima cosa da fare è dirci francamente: “Così non va!”; perché, per poter guarire, dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che i malati siamo noi, e non gli altri: siamo noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo darci da fare.
Dio ci aiuta certamente, ci mette sicuramente del suo in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con effetto istantaneo: un evento, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
Esattamente come accadde quel mattino sulle rive del lago di Tiberiade.
Dopo una notte intera di faticoso lavoro senza alcun risultato, Gesù rimanda gli apostoli in “mare”, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora ripartono con un obiettivo ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”.
La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, della superficialità, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
Lo stesso ordine Gesù lo ripete anche a noi; dopo i nostri fallimenti, puntualmente ci rimanda nella nostra vita, nel nostro quotidiano; non ci impone di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di sconvolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. Ma: “Fate le cose di prima, le stesse, ma adesso fatele in maniera razionale, consapevole. Non vivete più con la testa fra le nuvole; non aspettate che le difficoltà spariscano magicamente, fatevi delle domande serie, osservatevi, guardatevi, chiedetevi cosa volete da voi stessi, qual è il vostro ideale, cosa vi appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire scioccamente la maggioranza, chiediamoci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Quali ideali mi muovono? Quali paure mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono sincero in quel che faccio? O preferisco nascondermi indossando delle maschere?”. Dobbiamo convincerci che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa.
Noi ci illudiamo invece che le cose in grado di saziare i nostri cuori si trovino all’esterno, al di fuori di noi. Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci rende pieni di gioia, ciò che ci fa sentire amati da Dio, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova al di fuori ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi stessi che dobbiamo lavorare continuamente, con noi e con il Dio che ci inabita.
Questo fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava: un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!”.
Il messaggio è chiaro: anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e fragilità, potremo un giorno “vedere e riconoscere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia.
Purtroppo la gente cerca Dio nelle “visioni” dei ciarlatani, nelle pseudo apparizioni, perché non “lo vede” nella propria vita. Ma Dio ci appare, ci incontra, soprattutto nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità, un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è sempre per noi, è a nostra disposizione; il suo luogo preferenziale è “dove c’è carità e amore”: dobbiamo soltanto imparare a “vederlo”.
Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo, senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, non riescono a “vedere” il Signore. Come è successo a Pietro: lui l’uomo razionale, efficiente, irruento, l’uomo d’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore, non riconosce il Signore: Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e lo indica a Pietro: “È il Signore!”.
Pietro assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
È interessante notare come Pietro, grazie a questo suo carattere altalenante, compia una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica: una volta riconosciuto Gesù, per esempio, senza alcuna esitazione, si getta in mare per raggiungerlo: era al largo, stava tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Una decisione improvvisa, quella di Pietro, che però, secondo i Padri della Chiesa, contiene un forte simbolismo: egli cioè “deve” buttarsi in acqua, prima di raggiungere Gesù, perché deve “bagnare” la propria presunzione, la propria sicurezza; deve cioè fare un bagno di umiltà, deve ricredersi, deve immergersi, anche lui come Giovanni, nel “mare” dell’amore.
Altro particolare curioso: prima di buttarsi in acqua, “si veste”: ma se mentre pescava era nudo, che senso ha “rivestirsi” per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa per Pietro, indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno sempre bisogno di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. È Lui infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra, ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora”. Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima infatti di conferire a Pietro il mandato di “guida”, di “pastore”, Gesù mette alla prova l’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèo”. Ora, in greco, “Agapào” indica un amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece si riferisce ad un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. Gesù è diretto nella sua domanda, esige una risposta netta, un amore incondizionato, da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèo”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, assoluto, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene…” (“filèo”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” e passa a “filèo”, lo stesso verbo usato da Pietro, e gli chiede: “Simone, mi vuoi bene” (Sìmon, filéis me)?
In pratica si accontenta del suo “ti voglio bene”, si abbassa, si adatta, si adegua alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento, ancorché incompleto, è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore; tre volte gli ha in pratica detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti senta esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione, solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù conclude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi sì decidere la direzione da percorrere, ma devi anche lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire lui dove andare. Ma avere fede in Dio, amare Dio, significa lasciare spazio a Lui, abbandonarci a Lui, lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno a priori può essere certo che Dio ad un certo giorno non decida di rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non desideri qualcosa di più impegnativo da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia abbandonare progetti, amicizie, ideali, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e il nostro presente?
Noi amiamo immaginarci celebri, ricchi, realizzati, magari sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili; con una vecchiaia serena e piena di soddisfazioni: ma chi può assicurarci che il nostro domani non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa? L’importante è che noi siamo sempre e comunque pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.