giovedì 31 maggio 2018

3 Giugno 2018 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo


«Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc 14,12-16.22-26).

Il vangelo di oggi ci ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, la festa del Corpo e Sangue di Cristo.
E ci sottolinea quanto sia importante la condivisione, quanto sia fondamentale partecipare tutti insieme allo stesso banchetto del Corpo di Cristo, fare cioè “comunione” con i fratelli: oggi è pertanto la festa anche di tutti noi, la festa che ci ricorda l’importanza di essere “Chiesa”.
Alla sua morte Gesù non ci ha lasciato in eredità nulla di questo mondo: non ricchezze, non oggetti preziosi, non una casa, non libri preziosi: ci ha lasciato una cosa sola, sé stesso: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, ed è appunto questo il grande mistero che la Chiesa oggi propone alla nostra meditazione: Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un tramonto, le bellezze della natura, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di gioia di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma l’autentica, la più grande mediazione, è quella di Cristo nell’Eucaristia: Dio, attraverso il pane della domenica, attraverso il corpo del Figlio, continua a darsi a noi in un rapporto diretto di amicizia e di grazia; un rapporto con Dio che continua anche per mezzo del “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora mediante il corpo dei “nostri” fratelli, anch’essi immagine “viva” di Cristo.
In questo senso possiamo definire il Cristianesimo la “religione del corpo”. Per secoli si è sempre fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (il corpo con tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è spirito è invece elevato, eterno, sublime: umiliamo quindi il più possibile la materia, perché solo così faremo emergere lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità, ancora fino a qualche decennio fa, passava unicamente attraverso la completa rinuncia ad ogni piacere, di qualunque natura esso fosse (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento, allegria): così, per esempio, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato; qualunque divertimento era visto come mezzo di sicura perdizione. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente sporco, diabolico, negativo, dannoso.
Ma non è così: il nostro corpo è abitazione di Dio, è tempio di Dio, esattamente come corpo di Dio è il pane eucaristico, “pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli”. Nell’Eucaristia che noi assumiamo, Dio viene in noi, Dio entra realmente nel nostro corpo. Lo Spirito di Dio, su questa terra, esiste soltanto attraverso un corpo: una volta quello di Gesù, ora il nostro, quello dei fratelli, quello della Chiesa. Il corpo diventa così spirituale e lo Spirito diventa corporeo. Ecco allora che quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, pure il corpo sta bene. Tante nostre malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo prendere tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a “star bene”; perché non è il nostro corpo ad essere ammalato, ma il nostro spirito; il corpo infatti non è altro che la visualizzazione, il “monitor”, il riflesso del nostro spirito.
Curare il nostro corpo significa curare anche la nostra anima; tenerlo in forma, significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la nostra anima è gravemente ammalata, ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”, ha bisogno di pause salutari, di silenzio, per eliminare quella “sazietà mortale” che le impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”, e integrarsi totalmente nel Corpo di Dio.
Insomma chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio, perché il nostro corpo è a pieno titolo inabitazione dello Spirito.
Ecco perché il nostro corpo va accudito, curato, rispettato: anche attraverso il godimento di tutte quelle cose buone di cui Dio ci ha riforniti tramite il suo creato.
A ben guardare, infatti, una delle grandi rivoluzioni che Gesù ha portato nei costumi del suo tempo, è stata la sua abitudine di condividere il cibo con chiunque, di sedersi a tavola e mangiare con tutti: lo ha fatto con gli esattori delle tasse, con i pubblicani e i peccatori, con i farisei e gli uomini di legge; durante uno dei suoi pasti ha accolto anche delle donne di cattiva fama, ha mangiato perfino con i lebbrosi, considerati rifiuto della società. Gesù non si è mai posto problemi di alcun genere, ha mangiato tutti i giorni, e lo ha fatto in compagnia di chiunque si trovasse con lui.
Proprio per questa sua abitudine era accusato apertamente dai suoi nemici: gli rinfacciavano di essere un beone, un crapulone; di mangiare perfino nei giorni proibiti (come di sabato), senza mai rispettare le regole religiose, come quella delle abluzioni da fare prima di toccare cibo. Chi non osservava queste norme, era quindi ritenuto automaticamente un pubblico peccatore, e veniva escluso dalla comunità.
Gesù ha stravolto questo sistema: la sua missione non è stata quella di fondare un’élite di puri, di eletti, di uomini “in grazia”; ma di abbattere qualunque forma di emarginazione nei confronti di tutti gli esclusi, di tutti i reietti, di tutti i feriti nel cuore e nella vita.
È infatti per loro, per quanti si sentono deboli, sofferenti, bisognosi, vulnerabili, che Egli ha lasciato in eredità il suo Corpo e il suo Sangue.
Noi stessi andiamo al banchetto eucaristico non perché ci sentiamo giusti, in regola, puri, ma perché sentiamo il bisogno del suo amore; sentiamo il bisogno di sentirlo materialmente vicino, di mangiare il “Suo” cibo: e Gesù ci accetta con gioia alla sua mensa, mangia volentieri con noi: anche se siamo più disonesti di Zaccheo; perché, peggio di lui, tutti noi “rubiamo”, tutti noi facciamo i nostri interessi, scegliamo sempre ciò che ci è più comodo e più utile; in famiglia per esempio: chiediamo tanto agli altri, pretendiamo dai nostri figli obbedienza e rispetto, dai nostri mariti o dalle nostre mogli massima tenerezza e disponibilità; ma noi personalmente diamo molto poco. Investiamo in questo decisamente poco, spesso addirittura proprio niente.
Gesù ci accetta e mangia con noi anche se siamo peggio di Levi, l’esattore dei tributi, del quale condividiamo apertamente la stessa mentalità: “Io ti do, solo se tu mi dai; cosa mi dai in cambio? Io non faccio nulla per niente!”, arrivando a contrattare perfino quel minimo di bene che facciamo.
Gesù ci accetta e mangia con noi anche se siamo molto peggio delle “donne facili” di ogni tempo: all’esterno siamo brillanti e seducenti, anche se dentro di noi sappiamo molto bene a quali vergogne, a quali imbarazzanti compromessi ci siamo abbassati per ottenere in cambio un inutile ed effimero tornaconto.
Gesù ci accetta e mangia con noi anche se siamo dei Giuda, anche se continuiamo a tradirlo, a venderlo vergognosamente ai suoi carnefici; mangia con noi anche se siamo palesemente dei mascalzoni, dei delinquenti, degli approfittatori: chiunque può a ragion veduta evitarci, rifiutarci, detestarci, odiarci; ma Lui no, Lui non ci rifiuta, non ci odia.
“Il corpo di Cristo” ci dice il sacerdote quando ci comunica; e noi gli rispondiamo “Amen, sì, è vero!”: e apriamo la nostra misera dimora: il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare in casa nostra, diventa un tutt’uno con noi, si immedesima in noi; in quel momento prodigioso possiamo percepire il nostro cuore sussurrargli: “Signore, questo è il “mio” di corpo…” e Lui di rimando rispondere: “Amen, Sì, lo so, figlio mio”. 
“Magnum mysterium, adorabile sacramentum”, hanno cantato i Padri alludendo a questo reciproco “sì”, a questa personalissima, totale e incondizionata accettazione: un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci deve seriamente impegnare nella vita di perfezione nella “perfetta carità”. Allora, vivere una vita eucaristica, non vuol dire andare in chiesa per “fare la comunione” tutti i giorni, ma vivere ogni giorno facendo della nostra vita un dono d’amore agli altri.
Se non riusciamo a realizzare questo compito, se non riusciamo a donare, esprimere, offrire ciò che abbiamo di assolutamente “nostro”, di più profondo, di più intimo, di più divino, la nostra vita sarebbe completamente inutile, decisamente sterile; le nostre fatiche, le nostre lotte, la nostra passione, il nostro amore non servirebbero a nulla e a nessuno. Amen.


giovedì 24 maggio 2018

27 Maggio 2018 – Santissima Trinità


«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,16-20).

Oggi la Chiesa celebra la festa della Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli; essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo. Noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato; lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza. E per la Chiesa nascente questo bastava. Col passare degli anni però i primi cristiani cominciarono a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.
Per noi la vita Trinitaria è una verità raggiunta e ben definita, ma all’inizio non fu affatto così.
Solo nel 325 il concilio di Nicea stabilì che “il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza, usando per “sostanza” il temine greco “homousios”, identico cioè al Padre quanto alla natura e alla sostanza. Il concilio di Costantinopoli del 381, poi, contro il macedonianismo, decise che anche lo Spirito Santo è ugualmente “homousios”, consustanziale cioè al Padre e al Figlio.
Colui però che chiarì il mistero della Trinità in maniera chiara, accessibile a tutti, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: il Padre è Colui che ama (Amans), il Figlio è l’Amato (Amatus) e lo Spirito è il reciproco Amore (Amor) tra Padre e Figlio.
Le tre persone divine non sono quindi statiche, tre divinità autonome e diverse che se ne stanno per conto loro, ma sono dinamiche, sono cioè in continua relazione tra loro. “Dio è Amore; Dio è Relazione”. Una verità inesprimibile, teologicamente abbastanza ostica da capire: tant’è che per parlare di questa relazione che intercorre tra i tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, il Concilio usò la parola “pericorèsi”: dal greco “perì-corèo” che vuol dire andare attorno, girare intorno, danzare. La Trinità è pertanto Vita, Relazione, Danza, Divenire, Amore, Comunicazione, un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno.
La prima grande verità che possiamo pertanto dedurre dalla festa di oggi è che, ad immagine della Trinità, tutta la vita, tutto il creato, come pure tutto ciò che ci riguarda, che ci accade, è in costante relazione: tutto è collegato al Tutto, tutto è interconnesso, tutto è comunicante con l’Amore Assoluto (Gv 17,11), tutto è a Lui riconducibile; tutto è Uno e Trino, perché nulla può esistere di separato, di diviso, di isolato, “al di fuori” di questo Amore; niente e nessuno può esistere, se non attraverso questa palpitante relazione.
L’amore di Dio Trinità è quindi un amore che “sostiene ogni cosa”, come scrive Paolo (1Corinzi 13,7), un amore che è la realtà ultima e profonda di ogni creatura, dell’intero creato.
Una realtà che ci tocca particolarmente. Tutti infatti cerchiamo l’amore. Tutti vogliamo essere “sorretti” dall’amore. Tutti vogliamo essere amati, felici. Soltanto l’amore di Dio però può saziare questa nostra fame di felicità. Lui è l’unica forza che ci sostiene, il calore che ci riscalda l’anima, il medico che ci guarisce, la guida che ci accompagna lungo il cammino della vita. È l’energia soprannaturale che infonde coraggio, potenza, entusiasmo, autorevolezza.
Questo è lo stesso amore con cui Gesù ha amato le folle, con cui ancora oggi continua ad amarci: con grande dolcezza, con comprensione, con garbo; ma anche con forza, con chiarezza, con determinazione: un amore comunque discreto che non si impone, non fa paura, non terrorizza, non manipola nessuno. Egli, come faceva una volta, continua ad avvicinare i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, sussurrando a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti va di aprirmi il tuo cuore?”. Non costringe nessuno, non butta giù le porte; sa benissimo che a volte la paura di aprirsi, di abbandonarsi, di lasciarsi amare nonostante una vita miserabile, è così grande e invalidante, che le persone si rifiutano di accoglierlo. 
A tutti Egli continua a dire: “Anche se ora tu non mi ami, non preoccuparti, perché io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te. Qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso, Io ti amo comunque, ti amo per quello che sei. Non voglio niente da te, non mi aspetto niente, non ti chiedo niente, non ti impongo niente: io rimango qui con te, sarò sempre alla porta del tuo cuore: entrerò solo se e quando tu vorrai”. 
Vale la pena allora di pensare seriamente a questo Amore; di pensare a questo dono impareggiabile che Dio mette gratuitamente a nostra disposizione, a questo DNA Trinitario che ci viene inspirato con la vita. Anche se non lo meritiamo. Anche se per noi “umani” rimane inspiegabile e incomprensibile.
Ma… ricordate la scena del figliol prodigo, quando ritornò dal Padre? Si era preparato per bene il suo discorsetto: “Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e… bla, bla, bla...”. Ma prima ancora che aprisse bocca, il Padre, vedutolo da lontano, gli corre incontro, lo abbraccia, e in un intimo e commosso silenzio gli dice: “Ti aspettavo”.
Nient’altro: nessun rimprovero, nessuna recriminazione, nessuna accusa. Ecco: questo è l’amore di Dio. Una pagina del vangelo che per noi è illuminante: una “lectio magistralis” sull’amore del Padre celeste. In una analoga circostanza, in quel preciso istante, chiunque di noi, anche il più incallito prevaricatore, capirebbe la portata di quell’amore, capirebbe cosa significa essere i destinatari dell’amore Divino, un amore struggente che invade l’anima, un amore che conquista e inebria il cuore. Amen.


giovedì 17 maggio 2018

20 Maggio 2018 – Pentecoste


«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 15,26-27; 16,12-15).

L’Ascensione al cielo di Gesù ha concluso il tempo della sua vita terrena, della sua presenza materiale, delle sue apparizioni post pasquali; con la Pentecoste, che celebriamo oggi, si apre quindi per i seguaci di Gesù un tempo nuovo, il tempo della Chiesa, dello Spirito Santo, il tempo degli uomini.
Ma cos’è successo in questi ultimi “cinquanta giorni”? Con la morte di Gesù, gli apostoli cadono nello sconforto, nella paura, nella delusione. Si rinchiudono nel Cenacolo, tutti insieme, terrorizzati. Il Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la recentissima “cena” con Gesù, è per loro come un grembo materno; lì si sentono al sicuro, protetti, al riparo da occhi indiscreti. I giorni trascorsi dalla Pasqua fino ad oggi, sono stati per loro un tempo di profonda crisi, di severa analisi della loro vita attuale, delle loro scelte.
Improvvisamente, come un terremoto, con il frastuono di un uragano, lo Spirito del Signore scende nei loro cuori, nelle loro menti, rivoluzionando completamente la loro esistenza. I loro pensieri, le loro incertezze, la loro vita, che prima andavano in un senso, ora improvvisamente cambiano direzione. Da timorosi, dimessi, spaventati che erano, diventano forti, intrepidi, battaglieri: lo Spirito li ha completamente trasformati: e grazie alla loro totale adesione, diventano “altri”. Questo è lo stile dello Spirito, e noi dobbiamo lasciarci docilmente sopraffare.
Certo, non è una cosa semplice, da nulla; si tratta di prendere in mano così, su due piedi, la nostra vita, o lasciarci andare. Perché lo Spirito è impetuoso, stravolge in un istante le nostre sicurezze terrene, i nostri progetti, i nostri rifugi mentali, nidi della nostra tiepidezza.
Quando invochiamo lo Spirito, dobbiamo quindi essere pronti ad accettarne le conseguenze: il nostro radicale cambiamento non potrà più essere rimandato, non potremo più accampare scuse, deve essere affrontato immediatamente. Con generosità, senza calcoli o sconti.
L’irruzione dello Spirito è sempre accompagnata da una crisi. Il termine “crisi” in greco vuol dire separare, distinguere, dividere”: la crisi è quindi un punto di rottura, di separazione, un momento in cui è necessario distinguere nella nostra vita ciò che dobbiamo tenere e ciò che dobbiamo abbandonare; riconoscere il nuovo e avere il coraggio di lasciare il vecchio.
È quindi impossibile crescere, evolvere, rinascere, cercando di sfuggire alle tante crisi che accompagnano la nostra vita. Ci sono le crisi dell’età: gli anni che scorrono velocemente e inesorabilmente; il passaggio dalla giovinezza all’età matura; i sessant’anni; la morte improvvisa delle persone che amiamo; l’abbandono di una persona amata che si allontana da noi; le disavventure e le difficoltà economiche, la perdita del lavoro. Ci sono le crisi mentali, spirituali: la fede che non ci sorregge più; la necessità di maggiori certezze; il decadimento delle nostre certezze, delle nostre convinzioni. Ci sono le crisi affettive: sentiamo che il nostro modo di amare non va più bene, ha bisogno di nuovi impulsi, di nuova vitalità, di maggiore profondità; emergono paure, blocchi mentali, sensazioni destabilizzanti, fino ad allora sconosciute; ci accorgiamo improvvisamente di non essere poi così liberi come pensavamo.
Ogni crisi comporta sofferenza, conflittualità interiore, ma ci matura, ci rende più forti, ci scuote nel profondo: esattamente come avviene con la discesa dello Spirito, momento topico in cui dobbiamo lasciare spazio alla vita, quella Vita che ci rende più veri, più maturi, più liberi, più trasparenti; il momento in cui Dio ci modella, ci plasma, ci forgia, per tornare ad essere come all’origine simili a Lui, a sua immagine perfetta. Chi evita la “crisi”, continuerà a rimanere infantile, involuto, mediocre nella sua stoltezza, uno scarabocchio vivente.
La festa di Pentecoste esprime dunque una verità fondamentale: Dio abita dentro di noi. Dio non è più presente fisicamente in mezzo a noi, ma è presente in noi con il suo Spirito.
Purtroppo tanti cristiani, troppi in realtà, quando si parla di “Spirito Santo” rimangono interdetti, non sanno cosa dire. E non sanno cosa dire perché non lo conoscono, non l’hanno mai percepito, mai sperimentato, mai vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia una “fissa” dei preti, un accessorio inutile, un di più di cui oggi se ne può anche fare a meno. Stanno benissimo così come stanno.
Errore macroscopico: lo Spirito non è un supplemento, non è un optional superfluo; è un elemento vitale, un elemento essenziale: è quel “soffio vitale” che Dio ha inspirato in noi fin dal primo istante di vita, anzi è Lui stesso, Dio, il nostro sussistere, la nostra vita, anche se il più delle volte non ne siamo consapevoli.
Pertanto, essere dello Spirito, essere “spirituali”, non vuol dire pregare continuamente, fare grandi donazioni di carità, compiere solo azioni pie e religiose, frequentare la chiesa assiduamente, partecipare devotamente ad ogni pellegrinaggio. Sono semplici corollari. Essere “spirituali” vuol dire fondamentalmente essere creature dello Spirito di Dio, vuol dire far trasparire, dimostrare apertamente chi è Colui che abita dentro di noi; far capire a tutti che è Lui che guida la nostra vita, che è Lui il nostro Consigliere, il nostro Assistente, il nostro Avvocato difensore. Essere “spirituali”, insomma, significa “indossare” quello stesso “stile di vita” che fu di Cristo, vivere cioè come “uomini nuovi”, che stanno nel mondo senza essere del mondo.
Il mistico cristiano Meister Eckhart diceva: “Tutte le creature sono orme di Dio... Dio dopo aver creato l’uomo non l’ha abbandonato, non se n’è andato per la sua strada, ma è rimasto in lui”.
Grande verità: solo che noi, quando guardiamo qualcuno, un fratello, notiamo tutto, osserviamo anche i particolari più insignificanti, ma non ci accorgiamo della presenza di Dio in lui. Ci fermiamo all’esterno, alle apparenze, quando invece dovremmo andare oltre, dovremmo entrare dentro, ammirarne l’anima, la Luce, sapendovi cogliere la forza, il desiderio nascosto di Vita. Dovremmo in una parola riconoscere e amare lo Spirito, forza dell’Amore di Dio, che inabita ogni essere umano. 
Noi siamo troppo distratti, siamo indifferenti allo Spirito, perché abbiamo un sacco di cose da fare: viviamo nell’ansia, nell’assillo quotidiano; nel nostro intimo siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Ma non ci chiediamo mai il vero motivo di questa nostra irrequietezza, di questo nostro nervosismo. Cerchiamo di farcene una ragione, accusando lo stress, la vita caotica da cui tutti sono schiavizzati; ma la verità è che non vogliamo capire cos’è che non va in noi, preferiamo continuare a correre, a fare, a produrre, convinti di “crescere”, e non ci accorgiamo di rimanere fermi, immobili, concentrati solo sul materiale. Non riusciamo ad entrare nello Spirito. Questo è il problema. Non riusciamo a riconoscere il divino, non riusciamo a vedere il “nostro” Dio, che nonostante tutto alimenta pazientemente la nostra vita.
Purtroppo viviamo in una società che è incapace di guardare allo Spirito di Dio, concentrata com’è sull’avere, sul benessere, sull’egoismo. È vero: ci scandalizziamo per le nefandezze che succedono nel mondo, per le atrocità trasmesse dai telegiornali, senza pensare che dipendono anche da noi, da come viviamo, dai costumi e dalla mentalità della nostra società contemporanea: una società che non sa più pregare, che non sa più fare silenzio, che è incapace di comunicare con la propria anima; una società ormai alla deriva: sganciatasi dallo Spirito, ha fatto del materiale l’unico scopo di vita. 
Eppure davanti a noi abbiamo sempre due opzioni, due stili di vita da scegliere: essere materia o Spirito: siamo materia quando vediamo nell’amico, nella persona che ci chiede aiuto, uno che importuna, che scoccia, che dà fastidio; siamo Spirito se vediamo in lui un fratello che soffre, uno che magari è oppresso dalle difficoltà della vita; siamo materia quando al mattino pensiamo in negativo: fastidi da superare, contrarietà da appianare; siamo Spirito se pensiamo in positivo: un altro giorno regalatoci da Dio per godere della sua infinita bontà e misericordia; siamo materia quando guardiamo alla nostra vita in termini di successo, di conquiste, di notorietà, di benessere, di posizione sociale; siamo Spirito quando iniziamo a percepire e a seguire le aspirazioni del nostro cuore e della nostra anima; siamo materia quando sull’altare della Messa vediamo solo del pane e del vino, e siamo Spirito se vediamo in quel pane e in quel vino il corpo e il sangue di Cristo, la sua amorosa presenza.
Tutto dunque per noi può essere materia, tutto può essere Spirito: dipende solo da noi; da come ci poniamo, da come viviamo, dalle priorità che stabiliamo nella nostra vita.
Ben venga allora questo uragano dello Spirito! Scenda nei nostri cuori una nuova scintilla divina che rianimi il fuoco dell’Amore che langue. Abbiamo assoluto bisogno di una nostra Pentecoste, una crisi, uno scossone, una ventata dello Spirito che ci costringa ad uscire dai nostri cenacoli di miseria e di paura. Uno Spirito che ci aiuti a camminare nuovamente a testa alta, sulle vie della vita, incuranti delle lusinghe diaboliche, e gridare al mondo intero: “Dio è con me, Dio è in me, niente e nessuno potrà mai più sopraffarmi!”. Amen.




giovedì 10 maggio 2018

13 Maggio 2018 – Ascensione del Signore


“Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”.

Dio lascia questa terra e sale in cielo. È l’ascensione. Da quel momento Lui non è più materialmente presente su questa terra; ci ha lasciati, ma solo materialmente: perché il suo Spirito sarà sempre con noi, “fino alla fine dei secoli”. Lui è la forza che ci sorregge, è la fiducia, la vita; a Lui possiamo ricorrere continuamente, da Lui possiamo sempre attingere grazia a piene mani.
Lui è tornato al Padre: non sarà più Lui ad agire di persona quaggiù, ma lo farà nostro tramite: dobbiamo essere noi infatti le sue mani, i suoi piedi, i suoi occhi, la sua voce.
“Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”. È questo il delicato e fondamentale compito che Egli ci ha affidato al momento del suo commiato.
Una volta si cercava di attuare queste parole mediante le missioni a tappeto, le guerre “sante”, le conversioni in massa degli infedeli: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna rendere cristiani tutti gli abitanti del mondo. Bisogna battezzare tutti”.
Ma Gesù non vuole imporre nulla a nessuno, non vuole conquistare nessuno, né tantomeno fare seguaci con la forza. Gesù vuole solo che il suo annuncio di salvezza, il vangelo, arrivi a tutti: “Guarda, amico mio, che Dio è già dentro di te; tiralo fuori, fallo vivere, esprimilo. Io vengo solo per convincerti a guardarti dentro per capire chi è Colui che vive insieme a te”.
È quanto Lui faceva per le strade della Palestina: e chi gli credeva, guariva dalle malattie del corpo (ciechi, zoppi, lebbrosi, ecc.), e dalle malattie della vita (depressione, attaccamento, paura di ogni cosa, indifferenza, voglia di morire); guariva dall’aridità del cuore, dalla freddezza e dalla rigidità interna. Alcuni di questi credenti poi erano così “presi”, così entusiasti, così “toccati” da questa nuova prospettiva, che lasciavano tutto (casa, famiglia, moglie, figli, lavoro, giudizio della gente) e lo seguivano. Erano così cambiati, da chiamare “vita vera, vita autentica” perfino la morte corporale.
Per quanto ci riguarda, allora, non si tratta tanto di mettere qualcosa di “nuovo” dentro al loro cuore, ma di aiutarli a relazionarsi con quel Qualcuno che già posseggono! Significa realizzare la possibilità di un incontro personale, concretizzare un’esperienza che tutti possono e devono fare. Nessuno ha l’esclusiva di Dio. Dio non “appartiene” a nessuno: non è né mio né tuo. Non è neppure della Chiesa cattolica: semmai è la chiesa cattolica che appartiene a Dio. Nessuno può dire: “Io conosco già abbastanza di Dio, e questo mi basta”; al contrario: “Io voglio far crescere ogni giorno di più quel poco che conosco di Dio per viverlo coerentemente”. La catechesi, la predicazione, non devono cercare di annunciare un Dio nuovo: devono semplicemente far capire lo splendore, la grandezza, la potenza di quel Dio che, nel suo amore infinito, vive già in ogni creatura umana. 
Tutti abbiamo Dio in dono (siamo di Dio!). Ma tutti lo abbiamo in maniera “diversa”, con personalissimi carismi: “Tu hai la tua esperienza di Dio; io la mia. Non devi darmi ad ogni costo la tua; aiutami soltanto a trovare la mia”.
Dio non è una formula, né una preghiera, né una pagina di catechesi: Dio è una presenza. Educare a Dio vuol dire mettere gli altri in collegamento, in relazione, col Dio che già vive in loro. Altrimenti non facciamo “annuncio”, ma “costrizione”, imponiamo soltanto la nostra idea, la nostra immagine di Dio (piena tra l’altro dei nostri personalismi), senza pensare che in questo modo allontaniamo la gente dal loro” Dio.
Questo è il nostro compito, questo vuol dire continuare l’opera di Gesù, questo vuol dire lavorare in stretta collaborazione con lui.
Il vangelo è chiaro: “Essi (cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (16,20).
Sono le ultimissime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; da questo momento inizia quella della sua Chiesa, inizia la “nostra” storia.
Ma non dobbiamo mai dimenticare che è sempre Lui che “opera” attraverso di noi: è Lui che “conferma” quello che di buono facciamo in suo nome.
“Operando insieme”, in greco è “sinerguntos”, da “sin-ergo”: collaborare, cooperare, essere coadiutore, socio, collega; agiamo cioè in “sinergia” con Dio, solo che noi siamo il telaio, le ruote, il volante; Lui è il motore, la potenza, la forza motrice, la energheia.
Possiamo dire che c’è in atto una stretta cooperazione: Lui fa sempre la sua parte; ma noi?
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato”.
Per Gesù “salvezza” significa vivere alla luce del vangelo, significa vivere una vita vibrante, appassionata, una vita che esprima gioia, in cui l’amore scorra copioso; una vita in cui poter andare con la fede oltre le nostre piccolezze, i nostri limiti; in cui poter incontrare veramente Dio, venire infiammati dal suo amore.
Il vangelo, a questo proposito, enumera anche i segni che distingueranno coloro che credono, i “salvati”.
“Scacceranno i demoni”: nel vangelo i demoni parlano e hanno voce, esattamente come nella nostra vita: sono tutto quel vociare, quell’ammasso di programmi, di discorsi, di prediche, di schemi inutili; quel peso superfluo che ci appesantisce, che ci impedisce di volare in alto, che ci uccide d’inedia, che ci fa morire di sovrappeso. Noi possiamo scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi schemi: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui. Non è neppure troppo difficile: gli schemi, le parole, sono solo schemi e parole: si possono cambiare, sostituire, eliminare.
“Parleranno lingue nuove”. Abbiamo mai ascoltato i nostri discorsi, i discorsi della gente? Del tempo, di ciò che ha fatto il vicino, il collega, il capoufficio, dell’ultimo gossip; e poi tante “chiacchiere” inutili, insinuazioni, discorsi vuoti, spersonalizzati, senza un’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi inutili!
Quali sono allora le lingue nuove con le quali noi dovremo esprimerci? È il linguaggio del silenzio, il grande linguaggio del frenare la lingua, di chiudere la bocca e ascoltare; è il linguaggio degli occhi, specchio dell’anima; il linguaggio del cuore, con cui esprimere le nostre emozioni, le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri desideri; è il linguaggio dell’anima, con cui piangere di gioia, commuoverci, stupirci, meravigliarci, essere felici. Noi siamo talmente distratti, che neppure immaginano quali vibrazioni, quanta vita, quanta energia, quanta forza, possiamo comunicare attraverso questi linguaggi, con queste parole, che non sono “parole”, ma effusioni dell’anima.
Prenderanno in mano i serpenti”. Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Quante volte evitiamo cose e persone perché ci sembrano viscide, sfuggenti come serpenti: ci fanno ribrezzo, paura, pensiamo di non farcela ad affrontarle; sono situazioni troppo impegnative per noi, troppo pericolose, troppo insidiose. Ma la nostra è solo paura. “Con me puoi tutto”, dice il Signore: prendiamo in mano i nostri serpenti, affrontiamoli: non crediamo più in niente, non andiamo più in chiesa, siamo stanchi di sentire sempre le stesse prediche, i preti non ci trasmettono più nulla? Esaminiamo il problema! Non abbiamo più fiducia né stima per nessuno, non sopportiamo più i vicini, i parenti, gli amici, la loro presenza ci infastidisce? Fermiamoci: affrontiamo la questione; prendiamo in mano il serpente, analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza. Svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Dio nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Non tiriamo avanti fingendo che tutto vada bene! Non permettiamo che il serpente di turno si annidi in noi, strisciando nella nostra vita. Se abbiamo fede, se ci comportiamo come ha fatto Gesù, se usiamo la Sua carità, il Suo amore, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivi tutti i nostri serpenti! Con Lui possiamo affrontare e vincere tutto. Quello che Lui, il Figlio di Dio, ha umanamente fatto, noi lo possiamo ripetere.
Se siamo convinti di questo, se la nostra fede è tale da smuovere le montagne, nulla ci sarà mai impossibile. Gesù stesso lo ha detto: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12).
Questo ci dice l’Ascensione. Non fermiamoci allora come i “viri Galilaei” col naso all’insù, aspicientes in caelum” a “guardare il cielo”. Non continuiamo a rimanere “imbambolati”; di cosa dubitiamo ancora? Muoviamoci. Tutto dipende da noi; Egli sta aspettando! Amen.



giovedì 3 maggio 2018

6 Maggio 2018 – VI Domenica di Pasqua


«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,9-17).

Dio ci ama gratuitamente, illimitatamente, al di là di tutto. Lui non ci chiede di essere osservanti, giusti, buoni; Lui ci chiede solo di accoglierlo e di lasciarci amare.
Il suo è un amore gratuito, un amore immeritato: è l’amore di Dio: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi”. Un amore totalmente opposto rispetto a quello degli uomini che è condizionato, interessato, egoista. Noi infatti amiamo, è vero, ma poniamo dei limiti al nostro amore; stiamo molto attenti ad averne un “ritorno”; difficilmente siamo disinteressati; possiamo anche accettare per una volta la mancanza di gratitudine, un comportamento freddo e indifferente, ma se la cosa dovesse ripetersi, tagliamo immediatamente i ponti: “Ti voglio bene ma non posso perdere altro tempo con te”, e ce ne andiamo, offesi, per la nostra strada.
L’amore degli uomini è mosso sempre da qualche “distinguo”, l’amore di Dio no: è illimitato, eterno. Il nostro debito di riconoscenza verso di Lui nasce dal primo istante di vita, perché egli ci ha amati da sempre, prima ancora che nascessimo.
Egli ci ha amati e ci ama di un amore totalmente libero, incondizionato, gratuito.
Rimanete nel mio amore”, ci dice; e su questo noi dobbiamo costruire il nostro programma: riversare cioè sugli altri, sul prossimo, un amore il più possibile “simile” al suo, senza aspettative e senza pretese. Un programma, quello di rimanere “nell’amore di Dio” che prevede l’osservanza dei suoi comandamenti: “Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore…”.
Certo, osservare i suoi comandamenti, non è una condizione da poco: anche perché quando noi sentiamo alludere ai “comandamenti” pensiamo automaticamente che si tratti delle leggi contenute nel famoso Decalogo veterotestamentario. Ma le parole di Gesù, riportate da Giovanni, non si riferivano è questo: anche perché sia Giovanni che gli altri evangelisti non fanno mai alcuna allusione a “comandamenti”, nei vangeli non esiste nessuna “lista” di obblighi, tranne che per quelli relativi all’amore per Dio e per il prossimo; due “comandamenti” che Gesù ha appunto condensato nel suo unico “comandamento dell’amore”: “Amatevi come io vi ho amato”: e ce ne dà subito l’esempio, lavando i piedi ai discepoli, identificando cioè l’amore con il “mettersi a servizio completo dei fratelli”. Amore, carità, servizio. Questa è la “novità” dell’unico comandamento, all’osservanza del quale Gesù condiziona il nostro “rimanere nel suo amore”. Una prospettiva questa, che ci fa affrontare con gioia, con entusiasmo, qualunque difficoltà nell’osservare i “suoi comandamenti”: il segno evidente del nostro amare Dio e il prossimo come Gesù ci ha insegnato, è dunque la felicità, l’allegria, la serenità della nostra vita: un sentimento profondo, intimo, rassicurante, che ci tranquillizza, che ci fa sentire al posto giusto nel momento giusto, che ci rassicura sulla bontà dei nostri progetti, sulla strada che stiamo percorrendo, che ci fa capire che siamo in questo mondo per qualcosa di veramente importante, che ci crea una sensazione di vitalità tutta nuova, di libertà: in una parola amiamo sentendoci amati.
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Qui però ci perdiamo. Perché è un’affermazione che spesso viene capita male: “dare la vita per gli amici”, interpretata con “morire” per essi, è infatti un’iperbole difficilmente attuabile: in altre parole per osservare integralmente il comandamento dell’amore, uno dovrebbe morire, dovrebbe cioè sacrificarsi fino alle conseguenze più estreme, rinunciare cioè alla propria vita materiale. Quindi, per assurdo, amare gli altri senza “morire” per loro, equivarrebbe amare in maniera imperfetta, non evangelica, non in linea con l’amore di Gesù: egli infatti ha realmente sacrificato la sua vita sulla croce per amore nostro; non farlo anche noi, significherebbe essere dei cattivi cristiani, amare gli altri in maniera imperfetta, non al massimo grado.
Ma non è questo il significato delle parole di Gesù.
Egli non impone eroismi, non vuole assolutamente che noi rinunciamo al grande dono della vita che lui stesso ci ha donato: semmai lo prevede molto di rado, con persone speciali, con i santi autentici, e solo in particolarissime circostanze.
La nostra santità passa invece attraverso gli eroismi della normalità. La vita che noi dobbiamo donare, che dobbiamo “spendere” per il prossimo, non è quella materiale, ma quella che ci rende creature “spirituali”, quella vita cioè che viviamo in unione con Dio, quella vita che nobilita la nostra volontà, i nostri sentimenti. Del resto Giovanni nel suo vangelo è molto chiaro: quando dice dare la vita”, non usa il termine “zoé” che indica la vita materiale, quella che ci fa vivere (qua vivimus), oppure “bios” che allude al nostro modo di vivere, alle cose che facciamo (quam vivimus); usa invece il termine “psyché”, che nella lingua greca del Nuovo Testamento significa appunto "anima, respiro, soffio vitale”. Allora la vita che dobbiamo donare ai nostri amici, è la nostra anima, la nostra disponibilità, il nostro amore, le nostre attenzioni; è lo Spirito che abbiamo dentro, quello che ci rende creature spirituali, figli di Dio. In altre parole è quell’amore che Dio continua a donarci gratuitamente; meglio, è quel suo amore infinito e “sovrabbondante” di grazia, superiore cioè ad ogni nostra necessità, che noi cristiani dobbiamo gratuitamente e gioiosamente ridistribuire a beneficio dei fratelli.
Fare dono della vita “materiale”, quella esteriore, non serve. Non serve soprattutto quando la riferiamo ai figli. Perché il vero dono da dare ad un figlio non è il benessere, la ricchezza, l’opulenza, la prosperità fisica: ma è mettergli a disposizione tutto ciò che siamo, tutto ciò che abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda; è dargli la nostra anima, il nostro amore, i nostri slanci, le nostre convinzioni, i nostri ideali.
Certo, se noi non abbiamo nessuna vita interiore, nessun entusiasmo, nessun ideale, nessun progetto; se non abbiamo dentro di noi lo Spirito; se non abbiamo nessuna certezza, nessuna fede, nessuna carità, nessuna speranza, che “vita” potremmo mai “dare” ai fratelli?
“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Ecco, questo è il mandato chiaro e inequivocabile che abbiamo ricevuto. I mezzi per attuarlo sono altrettanto chiari. Dobbiamo solo muoverci. Amen.