giovedì 20 ottobre 2016

23 Ottobre 2016 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano». (Lc 18,9-14).

La parabola di oggi è molto semplice: i protagonisti sono due, un fariseo e un pubblicano, che appartengono a due classi sociali decisamente opposte.
Il fariseo, è colui che si ritiene giusto; la parola stessa, “fariseo”, spiega questa convinzione: “fariseo” significa infatti “separato”, uno cioè che si ritiene una persona “diversa”, una persona “speciale” rispetto a tutti gli altri. I farisei erano fedelissimi ai dieci comandamenti, rispettavano rigorosamente la legge in tutti i suoi dettagli, anche i più piccoli, e proprio per questo si differenziavano dal resto della gente, più preoccupata per la sopravvivenza quotidiana che per l’osservanza della legge; si sentivano talmente “separati”, che per non contaminarsi, evitavano perfino di toccare chiunque. Erano “stimati” dal popolo per questa loro perfezione religiosa, tanto da venirne considerati i paladini, i modelli in assoluto. E qui sorge spontanea una domanda: “Ma i farisei non sono quelli che hanno perseguitato Gesù? Non sono stati loro ad ucciderlo? Non sono stati loro che hanno tentato in tutte le maniere di metterlo a tacere?”. Certo: proprio per questo loro comportamento esterno costituiscono la dimostrazione pratica di come si possa essere considerati giusti, religiosi, perfetti, pur essendo nell’intimo lontanissimi da Dio. Il fatto poi che siano stati proprio i più “fedeli” a Dio, ad uccidere il Figlio di Dio, e che lo abbiano fatto in nome di Dio, ci fa seriamente pensare! Del resto dobbiamo ammettere che anche oggi, come in ogni tempo, è proprio un certo “tipo” di religiosità esclusivista ed elitaria che arriva ad uccidere, a soffocare, la fede della Chiesa.
C’è poi l’altro personaggio, il pubblicano, che se ne sta a “distanza”: Luca in greco usa il verbo “makrothen”, un termine tecnico con il quale anche gli altri evangelisti indicano gli “esclusi” dal Signore, i lontani, i peccatori. I pubblicani erano infatti amici dei Romani, erano considerati dei collaborazionisti, dei traditori, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
Entrambi dunque, fariseo e pubblicano, salgono al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale obbligatoria si teneva infatti nel Tempio due volte al giorno, alle nove e alle quindici.
Ora, la preghiera del fariseo è molto lunga e dettagliata; egli sta ritto in piedi, con lo sguardo fisso davanti a sé, e prega in silenzio: cosa normale per un ebreo, tant’è che ancora oggi avviene in questo modo, ma Luca lo legge qui come un segno di superbia. Non per nulla il verbo greco “prosèuketo”, significa letteralmente “pregava se stesso”: praticamente il fariseo si auto-lodava, si compiaceva di se stesso, si rivolgeva a Dio come ad un suo pari. Proprio come succede anche oggi a tante persone che “pregano” se stesse, adorano se stesse, e si servono della preghiera solo per mettersi in mostra, per atteggiarsi, per fare bella figura davanti agli uomini, pensando stupidamente, in questo modo, di risultare graditi anche a Dio.
C’è da dire che la preghiera del fariseo, dal punto di vista esteriore, è decisamente un ringraziamento a Dio: nella prima parte egli lo ringrazia per il suo essere “superiore” rispetto agli altri, portando le prove della sua impeccabilità: egli non trasgredisce la legge, non si comporta come gli altri che sono ladri, ingiusti, adulteri, pubblicani; inoltre digiuna due volte alla settimana (molto più di quello che la Legge prescrive), paga regolarmente le “decime”, ossia versa al Tempio, per i poveri, la decima parte del raccolto (frumento, olio, vino) e di quanto possiede. Tutto insomma in lui è impeccabile: lui, la sua vita, la sua preghiera; è veramente irreprensibile; dobbiamo riconoscere infatti che quanto dice è sostanzialmente vero: nessuno può permettersi di contestargli alcunché.
Anche tra noi ci sono persone delle quali non possiamo assolutamente criticare nulla. La loro vita è esemplare, priva di ogni difetto: pregano, sono ottimi padri, lavoratori, non fanno del male a nessuno, sono veramente perfetti: se non fosse che, anche per loro come per il fariseo, c’è un grave problema: nella loro vita c’è un’abissale incompatibilità tra il fare e l’essere: la loro vita, cioè, non è vita, è una vita senz’anima, una vita senza la Vita; sono dei morti viventi: la loro vita interiore non alimenta la loro vita esteriore: tra le due c’è una conflittualità insanabile. La loro anima, il loro cuore, senza la linfa vitale dell’amore, producono soltanto azioni aride, secche, insensibili, infruttuose.
L’altro, il pubblicano, si comporta invece in maniera completamente opposta: se ne sta “lontano”, piegato su se stesso, con gli occhi fissi a terra: una posizione che lascia trasparire la consapevolezza della sua profonda miseria morale, di uno cioè che si rende conto di aver imbrogliato Dio, i poveri, l’uomo: la sua vita era immersa in un giro di denaro da cui, una volta dentro, è impossibile uscirne: lui ebreo, cioè, faceva l’esattore delle tasse per conto dei romani invasori, uno dei sette mestieri maledetti e proibiti agli ebrei. Per cui quando si batte il petto, riconoscendo di essere un povero peccatore, dice la verità, è consapevole della sua condotta scorretta, è sincero, leale con se stesso e soprattutto con Dio.
Ebbene, di fronte alla preghiera dei due uomini, Gesù è lapidario; la sua sentenza è immediata: il secondo ne esce perdonato, giustificato, cambiato, reso giusto; il primo no. Perché?
Abbiamo detto che il fariseo inizia molto bene la sua preghiera: inizia con una lode a Dio; il dovere dell’uomo è infatti proprio quello di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi riuscissimo infatti a ringraziare Dio per ogni cosa che ci succede, noi faremmo della nostra vita una preghiera autentica, una solenne liturgia, un’eucarestia incessante. Subito dopo però il fariseo scade di stile: mette a confronto la sua vita con quella degli altri. Ora, con gli altri, all’esterno, noi possiamo anche giocare sull’apparire, possiamo esibire un ruolo che non è nostro, qualità e meriti che non sono nostri, possiamo indossare qualunque maschera, possiamo barare, possiamo insomma raccontare frottole, panzane, menzogne di ogni tipo: tanto, nessuno può controllare come siamo realmente nel nostro intimo, se l’esterno è azionato effettivamente dal nostro “motore” interno, se esiste coerenza tra i due. Nessuno, ma Dio sì. Di fronte a Dio non possiamo barare. Di fronte a Dio, i nostri teatrini, i nostri trucchi, cadono, svaniscono, si sciolgono come neve al sole; rimaniamo da soli, davanti alla nostra misera realtà, nudi e spogli di fronte alla Verità.
In questo sta l’inefficacia della preghiera del fariseo. La sua non è una vera preghiera: non è la preghiera che nasce dall’autenticità dei nostri sentimenti più profondi: non è la preghiera che, senza menzogne, senza false apparenze, ma nell’umiltà, nella consapevolezza dei propri limiti, ci porta giustificati al cospetto di Dio.
Questa è pertanto la preghiera del pubblicano: egli non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Lui è e si sente così. Chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per il suo malessere, per le sue zone oscure, le sue ferite, per le sue mancanze d’affetto, per il male che ha inflitto agli altri, per i suoi peccati, per i suoi errori. Riconosce umilmente la sua situazione, la sua realtà. Egli non mente a Dio, non mente a se stesso, in lui non c’è inganno.
Solo riconoscendoci vuoti davanti a Dio, possiamo uscire ricolmi della Sua ricchezza. Il pubblicano sa di aver bisogno di Dio, che la Sua mano lo accolga, lo abbracci, gli ridia dignità, lo salvi dal precipizio. Sa di essere ammalato e di aver bisogno del medico Divino: per questo torna a casa “giustificato”, cioè, amato, liberato, riconciliato, pacificato.
C’è quindi una preghiera gradita a Dio e una preghiera che Gli è decisamente insopportabile: quella cioè che non è sincera, quella fatta a beneficio di se stessi e del pubblico (“Lo sai quanti rosari recito ogni giorno? Hai sentito come leggo bene a messa, come canto bene?).
Ebbene: come pensiamo che sia la nostra preghiera? Siamo sempre convinti di essere coerenti con noi stessi, con la nostra fede, con il nostro io interiore? Purtroppo nessuno di noi può considerarsi assolutamente “immacolato”. Tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di riconoscerci umilmente colpevoli: non è forse vero che nell’intimo del nostro cuore coltiviamo le nostre falsità, le nostre piccole ipocrisie? Non è forse vero che a volte siamo un po’ troppo benevoli col proibito? Non è forse vero che in certi giorni Dio ci sta talmente “antipatico” da arrivare a discutere con lui anche a male parole? Non è forse vero che in certe occasioni veniamo sopraffatti dalle nostre paure, e perdiamo la fiducia in Dio? Non è forse vero che certe nostre reazioni talvolta ci fanno paura? Non è forse vero che ogni tanto tradendo la fiducia degli altri, li feriamo volontariamente? Non è forse vero che ci piace sentirci dire che siamo bravi, che siamo più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri? Non è forse vero che spesso, per nostra comodità, ci aggiustiamo le cose, a svantaggio del prossimo?
Chi di noi può dirsi “pulito” di tutto questo? Chi di noi può ritenersi coerente in tutto con gli insegnamenti di Gesù? Bene: se la risposta è “sì”, può scagliare per primo la pietra sugli altri. C’è però qualcuno che la scaglia comunque. C’è qualcuno, che ha così tanto buio dentro di sé, da permettersi di giudicare chiunque, ritenendosi il migliore di tutti. Molte persone sono convinte di essere a posto su tutto, di essere al di sopra di tutto e di tutti, e non si accorgono di comportarsi esattamente come il fariseo. Pregano molto: ma non sopportano che qualcuno li riprenda proprio su quelle realtà interiori che essi hanno bandito dal loro cuore, e che si rifiutano di guardare. Dicono che ciò che conta, è pregare. Dicono che questo conoscere il proprio intimo, la propria anima, sia soltanto una vana “psicologia”, un inutile “spiritualismo” che non serve a nulla. Ma sono tutte scuse: in realtà hanno paura di guardarsi dentro.
Non vogliono scontrarsi con la realtà, temono di scoprirla diversa da come loro la vedono, e questo li destabilizzerebbe, questo farebbe loro molto male, distruggerebbe la “bella immaginetta” di sé, che si sono creati.
Pertanto, il colloquio con Dio, la preghiera, non deve costituire un esercizio di scaltrezza, di diplomazia con Lui: non raccontiamogli fandonie! Pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita e della nostra anima con sincerità e onestà, permettendogli di entrare con la sua luce e di illuminare quelle zone buie, quelle in cui nascondiamo tutto ciò che non vogliamo affrontare, tutto ciò che ci grida, che ci urla dentro, tutto ciò che noi soffochiamo, che mettiamo a tacere, perché ascoltarlo sarebbe troppo duro. Sicuramente lo è per noi: ma non per Dio; lui al contrario accetta volentieri di vedere, di ascoltare, di lenire tutto il nostro male, tutto ciò che è doloroso, ciò che noi non vogliamo accettare; Dio ama di noi anche ciò che noi non vogliamo amare, accoglie anche ciò che noi vogliamo cancellare dalla nostra vita; Egli vuol ridare vita e dignità a tutto ciò che noi lasciamo marcire nella cantina della nostra anima. Dio non teme nulla. Siamo noi ad aver paura. Lui ha vinto il mondo. Lui può amare ogni cosa. Lui può andare dove noi non possiamo e non vogliamo andare. Pregare è quindi lasciarsi condurre da Lui. Pregare è permettergli di entrare proprio là dove noi ci vergogniamo, dove ci facciamo schifo, dove ci nascondiamo, dove non vorremmo farlo entrare mai. Noi vorremmo esibire solo la nostra facciata più bella, tutta sorrisi e generosità; non ci piace che altri vedano quel che siamo realmente: ma questo è un problema nostro, non è un problema di Dio.
Anzi, quando accettiamo che Lui entri in noi, immediatamente ci rendiamo conto che Lui porta amore, accoglienza, benessere, porta olio e unguenti per le nostre ferite; ci porta pace, tranquillità. È la pace della Verità, della sincerità, la pace che segue l’abbandono delle nostre assurde velleità. È la pace della libertà dal male.
Il fariseo e il pubblicano rappresentano dunque due modi diversi su cui impostare la nostra vita. Il pubblicano conosce la sua realtà, riconosce la verità: “Io non sono quello che vorrei tanto essere; sono in realtà un meschino, pieno di limiti, colpevole di tante miserie”. C’è in lui una parte di se stesso che odia profondamente, che detesta, che rifiuta, che non vorrebbe vedere, ma con cui si confronta, da cui cerca di affrancarsi, anche se spesso la pallida luce dei suoi propositi, viene purtroppo soffocata dal buio delle sue azioni, della sua vita concreta.
Il fariseo al contrario non vive questa battaglia interiore: egli è sereno, ha rimosso completamente dalla sua coscienza ogni lato oscuro della sua vita. Lui non sente la necessità di misurarsi con la realtà, non la conosce, la tiene nascosta dentro di sé e, non vedendola, si è convinto che non esista più. Vive una falsa illusione, da cui un giorno dovrà dolorosamente emergere. Non vede il suo di male, ma al contrario lo vede molto bene nel pubblicano, in tutte le altre persone. Indulgente con se stesso, è intransigente con gli altri: proietta cioè inconsciamente su di loro, le sue deficienze, i lati oscuri della sua personalità, tutto quello di sé che lui non vuol vedere, che disconosce, ma che comunque gli appartiene. Facciamo attenzione a questo particolare, perché ciò che noi odiamo negli altri, ciò che critichiamo, ciò che ci dà fastidio, ciò che non sopportiamo in loro, altro non sono che le nostre stesse “debolezze”, quelle stesse deficienze che noi volutamente ignoriamo in noi, ma che appartengono alla nostra vita, sono parte di noi. Allora, amici, conosciamoci bene, entriamo dentro di noi, prendiamo atto di questa nostra parte sconosciuta, oscura, carente di luce; Illuminiamola con la luce di Dio, così da smettere, almeno, di mortificare continuamente i fratelli, criticandoli per dei difetti che noi stessi, anche se ci costa ammetterlo, ampiamente condividiamo. Non possiamo cambiare il mondo: possiamo però cambiare noi stessi. E se cambiamo noi stessi, anche il mondo intorno a noi cambierà. Amen.



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