giovedì 27 ottobre 2016

30 Ottobre 2016 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là» (Lc 19,1-10).

Gesù sta continuando il suo viaggio verso Gerusalemme. Gerico, si trova infatti a circa trenta chilometri da Gerusalemme, lungo la grande via di comunicazione che costeggia il Giordano, attraversando la Samaria e la Giudea. Per questa sua posizione la città costituisce un punto strategico dell’amministrazione romana. A Gerico è quindi normale incontrare funzionari imperiali, uomini dell’esercito e “pubblicani”, ossia coloro che gestivano la riscossione delle tasse per conto dei Romani. Da tale attività essi traevano ingenti guadagni, defraudando in particolare la popolazione più debole. Per questo erano a ragion veduta i più odiati da tutti.
Qui a Gerico Gesù incontra Zaccheo, un pubblicano. Ma chi è in realtà questo Zaccheo?
Il suo nome significa “giusto, puro”, ma nessuno dei suoi concittadini, sicuramente, lo considerava tale; nessuno degli uomini, ma Gesù sì. 
Anche se fuori non lo sembriamo, anche se ci comportiamo da “figli di buona donna”, anche se sembriamo dei corrotti o quant’altro, Dio riesce sempre a vedere di noi quella piccolissima parte pura, giusta, il nostro minuscolo seme di bontà, la nostra sconosciuta verginità. Per quanto sgualciti, strappati o rovinati che siano, 50 euro rimangono sempre 50 euro. Il nostro valore e la nostra dignità di uomini non viene mai meno, per quanto ci accada di brutto nella vita.
Zaccheo dunque è un pubblicano: ora, dare del “pubblicano” ad uno, equivaleva dargli dell’immorale, del falso, del ladro, del traditore. I pubblicani erano per gli ebrei gente da odiare, da eliminare, da sterminare. Solo che non potevano. E Zaccheo non è soltanto un pubblicano, ma è addirittura il capo dei pubblicani: è il più ladro di tutti. E tutti lo sanno!
In effetti è un poco di buono, un infedele (venduto ai Romani), un peccatore. E quando la gente dice di Gesù: “È andato ad alloggiare da un peccatore”, dice la verità. Zaccheo era anche molto ricco, perché col suo lavoro aveva rubato tanto. È naturale quindi che un personaggio tanto spietato con i deboli, fosse così odiato.
Cosa potevano aspettarsi di buono da un uomo come Zaccheo? Assolutamente nulla! Eppure...
Zaccheo prima di tutto “cerca di vedere” (zetein idein). Ora, “cercare di vedere” esprime un desiderio: quando dentro di noi proviamo insoddisfazione, tormento, inquietudine, irrequietezza, vuol dire che quello che abbiamo, per quanto sia, non ci basta più. E allora cerchiamo di trovare qualcos’altro che ci soddisfi.
Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta più. Egli vuole felicità, ma la felicità che lui cerca non sta nelle cose, nelle ricchezze, nei beni materiali: sta nei valori della vita. Le cose materiali che abbiamo, ci servono solo per raggiungere quei valori, non possono diventare esse stesse “valori”.
Vogliamo una casa? È un buon desiderio, ma la casa è solo uno strumento. “Casa” vuol dire famiglia, amicizia, amore, comunicazione, intimità, protezione, serenità, ecc. Quando avremo la casa, e sentiremo che la casa da sola non ci da ciò che cerchiamo, la casa non ci basterà più.
Vogliamo sposarci? È un buon desiderio ma il matrimonio è solo uno strumento. Ciò che cerchiamo è l’amore, la tenerezza, l’intimità, la comunicazione, la paternità, ecc. Il matrimonio è solo un mezzo; il semplice fatto di essere sposati, non ci renderà mai felici. Abbiamo tra le mani un “contenitore”, ma vuoto, senza “contenuti”.
Non sono quindi le cose che ci fanno felici ma quello che sta dentro le cose, nel cuore, nell’anima; sono quei valori che nessuna moneta potrà mai comprare.
Per questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” oltre. Per questo alza l’orizzonte della sua vita: lascia il banco delle imposte per incontrare Gesù. Ed è meraviglioso, perché Zaccheo decide di fare qualcosa di diverso, di assolutamente nuovo, di impensabile. Se il nostro modo di vivere ci lascia insoddisfatti, ma continuiamo a fare sempre le stesse cose, cosa pensiamo di ottenere? Nulla! Dobbiamo necessariamente cambiare direzione. Dobbiamo guardare da un’altra prospettiva, dobbiamo salire più in alto. La gente invece vorrebbe una vita diversa continuando a fare sempre le stesse cose: ma ciò non è possibile!
Ogni azione è preceduta da un’altra azione. Vogliamo cambiare il mondo, ma non riusciamo a cambiare il comportamento degli altri? Possiamo sempre iniziare a cambiare ciò che facciamo noi. E se facciamo qualcosa di diverso, forse anche noi avremo una reazione diversa. Dobbiamo imparare a capire che il potere è nelle nostre mani: basta col prendercela con il mondo, con gli altri, con chi ci sta vicino, per quello che gli altri fanno o non fanno per noi. Non ci piace una cosa? Cambiamo il nostro modo di agire, e anche l’altro si adeguerà.
Zaccheo è piccolo. “Piccolo” non indica tanto l’altezza, ma la percezione interiore che lui ha di se stesso. Lui si sente piccolo; non sente il proprio valore, si sente da meno degli altri, si sente inferiore, si sente incapace rispetto agli altri. Il suo problema è il senso di inferiorità.
Finora cos’ha fatto? Poiché si sentiva inconsciamente “piccolo”, ha fatto di tutto per diventare il più grande, il capo dei pubblicani. È per questo che guadagna più di tutti. Pensava che diventando il più ricco, sarebbe stato anche il più stimato da tutti, il più amato: ma nella realtà non è mai così!
Tutti noi proviamo spesso la sindrome di Zaccheo, soffriamo cioè di un senso di inferiorità. In parte è normale. Quando siamo piccoli, non possiamo nulla, non abbiamo la forza per vivere da soli, per procurarci il cibo sufficiente, per difenderci, per affrontare le sfide della vita. Senza gli adulti ci sentiamo persi: siamo piccoli piccoli e loro sono grandi grandi. È chiaro che ci sentiamo inferiori a loro, più piccoli.
Crescendo, per vincere questo nostro senso di inferiorità, abbiamo bisogno di percepire il nostro valore, abbiamo bisogno che chi ci sta vicino ci aiuti a sentire che abbiamo le nostre capacità, le nostre risorse. Con il tempo, poi, ci accorgeremo che anche noi siamo in grado di comportarci come gli altri. E fin qui tutto è normale.
Ma che succede se ad un bambino gli si chiede troppo? Che succede se gli si chiedono cose che per la sua età non può fare? Ne dedurrà che egli non è in grado di farle, non perché è troppo piccolo, ma perché non ne è proprio capace. Che succede se gli si dice di continuo: “Non sei capace; lascia stare, faccio io; lo faccio io altrimenti perdiamo tempo; non vedi che sei un incapace?”. Un po’ alla volta penserà di esserlo per davvero.
Quello che noi esprimiamo di una persona, agisce su di lei. Se diciamo continuamente che uno è “un grande”, prima o poi diventerà un “grande”. Ma se ripetiamo che è “piccolo”, inadatto, rimarrà sempre “piccolo”, diventerà un disadattato.
E cosa succederà? O diventerà un pessimista cronico (“sì, è vero non valgo niente”) o un arrogante (“ti dimostro io quanto posso valere!”). In entrambi i casi l’origine e il problema sono gli stessi.
Ma guardiamo cosa fa Zaccheo, guardiamo il coraggio che ha. Mettiamoci nei suoi panni; tutti lo conoscono, tutti sanno chi è: uno degli uomini più famosi, più conosciuti, più potenti e temuti della città; e lui che fa? Si arrampica come un ragazzino su di una pianta! Ci vuole coraggio!
Egli sa che tutti lo deridono per la sua statura, e lui che fa? Sale su di un albero; sa che tutti lo vedranno e lo derideranno, ma lui ha il coraggio di farlo comunque, vincendo le facili battute e il sarcasmo della gente. Per trovare la propria strada, dobbiamo prima di tutto vincere la paura del giudizio altrui.
E Gesù, dal canto suo, che fa? Gesù non lo prende in giro, non gli fa nessuna predica: non lo vuole né convertire né cambiare. Lo chiama semplicemente per nome. Per tutti gli altri era “il capo dei pubblicani, il ricco”, ma per Gesù è soltanto “Zaccheo”. Chiamare per nome vuol dire dare dignità, dare un volto ad una persona. Gesù gli dice: “Io credo in te Zaccheo; io vedo che in te c’è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti. E tutti gli uomini hanno un angolino del loro cuore sensibile all’amore”. Gli pratica una medicazione salutare, veloce ed efficace: “Scendi subito”. Lo mette cioè di fronte a se stesso: “Chi ti credi di essere Zaccheo? Scendi dal tuo piedistallo, dal crederti chissà chi!”. La prima cosa da fare è ridimensionarsi, vedere se stessi con umiltà: non sentirsi né superiori né inferiori a nessuno.
Gesù nei suoi inviti è sempre diretto: “Taci, esci! (Mc 1,25); Alzati! (Mc 5,41); Mettiti nel mezzo! (Mc 3,3); Apriti! (Mc 7,34); Vieni fuori! (Gv 11,43)”. Per guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono quelle stesse che non vogliamo fare! Zaccheo si crede chissà chi, si atteggia a “sapientone” e si mette sul piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù; sei un uomo come tutti gli altri”. Se non farà ciò che gli viene chiesto, Zaccheo non potrà guarire. Perché ciò che va fatto, dobbiamo farlo, punto! Altrimenti non possiamo proseguire.
L’ordine di Gesù contiene anche le conseguenze del comportamento di Zaccheo: “Se tu continui a startene lassù, a ritenerti intoccabile, più degli altri, ti accadrà che non avrai mai amici, né compagni; nessuno potrà mai entrare in casa tua”.
Quando noi ci crediamo perfetti o più bravi dagli altri, noi ci distinguiamo, ci isoliamo da tutti, moriamo di solitudine. “Vuoi vivere così?” Zaccheo capisce subito: “la vita che conduco non è vita”, e per questo scende.
L’amore è condivisione. L’amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare il meglio di se stessi, che tutti possano esprimersi, possano fiorire, possano arrivare al massimo delle loro possibilità.
L’amore non è dare ma darsi. Zaccheo si dà, donando ciò che ha. Tutti possono amare, anche se non hanno nulla, anche se sono poveri. Per dare l’amore basta avere un cuore.
Ci si converte non perché ce l’ha detto Madre Teresa di Calcutta o San Francesco d’Assisi, o perché qualcuno ci dice che è bene così, che è importante farlo. Ci convertiamo perché ad un certo punto sentiamo che è necessario cambiare, che o viviamo diversamente da come siamo, oppure moriamo.
Conversione vuol dire tornare sui propri passi, fare una decisa inversione di marcia, cambiare vita per vivere meglio. Non per caso Zaccheo è “pieno di gioia”: finalmente qualcuno ha fatto breccia nel suo cuore, qualcuno ha smesso di giudicarlo per ciò che di lui si vedeva all’esterno; qualcuno finalmente lo ha visto nell’intimo del suo cuore e ha voluto incontrarsi con lui: “oggi devo fermarmi a casa tua”.
L’amore produce dignità: “tu vali per il fatto stesso di esserci, di esistere”. Per cui la decisione di Zaccheo è spontanea: egli si sente amato incondizionatamente, e gli viene naturale fare altrettanto. Gesù non pone condizioni. Gesù non dice: “Ti amo, vengo a casa tua, però tu devi...”. Zaccheo farà lo stesso. Chi gli ha chiesto di dare la metà dei suoi beni ai poveri? Nessuno! Chi gli ha imposto di restituire non il dovuto, ma quattro volte il rubato? Nessuno: questi sono gesti dettati esclusivamente dall’amore. Gesù ha amato Zaccheo gratuitamente e Zaccheo da quel momento ama gratuitamente. L’amore è gratuità, è donare disinteressatamente. È questo l’amore che salva la vita. È quando sentiamo qualcuno che ci dice, o ci fa sentire: “Non voglio nulla da te, non sono qui per questo. Sono qui soltanto perché tu sei importante per me; sono qui solo per aiutarti, se lo vorrai, a raggiungere il meglio di te”.
Zaccheo, senza Gesù, sarebbe rimasto semplicemente il capo dei pubblicani. Gesù gli mostrò che poteva essere un uomo migliore, felice e soddisfatto di sé. Zaccheo ha capito questo: ha accettato umilmente la sua condizione, l’ha riconosciuta davanti a tutti, non curandosi del loro sarcasmo. Ed ha incontrato l’amore. L’amore vero che gli ha cambiato la vita. Quell’amore che gli ha detto: “Voglio il meglio per te, ma sarai tu a decidere cos’è per te questo meglio”.
Per alcune persone l’amore è cambiare l’altro, renderlo come loro lo vogliono. Ma l’amore vero è mettersi a disposizione; non è dare, ma darsi. “Ti dono quello che sono perché tu viva meglio, al massimo di te stesso. E quando sarai diverso da me, e camminerai per la tua nuova strada, allora saprò che ti ho veramente amato”. Amen.


giovedì 20 ottobre 2016

23 Ottobre 2016 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano». (Lc 18,9-14).

La parabola di oggi è molto semplice: i protagonisti sono due, un fariseo e un pubblicano, che appartengono a due classi sociali decisamente opposte.
Il fariseo, è colui che si ritiene giusto; la parola stessa, “fariseo”, spiega questa convinzione: “fariseo” significa infatti “separato”, uno cioè che si ritiene una persona “diversa”, una persona “speciale” rispetto a tutti gli altri. I farisei erano fedelissimi ai dieci comandamenti, rispettavano rigorosamente la legge in tutti i suoi dettagli, anche i più piccoli, e proprio per questo si differenziavano dal resto della gente, più preoccupata per la sopravvivenza quotidiana che per l’osservanza della legge; si sentivano talmente “separati”, che per non contaminarsi, evitavano perfino di toccare chiunque. Erano “stimati” dal popolo per questa loro perfezione religiosa, tanto da venirne considerati i paladini, i modelli in assoluto. E qui sorge spontanea una domanda: “Ma i farisei non sono quelli che hanno perseguitato Gesù? Non sono stati loro ad ucciderlo? Non sono stati loro che hanno tentato in tutte le maniere di metterlo a tacere?”. Certo: proprio per questo loro comportamento esterno costituiscono la dimostrazione pratica di come si possa essere considerati giusti, religiosi, perfetti, pur essendo nell’intimo lontanissimi da Dio. Il fatto poi che siano stati proprio i più “fedeli” a Dio, ad uccidere il Figlio di Dio, e che lo abbiano fatto in nome di Dio, ci fa seriamente pensare! Del resto dobbiamo ammettere che anche oggi, come in ogni tempo, è proprio un certo “tipo” di religiosità esclusivista ed elitaria che arriva ad uccidere, a soffocare, la fede della Chiesa.
C’è poi l’altro personaggio, il pubblicano, che se ne sta a “distanza”: Luca in greco usa il verbo “makrothen”, un termine tecnico con il quale anche gli altri evangelisti indicano gli “esclusi” dal Signore, i lontani, i peccatori. I pubblicani erano infatti amici dei Romani, erano considerati dei collaborazionisti, dei traditori, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
Entrambi dunque, fariseo e pubblicano, salgono al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale obbligatoria si teneva infatti nel Tempio due volte al giorno, alle nove e alle quindici.
Ora, la preghiera del fariseo è molto lunga e dettagliata; egli sta ritto in piedi, con lo sguardo fisso davanti a sé, e prega in silenzio: cosa normale per un ebreo, tant’è che ancora oggi avviene in questo modo, ma Luca lo legge qui come un segno di superbia. Non per nulla il verbo greco “prosèuketo”, significa letteralmente “pregava se stesso”: praticamente il fariseo si auto-lodava, si compiaceva di se stesso, si rivolgeva a Dio come ad un suo pari. Proprio come succede anche oggi a tante persone che “pregano” se stesse, adorano se stesse, e si servono della preghiera solo per mettersi in mostra, per atteggiarsi, per fare bella figura davanti agli uomini, pensando stupidamente, in questo modo, di risultare graditi anche a Dio.
C’è da dire che la preghiera del fariseo, dal punto di vista esteriore, è decisamente un ringraziamento a Dio: nella prima parte egli lo ringrazia per il suo essere “superiore” rispetto agli altri, portando le prove della sua impeccabilità: egli non trasgredisce la legge, non si comporta come gli altri che sono ladri, ingiusti, adulteri, pubblicani; inoltre digiuna due volte alla settimana (molto più di quello che la Legge prescrive), paga regolarmente le “decime”, ossia versa al Tempio, per i poveri, la decima parte del raccolto (frumento, olio, vino) e di quanto possiede. Tutto insomma in lui è impeccabile: lui, la sua vita, la sua preghiera; è veramente irreprensibile; dobbiamo riconoscere infatti che quanto dice è sostanzialmente vero: nessuno può permettersi di contestargli alcunché.
Anche tra noi ci sono persone delle quali non possiamo assolutamente criticare nulla. La loro vita è esemplare, priva di ogni difetto: pregano, sono ottimi padri, lavoratori, non fanno del male a nessuno, sono veramente perfetti: se non fosse che, anche per loro come per il fariseo, c’è un grave problema: nella loro vita c’è un’abissale incompatibilità tra il fare e l’essere: la loro vita, cioè, non è vita, è una vita senz’anima, una vita senza la Vita; sono dei morti viventi: la loro vita interiore non alimenta la loro vita esteriore: tra le due c’è una conflittualità insanabile. La loro anima, il loro cuore, senza la linfa vitale dell’amore, producono soltanto azioni aride, secche, insensibili, infruttuose.
L’altro, il pubblicano, si comporta invece in maniera completamente opposta: se ne sta “lontano”, piegato su se stesso, con gli occhi fissi a terra: una posizione che lascia trasparire la consapevolezza della sua profonda miseria morale, di uno cioè che si rende conto di aver imbrogliato Dio, i poveri, l’uomo: la sua vita era immersa in un giro di denaro da cui, una volta dentro, è impossibile uscirne: lui ebreo, cioè, faceva l’esattore delle tasse per conto dei romani invasori, uno dei sette mestieri maledetti e proibiti agli ebrei. Per cui quando si batte il petto, riconoscendo di essere un povero peccatore, dice la verità, è consapevole della sua condotta scorretta, è sincero, leale con se stesso e soprattutto con Dio.
Ebbene, di fronte alla preghiera dei due uomini, Gesù è lapidario; la sua sentenza è immediata: il secondo ne esce perdonato, giustificato, cambiato, reso giusto; il primo no. Perché?
Abbiamo detto che il fariseo inizia molto bene la sua preghiera: inizia con una lode a Dio; il dovere dell’uomo è infatti proprio quello di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi riuscissimo infatti a ringraziare Dio per ogni cosa che ci succede, noi faremmo della nostra vita una preghiera autentica, una solenne liturgia, un’eucarestia incessante. Subito dopo però il fariseo scade di stile: mette a confronto la sua vita con quella degli altri. Ora, con gli altri, all’esterno, noi possiamo anche giocare sull’apparire, possiamo esibire un ruolo che non è nostro, qualità e meriti che non sono nostri, possiamo indossare qualunque maschera, possiamo barare, possiamo insomma raccontare frottole, panzane, menzogne di ogni tipo: tanto, nessuno può controllare come siamo realmente nel nostro intimo, se l’esterno è azionato effettivamente dal nostro “motore” interno, se esiste coerenza tra i due. Nessuno, ma Dio sì. Di fronte a Dio non possiamo barare. Di fronte a Dio, i nostri teatrini, i nostri trucchi, cadono, svaniscono, si sciolgono come neve al sole; rimaniamo da soli, davanti alla nostra misera realtà, nudi e spogli di fronte alla Verità.
In questo sta l’inefficacia della preghiera del fariseo. La sua non è una vera preghiera: non è la preghiera che nasce dall’autenticità dei nostri sentimenti più profondi: non è la preghiera che, senza menzogne, senza false apparenze, ma nell’umiltà, nella consapevolezza dei propri limiti, ci porta giustificati al cospetto di Dio.
Questa è pertanto la preghiera del pubblicano: egli non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Lui è e si sente così. Chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per il suo malessere, per le sue zone oscure, le sue ferite, per le sue mancanze d’affetto, per il male che ha inflitto agli altri, per i suoi peccati, per i suoi errori. Riconosce umilmente la sua situazione, la sua realtà. Egli non mente a Dio, non mente a se stesso, in lui non c’è inganno.
Solo riconoscendoci vuoti davanti a Dio, possiamo uscire ricolmi della Sua ricchezza. Il pubblicano sa di aver bisogno di Dio, che la Sua mano lo accolga, lo abbracci, gli ridia dignità, lo salvi dal precipizio. Sa di essere ammalato e di aver bisogno del medico Divino: per questo torna a casa “giustificato”, cioè, amato, liberato, riconciliato, pacificato.
C’è quindi una preghiera gradita a Dio e una preghiera che Gli è decisamente insopportabile: quella cioè che non è sincera, quella fatta a beneficio di se stessi e del pubblico (“Lo sai quanti rosari recito ogni giorno? Hai sentito come leggo bene a messa, come canto bene?).
Ebbene: come pensiamo che sia la nostra preghiera? Siamo sempre convinti di essere coerenti con noi stessi, con la nostra fede, con il nostro io interiore? Purtroppo nessuno di noi può considerarsi assolutamente “immacolato”. Tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di riconoscerci umilmente colpevoli: non è forse vero che nell’intimo del nostro cuore coltiviamo le nostre falsità, le nostre piccole ipocrisie? Non è forse vero che a volte siamo un po’ troppo benevoli col proibito? Non è forse vero che in certi giorni Dio ci sta talmente “antipatico” da arrivare a discutere con lui anche a male parole? Non è forse vero che in certe occasioni veniamo sopraffatti dalle nostre paure, e perdiamo la fiducia in Dio? Non è forse vero che certe nostre reazioni talvolta ci fanno paura? Non è forse vero che ogni tanto tradendo la fiducia degli altri, li feriamo volontariamente? Non è forse vero che ci piace sentirci dire che siamo bravi, che siamo più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri? Non è forse vero che spesso, per nostra comodità, ci aggiustiamo le cose, a svantaggio del prossimo?
Chi di noi può dirsi “pulito” di tutto questo? Chi di noi può ritenersi coerente in tutto con gli insegnamenti di Gesù? Bene: se la risposta è “sì”, può scagliare per primo la pietra sugli altri. C’è però qualcuno che la scaglia comunque. C’è qualcuno, che ha così tanto buio dentro di sé, da permettersi di giudicare chiunque, ritenendosi il migliore di tutti. Molte persone sono convinte di essere a posto su tutto, di essere al di sopra di tutto e di tutti, e non si accorgono di comportarsi esattamente come il fariseo. Pregano molto: ma non sopportano che qualcuno li riprenda proprio su quelle realtà interiori che essi hanno bandito dal loro cuore, e che si rifiutano di guardare. Dicono che ciò che conta, è pregare. Dicono che questo conoscere il proprio intimo, la propria anima, sia soltanto una vana “psicologia”, un inutile “spiritualismo” che non serve a nulla. Ma sono tutte scuse: in realtà hanno paura di guardarsi dentro.
Non vogliono scontrarsi con la realtà, temono di scoprirla diversa da come loro la vedono, e questo li destabilizzerebbe, questo farebbe loro molto male, distruggerebbe la “bella immaginetta” di sé, che si sono creati.
Pertanto, il colloquio con Dio, la preghiera, non deve costituire un esercizio di scaltrezza, di diplomazia con Lui: non raccontiamogli fandonie! Pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita e della nostra anima con sincerità e onestà, permettendogli di entrare con la sua luce e di illuminare quelle zone buie, quelle in cui nascondiamo tutto ciò che non vogliamo affrontare, tutto ciò che ci grida, che ci urla dentro, tutto ciò che noi soffochiamo, che mettiamo a tacere, perché ascoltarlo sarebbe troppo duro. Sicuramente lo è per noi: ma non per Dio; lui al contrario accetta volentieri di vedere, di ascoltare, di lenire tutto il nostro male, tutto ciò che è doloroso, ciò che noi non vogliamo accettare; Dio ama di noi anche ciò che noi non vogliamo amare, accoglie anche ciò che noi vogliamo cancellare dalla nostra vita; Egli vuol ridare vita e dignità a tutto ciò che noi lasciamo marcire nella cantina della nostra anima. Dio non teme nulla. Siamo noi ad aver paura. Lui ha vinto il mondo. Lui può amare ogni cosa. Lui può andare dove noi non possiamo e non vogliamo andare. Pregare è quindi lasciarsi condurre da Lui. Pregare è permettergli di entrare proprio là dove noi ci vergogniamo, dove ci facciamo schifo, dove ci nascondiamo, dove non vorremmo farlo entrare mai. Noi vorremmo esibire solo la nostra facciata più bella, tutta sorrisi e generosità; non ci piace che altri vedano quel che siamo realmente: ma questo è un problema nostro, non è un problema di Dio.
Anzi, quando accettiamo che Lui entri in noi, immediatamente ci rendiamo conto che Lui porta amore, accoglienza, benessere, porta olio e unguenti per le nostre ferite; ci porta pace, tranquillità. È la pace della Verità, della sincerità, la pace che segue l’abbandono delle nostre assurde velleità. È la pace della libertà dal male.
Il fariseo e il pubblicano rappresentano dunque due modi diversi su cui impostare la nostra vita. Il pubblicano conosce la sua realtà, riconosce la verità: “Io non sono quello che vorrei tanto essere; sono in realtà un meschino, pieno di limiti, colpevole di tante miserie”. C’è in lui una parte di se stesso che odia profondamente, che detesta, che rifiuta, che non vorrebbe vedere, ma con cui si confronta, da cui cerca di affrancarsi, anche se spesso la pallida luce dei suoi propositi, viene purtroppo soffocata dal buio delle sue azioni, della sua vita concreta.
Il fariseo al contrario non vive questa battaglia interiore: egli è sereno, ha rimosso completamente dalla sua coscienza ogni lato oscuro della sua vita. Lui non sente la necessità di misurarsi con la realtà, non la conosce, la tiene nascosta dentro di sé e, non vedendola, si è convinto che non esista più. Vive una falsa illusione, da cui un giorno dovrà dolorosamente emergere. Non vede il suo di male, ma al contrario lo vede molto bene nel pubblicano, in tutte le altre persone. Indulgente con se stesso, è intransigente con gli altri: proietta cioè inconsciamente su di loro, le sue deficienze, i lati oscuri della sua personalità, tutto quello di sé che lui non vuol vedere, che disconosce, ma che comunque gli appartiene. Facciamo attenzione a questo particolare, perché ciò che noi odiamo negli altri, ciò che critichiamo, ciò che ci dà fastidio, ciò che non sopportiamo in loro, altro non sono che le nostre stesse “debolezze”, quelle stesse deficienze che noi volutamente ignoriamo in noi, ma che appartengono alla nostra vita, sono parte di noi. Allora, amici, conosciamoci bene, entriamo dentro di noi, prendiamo atto di questa nostra parte sconosciuta, oscura, carente di luce; Illuminiamola con la luce di Dio, così da smettere, almeno, di mortificare continuamente i fratelli, criticandoli per dei difetti che noi stessi, anche se ci costa ammetterlo, ampiamente condividiamo. Non possiamo cambiare il mondo: possiamo però cambiare noi stessi. E se cambiamo noi stessi, anche il mondo intorno a noi cambierà. Amen.



giovedì 13 ottobre 2016

16 Ottobre 2016 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).

La parabola del vangelo di oggi ci presenta due personaggi: un giudice e una vedova. Per la Bibbia, il compito dei giudici era quello di difendere i più deboli: le vedove, appunto, i bambini e i poveri. Ma non è sempre così: in realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse con la complicità e l’appoggio degli stessi giudici (per esempio in 1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic 3,1-2); come si vede, da che mondo è mondo, gli odierni problemi di malcostume sono sempre esistiti!
Questo giudice dunque non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la gente può pensare o dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli crei sensi di colpa o che lo faccia ricredere sui suoi comportamenti. Fare il male, per lui, non è mai un problema.
Di contro c’è poi una vedova, una donna che appartiene alla categoria più debole della società, sprovvista di autonomia e di protezione. Questa vedova continua ad andare ogni giorno dal giudice: il verbo greco all’imperfetto, ci indica proprio la ripetitività di questa azione, nel senso che ci andava di continuo, quotidianamente. Insomma è quella che noi oggi definiremmo più argutamente una “rompiscatole”.
Il fatto che si rivolga ad un solo giudice, e non davanti ad una corte giudiziaria, ci fa capire che il suo problema è di carattere amministrativo: vuol dire cioè che la poveretta, chissà da quanto tempo, sta aspettando di incassare del denaro che le era dovuto: ovviamente non dispone di soldi per potersi “comprare” un magistrato che le faccia ottenere giustizia.
È il classico caso di pessima gestione della giustizia in cui un giudice opportunista, disonesto, che pretende somme illecite per compiere il suo dovere, si trova a dover emettere una sentenza a favore di una povera donna che, essendo in miseria, non gli avrebbe mai assicurato un guadagno extra. Per cui rimanda continuamente il caso, lo accantona, e infine lo blocca in attesa di tempi migliori; la donna non disponendo della somma necessaria, non può fare nulla, il suo è un caso chiuso in partenza, impossibile. 
A prima vista non le rimane altro da fare che arrendersi.
Quanta gente, di fronte a situazioni apparentemente critiche, si scoraggia ed esclama: “Impossibile, non ce la farò mai!”. Ora, se nel corso della nostra vita alcune situazioni sono effettivamente impossibili da superare, non possiamo in ogni caso essere rinunciatari a priori; dobbiamo provarci sempre e comunque, per non correre il pericolo di scambiare per “impossibile” un’impresa che magari è soltanto “difficile”.
C’è chi invece si rassegna, si adegua; preferisce fare la vittima. 
Ma la donna della parabola ci dice: “Fai come me. Provaci sul serio, non per finta; non guardare alle difficoltà, abbi fede, fidati di te, delle tue forze e soprattutto del fatto che Dio è sempre con te; devi lottare con tutto te stesso”.
E allora non fingiamo con noi stessi: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze, usando tutte le tattiche possibili: tant’è che la strategia della donna di “rompere le scatole”, anche se non del tutto ortodossa, alla fine si è dimostrata vincente.
Il verbo greco “hypopiazein” (letteralmente “colpire sotto l’occhio, fare un occhio nero) in senso figurato significa “seccare, importunare, colpire qualcuno ripetutamente”. La vedova cioè diventa per il giudice un incubo costante, un autentico fastidioso "colpo in faccia", una continua e puntuale scocciatura. Una situazione insopportabile!
Non è che noi dobbiamo essere proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se per noi è importante, vitale, dobbiamo percorrere tutte le strade a nostra disposizione. Non fermiamoci al primo tentativo; non sentiamoci incapaci e soprattutto non consideriamoci delle vittime. Il messaggio della parabola è chiaro: “Insisti: sii ostinato, caparbio, assillante; non arrenderti, non mollare, tieni duro”. Dobbiamo insistere, non per il piacere di fare le teste matte, i testardi, i cocciuti come i muli, ma perché crediamo fermamente in quello che facciamo, perché siamo spinti da una fede solida, una fede incrollabile. Qualunque nostra lotta tenace, forte, importante, deve avere come presupposto essenziale il nostro credere, il nostro essere certi che Dio ci dà una mano, e che prima o poi la soluzione si risolverà a nostro favore. Dobbiamo però fare attenzione: lottare, reagire, pregare, insistere, non significa pretendere che Dio faccia ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di onnipotenza! Dobbiamo semplicemente non lasciare nulla di intentato: e ciò significa affidarci alla fede, significa percorrere quella strada nuova e sconosciuta che essa ci suggerisce. Se ci accontentiamo delle solite strade che conosciamo, la fede non serve: basta ripetere i passi che abbiamo sempre fatto; ma sappiamo già che questa scelta non ci porterà a nulla.
La situazione della vedova, come abbiamo visto, è dunque critica, sembra già una causa persa in partenza. Ma lei possiede ciò che serve, ciò che è determinante, ciò che fa la differenza: lei ha fede. Questa donna è sicura di una cosa: non sa come, non sa quando, ma sa per certo che qualcosa cambierà: e agisce di conseguenza. Se noi non abbiamo fede, se non crediamo che le cose possano cambiare, nella nostra vita non cambierà mai nulla. Questo è un assioma della vita. Ma se crediamo che qualcosa cambierà e ci attiviamo per questo, stiamone certi che accadrà. E anche questo è un assioma della vita. Sembra incredibile: ma ciò succede non per logica, ma per la forza unica della fede. Virgilio esprime con parole sue questa grande verità: “Possono, perché credono di potere”. Conclusione: se non crediamo in ciò che facciamo, non arriveremo mai a nulla.
Il vangelo dunque ci stimola a combattere contro il male che ci insidia: “Tira fuori la tua voce; lotta per la tua fede; se nel farlo, infastidisci, molesti qualcuno, pazienza: non è possibile andare sempre bene a tutti; fatti sentire; non arrenderti!”. In pratica ci invita a non accettare bavagli di alcun genere, a non avallare imposizioni intollerabili.
Allora, non uccidiamoci con le nostre mani, amiamoci: diamo spazio, diamo visibilità e forza alla nostra fede, ai nostri sani principi, alla nostra morale cattolica; noi ci siamo, alziamo la voce, facciamoci sentire! Comportiamoci soprattutto avendo sempre presente la voce di Gesù che chiede a noi: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede sulla terra?”.
Certo, durante il suo ministero su questa terra, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma quello di oggi, ci mette l’angoscia. Quello che trapela è un dubbio atroce per il domani, uno sguardo carico di tristezza per un futuro lontano che purtroppo è già diventato l’oggi.
Egli non si chiede: “Ci saranno ancora associazioni e movimenti cattolici, la gente andrà ancora in Chiesa, a Messa, farà ancora l’elemosina?” No, Gesù è angosciato perché vede che la sua Chiesa, quella che Lui ha fondato con tanto amore, oggi ha perduto la fede: vede che la preghiera è senza fede, vede che i Sacramenti sono vissuti senza fede, vede che l’annuncio del Vangelo è proclamato senza fede.
Di fronte al disinteresse religioso della società contemporanea, di fronte ad un mondo sempre più ingiusto, sempre più crudele, sempre più materialista, sempre più nemico di Dio, noi, suoi seguaci, ci siamo effettivamente demoralizzati, la nostra fede ha vacillato, è venuta meno, siamo caduti anche noi nell’apatia. Credere con assoluta coerenza oggi è diventata una rarità, è sempre più difficile: il cristiano è debole, frastornato, insicuro, non coglie più indicazioni certe neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio attanaglia il cuore dei fedeli: eventi come le guerre, le lotte per il potere, l’arricchimento personale truffaldino, l’egoismo imperante, il dilagare di ideologie amorali, sono diventate la “normalità”: Cristo stesso viene pubblicamente e impunemente irriso con opere di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una critica acefala. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina, tutto è negato, tutto è oltraggiato.
Dio aveva consegnato all’uomo un mondo che poteva essere un capolavoro di misericordia, di fraternità, di amore. Egli, con la sua presunzione, lo ha ridotto a un covo di ladri, di malfattori, un accumulo di indifferenza, di ingiustizia, di malvagità.
Ebbene, quello che ci dice il vangelo di oggi è che non possiamo più ignorare una situazione tanto drammatica, non possiamo più avallare, in nome di un falso “buonismo”, una situazione che sta vanificando definitivamente l’autentico messaggio d’amore di Cristo.
La volontà decisa dei buoni, la loro azione personale, umile ma perseverante, la loro incessante preghiera, intrisa di fede vera, autentica, costante e fiduciosa, può fare il miracolo: “Io vi dico che [Dio] farà loro giustizia prontamente” afferma Gesù. 
Sarà Dio allora che interverrà a mettere le cose a posto. 
Fidiamoci di Lui, crediamoci. Anche se facciamo fatica a capire, stiamoci: ripartiamo, lavoriamo alacremente in questo mondo greve e insensibile, sicuri che la giustizia di Dio inizierà a contagiarlo, a guarirlo, partendo sicuramente col rinfrancare il nostro cuore. Amen.


giovedì 6 ottobre 2016

9 Ottobre 2016 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,11-19).

Il vangelo di oggi racconta di dieci guarigioni e di un miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo riconosce ciò che gli è successo, e solo in lui avviene il miracolo. Perché guarire comporta una trasformazione interiore.
Gesù, ormai verso la conclusione del suo viaggio verso Gerusalemme, entra in un villaggio e dieci lebbrosi gli vanno incontro. La lebbra, allora, era tremenda sia come malattia, sia perché il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un imprigionato. Chi riusciva a venirne fuori, doveva presentarsi ai sacerdoti del Tempio, gli unici che avevano l’autorità di constatarne la guarigione, e di reintegrarlo nella società.
In altre occasioni Gesù per guarire gli ammalati li toccava: un atto per quei tempi decisamente scandaloso. Qui, no. Qui non li avvicina neppure, ma li manda direttamente dai sacerdoti pur essendo essi nel pieno della malattia. Perché? Non poteva guarirli subito? Chissà cos’avranno pensato quei lebbrosi: “Ma come: siamo malati, impuri e ci mandi dai sacerdoti? Come ci tratteranno vedendoci arrivare in questo stato?”. Tuttavia i dieci vanno, confidando sulla parola di Gesù; questo è il punto: “credono” e vanno. È questa loro dimostrazione di fede che li guarisce. Credono con fede profonda e sincera di poter guarire, di poter finalmente cambiare la loro situazione; e grazie a Gesù, ciò avviene.
Un monito per tutti noi: anche noi dobbiamo rivolgerci a Dio con altrettanta fede, perché se non siamo convinti che Dio ci ama, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici nei suoi confronti, Egli non potrà mai darci retta, non potrà mai trasformare la nostra vita, migliorarla, non potrà mai guarirla. Tanti cristiani non riescono a migliorarsi, non guariscono dalle loro malattie, dalle loro infermità spirituali, proprio perché non credono nella possibilità che Gesù li possa aiutare, li possa guarire: e continuando a non credere, non guariranno mai! Quello che in particolare li frena nel loro cammino di fede, minandola, è il rispetto umano: trovano estremamente vergognoso e umiliante dimostrare apertamente, in pubblico, di essere credenti, di agire coerentemente con la loro fede, di fare o non fare certe cose perché credono fermamente nelle Parole di Cristo. Per prima cosa, quindi, devono vincere le loro paure, devono affrancarsi dalla loro vergogna, dai loro freni inibitori.
Gesù infatti non dice: “Ritiratevi in silenzio e andate privatamente nel tempio a pregare”, bensì: “Presentatevi dai sacerdoti”. Cioè: “Muovetevi, accantonate ogni timore, ogni reticenza, e andate a “mostrarvi” così come siete, andate a fare proprio quello che per rispetto umano non fareste mai, quello che avete paura, vergogna, di fare”.
Del resto la preghiera non è altro che il presupposto del “fare”, dell’agire: è preparazione: inizia cioè quando ci ritiriamo in noi stessi nel silenzio, convinti che Dio ci ama, e percepiamo in noi la presenza potente del suo amore incondizionato; e termina nel momento stesso in cui questa esperienza interiore si trasforma in forza, in energia, e diventa “azione”: “pregare” pertanto corrisponde ad “agire”, muoversi, andare, darsi da fare; altrimenti la preghiera non è preghiera, ma un inutile e vuoto blaterare. Quando dobbiamo affrontare una paura, un imprevisto, un problema che non conosciamo, ma che dobbiamo affrontare e risolvere, è allora che dobbiamo pregare: perché pregare significa metterci mano, uscire da ogni incertezza, affrontare a viso aperto, con coraggio e fede in Dio, ciò che temiamo, l’ignoto, ciò che ci fa paura.
Molte persone hanno un’idea distorta della preghiera, la considerano “magica”, un toccasana, miracolosa a prescindere: “C’è un problema, una difficoltà, di qualunque genere? Prego il Signore”. Punto. Chiuso. Hanno fatto quello che dovevano. Rimangono in attesa, non si muovono: “Io l’ho pregato, è Lui ora che deve darmi quello che gli ho chiesto!”. Sbagliato: pregare va sicuramente bene, ma per agire. La nonna diceva “aiutati che il ciel ti aiuta!”. Gesù infatti non si limitava a parlare, ma mandava, chiamava, dava ordini: “Va’; esci; vieni; seguimi!”; faceva muovere, faceva agire le persone: in una parola le faceva “vivere”!
Il nostro modo di pregare, invece, il nostro “vivere” la fede, è spesso terra terra. È come se andassimo al supermercato: ci basta scegliere, senza fare alcuna fatica, per portar via ciò che vogliamo: lì c’è tutto. Solo che quando si tratta della nostra vita di fede, abbiamo bisogno di cose spirituali, di aiuti particolari. E Dio non è un supermercato delle nostre voglie, il pronto “tappabuchi” per ogni nostra necessità. Non scarichiamo su Dio le nostre responsabilità, non rinfacciamogli la responsabilità delle nostre situazioni, incancrenite e insopportabili. Perché potremmo sentirci dire: “Ma tu cos’hai fatto fino ad oggi? Pensi di continuare a far nulla? Sei tu che devi intervenire, sei tu l’unico artefice, il responsabile unico della tua vita!”.
Gesù vedeva nelle persone che incontrava, nella prostituta, nella peccatrice, nei pubblicani, nei peccatori, nei lebbrosi, cose che nessun altro riusciva a vedere. Il vangelo dice spesso infatti che Lui “li vide”. E Lui li vedeva bene, vedeva dentro di loro, nel loro cuore: se “credevano”, se cioè la loro preghiera era originata, “spinta”, “azionata” dalla forza dell’amore, allora ottenevano ciò che chiedevano, venivano miracolosamente guariti.
Il miracolo avviene soltanto se noi crediamo in Dio con i fatti, concretamente, altrimenti Lui non può fare nulla: se noi lo “speriamo”, se lo “desideriamo”, se ce lo “auguriamo”, non ci sarà alcun miracolo. Ma solo se crediamo: solo se abbiamo fede, se ne siamo convinti, possiamo guarire da qualunque “malattia”.
Con il termine “lebbra” noi oggi designiamo la classica malattia di Hansen. Ma il termine ebraico “sara’at” si riferiva in genere alle varie malattie della pelle: escrescenze fungose, muffe, infezioni, eczemi. In questo caso possiamo identificare la nostra pelle con la nostra vita; è lei infatti che mette in comunicazione il nostro “interno” con il mondo esterno, con la società. La pelle ci difende, ci avvolge, ci protegge dalle ferite e dai pericoli esterni. In senso figurato possiamo quindi interpretare la lebbra, malattia della pelle, come quella malattia spirituale che intacca, attraverso l’esterno, la bellezza interiore della nostra anima: quella malattia che ci isola, che ci esclude da ogni rapporto vitale con Dio e con la realtà. È la malattia dell’esclusione; è quel marchio indelebile che ci condiziona, che ci fa sentire tagliati fuori dalla comunità dei fratelli, che ci fa vergognare, che ci fa sentire “discriminati” da Dio e dagli uomini.
Ma non dobbiamo disperare, non dobbiamo darci per vinti: muoviamoci, andiamo da Gesù: Egli continua a passare continuamente per le nostre strade e si ferma pazientemente ad aspettarci: chiamiamolo a gran voce, preghiamolo e, se la nostra fede è autentica, potremo sentire distintamente la Sua voce che ci invia dai sacerdoti e ci dice: “Non permettere mai che la vergogna, che il giudizio degli altri ti uccidano, ti impediscano di vivere. Ritrova la fiducia che è in te: alzati, abbi il coraggio di mostrarti, di far vedere a tutti quello che sei realmente. Fatti vedere, non nasconderti, lavati dalle tue brutture, togliti di dosso tutte le maschere che ti deturpano, perché la tua faccia è bella, luminosa, perfetta: non dimenticare mai che io ti ho creato a mia immagine e somiglianza!”. Il grande miracolo avviene, la nostra guarigione è assicurata!

Poi c’è la seconda parte del vangelo. Tutti guariscono ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? E gli altri dove sono? Il vangelo dice che solo “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. È quel “vedendosi guarito” che è decisivo. Uno di loro cioè si accorge di ciò che gli è successo: se ne “avvede”, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza dell’accaduto. E gli altri? Degli altri non sappiamo: il vangelo non dice “che abbiano visto”.
Gesù aveva detto loro di andare dai sacerdoti: partono in dieci, tutti lebbrosi, ma uno “vede” e guarisce completamente anima e corpo: in lui avviene il “miracolo”; gli altri nove non “vedono”, si limitano ad eseguire l’ordine, e guariscono solo all’esterno, il miracolo vero in loro è fallito. È la religione del “io ti do e tu mi dai”. Tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. I nove non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Pensano: “La guarigione l’abbiamo avuta, abbiamo fatto ciò che ci ha detto. Che altro dobbiamo fare?”. Non hanno visto Dio. Non c’è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento: avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d’acqua e si sono accontentati; non sono ritornati alla Sorgente, alla fonte, alla forza che li aveva guariti.
A Gesù le persone chiedono sempre segni e miracoli; ma vogliono tutto a basso prezzo, senza fatica, senza troppi coinvolgimenti. Vogliono un pacco-dono dal cielo, ma non per convertirsi, non per cambiare vita, per crescere; non riconoscono che Lui è la Vita vera, autentica, e non lo fanno entrare nella loro vita di facciata.
Tante persone pregano, pregano molto, e infine ottengono quello che chiedono: ma una volta ottenutolo, tutto continua come prima. Quello che è loro successo non le cambia, non le tocca. Rimangono in superficie, all’esterno. Magari, se non ottengono subito quel che chiedono, si arrabbiano anche, come se ottenerlo fosse un loro diritto. Insistono nel chiedere non per fede, ma per piegare in qualche modo Dio alla loro volontà, come se Dio fosse in debito con loro. Vivono una vita senza una vera lode di riconoscenza, senza gioia e festa, senza gratitudine, nella meschinità del tutto è dovuto: “Io prego, io faccio, io mi impegno: tu Dio, tu Vita, mi devi dare in cambio quanto ti chiedo”.
Il ringraziamento del samaritano è invece il segno proprio di chi ha capito che quanto è avvenuto in lui è un dono, che nulla gli era dovuto; e solo lui, “samaritano”, dissidente, peccatore, torna indietro a ringraziare: non possiamo ignorare una certa nota polemica in questa sottolineatura di Luca: sappiamo infatti che gli osservanti e pii Giudei consideravano i samaritani gente malfamata, depravata: ma saranno proprio i nove “religiosi”, i nove osservanti giudei, (non è scritto, ma il testo lo lascia supporre) che non torneranno indietro “miracolati” a ringraziare Gesù.
Il verbo ringraziare, “rendere grazie”, in greco è “eucaristèo”, fare “eucaristia”: accorgersi cioè che tutto ciò che avviene in noi e attorno a noi, è solo un “dono” gratuito, non dovuto, di cui dobbiamo essere profondamente riconoscenti. Spesso al contrario noi avanziamo soltanto pretese assurde, esagerate, eccessive. Siamo come i nove lebbrosi: non ci rendiamo conto dei doni che riceviamo, continuiamo per la nostra strada, come se non fosse successo nulla: siamo convinti che i doni che riceviamo non siano prove d’amore gratuite da parte di Dio, ma solo il riconoscimento di un nostro diritto in sofferenza, liquidatoci a seguito dei nostri solleciti: e in questo modo rifiutiamo anche noi il “miracolo”.
Per questo l’Eucarestia della domenica dovrebbe essere il nostro “ringraziare” Dio per i suoi doni, per la sua presenza nella nostra vita e nella settimana appena conclusa. Le nostre eucaristie, invece, sono spesso senz’anima, rischiano di essere solo l’osservanza di un precetto, una consuetudine, senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono “impegni” di ordinaria amministrazione, un inno all’indifferenza: non vediamo, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio nel nostro tempo, nella nostra vita, non sappiamo vedere ciò che Egli fa per noi, non c’è alcun sussulto nel nostro essere presenti/assenti.
L’egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: sono convinti di non ricevere mai abbastanza; sono sempre in ansia per ciò che manca, per ciò che non hanno; la società intera è sempre in debito nei loro confronti, nessuno li ama adeguatamente; le loro richieste, le loro pretese, crescono continuamente in progressione geometrica.
Il miracolo invece è rendersi conto, percepire, che niente ci è dovuto, che niente è un nostro diritto. Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ci meritiamo nulla, nulla ci è dovuto: tutto è dono dell’Altissimo; godiamocelo e ringraziamolo: non per nulla “ringraziare, grazia, gratitudine”, sono parole che derivano tutte dalla stessa radice: “gratis”! Tutto proviene dall’Amore di Dio. Un amore che non ci è dovuto, che è solo un dono. Ringraziamo Dio allora, viviamo le gioie e i piaceri del suo amore, stupiamoci e cantiamo se la nostra vita viene riempita d’amore; ringraziamo ogni giorno Iddio che ci fa vivere e percepire questa esperienza, che è la più forte e la più profonda della vita, benediciamolo per ciò che ci viene dato di vivere e siamogli grati perché nessun uomo su questa terra merita tanto. Così, la vita non ci è dovuta, è un dono, godiamola. Godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa, del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, possiamo esprimerci, possiamo piangere. Benediciamo Dio per gli amici, per le occasioni sempre nuove che abbiamo, per le possibilità che ci ritroviamo. Tutto questo è gratis, è per noi. Benediciamolo perché nulla ci è dovuto, ma è tutto frutto del suo amore.
Solo menti ottuse, senza cuore, totalmente rigide e senza vita, non sanno lasciarsi contagiare dallo stupore e dalla meraviglia di questo fremito così fragile e così perfetto che si chiama vita. La nostra vita è un capolavoro e soltanto chi è senza cuore non riesce a commuoversi e inchinarsi di fronte a tale bellezza. Solo menti cieche non sanno vedere in quale miracolo siamo immersi. Solo menti ottuse non vogliono conoscere, si ostinano ad ignorare la perfezione e la bellezza di un mondo in cui tutti noi abitiamo.
Chi non conosce Dio, non lo ringrazierà mai. Può farlo soltanto chi torna sui propri passi come il samaritano, perché si rende conto di essere coinvolto in un mistero molto più grande di lui: un mistero che lo trascende, che lo supera, che lo sorpassa: il mistero di Dio Amore. È un peccato vedere in Chiesa delle persone che non cantano, non ringraziano Dio, rimangono mute: rifiutano qualunque coinvolgimento, non vogliono dare voce ai sentimenti di riconoscenza che hanno dentro. Benediciamo invece ed eleviamo a Dio il nostro grazie per la vita: e questo non perché siamo ciechi, perché non vediamo i mali, le ingiustizie, i soprusi che, per causa nostra, ci sono nel mondo, attorno a noi, e spesso dentro di noi; ma perché guardando alla bellezza che ci circonda pur in mezzo a tante crudeltà, guardando alle meraviglie in cui siamo immersi pur in mezzo a tante cose incomprensibili, guardando alla bellezza della vita pur in mezzo alla sua limitatezza, riusciamo a vedere i tratti inconfondibili e innegabili del suo Amore divino.
Lodare (dal greco aineo) vuol dire anche “assentire, approvare, dire di sì, essere contento”.
Allora siamo contenti della vita non perché tutto sia roseo ma perché le diciamo di “sì”, perché la accogliamo così com’è, perché cerchiamo di viverla com’è, perché sentiamo che ha un valore inestimabile, enorme.
Dobbiamo sempre diffidare di chi non si sa stupire, di chi non si sa meravigliare, di chi non sa congiungere le proprie mani e ringraziare Dio per tutto ciò che vive; perché uno così manca di sensibilità, di riconoscenza, di amore. In altre parole non “sente” il dono, non capisce il “miracolo” che gli è stato fatto. E se non capiamo il miracolo incalcolabile della vita, non ne percepiremo neppure il suo valore inestimabile, e rischieremo di buttarla via, di svenderla, di sprecarla.
Lodiamo Dio per i suoi doni, per l’amore che ci dimostra continuamente, per la vita: perché lodarlo vuol dire essere fedeli, con stupore, con riconoscenza, sia all’incanto della vita, che alla sua drammaticità. Vuol dire essergli fedeli, dirgli sempre di “sì” anche quando non capiamo, anche quando siamo portati a fissarci solo sul negativo, su ciò che non va bene, su ciò che è parziale, limitato o insufficiente; lodarlo vuol dire riuscire a guardare oltre, a vedere che un domani tutto potrà essere migliore, anche se oggi non lo è. Lodiamo Dio, creatore della vita, perché ci ha dato la possibilità di vederla attraverso i suoi occhi; di viverla fiduciosi nella sua Provvidenza, di amarla nel suo Amore. Amen.