giovedì 7 aprile 2016

10 Aprile 2016 – III Domenica di Pasqua

«Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,1-19).-

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, quindi non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere: “No” (21,5). Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo felici di come siamo, che ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, insoddisfatti di tutto e di tutti. Quindi di veramente prezioso da regalare, non abbiamo proprio nulla. Anzi, un qualcosa di importante su cui lavorare ce l’abbiamo: è l'ammettere a noi stessi che non abbiamo nulla, che non siamo proprio nessuno! Un fatto che ci deve preoccupare: perché non possiamo risollevare la nostra situazione negativa se ci ostiniamo a ignorarla. Quindi la prima cosa da fare è prenderci di petto, e dirci francamente: “Così non va! Per che cosa viviamo? Che scopo ha la nostra vita?”. E fare una decisa inversione di marcia: una decisione che, vi assicuro, per farla ci vuole tanto coraggio: ma perché? Perché a noi piace vivere illudendoci, prospettandoci scenari di benessere e felicità, liberi da qualunque problema o imprevisto; un mondo posticcio e irreale in cui fingiamo di stare veramente a nostro agio: “Ho un lavoro, ho una casa, ho dei figli, non mi manca niente!”. Indossiamo la maschera pubblicitaria del “Mulino Bianco”, della famiglia felice, e tutto fila liscio. Ma dentro di noi? Meglio non guardare: perché troppo spesso moriamo di solitudine, di delusione, di malcontento, di rabbia, di vuoto.
Allora, la prima condizione per poter guarire, come già detto, è che dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che siamo noi, e non gli altri, i malati gravi: siamo cioè noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo muoverci.
Dio ci aiuta certamente, ci mette veramente del suo, in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con una azione dall’esito istantaneo: un evento dal cielo, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi; una parola magica che, solo a pronunciarla, otteniamo quanto vogliamo. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
È quanto Gesù richiede ai suoi: dopo una intera notte di faticoso lavoro senza alcun risultato, Egli li rimanda in mare, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora li manda con un ordine ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (21,6). La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
E lo richiede anche a noi; Gesù anche con noi adotta la stessa procedura: dopo i nostri fallimenti, ci rimanda ogni volta nella nostra vita, nel nostro quotidiano; e non ci dice di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di stravolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. L’ordine che impartisce anche a noi è sempre lo stesso: “Fai le cose di prima, le stesse, ma adesso falle in maniera razionale, consapevole. Non vivere più con la testa fra le nuvole; non aspettare che le tue difficoltà spariscano magicamente, fatti delle domande serie, osservati, guardati, vedi come reagisci, chiediti cosa vuoi da te, qual è il tuo ideale, cosa ti appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire supinamente la maggioranza, iniziamo col chiederci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Cosa mi va di accettare e cosa non mi va di accettare? Mi sta bene questo comportamento? Quali dinamiche mi muovono? Quali sono le paure che mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono autentico in quel che faccio? Quali maschere preferisco indossare?”. Dobbiamo essere convinti che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa. E poi ancora: “In che cosa sono unico? Che cosa mi attrae nel profondo (perché “lì dove c’è il tuo cuore, lì c’è il tuo tesoro”)? Per che cosa voglio vivere? Quanto sono disposto a mettermi in gioco, ad espormi, a rischiare?”.
Noi ci illudiamo invece che quanto è in grado di saziare i nostri cuori si trovi al di fuori di noi (21,3). Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci fa cantare di gioia, ciò che ci fa sentire figli unici, e insieme fratelli, amati dallo stesso Dio, ciò che ci rende così vivi da lodarlo e ringraziarlo per il dono della vita, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova fuori di noi ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo “stabilire il contatto” con noi stessi, dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi che dobbiamo stare, con noi e con il Dio che ci inabita. Dobbiamo conoscerci, non dobbiamo fuggire di fronte ai nostri mostri, ma familiarizzare con essi, non dobbiamo trascurare il potere negativo dei nostri istinti, ma dobbiamo individuarli, dominarli e farceli amici; dobbiamo essere i padroni assoluti del nostro mondo interiore, sapendo di trovarvi sempre presente il Dio della Vita.
Questo fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava (21,7): un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!” (21,7). Così anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e caducità, potremo un giorno “vedere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia.
Ma, in sostanza, cosa dobbiamo fare? In che modo possiamo “vederlo” (e non solo “pensarlo”)? Come possiamo percepirlo? Come sentirlo? Sicuramente non facendo cose straordinarie, eclatanti, ma nei piccoli eventi di tutti i giorni, come nel dare una risposta “diversa” dalle solite, nell’iniziare una cosa nuova, nel riuscire finalmente a dire un “no”, nell’ammettere una paura che ci destabilizza, nel riuscire a pronunciare uno “scusami”, nel lasciarci andare alle emozioni, nel dare spazio ad un’idea creativa e un po’ pazza, nell’adottare un comportamento controcorrente, nel fare un incontro che non ci aspettavamo, nell’ammirare un tramonto sul mare, in una passeggiata in montagna, nello specchiarci in uno sguardo o in un sorriso di nostro figlio, in una complicità con nostra moglie, ecc.. Ecco, è in queste piccole cose che possiamo dire: “È il Signore!”, e riscoprire in noi una nuova concezione di vita.
La gente cerca Dio nelle visioni, nelle apparizioni, perché non “lo vede” nella propria vita. Per questo lo cerca “fuori”. Ma Dio ci appare, ci incontra, solo nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità, un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è per noi solo se lo “vediamo”. Altrimenti è un’idea che abbiamo in testa: forse è Lui, forse no. Se lo “vediamo” non può esserci alcun dubbio; ma se “non lo vediamo”, finiamo per credere in qualcosa che non sappiamo cosa sia.
Dove lo possiamo “vedere” concretamente? Soltanto dove c’è “carità e amore”. Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, certamente “non vedono” il Signore. Come è successo a Pietro. Egli, infatti, non riconosce il Signore: lui è l’uomo razionale, efficiente, irruento; è l’uomo dell’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore. Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e gli dice: “È il Signore!”.
Pietro in pratica assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
Grazie a questo suo carattere intermittente, Pietro compie una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica. Una volta riconosciuto Gesù, infatti, senza alcuna esitazione, egli si getta in mare per raggiungerlo. Era al largo, tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Questa decisione improvvisa di Pietro rivela però un forte simbolismo: egli deve buttarsi in acqua, perché deve “bagnare” (21,7) la propria presunzione, la propria sicurezza. Deve cioè fare un bagno di umiltà. Deve ricredersi. Deve immergersi anche lui nel “mare” dell’amore. Deve insomma ridare nuovi impulsi, nuovo slancio, nuova vitalità e duttilità alla sua mente poiché, continuando con la rigidità inflessibile dei suoi schemi mentali, avrebbe rischiato di bloccare il suo cuore e di condannare a morte certa la sua anima.
Sempre per questo il motivo, prima di buttarsi in acqua, “si veste” (21,7): ma se mentre pescava era nudo, che senso ha rivestirsi proprio per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa infatti per Pietro indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno bisogno sempre di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. Lo stesso bisogno che c’è anche oggi per quei “rappresentanti” del sacro, preti e laici che siano, che si ritengono detentori unici della verità: che si credono altrettanti Dio in qualunque situazione e in qualunque campo! Anche oggi ogni tanto rispunta quell’intransigenza, quell’irruenza “petrina”, che hanno bisogno di un buon lavaggio di umiltà. Ecco perché i capi, i pastori del gregge di Dio, devono imitare Pietro che, immergendosi nel mare, ha purificato le sue colpe, ha affrontato le sue paure, ha riconosciuto e abbandonato le sue rigidità: solo in questo modo infatti, egli ha potuto essere scelto da Gesù come capo di quella barca (la chiesa), da Lui destinata a portare frutto (una pesca miracolosa) e a rimanere viva nei secoli grazie alla continua forza (lo Spirito, l’amore e la presenza di Gesù) che la sospinge.
È Pietro infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra (21,9), ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora” (21,10). Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima di conferire il mandato a Pietro, infatti, Gesù antepone un esame sull’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèin”. Ora, in greco, “Agapào” indica l’amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece implica un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. È diretto Gesù, esige una risposta netta, un amore da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèin”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, incondizionato, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene” (“filèin”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” ed usa “filèin”, lo stesso verbo di Pietro: “Simone, mi vuoi bene (fileis mè)? In pratica egli accetta il suo “ti voglio bene”, si abbassa, si accontenta, si avvicina alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore (18,27); tre volte gli ha detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Le posizioni di entrambi sono ancora lontane: “Mi ami come io ti amo?” chiede Gesù; “Ti voglio bene”, risponde Pietro. Egli sa di essere in un enorme deficit d’amore; ha bisogno di crescere, di mettersi in gioco, di rinnovarsi, di ammettere le proprie zone d’ombra e di falsità.
Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti consideri esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù chiude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo già detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi decidere la direzione della tua strada, ma devi anche lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno e stabilire lui dove andare. Ma avere fede, amare Dio, è lasciare spazio a Lui: lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno può dire a priori, infatti, che Dio ad un certo punto non voglia rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non voglia qualcosa di più grande da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia lasciare il lavoro, le amicizie, le nostre idee, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e le nostre idee?
Noi amiamo immaginarci arrivati, celebri, ricchi, sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili: ma chi può assicurarci che un domani la nostra vita non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa, esattamente all’opposto? L’importante è che noi siamo sempre pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.



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