giovedì 28 aprile 2016

1 Maggio 2016 – VI Domenica di Pasqua

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23-29).

Siamo sempre durante l’ultima cena. Prima della conclusione, Gesù pronuncia un lungo discorso con il quale cerca di preparare i suoi amici alla imminente tragedia della croce: è il lungo discorso di commiato dai suoi, essendo ormai giunto al finale della sua missione terrena.
I discepoli, come del resto succedeva normalmente, non capiscono molto di quelle parole, che riguardano il loro immediato futuro: una cosa, però, la capiscono bene: che tra non molto Gesù li avrebbe lasciati, e che essi avrebbero dovuto affrontare delle tristi giornate senza di lui. L’Amico e Maestro, con cui hanno condiviso gioie, entusiasmi, incomprensioni, miracoli, fatiche e preghiere, l’odio e l’amore della gente, sta dunque per abbandonarli, sta per andarsene via.
Le parole che Gesù pronuncia costituiscono dunque la traccia di un programma ben preciso: sono le ultime istruzioni, un “viatico”, con cui intende predisporre i loro animi ad effettuare un salto decisivo di qualità: a passare cioè da una esperienza di vita comune esteriore, materiale, ad una nuova esperienza di vita, sempre in comune, ma questa volta “spirituale”, interiore; li invita praticamente a trasferirsi da quel cenacolo costruito nella pietra, in un altro cenacolo, tutto spirituale, completamente nuovo, situato dentro di loro: perché nei vari “cenacoli” di pietra, qui, in questo mondo, di persona, non lo avrebbero più incontrato. Di lì a poco, quindi, lo avrebbero potuto incontrare solo spiritualmente, nel cenacolo interiore del loro cuore, della loro anima; perché Lui, Gesù, fisicamente, non ci sarebbe stato più.
Una prospettiva, questa che appare agli occhi dei discepoli, decisamente tragica, che li getta completamente nella confusione, nello sconforto, nell’angoscia, nel terrore: “Cosa faremo senza di Te? Come potremo vivere senza di Te che sei la Vita? Chi ci aiuterà? Chi ci sosterrà? Che senso avrà ancora la nostra vita?”. Sono all’incirca le domande inquietanti che essi si pongono immediatamente.
In fondo, fino ad allora, si erano illusi, avevano vissuto una meravigliosa avventura; pensavano cioè che Gesù avrebbe instaurato il Regno dei cieli qui, su questa terra; credevano che, con Lui presente e operante, si sarebbe affermata una realtà nuova, diversa, universale, magari con l’intervento risolutore di Dio Padre. E invece no!
In un istante le loro sicurezze, le loro certezze, cedono; i loro sogni svaniscono, si dissolvono come fumo nell’aria. “Cosa ci rimane ora? Con Gesù che se ne va, tutto è finito!”.
Quello che è successo agli apostoli è esattamente quello che succede anche a noi in simili circostanze. Sono le stesse domande che ci poniamo nel momento tragico di una separazione, nel momento in cui qualcuno che amiamo profondamente - il compagno di una vita, un figlio, una persona cara - ci viene improvvisamente a mancare.
I mostri del dolore, della disperazione, della caducità, dell’impotenza, ci mettono di fronte alla provvisorietà della vita umana, alla consapevolezza di non essere nessuno, di non possedere nulla di veramente “nostro”, di non avere alcun diritto a trattamenti di favore da parte di Dio.
Tutto scorre, tutto passa: come ci viene dato, così ci viene tolto. Questa è la realtà che dobbiamo imparare. È uno degli aspetti dolorosi della vita, perché è naturale considerare “nostro” chi, come un figlio, è parte di noi; è naturale e inevitabile per noi provare nei suoi confronti attaccamento, affetto, amore; è naturale pensare di non poter più vivere senza di lui; è quindi altrettanto naturale che di fronte alla morte, il dolore ci sommerga, ci destabilizzi. Ripeto: è la vita. Ma in tali situazioni il vangelo di oggi ci soccorre, prospettandoci una verità ben più profonda, più vera. Con la morte non perdiamo tutto: possiamo perdere la presenza materiale di una persona, ma la sua parte più bella e nobile, non potremo mai perderla: la sua presenza spirituale, la sua anima, la sua memoria, il suo ricordo, rimarranno vivi per sempre, scolpiti indelebilmente nel nostro cuore.
È quanto, in effetti, sperimentarono gli apostoli. Essi persero l’amico più caro, la persona che più amavano, il loro maestro, la loro guida. Sembrava una tragedia senza fine, ma poi successe l’incredibile: dentro il loro cuore percepirono nettamente la sua inconfondibile presenza: ce l’avevano dentro; era un fuoco che bruciava la loro anima, una passione che infiammava il loro cuore, una luce che illuminava il loro cammino. Per loro insomma era più vivo di prima, lo “sentivano” più di prima. Un’esperienza sublime, che essi chiamarono lo Spirito, l’Amore, il Risorto.
È la grande confortevole verità che riguarda anche noi: le persone che abbiamo tanto amato, anche se materialmente non ci sono più, continuano a vivere dentro di noi, a parlare con noi, a farci sentire tutto il loro amore, la loro presenza. È lo Spirito di Dio, la loro Anima immortale, che resterà sempre presente in noi!
Gesù vuole consolare fino in fondo i suoi, e prosegue dicendo: “Vi lascio la mia pace... Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. Una perdita non deve generare depressione, dolore, paura. Egli usa parole confortanti per i suoi discepoli: ma le sue sono anche parole, lo ripeto, che costituiscono la più bella e consolante prospettiva per quanti di noi, ogni giorno, piangono il distacco di una persona amata.
Sono in genere altre le parole consolatrici che in tali frangenti sentiamo da amici e parenti:
“Dio si prende i fiori migliori”; oppure: “Dio si porta via sempre i più buoni”; o ancora: “È la vita, vedrai che col tempo il dolore passerà”. Sono indiscutibilmente parole belle, parole vere, sincere; ma le parole umane, anche se belle e profonde, difficilmente arrivano a toccare l’anima. A volte, per assurdo, è preferibile il silenzio; una dimostrazione di “esserci”, una presenza silenziosa. Nella mia recente esperienza (perdonate la nota personale), ho particolarmente apprezzato proprio questa “muta”, ma “presente”, consolazione.
“Consolare” (dal latino cum-solus), significa infatti “stare con chi è solo”: senza dire nulla, senza fare nulla: solo esserci, assicurare la propria presenza, il contatto, lo stare vicini: “Prendo la tua mano; non ti dico nulla, ma sto con te. Guardami negli occhi e saprai che io ci sono. Non posso vivere questi momenti per te, al posto tuo, ma posso viverli con te”.
Gesù ha rassicurato i suoi proprio in questo modo, assicurando nei loro cuori la costante presenza del suo Spirito, del suo Amore! E lo fa continuamente anche con noi.
Per questo dobbiamo apprezzare in pieno questa presenza del Consolatore dentro di noi. È il nostro Ispiratore, il nostro Avvocato. Dobbiamo trovarlo. Sentirlo. Ascoltarlo.
Se ci sentiamo “abitati” dentro, è impossibile sentirci soli. Se invece continuiamo a soffrire di solitudine, vuol dire che in noi qualcosa non funziona, vuol dire che non permettiamo a nessuno di entrarci dentro, neppure a Dio.
Eppure la nostra forza, la nostra bellezza sta tutta lì, dentro di noi. La forza di un albero non sta in quello che si vede all’esterno, nelle foglie, nei rami o nel tronco. La sua forza sta nelle radici, in ciò che non si vede, in ciò che gli scorre dentro. È così anche per noi.
La società di oggi si preoccupa esclusivamente di sviluppare l’apparire, l’esteriore delle persone: devono essere sempre più belle, più ricche, più eleganti, più ambiziose, più importanti. Ma così genera solo frustrazioni, fatue illusioni, che finiscono per avvelenare la vita di tutte quelle persone che non hanno ancora capito che la loro bellezza, la loro forza, la loro importanza è l’esatta proiezione di quanto custodiscono dentro.
Esaminiamoci allora, osserviamo com’è la nostra vita: se non ci piace come siamo fuori, vuol dire che non abbiamo ancora scoperto, ancora non abbiamo conosciuto né ascoltato, Colui che dal di dentro ci suggerisce come vivere una Vita vera e autentica. Amen.


giovedì 21 aprile 2016

24 Aprile 2016 – V Domenica di Pasqua

«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,31-35).

Siamo durante l’ultima Cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai suoi. Sta raccomandando loro di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, quando di punto in bianco, con il viso divenuto improvvisamente serio e sofferente, rivela una cosa terribile: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21).
Non ci credono. Non può essere: “Ma come? Uno di noi? Impossibile! Noi siamo stati e siamo sempre al tuo fianco!”. Tra loro cala lo sgomento, il dramma, la costernazione, il dubbio. Nessuno ha idea di chi possa essere il traditore: non riescono neppure a immaginare che uno di loro si sia macchiato di tradimento nei confronti del loro maestro. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Signore, chi è?”. “È colui per il quale inzupperò il boccone e glielo darò”, risponde Gesù.
Noi in genere leggiamo queste parole di Gesù come un atto d’accusa irrevocabile; in realtà esse lasciano trapelare l’estremo tentativo di distogliere Giuda dal suo insano proposito. Egli ha provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutto il suo amore, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma è stato tutto vano. Anche l’offrirgli il boccone d’onore non è servito a nulla.
Per capire meglio la portata di questo gesto, dobbiamo contestualizzarlo nelle usanze di allora, quando cioè il padrone di casa dava inizio ai pranzi di gala intingendo del pane nella salsa o nel cibo, porgendolo all’ospite d’onore. Gesù fa capire a Giuda che lo considera l’ospite più importante, colui che merita tutta la sua attenzione e la sua preoccupazione, perché è lui, tra le sue pecore, l’unica in pericolo di perdersi irrimediabilmente.
Con questo gesto affettuoso Gesù sembra dirgli: “Amico mio, io tengo tantissimo a te; anche se conosco bene le tue intenzioni, la tua avidità, la tua doppiezza, la tua ambiguità, io ti amo e ti rispetto comunque, non guardo al male che tu stai per farmi. Ti va allora di lasciarti amare? Io dimentico tutto ciò che ti riguarda. Non mi interessa. Una cosa sola mi interessa: che tu ti lasci amare da me!”. Noi sappiamo però che Giuda rifiuterà; ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.
Ed è a questo punto che inizia il vangelo di oggi: “Quand’egli fu uscito...” (Gv 13,31).
Giuda è dunque uscito, se n’è andato: neppure Gesù, che è Dio, è riuscito a far breccia nel suo cuore. Gesù, con lui, ha fallito. E continua purtroppo a fallire ancora, con tanta gente, perché neppure Dio riesce a cambiare chi non vuol saperne di cambiare. Può fare di tutto, può dimostrare di amarlo alla follia, può offrirgli gli strumenti più impensabili, può assicurargli tutto il suo aiuto, il suo incoraggiamento, ma non può, per la libertà che gli ha lasciato, obbligarlo a fare ciò che non vuole.
Il testo prosegue poi con una frase di difficile comprensione, una frase che assomiglia tanto ad un giochetto di parole: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito” (Gv 13,31-32).
Vediamo un po’ di capirci qualcosa: sappiamo che immediatamente prima, Gesù aveva fallito il suo estremo tentativo di salvare Giuda: è forse questo il motivo per cui subito dopo si parla di gloria? Assolutamente no, non c’è molto da gloriarsi di fronte ad un rifiuto, ad un insuccesso!
Eppure è proprio questo fallimento, questo insuccesso, che ha messo in evidenza la vera natura di Gesù, che ci ha dimostrato in maniera chiara chi è Lui e quanto gli sta a cuore la salvezza dell’uomo: Dio è l’Amore assoluto e totale, e grazie ai meriti del Figlio, concede questo suo amore gratuitamente e indistintamente a tutti gli uomini che Egli ha riscattato. Anche a quelli non lo meritano. Anche a quelli che tradiscono. Anche a quelli che lo rifiutano. È questo il motivo per cui “il Figlio dell’uomo” viene glorificato; è questo il motivo della sua gloria. Ecco allora che partecipare alla sua gloria, significa amare gratuitamente come ha fatto Lui, senza chiedere nulla in cambio, senza avanzare pretese; amare solo per la sovrabbondanza di amore che Egli ha riversato nei nostri cuori. Dio non lo vediamo, è vero: è difficile amare chi non vediamo, chi è lontano; abbiamo però i nostri fratelli che ci stanno sempre vicino, abbiamo il nostro prossimo, che vediamo continuamente: amando loro, è come se amassimo Lui, perché chi ama loro, ama Lui.
Non mettiamo mai in discussione l’Amore di Dio per le sue creature: vicine al suo cuore, o lontane... fedeli o infedeli alla chiesa... Dio ama tutti allo stesso modo, e senza necessità di meritare il suo amore; perché è già nostro dal primo istante di vita in questo mondo; tutto quello che dobbiamo fare è semplicemente accoglierlo. Certo, è difficile spiegarci l’esistenza di un amore così totale, unilaterale, gratuito: ma per nostra fortuna c’è!
Poi Gesù si rivolge ai discepoli e li chiama: “Figlioli”, letteralmente “figliolini” (Gv 13,33).
È un’espressione di grande amore, di tenerezza, ma anche una constatazione: “Siete ancora piccolini. Un giorno forse capirete, ma non ora. Dovete ancora crescere!”. Cosa dovranno capire i discepoli? “Io sono con voi ancora per poco; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei lo dico anche a voi: dove vado io voi non potete venire” (Gv 13,33).
È chiaro che non si tratta qui semplicemente di un motivo storico-geografico: nel senso che Gesù muore, va in cielo nella Gloria del Padre, e gli apostoli, continuando a vivere quaggiù, non possono seguirlo. Quel “dove vado io voi non potete venire” ha una spiegazione più profonda: Gesù cioè vive in una dimensione d’amore tale che gli apostoli sono ancora ben lontani dal raggiungere; tant’è che uno lo ha tradito, un altro lo ha rinnegato più volte, e infine tutti scapperanno. Ancora non sono pronti.
In particolare non sono ancora pronti a immedesimarsi in quello che costituisce l’essenza degli insegnamenti di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato così anche voi vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Il testo greco parla qui di un precetto “kainèn”, “nuovo”: ma non “nuovo” nel senso cronologico, temporale (avrebbe usato il termine “neòs”), ma in senso “qualitativo”, di perfezione: in altre parole “vi do un comandamento che è superiore a tutti quelli che già avete, superiore per qualità, per valore, per dignità”. Ma perché un altro “comandamento”? Gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti, avevano già le 613 regole da seguire: non bastavano quelle, non erano più sufficienti? Gesù non ne vuole dare un “altro” comandamento; Gesù non aggiunge, al contrario egli vuol togliere, vuole semplificare. Praticamente riduce tutti i comandamenti ad uno solo, unico, totalmente nuovo, di un’altra dimensione; un comandamento che è tutta un’altra cosa, un comandamento che supera in qualità tutti quelli che già esistevano.
È il “comandamento dell’amore”: ma si può comandare l’amore? Certo che no! Allora perché Giovanni parla di “comandamento”, visto che l’amore non si può comandare? C’è una spiegazione: lo chiama in questo modo per assimilarlo agli altri comandamenti, obbligatori, che gli ebrei conoscevano molto bene; vuol metterlo cioè sullo stesso piano di importanza e di necessità, anzi su un piano ben superiore: “Vuoi che Dio ti ami? Vuoi essere in regola con Dio? Osserva il mio comandamento: ama gli altri come io li ho amati. È un dovere. Praticalo scrupolosamente, perché l’amore non si impone, ma si guadagna: l’amore non si può ordinare né pretendere, è solo offerto. Dovete seguire il mio esempio, dovete fare come ho fatto io”.
E come ha amato Gesù? “Ve l’ho appena dimostrato!”.
Siamo ancora, infatti, durante l’ultima Cena: Egli ha compiuto solo da pochi minuti un gesto che è la massima espressione dell’amore: ha lavato i piedi dei suoi discepoli. Gesù li ama al punto da prostrarsi davanti a loro, da umiliarsi lavando loro i piedi.
Questa è la “novità”, questa è la rivoluzione, questo è l’amore che Gesù ci ha insegnato: amare e servire i fratelli, anche se ciò dovesse intaccare la nostra “dignità”!
Questo è il cambiamento totale. La legge dell’amore vetero testamentaria, poneva come termine di paragone l’uomo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Il Nuovo Testamento invece pone Dio come termine di paragone: “Ama il prossimo tuo, come Io ho amato te”. Così, mentre il Dio degli Ebrei è un Dio da servire (devi, devi, devi), il Dio dei cristiani è un Dio che ci serve. È Lui che serve noi, è Lui che si dona a noi; non siamo noi che dobbiamo “dare” qualcosa a lui. “Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: Io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,19-21). Una rivoluzione assoluta.
Quindi il vangelo conclude: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
È il nuovo metodo di valutazione. Sono parole di estrema importanza, che meriterebbero una più attenta considerazione proprio da quei fedeli, “superpraticanti e chiesaioli”, che si reputano “osservanti” a tutto tondo, in virtù delle loro frequentazioni religiose. Gesù infatti non dice: “Si saprà che siete miei discepoli se andate a messa tutte le domeniche, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose, se visitate tutti i santuari mariani, se siete iscritti a tutte le associazioni cattoliche, se fate il Giubileo passando attraverso tutte le porte sante di Roma…”. No, Gesù non dice questo. Anzi all’epoca, contro gli scribi e i farisei che indossavano vestiti “speciali”, perché tutti al loro passare li riconoscessero come “gli eletti” di Dio, i perfetti “osservanti”, Egli non ha certo risparmiato parole e critiche particolarmente dure.
Il contrassegno che ci deve distinguere, non è quindi un vestito di tessuto pregiato, non è un indumento particolare, una divisa che ci differenzia dagli altri: il nostro “marchio”, quello che ci rende “visibili”, che ci fa riconoscere come veri seguaci di Cristo, è uno solo, l’amore. Tutti gli stemmi, le insegne, gli abiti, le decorazioni, i riti, le preghiere, cose di cui andiamo tanto fieri, non servono a nulla, non qualificano in alcun modo la nostra fede, la nostra vita interiore.
La nostra risposta alla chiamata di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi insegnamenti, si misura pertanto solo ed esclusivamente nell’amore; non tanto in un amore straordinario, eroico, da prima pagina dei quotidiani o da interviste televisive, ma nell’amore concreto, umile, nascosto; nell’amore discreto, vissuto nell’ombra della quotidianità: una carezza, un abbraccio, un bacio, un gesto di condivisione, un po’ di tempo donato gratuitamente a chi ne ha bisogno, a chi soffre, a chi è in difficoltà. Piccoli gesti d’amore che non hanno bisogno di grandi implicazioni, di grande visibilità; gesti d’amore però che raggiungono immediatamente lo scopo, nella riservatezza e nel silenzio di chi li compie. Sono i gesti d’amore che Gesù ci ha insegnato e che Lui gradisce in maniera particolare: le trombe, le onorificenze, gli encomi, lasciamoli a chi cerca il consenso di questo mondo, a chi dimostra di non aver ancora capito lo spirito guida del Vangelo e del “Comandamento nuovo”. Amen.



venerdì 15 aprile 2016

17 Aprile 2016 – IV Domenica di Pasqua

«In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano». (Gv 10,27-30)

Il Vangelo di oggi contiene i quattro versetti finali del discorso detto del “Buon Pastore”, incluso da Giovanni nelle catechesi di Gesù, fatte durante la sua permanenza a Gerusalemme.
In quelle poche parole è racchiusa tutta la personale e coraggiosa convinzione dei primi cristiani di fronte a persecuzioni, lotte, conflitti, maldicenze e difficoltà: chi ascolta e segue il Signore non deve temere nulla, perché nessuno può rapirlo, nessuno può strapparlo dalla sua Mano. Per questo motivo essi seguivano fiduciosi e impavidi le orme di Gesù: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono”.
Proiettiamo come al solito il senso di queste parole sulla nostra vita contemporanea.
Dobbiamo constatare prima di tutto che la maggior parte delle persone di oggi scambia l’ascoltare con l’udire. Udire è un fatto fisiologico, sensoriale, è percepire un suono, un rumore. Ascoltare, invece, appartiene alla sfera psichica, implica un atto consapevole della nostra volontà che provoca in noi una determinata reazione psico-motoria, significa sentire, seguire, fare proprio ciò che udiamo, rendendoci conto delle conseguenze che esso provoca in noi e attorno a noi. Ascoltare è coinvolgere tutta la nostra persona. Udire invece ci lascia indifferenti: noi infatti possiamo tranquillamente udire, senza per questo ascoltare.
A livello fisiologico l’orecchio è il responsabile del nostro orientamento spaziale, della coordinazione dei movimenti di una persona. È l’organo dell’equilibrio, del verticalizzarsi.
Nell’orecchio c’è tutto l’uomo. Il bambino nel grembo materno ascolta, sente: se non riceve vibrazioni affettive attraverso il tono della voce materna, rischia di restare emotivamente disturbato per il resto della vita.
Come uno ascolta, così parlerà. Come uno ascolta, così camminerà, canterà, agirà. Da come uno parla, ma ancor di più da come uno ascolta, noi capiamo chi abbiamo davanti.
Non si può diventare adulti, maturi, consapevoli, senza la capacità di ascoltare se stessi e gli altri. Da come ascoltiamo noi ci evolviamo. Quello che ascoltiamo ci costruisce. Perché il nostro orecchio è lo strumento con cui costruiamo il nostro cuore e la nostra anima.
Come la bocca ci fa crescere materialmente, permettendoci di introdurre attraverso di lei il cibo, così l’orecchio ci fa crescere intellettualmente, permettendoci di introdurre, attraverso di lui, l’ascolto. È l’organo che ci fa imparare, perché introduce dall’esterno ciò che non abbiamo in noi.
Abbiamo due orecchie e una bocca perché dovremmo ascoltare molto di più e parlare molto di meno. Abbiamo due orecchie e una bocca perché abbiamo bisogno almeno del doppio di cibo dell’anima, spirituale, rispetto al cibo fisico, materiale. Se vogliamo imparare, non abbiamo alternative: ascoltiamo! Non a caso si dice che la fede nasce dall’ascolto: dall’ascolto, non dall’aver udito tante parole buone!
Una delle espressione più usate nella Bibbia è: “Hanno orecchi per udire, ma non odono” (Ez 12,2). Ogni giorno udiamo migliaia e migliaia di parole, ma quante ne ascoltiamo?
In realtà oggi sono rari quelli che “ascoltano”. Se ascoltassimo di più noi stessi, potremmo scoprire che nel nostro intimo noi conserviamo una enorme quantità di suoni, di voci, di personaggi, tutti in attesa di essere individuati, esaminati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più potremmo evitare di cercare altrove quelle risposte agli interrogativi della vita che potremmo invece trovare dentro di noi. È chiaro che per noi è più comodo e meno impegnativo trovare qualcuno che ci dia delle risposte: chiedere pareri non costa nulla! Ma in questo modo le risposte che riceviamo sono estranee a noi, sono di “altri”, vengono dall’esterno, sono “diverse”; le domande invece sono le nostre, sono parte di noi, sono noi, sono la nostra vita. Vogliamo un suggerimento, un incoraggiamento a fare qualcosa? Cerchiamolo prima di tutto dentro di noi, nel silenzio della nostra anima! Se ci ascoltassimo di più e più attentamente, potremmo renderci conto di quanto il silenzio parli; a volte grida pure, in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è tanto quella che ci fa comodo immaginare, ma è quella che viviamo, quella che abbiamo davanti, quella che si aspetta il nostro concreto coinvolgimento.
Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così assurda; sentiremmo più nettamente le esigenze dell’anima, i richiami del profondo, i richiami del nostro cuore.
Se sapessimo ascoltarci bene, capiremmo anche l’importanza della Parola di Dio, la profondità e la forza del vangelo; sentiremmo l’energia e la potenza vulcanica delle Sue parole.
Noi invece udiamo tutto, voci infinite che entrano e che escono, ma non ascoltiamo nulla: non tratteniamo nulla, non percepiamo alcuna vibrazione; sono soltanto voci che non possono attecchire e mettere radici in noi. Siamo chiusi. E più siamo chiusi, meno ci ascoltiamo, e sempre meno riusciamo a comprendere la vita, gli eventi che ci circondano.
In compenso parliamo; parliamo troppo, e troppo spesso a sproposito, tranciamo giudizi affrettati su persone e avvenimenti, senza comprenderne la portata, il valore: il nostro è un “vaniloquio” torrenziale, un parlare meccanico e vuoto, un parlare solo perché abbiamo una bocca.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (10,27).
“Conoscere” per noi significa sapere chi è uno, dove abita, quanti anni ha e cosa fa nella vita. Ma che conoscenza è questa? È una conoscenza di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d’identità. Per la Bibbia, invece, “conoscere” significa “fare esperienza, incontrare, sentire, comprendere, percepire”.
Molte persone credono di conoscersi, ma la loro conoscenza si ferma solo ad un livello mentale. Per conoscersi, invece, dobbiamo percepire il nostro essere interiore, dobbiamo sentirlo, ascoltarlo, sperimentarlo, dobbiamo sentire le sue vibrazioni, la sua vita palpitante. Dobbiamo avvertire la sua potenza, la sua forza. Solo se ci lasciamo coinvolgere e penetrare da Colui che ci inabita, potremo cambiare. Perché qualunque cambiamento proviene sempre da una vera e autentica conoscenza.
“Io do loro la vita eterna e non periranno mai; nessuno le strapperà (“arpàzein”) dalla mia mano (10,28). Se noi seguiamo il “buon Pastore, nessuno mai potrà strapparci da lui. Il verbo greco “arpazo”, vuol dire esattamente rapire, strappare via, prendere, rubare.
Nella nostra vita siamo tutti presi dalla paura di venire strappati via da qualcuno, da qualcosa che ci appartiene: paura di perdere la nostra vita e quella dei nostri cari, paura di rimanere vittime di incidenti stradali, paura di rimanere in balia di attentatori, di ladri, di rapinatori, paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, i soldi… La paura, l’ansia, è la nostra compagna di viaggio.
A guardar bene, però, perché aver paura che ci venga rapinato, strappato di dosso, un qualcosa che in fondo non è nostro, non ci appartiene? Cosa abbiamo infatti di veramente “nostro” in questa vita? Di chi e di che cosa possiamo veramente dire: “è mio”? Di nulla: perché tutto ciò di cui disponiamo, tutto ciò che conquistiamo, lo abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: nudi di tutto siamo entrati in questo mondo e nudi di tutto ce ne andremo. Verrà un giorno in cui dovremo lasciare tutto quello che pensavamo fosse “nostro”. È la fine di questa vita, è la morte. E questa prospettiva ci disturba, ci turba non poco.
In effetti Dio non vuole la morte dell’uomo, così, per principio, per un suo puntiglio personale: la morte in questo mondo l’abbiamo introdotta noi col peccato, e Dio l’ha lasciata per un motivo pratico: perché ci ricordasse continuamente, perché da lei imparassimo concretamente, che l’unica certezza nella nostra vita è Lui, solo Lui.
Ci piaccia o no, verrà un giorno in cui dovremo lasciare tutto, dovremo abbandonare famiglia, parenti, amici; verrà un giorno in cui non potremo più contare su di noi, sulle nostre forze, sul nostro prestigio, sulle nostre ricchezze; verrà un giorno in cui potremo solo stendere le nostre mani per afferrare le mani che Egli ci tende: “Signore, non ho più nulla, ho solo Te. Mi fido di Te e mi lascio andare”.
Ecco allora che seguire Gesù in questa vita significa liberarci dall’illusione di possedere o trattenere qualcosa di nostro: perché la vita stessa non è nostra. Nulla mai potrà essere nostro, ma il dato consolante è che noi siamo di Dio. “Io sono di Dio; mi sento nel palmo della Sua mano, soltanto lì mi sento al sicuro, lì nulla può farmi più paura. Soltanto se viviamo con Lui e in Lui, possiamo vivere serenamente.
Infatti, chi ha paura di vivere è perché ha paura di morire e chi ha paura di morire ha paura di “perdere” qualcosa. Chi ha paura di vivere è perché non conosce ancora Dio e non ha ancora capito chi è Lui, e cosa rappresenta per noi. Noi siamo Suoi e con Lui non abbiamo nulla da perdere, perché niente e nessuno può strapparci dal Suo abbraccio. Amen.


giovedì 7 aprile 2016

10 Aprile 2016 – III Domenica di Pasqua

«Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,1-19).-

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, quindi non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere: “No” (21,5). Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo felici di come siamo, che ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, insoddisfatti di tutto e di tutti. Quindi di veramente prezioso da regalare, non abbiamo proprio nulla. Anzi, un qualcosa di importante su cui lavorare ce l’abbiamo: è l'ammettere a noi stessi che non abbiamo nulla, che non siamo proprio nessuno! Un fatto che ci deve preoccupare: perché non possiamo risollevare la nostra situazione negativa se ci ostiniamo a ignorarla. Quindi la prima cosa da fare è prenderci di petto, e dirci francamente: “Così non va! Per che cosa viviamo? Che scopo ha la nostra vita?”. E fare una decisa inversione di marcia: una decisione che, vi assicuro, per farla ci vuole tanto coraggio: ma perché? Perché a noi piace vivere illudendoci, prospettandoci scenari di benessere e felicità, liberi da qualunque problema o imprevisto; un mondo posticcio e irreale in cui fingiamo di stare veramente a nostro agio: “Ho un lavoro, ho una casa, ho dei figli, non mi manca niente!”. Indossiamo la maschera pubblicitaria del “Mulino Bianco”, della famiglia felice, e tutto fila liscio. Ma dentro di noi? Meglio non guardare: perché troppo spesso moriamo di solitudine, di delusione, di malcontento, di rabbia, di vuoto.
Allora, la prima condizione per poter guarire, come già detto, è che dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che siamo noi, e non gli altri, i malati gravi: siamo cioè noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo muoverci.
Dio ci aiuta certamente, ci mette veramente del suo, in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con una azione dall’esito istantaneo: un evento dal cielo, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi; una parola magica che, solo a pronunciarla, otteniamo quanto vogliamo. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
È quanto Gesù richiede ai suoi: dopo una intera notte di faticoso lavoro senza alcun risultato, Egli li rimanda in mare, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora li manda con un ordine ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (21,6). La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
E lo richiede anche a noi; Gesù anche con noi adotta la stessa procedura: dopo i nostri fallimenti, ci rimanda ogni volta nella nostra vita, nel nostro quotidiano; e non ci dice di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di stravolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. L’ordine che impartisce anche a noi è sempre lo stesso: “Fai le cose di prima, le stesse, ma adesso falle in maniera razionale, consapevole. Non vivere più con la testa fra le nuvole; non aspettare che le tue difficoltà spariscano magicamente, fatti delle domande serie, osservati, guardati, vedi come reagisci, chiediti cosa vuoi da te, qual è il tuo ideale, cosa ti appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire supinamente la maggioranza, iniziamo col chiederci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Cosa mi va di accettare e cosa non mi va di accettare? Mi sta bene questo comportamento? Quali dinamiche mi muovono? Quali sono le paure che mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono autentico in quel che faccio? Quali maschere preferisco indossare?”. Dobbiamo essere convinti che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa. E poi ancora: “In che cosa sono unico? Che cosa mi attrae nel profondo (perché “lì dove c’è il tuo cuore, lì c’è il tuo tesoro”)? Per che cosa voglio vivere? Quanto sono disposto a mettermi in gioco, ad espormi, a rischiare?”.
Noi ci illudiamo invece che quanto è in grado di saziare i nostri cuori si trovi al di fuori di noi (21,3). Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci fa cantare di gioia, ciò che ci fa sentire figli unici, e insieme fratelli, amati dallo stesso Dio, ciò che ci rende così vivi da lodarlo e ringraziarlo per il dono della vita, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova fuori di noi ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo “stabilire il contatto” con noi stessi, dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi che dobbiamo stare, con noi e con il Dio che ci inabita. Dobbiamo conoscerci, non dobbiamo fuggire di fronte ai nostri mostri, ma familiarizzare con essi, non dobbiamo trascurare il potere negativo dei nostri istinti, ma dobbiamo individuarli, dominarli e farceli amici; dobbiamo essere i padroni assoluti del nostro mondo interiore, sapendo di trovarvi sempre presente il Dio della Vita.
Questo fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava (21,7): un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!” (21,7). Così anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e caducità, potremo un giorno “vedere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia.
Ma, in sostanza, cosa dobbiamo fare? In che modo possiamo “vederlo” (e non solo “pensarlo”)? Come possiamo percepirlo? Come sentirlo? Sicuramente non facendo cose straordinarie, eclatanti, ma nei piccoli eventi di tutti i giorni, come nel dare una risposta “diversa” dalle solite, nell’iniziare una cosa nuova, nel riuscire finalmente a dire un “no”, nell’ammettere una paura che ci destabilizza, nel riuscire a pronunciare uno “scusami”, nel lasciarci andare alle emozioni, nel dare spazio ad un’idea creativa e un po’ pazza, nell’adottare un comportamento controcorrente, nel fare un incontro che non ci aspettavamo, nell’ammirare un tramonto sul mare, in una passeggiata in montagna, nello specchiarci in uno sguardo o in un sorriso di nostro figlio, in una complicità con nostra moglie, ecc.. Ecco, è in queste piccole cose che possiamo dire: “È il Signore!”, e riscoprire in noi una nuova concezione di vita.
La gente cerca Dio nelle visioni, nelle apparizioni, perché non “lo vede” nella propria vita. Per questo lo cerca “fuori”. Ma Dio ci appare, ci incontra, solo nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità, un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è per noi solo se lo “vediamo”. Altrimenti è un’idea che abbiamo in testa: forse è Lui, forse no. Se lo “vediamo” non può esserci alcun dubbio; ma se “non lo vediamo”, finiamo per credere in qualcosa che non sappiamo cosa sia.
Dove lo possiamo “vedere” concretamente? Soltanto dove c’è “carità e amore”. Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, certamente “non vedono” il Signore. Come è successo a Pietro. Egli, infatti, non riconosce il Signore: lui è l’uomo razionale, efficiente, irruento; è l’uomo dell’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore. Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e gli dice: “È il Signore!”.
Pietro in pratica assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
Grazie a questo suo carattere intermittente, Pietro compie una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica. Una volta riconosciuto Gesù, infatti, senza alcuna esitazione, egli si getta in mare per raggiungerlo. Era al largo, tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Questa decisione improvvisa di Pietro rivela però un forte simbolismo: egli deve buttarsi in acqua, perché deve “bagnare” (21,7) la propria presunzione, la propria sicurezza. Deve cioè fare un bagno di umiltà. Deve ricredersi. Deve immergersi anche lui nel “mare” dell’amore. Deve insomma ridare nuovi impulsi, nuovo slancio, nuova vitalità e duttilità alla sua mente poiché, continuando con la rigidità inflessibile dei suoi schemi mentali, avrebbe rischiato di bloccare il suo cuore e di condannare a morte certa la sua anima.
Sempre per questo il motivo, prima di buttarsi in acqua, “si veste” (21,7): ma se mentre pescava era nudo, che senso ha rivestirsi proprio per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa infatti per Pietro indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno bisogno sempre di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. Lo stesso bisogno che c’è anche oggi per quei “rappresentanti” del sacro, preti e laici che siano, che si ritengono detentori unici della verità: che si credono altrettanti Dio in qualunque situazione e in qualunque campo! Anche oggi ogni tanto rispunta quell’intransigenza, quell’irruenza “petrina”, che hanno bisogno di un buon lavaggio di umiltà. Ecco perché i capi, i pastori del gregge di Dio, devono imitare Pietro che, immergendosi nel mare, ha purificato le sue colpe, ha affrontato le sue paure, ha riconosciuto e abbandonato le sue rigidità: solo in questo modo infatti, egli ha potuto essere scelto da Gesù come capo di quella barca (la chiesa), da Lui destinata a portare frutto (una pesca miracolosa) e a rimanere viva nei secoli grazie alla continua forza (lo Spirito, l’amore e la presenza di Gesù) che la sospinge.
È Pietro infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra (21,9), ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora” (21,10). Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima di conferire il mandato a Pietro, infatti, Gesù antepone un esame sull’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèin”. Ora, in greco, “Agapào” indica l’amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece implica un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. È diretto Gesù, esige una risposta netta, un amore da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèin”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, incondizionato, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene” (“filèin”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” ed usa “filèin”, lo stesso verbo di Pietro: “Simone, mi vuoi bene (fileis mè)? In pratica egli accetta il suo “ti voglio bene”, si abbassa, si accontenta, si avvicina alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore (18,27); tre volte gli ha detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Le posizioni di entrambi sono ancora lontane: “Mi ami come io ti amo?” chiede Gesù; “Ti voglio bene”, risponde Pietro. Egli sa di essere in un enorme deficit d’amore; ha bisogno di crescere, di mettersi in gioco, di rinnovarsi, di ammettere le proprie zone d’ombra e di falsità.
Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti consideri esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù chiude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo già detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi decidere la direzione della tua strada, ma devi anche lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno e stabilire lui dove andare. Ma avere fede, amare Dio, è lasciare spazio a Lui: lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno può dire a priori, infatti, che Dio ad un certo punto non voglia rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non voglia qualcosa di più grande da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia lasciare il lavoro, le amicizie, le nostre idee, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e le nostre idee?
Noi amiamo immaginarci arrivati, celebri, ricchi, sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili: ma chi può assicurarci che un domani la nostra vita non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa, esattamente all’opposto? L’importante è che noi siamo sempre pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.