mercoledì 30 marzo 2016

3 Aprile 2016 – II Domenica di Pasqua

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi si apre prospettandoci una situazione particolarmente difficile per i discepoli: dopo essere stati testimoni della tragica fine di Gesù, si rifugiano nel cenacolo e, presi dal terrore, si rinchiudono dentro; pensano infatti che ciò che è capitato a Lui, un domani avrebbe potuto capitare anche a loro. È chiaro che sono pieni di tristezza per la scomparsa di Gesù, ma anche colmi di rabbia per ciò che è accaduto: hanno ucciso il loro maestro, il loro punto di riferimento; e oltretutto lo hanno ucciso ingiustamente, con motivazioni pretestuose e false.
Quando Gesù infatti appare loro, deve dire: “Pace a voi, tranquillizzatevi”, perché il loro cuore è pieno di rabbia e di odio.
È arrivato il momento in cui ognuno deve prendere su di sé le proprie responsabilità. È arrivata l’ora in cui ognuno di loro deve uscire, andare per il mondo, e continuare la sua missione. La parola d’ordine è: “Perdonate”, “lasciate andare” (è questo il significato del verbo greco “afìemi”).
Probabilmente qui Giovanni mette in bocca a Gesù una formula sacramentale, già in uso comune quando lui scrive il vangelo. Il senso è molto semplice: “Perdona, lascia andare”: in altre parole “raccogli tutti i sentimenti negativi che hai dentro il tuo cuore (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), tirali fuori, liberali, manifestali in tutta la loro intensità. Non trattenere nulla, accetta la realtà così com’è”.
La Vita ci ha tolto chi amavamo più di ogni cosa al mondo, e per questo abbiamo smesso di vivere cristianamente? Vogliamo forse vivere sempre così, con l’astio nel cuore, pensando di essere stati traditi da Dio? Non abbiamo capito nulla! Lasciamo andare: se non liberiamo il nostro cuore, rimarremo attaccati ogni giorno, ogni momento, a quella tremenda ferita; continueremo, giorno dopo giorno, a coltivare il nostro ingiusto e sconveniente risentimento.
Non perdonare significa “trattenere”: ma in questo modo la vita non scorre più. Se noi tratteniamo dentro di noi le nostre emozioni, la rabbia, l’odio, impediamo che la vitalità del nostro cuore, della nostra anima, possa continuare a scorrere. Diventiamo aridi, secchi, avvelenati. È proprio questo il motivo per cui incontriamo tanta gente infuriata, arrabbiata, nervosa: non perdona, non lascia andare, trattiene tutto.
Gesù diceva agli apostoli: “Se entrate in una città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente” (Lc 10,11). Cosa vuol dire? Semplicemente: “Perdona!”. Non facciamone un’onta personale: ci hanno rifiutato, ci hanno detto di no? esprimiamo il nostro dolore, la nostra rabbia, ma lasciamo lì quel dolore, non portiamocelo dietro. Lasciamolo andare.
C’è un’altra cosa poi, molto importante, che Giovanni qui vuol farci capire: che la nostra fede, il nostro l’amore a Dio, cresce proprio dalla nostra vulnerabilità, dall’incontro, a volte anche traumatico, che abbiamo con le nostre ferite.
Se andiamo più a fondo, infatti, possiamo notare come nella prima visita fatta da Gesù risorto ai suoi, manchi proprio l’apostolo che si chiama Tommaso: il quale, per credere, vuol vedere e toccare personalmente le ferite di Gesù: mani, piedi e costato. Ora il nome Didimo, con cui veniva chiamato Tommaso, in greco, significa “gemello”: descrivendo quindi la sua esperienza, Giovanni avrebbe voluto descrivere l’esperienza di tutti noi, di tutti quei suoi “gemelli”, cioè, che si decidono a credere in Dio, ad amarlo come merita, soltanto dopo aver “toccato” le ferite; in pratica Giovanni vuol dirci qui che per tante persone l’inizio di un cammino di fede e di amore, coincide con il verificarsi di prove dolorose, di prove che lasciano ferite profonde: solo ragionando, meditando su queste ferite, esse scoprono la fede, si rifugiano in Dio, chiedono a Lui il conforto e l’aiuto per superare le loro difficoltà.
Infatti, come si comporta in genere la gente? Se ha paura, cerca di non sentirla. Se ha dei bisogni, cerca di non ascoltarli. Se ha subito un trauma, è meglio lasciarlo così com’è. Se c’è qualcosa da affrontare, meglio non farlo perché poi si ottengono conseguenza ancor più gravi.
Solo in quei casi che appaiono insostenibili, in quei casi particolarmente dolorosi, le persone si pongono il problema della fede, del soprannaturale, di un Dio che può aiutarle. Ed è proprio in questi casi, fa capire Giovanni, che “bisogna toccare le ferite, bisogna valutarne l’entità e le cause, bisogna ripulirle, curarle, perché finché una ferita è viva, finché sanguina, ci fa sì urlare, ma ci mette anche di fronte alla necessità di affrontarla e di cercare le cure più idonee”. Le ferite ci rendono vulnerabili (vulnus, infatti vuol dire ferita): ma ci rende anche molto più prudenti, più coscienziosi, più razionali. Ed è in quei momenti che sentiamo particolarmente imperioso il bisogno di conforto, di protezione, di rassicurazioni, di cure riabilitative.
È allora che ci ricordiamo di Dio, è allora che sentiamo il bisogno di ricorrere a Lui, di portare da Lui, in chiesa, il nostro cuore ferito; è allora che gli chiediamo aiuto, pietà, misericordia: chi di noi non si è comportato in questo modo? Chi di noi non ha mai avuto ferite dalla vita? Chi di noi a sua volta non ha ferito? Andiamo in chiesa con le nostre mani ferite: quelle mani che sono state legate, ferite, paralizzate; quelle mani, le nostre mani, che a loro volta hanno anche colpito, umiliato e ferito.
Allora entriamo nella casa di Dio, e con quelle mani prendiamo Gesù (la comunione) perché venga dentro di noi e ci guarisca. Lo mangiamo perché raggiunga il nostro cuore e lo ristabilisca, lo risani. Ebbene, per tante persone, la comunione rappresenta proprio questo incontro con Dio, un incontro ravvicinato che infonde la forza di guardare in faccia a ciò che fa male, a ciò che non va, a ciò che non ci piace, a ciò che metteremmo volentieri in un angolo, a ciò che non vorremmo mai più vedere.
E l’Eucarestia, come fece Gesù con Tommaso, ci rassicura, ci dice: “Dai un nome a ciò che ti fa male; metti la tua mano; tocca ciò che ti fa soffrire, incontra il tuo dolore; prenditi cura della tua sofferenza; apriti su ciò che ti fa male”. Ricorrere all’Eucarestia infatti è l’unico mezzo a nostra disposizione per trovare la forza di “toccare” le nostre ferite, per metterci mano, per guardarle e curarle. L’Eucarestia in queste circostanze, è infatti terapeutica, risanatrice, curativa, lenitiva, trasformativa. E Giovanni vuol dirci tra le righe proprio questo: “la tua Eucaristia deve essere quell’incontro che ti salva, che ti guarisce”.
Del resto, sempre se leggiamo attentamente, il testo del vangelo ci offre molte allusioni alle nostre Eucarestie domenicali. Così, “il primo giorno dopo il sabato” (20,19), è infatti la domenica, il giorno del Signore, il giorno dell’Eucarestia. “Pace a voi” (20,19.26), è il saluto di Gesù, e il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano per il banchetto eucaristico, è il saluto che ci viene rivolto alla messa della domenica . Il toccare (20,27) è il segno del toccare/ricevere il corpo di Cristo nella Comunione. “Mio Signore e mio Dio” (20,28) è praticamente ciò che deve succedere in ogni Eucarestia: un’esperienza, un incontro vivo, colmo di gioia e di riconoscenza.
Tommaso in realtà non rappresenta colui che dubita, ma colui che deve fare esperienza per poter credere, colui che deve sostenere un cammino di verifica della propria fede. Ed essendo lui nostro “gemello”, (Didimo), ciò che vale per lui, vale anche per tutti noi: solo che per noi è impossibile incontrare Gesù come è successo a lui. Dio noi non lo possiamo incontrare così; non lo possiamo incontrare fisicamente. Fisicamente Dio si è incarnato una volta, si è manifestato uomo come noi in Gesù: ma Gesù è morto oltre duemila anni fa, è risorto e ha raggiunto il Padre in cielo: e con questo ha concluso la sua “manifestazione” umana.
Del resto Gesù aveva già previsto questa difficoltà nel credere in Lui, tant’è che disse: “Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (20,29).
A questo punto, però, nasce spontanea una domanda: dove, come e quando possiamo noi vedere Dio e credere in Lui? Come possiamo noi incontrare personalmente il Dio della vita? Come possiamo far vivere, far crescere la nostra fede in Lui? Come possiamo coltivarla, fortificarla, purificarla questa fede?”. La risposta ci viene suggerita dal vangelo di oggi: soltanto attraverso l’esperienza interiore; possiamo cioè vedere e sentire Gesù solo nel nostro cuore, nella meditazione, nella preghiera, nel colloquio spirituale con lui, e soprattutto, in maniera ottimale e concreta, nell’Eucarestia.
Ecco perché dobbiamo fare molta attenzione nelle nostre Eucaristie: ecco perché non dobbiamo confondere il fine con i mezzi. I mezzi, come il canto, le letture, la celebrazione, le parole, il rito, la liturgia, ci devono servire per raggiungere il fine, che è quello di “incontrare” Dio. Ma se la nostra messa non è un’esperienza intima, se non usciamo dalla messa con la sensazione chiara, netta, distinta, di averlo sentito vivo in noi e nella comunità presente con noi, dobbiamo porci delle serie domande: perché fare Eucarestia significa rendere vivo un Vivo, non un morto. L’Eucarestia non è il ricordo di un morto: ma è la nostra esperienza pasquale di Colui che in quella messa si è fatto realmente cibo per noi, e sempre per noi è morto e risorto, per vivere sempre al nostro fianco. L’Eucarestia è quindi un’esperienza sanante, guaritrice; è un incontro con Colui che è la Vita, con Colui che ci fa vivere. Se l’incontro avviene, noi allora Lo vediamo, Lo percepiamo chiaramente, ci cambia. Se invece tutto ciò non avviene, non c’è incontro, non c’è Eucaristia.
Dobbiamo avere il coraggio di porci delle domande dure, precise, oneste, per non prenderci in giro; tipo: “le mie Eucarestie sono esperienze di vita, del Signore Risorto? Quando esco, ne esco trasformato? Parlano al mio cuore, lo fanno vivere, vibrare? Quando vado all’Eucarestia cosa cerco? Un’esperienza, la Vita, un anestetico, un calmante? Posso dire dopo un’eucarestia: Sì, io l’ho visto, l’ho taccato, l’ho incontrato e Lui ha parlato al mio cuore?”.
E Giovanni conclude oggi il suo vangelo con una frase meravigliosa: tutto questo è scritto perché crediate che Gesù è il Cristo, e perché abbiate la vita (20,30-31).
E allora: tutto ciò che avviene in chiesa, durante un’Eucarestia, accresce veramente la nostra vita? Ci fa vivere di più? Perché Lui è la Vita vera: incontrarlo è vivere di più e meglio. Amen.



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