giovedì 24 aprile 2014

27 Aprile 2014 – II Domenica di Pasqua

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!» (Gv 20,19-31) .
Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare noi, i discepoli futuri: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavando da tale incontro quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito, divulgando nel mondo la sua Parola e fondando la Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per proseguire nella Chiesa la loro stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che succede a noi ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: noi riviviamo, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto: egli è presente in mezzo a noi; non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di allora, forza di cui abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo esplodere la sua voce dentro di noi: “Pace a voi!”. Sono le stesse parole rivolte ai discepoli radunati nel cenacolo, parole con cui tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, salutano i fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione eucaristica.

Santa Eucaristia! Importanza e bellezza dell’Eucaristia! Noi settimanalmente possiamo ripetere la stessa esperienza vissuta dagli apostoli! È il nostro appuntamento settimanale con Gesù, nel “suo” giorno, il “primo della settimana”, il “dies Domini”, il giorno del Signore.
È l’occasione sublime in cui possiamo parlargli francamente a tu per tu, confidargli le nostre paure, svelargli i nostri segreti, aprirgli le nostre “chiusure” ermetiche, appianare tutti i nostri contorti “distinguo”. Sì, perché l’Eucaristia è forza e perdono.
Prima di tutto è “forza”: perché noi tutti quando andiamo in chiesa, soffocati dalle nostre paure, dalle nostre chiusure, incontriamo il Risorto, incontriamo la Forza, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore misericordioso. E che ci succede? I battiti irresistibili del suo cuore, sovrastano l’aridità del nostro, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre tiepidezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà. Solo lì, in quel preciso momento, possiamo ritrovare la voglia di vivere e di ripartire; la voglia di aprirci, di cambiare; la voglia di essere migliori.
Nell'Eucarestia, davanti a Lui, noi ritroviamo l'energia per affrontare e superare tutto quello che ci sembra impossibile. È lì, alla presenza del Risorto dentro di noi che, al pari degli apostoli, sentiamo che nulla può farci più paura, nulla può più fermarci.
L’Eucaristia è poi “perdono”: Gesù nella sua vita terrena ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare. Ebbene: noi tutti, quando ci presentiamo alla sua Cena, rappresentiamo un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Ci presentiamo a Lui, confidando nella sua misericordia. Prima di sperare però il suo perdono, dobbiamo imparare anche noi a perdonare i nostri fratelli, e soprattutto imparare a perdonarci. Sì perché noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista: ma lui esiste, è lì, nel nostro cuore; ci corrode l’anima, ci incattivisce; anche se non lo vogliamo, nei momenti più impensati , egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare l’Amore e, riversando in Lui le nostre miserie, potremo a nostra volta rivolgere ai nostri fratelli il sentimento del vero perdono.
Ogni volta che noi andiamo a messa, dobbiamo permettere alla nostra anima di percorrere questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, la prostituta siamo noi; i peccatori siamo noi; i “pubblicani” siamo noi; i farisei siamo noi. E andiamo lì, davanti a Gesù, per ricevere il suo perdono: e l'Eucarestia ci fa vivere, ci fa felici, ci fa liberi, spingendoci a portare amore (perdono) dove non c'è.
Possiamo quindi dire che l'Eucarestia è l'incontro con le nostre ferite. E solo dopo averle “toccate”, come fece Tommaso con le ferite di Gesù (mani, piedi e costato), potremo anche noi esclamare: “Mio Signore e mio Dio!”; potremo cioè esprimere a Gesù la nostra più intima e sincera proclamazione d’amore. Con queste parole noi affermiamo la nostra personale esperienza di Gesù Risorto, il nostro incontro diretto con Lui: con gli occhi della fede, lo abbiamo visto, toccato, sperimentato personalmente. E a questo punto non abbiamo più bisogno che gli altri ci vengano a dire le loro di esperienze; noi abbiamo vissuto la nostra.
In realtà a nessuno può bastare le esperienze altrui. Dio è un'esperienza diretta, personale: ognuno lo deve “toccare”, vedere, incontrare. Altrimenti ci costruiamo delle teorie, ci facciamo delle idee, seguiamo delle intuizioni altrui, dei pensieri “fantastici”, ma non abbiamo nessuna esperienza diretta con Lui. Saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, ma non hanno mai sperimentato quanto sia inebriante degustarne un buon bicchiere; o come chi afferma di conoscere tutto sull’amore, per averlo letto o studiato sui libri: ma ignorano cosa vuol dire sentirsi amati, innamorati: è tutt’altra cosa. Con le parole “calore”, “vino, nessuno si è mai riscaldato o ubriacato! È l'esperienza delle cose che produce la vera conoscenza, quella del cuore. Esperienza (da “ex-perior”) vuol dire infatti provare, sentire, toccare, sperimentare.
Ecco perché le nostre liturgie eucaristiche non ci devono “parlare” di Dio; ce lo devono far sentire, toccare, sperimentare. E noi dobbiamo aver il coraggio di lasciarci coinvolgere, di lasciarci “toccare”, perché se ciò non avviene, le nostre belle liturgie non servono a niente: i canti, la partecipazione dell’assemblea, i gesti, le letture, tutto è liturgia “efficace”, soltanto se ci mettono in contatto con Dio. Ripeto: se le nostre celebrazioni eucaristiche, rigorosamente conformi alle norme liturgiche, non ci fanno sentire Dio, non ce lo fanno toccare, non ce lo portano nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono a niente, sono assolutamente inutili: sono insomma piacevoli evasioni dal quotidiano, sono momenti di ammirazione per il bello in se stesso; ma non sono l’incontro personale con il Dio della Vita; non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui ci “parla dentro”, con cui Lui entra in vibrazione con la nostra anima e la nostra sete di Infinito; emozioni che ci fanno fare i conti con le nostre realtà, le nostre risorse, le nostre potenzialità.
E concludo: nell’Eucaristia le nostre ferite, le nostre miserie, ci portano a Dio; e Dio, a sua volta ci porta alle nostre “ferite”, ci fa mettere il dito sulle nostre di piaghe. Perché solo “toccandole”, avendone la cognizione esatta, potremo curarle, potremo liberarcene.
Del resto, chi non ha ferite? Come si può pensare di vivere senza essere feriti? Allora chi non ha bisogno dell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere ferito, non sente il bisogno di andare da Colui che può guarirci? La Comunione della domenica fatta in grazia di Dio, è il suo balsamo, la sua crema, il suo unguento, l’unico medicamento valido per le nostre ferite. È in questo modo che Lui ci assicura accoglienza, protezione, accettazione, fiducia, amore.
Allora, andare a messa non è più un dovere, un atto abitudinario da fare, ma un bisogno di ricongiungerci con noi stessi, con gli altri, con la Vita, con l’Amore. Se comprendiamo questo, andare a messa la domenica sarà fonte di grande gioia per l’incontro con Dio che andremo a fare, sarà un bisogno impellente, improrogabile, del nostro cuore e della nostra anima. Amen.

mercoledì 16 aprile 2014

20 Aprile 2014 – Solennità di Pasqua

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).
Il vangelo di Pasqua ci presenta tre figure in movimento: Pietro, Giovanni e Maria Maddalena. Tutti e tre vanno al sepolcro, luogo di morte; ma per “vedere” Gesù, devono compiere questo tragitto e superare l'ostacolo della pietra. È un particolare che deve farci riflettere.
Nel “sepolcro” noi pensiamo di trovare la morte, la fine, la rottura di un’esistenza, il buio; invece... troviamo vita, bellezza, gioia di vivere. Il nostro incontro con Cristo inizia proprio da lì. Ma per poterlo incontrare, per poterlo “vedere”, dobbiamo fare i conti con un percorso e con quanto ci preclude ogni visuale: l’accesso a Gesù nel sepolcro è chiuso, ostruito da una pietra: una pietra pesante, un macigno, la cui rimozione ci sembra assolutamente impossibile; per cui, meglio ignorarla. Ma c’è: sì, perché la “pietra” in questione è l'incapacità di provare dentro di noi sentimenti veri, profondi, gioiosi; è la paura di mostrarci per quello che siamo, facendoci piuttosto esibire maschere e facciate diverse; “pietra” è la paura della vulnerabilità, del piangere; “pietra” è quel dolore silenzioso che ci urla dentro, quel segreto che nascondiamo in noi; è il dolore e la sofferenza per chi ci ha lasciato; pietra è il freddo, la solitudine che ci sentiamo dentro, che ci congela l’anima, impedendoci di tirar fuori il nostro amore; pietra è il terrore di morire, la paura delle malattie, l’angoscia di rimanere soli, il rimpianto per gli anni che passano inesorabilmente. Tutti abbiamo una pietra del genere con cui fare i conti: ma dobbiamo essere convinti che rimuovendola, troveremo qualcosa di completamente nuovo, di diverso: la pietra è il nostro motivo di morte che va superato, va spazzato via. Se lo ignoriamo, se lo evitiamo, non potremo mai incontrarci con Lui, non potremo mai trovare la Vita.
Nel nostro cammino, poi, dobbiamo come Giovanni, “inchinarci” per vedere l’interno del sepolcro; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo accettare umilmente la nostra debolezza, il nostro continuo cadere. Dobbiamo cambiare: e dobbiamo volerlo! perché se non lo vogliamo, non cambierà mai nulla, tutto rimarrà nelle tenebre. Il sepolcro rimarrà la nostra dimora stabile: ci sarà impossibile vedere lo splendore della “risurrezione”, il cambiamento radicale della nostra esistenza.
Pietro e Giovanni corrono: anche questo è importante, decisivo: non basta trascinarci pesantemente, controvoglia; non basta adattarsi a quello che fanno tutti. Siamo noi, io tu gli altri, che dobbiamo incontrarlo: nella nostra diversità, pur essendo tutti speciali, dobbiamo spingere al massimo; se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se traccheggiamo, non approdiamo a nulla, se non cominciamo a correre, ci precludiamo ogni risultato. Rimanere nel “sepolcro”, rimanere nelle nostre zone buie, significa rifiutare volutamente ogni invito, ogni tentativo della Vita di farci uscire.
Ci comportiamo un po’ come il bambino che sta per nascere: “Lasciami qui, non voglio! Se esco muoio, sto bene così come sto: perché mettere fine ad una vita tanto beata?”. Ma il bimbo non muore, anzi, al contrario, nasce alla vita! La stessa identica cosa succede alla morte: “Oddio, che paura! Non voglio morire! Cosa mi aspetta di là?” E anche questa volta si nasce a vita nuova, si entra in un’altra esistenza: al cui ingresso ci saranno due mani aperte, misericordiose, piene di amore, che ci accoglieranno, ci abbracceranno. Nel fondo della morte c'è sempre la vita.
Ci sono altre piccole cose che ci insegnano a Pasqua questa grande verità: per esempio, l’usanza di regalare ai bambini un uovo (adesso è di cioccolata perché è più buono, ma quand’ero bambino si usavano “le uova” bollite e colorate). Perché? Perché Pasqua, come l’uovo, è appunto il simbolo della vita, di qualcosa che nasce, di qualcosa di nuovo, di inaspettato, di imprevisto che viene alla luce. È il simbolo della nostra trasformazione, della nostra rinascita, del nostro passaggio decisivo da credenti in embrione, a discepoli maturi e convinti. Ma “risorgere” non è cosa facile. Anche l’uovo, come la pietra del sepolcro pasquale, offre una resistenza all’apertura: c’è uno scudo, una corazza, una barriera da superare perché qualcosa di nuovo possa sorgere. Allora augurarci “Buona Pasqua” vuol dire augurarci che questa trasformazione avvenga: che nella nostra vita possa nascere finalmente qualcosa di totalmente nuovo, di lungamente atteso, di meraviglioso.
La resurrezione deve essere per noi un salto esistenziale decisivo: il Gesù risorto non è tornato a vivere la vita di prima (il Gesù storico è morto per sempre); il Gesù risorto è passato ad una nuova dimensione, completamente diversa: ora Egli vive nella sua dimensione divina, celeste, eterna. In quanto Dio glorioso, egli continua comunque a vivere in mezzo noi; continua a vivere in ciascuno di noi, nell’uomo di ogni tempo. È una verità, questa, che ci lascia abbastanza indifferenti: siamo decisamente molto poco “spirituali”; per credere in Lui sul serio, vorremmo “vederlo”, toccarlo, sentirlo, percepirlo. Come san Tommaso. Come gli apostoli: che, dimenticata ogni paura, ogni esitazione, hanno poi affrontato ogni ostacolo, qualunque pericolo, perché lo sentivano vivo e presente dentro di loro e con loro. Ma sappiamo bene cosa ha detto Gesù in proposito: “…beati quelli che non vedranno e crederanno!”
La risurrezione, oltre che “conversione”, oltre che nascita ad una vita nuova, deve diventare allora, anche per noi, una missione, una risposta al suo invito di “testimoniarlo” nel mondo: “Sì, Signore, andiamo noi!”.
E, nonostante il nostro vezzo di scansare volentieri qualunque responsabilità, dobbiamo fare al meglio la nostra parte. L'umanità ha bisogno di noi; ha bisogno che noi, con la nostra vita da “risorti”, insegniamo agli uomini a vivere ad un livello di valori superiore.
L'umanità oggi è in grado di distruggersi: sembra che gli uomini, nella loro dissennatezza, mirino proprio a questo. Non c’è tempo da perdere: prima che accada, il “mondo” deve cambiare: la nostra società distratta, alienata, ripiegata su se stessa, deve “rinascere in spirito e verità”; deve assolutamente fare questo salto; ma per farlo ha bisogno di noi.
Nella nostra “risurrezione” abbiamo incontrato Cristo: non deludiamolo. Crediamoci! Non servono una cultura eccelsa, una lunga preparazione: gli apostoli erano come noi, gente semplice, ignorante. Ma è l’incontro con Gesù che li ha cambiati, come deve cambiare anche noi. Nel testimoniare Gesù, c’è una sostanziale differenza tra i sapienti, i dotti, e gli umili credenti: i primi, coloro che lo hanno studiato, trasmettono idee, teorie su di Lui; ma chi lo ha “incontrato”, chi lo “vive”, chi crede in Lui, trasmette la Vita, trasmette l’Amore.
Andate in tutto il mondo... io sono con voi” continua a ripeterci il Risorto. Che aspettiamo?
Noi possiamo e dobbiamo: basta esserne convinti. Virgilio infatti diceva: “Possono, perché credono di potere”. È proprio così! Mostriamo il volto di Dio al mondo intero: in modo che tutti i nostri fratelli possano finalmente esclamare in cuor loro, come Giobbe, “Dio, io ti conoscevo solo per sentito dire; ma ora i miei occhi ti vedono”. Amen.

giovedì 10 aprile 2014

13 Aprile 2014 – Domenica delle Palme

«Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea» (Mt 21,1-11).
Gerusalemme è la città che rifiuta Gesù; i suoi abitanti, quelli che gli preparano la croce.
Gesù non vuole entrare in Gerusalemme in un modo qualunque, ma predispone tutta una serie di preparativi che devono dare al suo ingresso un profondo significato simbolico, conforme in tutto a quanto previsto nelle Scritture: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zc 9,9). Egli entra in Gerusalemme non come un re che vuole impadronirsi del potere, che viene a giudicare e punire, ma come un re che intende servire.
Con questa azione simbolica Gesù vuole attribuire al suo ministero finale un valore paradossalmente regale. Colui che morirà in croce è colui che è entrato “regalmente”, trionfalmente nella città; una regalità che proietta la sua luce sulla croce; una regalità quindi non conforme agli schemi umani, ma alla logica di Dio: egli infatti non entra su carri trascinati da cavalli, come fanno i re e i trionfatori mondani, poiché la sua regalità non è basata sulla violenza, ma sulla giustizia e sulla pace.
La reazione coinvolgente della folla lascia intravedere qualcosa dei fermenti messianici che serpeggiavano nel popolo all’epoca del dominio romano. I loro gesti richiamano peraltro quanto si faceva normalmente per le processioni nella festa delle Capanne e quanto viene evocato dal Salmo 118: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. Le loro acclamazioni “Osanna al figlio di David” dimostrano che essi riconoscono in Gesù questo Re, che viene a salvare il suo popolo.
In sostanza a Gerusalemme viene offerta l’ultima possibilità per ravvedersi: ma questo non viene capito. La folla enorme e festante che accompagna Gesù infatti non è costituita dagli abitanti di Gerusalemme, ma dai pellegrini, che arrivano in città numerosi per l’imminente festa di Pasqua.
Gli abitanti dunque ancora una volta non gli vanno incontro: mantengono lo stesso atteggiamento di indifferenza, tenuto all’annuncio della sua nascita. Per essi Gesù continua a rimanere uno sconosciuto. Sono anche questa volta gli umili, i devoti, gli osservanti, i pellegrini, che in vista della città, stendono sulla strada i loro mantelli e i rami recisi dagli alberi. È in questo modo, semplice e popolare, che il re umile e mansueto viene intronizzato. Ma solo chi è altrettanto umile, misericordioso, mansueto, può cogliere in lui la sua vera immagine di Dio misericordioso: sotto la sua povertà può scorgere la ricchezza, sotto la vergogna l'onore, sotto la morte la vita immortale.
Siamo dunque alla fine del cammino di Gesù su questa terra. Ha faticato molto per far capire a tutti, con la sua vita, la sua testimonianza, il vero volto di Dio; ma la gente dimostra ancora di non aver capito nulla. A noi oggi viene spontaneo dire: “Certo che a quel tempo erano proprio duri di comprendonio!” Ma noi, tanto critici, siamo proprio certi che ci saremmo comportati diversamente? Non siamo forse noi quelli che, quando ci fa comodo, pensiamo a Dio soltanto come ad uno che ci aggiusta la vita? Accendiamo la candela e l'esame ci va bene; un po' di acqua benedetta, e la salute è assicurata. In pratica cioè stiamo anche noi osannando “il figlio di Davide”, e non il Figlio di Dio. In altre parole stiamo adorando un altro Dio, un Dio che ci fa comodo, un Dio che non è quello di Gesù Cristo.
Il Dio che è venuto a rivelarci Gesù è un Dio che non usa la forza, il potere, la prepotenza; non è venuto per sottometterci al suo volere, ma usa nei nostri confronti la debolezza dell'Amore, ci lascia sempre liberi di scegliere Lui o chiunque altro: come il padre misericordioso, ci lascia andare, liberi di fare la nostra vita lontano da lui, ma tiene sempre lo sguardo fisso sulla strada, sperando di vederci tornare per poterci riabbracciare, senza chiederci niente, pronto a fare festa per noi.
Il nostro Dio non si contorna di gente colta e altolocata, ma sceglie gli ultimi, i più bisognosi, perché sono quelli più oppressi, più schiacciati dal potere, che poi sono anche quelli più disponibili ad accogliere la sua Parola di salvezza.
Per questo motivo, a coronamento di una vita vissuta in questo modo, egli sceglie di entrare in Gerusalemme cavalcando un'asina: e la gente continua a non capire, perché un comportamento del genere è decisamente fuori dalla mentalità comune, da ogni aspettativa; come lo è anche per la nostra. Non siamo forse noi quelli che si guardano bene dal scegliere di stare dalla parte di chi non ha voce, del disabile, dell'anziano, dello straniero, rispondendo ai loro bisogni e non imponendo un aiuto a modo nostro? Non siamo forse noi quelli che, invece di vivere sobriamente accontentandoci di quello che abbiamo, cerchiamo di accumulare sempre di più, ci circondiamo di oggetti inutili, di chincaglierie che riempiono le mensole delle nostre case, adoriamo il Dio denaro, invece di condividere gioiosamente il poco con i poveri della terra? È una questione di mentalità!
Se ci riconosciamo in questa tipologia di persone, allora chiediamoci: “Cosa posso fare per cambiare il mio modo di pensare, adottando quello di Gesù?” Beh, penso che la prima cosa da fare sia proprio quella di conoscere a fondo il suo pensiero, di capirlo, di assimilarlo, di metabolizzarlo: e questo lo possiamo fare attraverso l’ascolto e la meditazione della sua Parola: magari riservando settimanalmente qualche momento di silenzio per riflettere sul brano di vangelo della domenica.
In questo modo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, noi impareremo a conoscere Gesù sempre meglio; impareremo a vederlo come lui è veramente; ci scopriremo sempre più somiglianti a lui, pronti a vivere anche noi la nostra “passione”, ad amare l’altro fino in fondo, fino al punto di dare la nostra vita perché “l'altro abbia la Vita”. Amen.

venerdì 4 aprile 2014

6 Aprile 2014 – V Domenica di Quaresima

«Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,1-45).
Quello che ci colpisce, ad una prima lettura del vangelo di oggi, è il comportamento decisamente incoerente di Gesù nei confronti di un suo carissimo amico: venuto infatti a conoscenza della malattia di Lazzaro, Egli si preoccupa di tranquillizzare tutti – “questa malattia non porterà alla morte” - ma poi in realtà avviene il contrario: Lazzaro muore; inoltre, dopo aver saputo che l’amico stava male, invece di correre da lui, continua per altri due giorni a predicare là dove si trovava: se veramente Lazzaro gli interessava, perché ha perso del tempo prezioso? Non avrebbe fatto meglio a correre subito da lui, raggiungendolo immediatamente? Nei suoi discorsi, Egli parla continuamente di resurrezione dai morti, di immortalità, di vita eterna: tutti argomenti che implicano gioia, fiducia, serenità; ma allora perché di fronte all’amico morto, lui scoppia in un pianto dirotto, come se resurrezione e vita eterna, al dunque, non contassero nulla? Infine, perché ha aspettato che Lazzaro morisse, che venisse sepolto, per resuscitarlo? Non era più semplice e immediato “guarirlo” fintantoché era vivo, risparmiando ai parenti il dolore straziante della morte, e a tanta gente il disagio di presenziare alla sepoltura del cadavere?
Ebbene: la spiegazione la troviamo in queste altre parole di Gesù: “[questi fatti sono successi] per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Che vuol dire? Che Lui ha volutamente aspettato che gli eventi precipitassero, perché così poteva dimostrare di essere veramente l’inviato del Padre. È una spiegazione teologica: in altre parole Gesù vuol dimostrare a tutti che la Vita (lui stesso) è più forte della morte. L’amore (lui è l’Amore) è più forte della morte e chi lo ama, anche se muore, non muore.
È chiaro che questo vangelo va letto alla luce della resurrezione di Gesù; esso vede infatti, nel ritorno in vita di Lazzaro, un preannuncio di quello che poi succederà a Gesù, anche se la risurrezione di quest’ultimo avverrà su un piano esistenziale totalmente diverso, comporterà conseguenze diametralmente opposte: infatti, mentre il Lazzaro “risorto” torna a vivere la sua vita di prima, ancorché “nuova”, potendo acquisire nuove esperienze, nuovi sentimenti, nuovi legami, nuova spiritualità, Gesù invece non riprenderà le sue sembianze umane, ma continuerà il suo esistere in un altro mondo, in un'altra forma; riprenderà cioè esclusivamente la sua esistenza divina.
Quando dunque Gesù giunge a Betania – come il vangelo si preoccupa di sottolineare - la salma di Lazzaro già “manda odore, poiché è di quattro giorni”. Presso gli Ebrei il funerale e la sepoltura avvenivano nello stesso giorno della morte; si credeva però che lo spirito rimanesse nel corpo fina a quando il cadavere era ancora riconoscibile. Il quarto giorno, quando il processo di decomposizione era ormai avanzato, lo spirito abbandonava il corpo del defunto e scendeva per sempre nella dimora dei morti, lo sheol, nel quale rimaneva in attesa della resurrezione.
Cosa vuol dire allora che uno di “quattro giorni” - cioè certamente e definitivamente morto - ritorna in vita? Vuol dire: “Anche quando uno è ormai morto, con l’anima che ha lasciato definitivamente il corpo... anche quando ogni barlume di speranza è perduta... anche quando ormai tutto sembra impossibile... Gesù, il Dio della Vita, dimostra di essere più forte, più potente di ogni morte”. In altre parole la risurrezione di Lazzaro ci dice che per Gesù non c'è “morte o sepolcro” dal quale Egli non possa farci uscire (“Esci fuori!”); che non esiste legame mortale (“piedi e mani avvolte da bende”) dal quale poterci sciogliere; che non esiste maschera o camuffamento (“Volto coperto da un sudario”) che non possa toglierci.
Ci sono poi, nell’ultima parte del vangelo di oggi, altre sfumature da cogliere, altre frasi di rara bellezza da meditare. Per esempio:
Dove l'avete posto?”; cioè, che ne avete fatto di lui? Dove l'avete messo? Traduco in vita pratica: che ne abbiamo fatto della nostra voglia di vivere, del nostro impegno, del nostro entusiasmo? Che ne abbiamo fatto dei sorrisi che regalavamo? Che ne abbiamo fatto dei nostri sogni? Che ne abbiamo fatto di ciò che eravamo? Che ne abbiamo fatto della nostra voglia di aiutare gli altri? Che ne abbiamo fatto delle doti che avevamo? Dove li abbiamo sepolti? Perché siamo morti? Sì, perché quando seppelliamo ciò che siamo, noi moriamo. Avevamo dei doni, dei talenti, ma per paura, per conformismo, per non crearci “rogne”, li nascondiamo: e allora moriamo, preferiamo la morte. Dio invece è Vita: in Lui e con Lui viviamo al massimo di noi stessi. Se sopravviviamo, se trasciniamo stancamente e inutilmente i nostri giorni, vanifichiamo il dono di Dio. Dio ci ha fatto un dono meraviglioso: la vita. Viviamola come suo dono; viviamola come un dono che Lui continua a regalarci ogni volta che noi cadiamo e ci allontaniamo da lui.
“Togliete la pietra”. Quante volte abbiamo “coperto” le nostre vere intenzioni, quante volte abbiamo messo una pietra sopra la nostra coscienza! Non vogliamo vederci “dentro”: non vogliamo che il nostro intimo, la nostra anima, abbandonata e stagnante, riveli all’esterno il suo olezzo nauseabondo. Ma togliamo dunque la pietra! Tiriamo fuori i nostri segreti! Tiriamo fuori la vergogna, gli scheletri dall’armadio! Tiriamo fuori l'odio, la sofferenza! Come possiamo pensare di vivere se continuiamo a custodire dentro di noi la morte? Non ci può essere “vita” per chi vive nella morte. Apriamoci, spalanchiamo il nostro cuore. Facciamo entrare Dio: Lui è perdono; Lui non si vergogna di noi. Lui ci ama veramente. Non temiamo: perché con Lui tutto può essere riportato alla luce, tutto può essere riportato in vita.
Scioglietelo e lasciatelo andare”. Rimanere legati, uccide; sciogliamo allora tutti i lacci che ci costringono, tutti i nodi che ci limitano. Lasciamoci andare a Lui! Lasciamo “libero” l’altro: perché questo è amore. Ognuno ha la sua strada e la sua missione. L'amore è permettere a ciascuno di compiere il suo viaggio. Se il nostro cammino coincide con il suo, bene. Se non è così, pazienza, ma noi dobbiamo lasciarlo andare. Se abbiamo fatto del bene a qualcuno, lasciamolo andare: non pretendiamo che ci dimostri riconoscenza per tutta la vita: ci ha già detto “grazie”; non rinfacciamogli ad ogni occasione quel poco di bene che gli abbiamo fatto. Lasciamolo libero!
Vieni fuori”. Vogliamo smetterla di nasconderci? Ci sentiamo rinchiusi in una prigione? Veniamone fuori! Siamo in una situazione, in una relazione, che ci fa morire? Veniamone fuori! Siamo convinti di non valere, di non farcela? Veniamone fuori! abbiamo sempre paura di fare brutta figura, di sbagliare e ce ne stiamo sempre in disparte, in un angolo? Veniamone fuori! Abbiamo paura di osare perché poi tutti ci vedono? Veniamo fuori! Abbiamo delle doti, delle capacità, ma temiamo l'opposizione degli altri? Veniamo fuori! Smettiamola di giustificarci: “Io sono umile; io non ho le capacità; io non sono adatto”; diciamoci piuttosto la verità: “Io ho paura”; non abbiamo il coraggio di venire fuori. Dio infatti vuole che noi emergiamo, che ci realizziamo, che brilliamo. Dimostriamo a tutti, proprio attraverso i doni immeritati che Lui riserva di continuo alla nostra persona, che Dio è Amore. Assolutamente da provare. Amen.