giovedì 4 aprile 2013

7 aprile 2013 – II Domenica di Pasqua

«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». (Gv 20,19-31).
Il Vangelo di oggi cerca di spiegare cosa vuol dire “vedere” il Signore, il Risorto, nella vita di tutti i giorni. È la domanda che tutti noi ci facciamo: “Come possiamo vedere Dio? Come possiamo incontralo?” Dove e quando? Pensiamo che incontrarlo significhi vederlo fisicamente: “Se lo vedessi... Se avessi una visione... Se mi facesse un miracolo, allora sì crederei!”. Ma Dio non lo possiamo incontrare così, fisicamente, come vorremmo noi. Fisicamente Dio si è incarnato una volta, si è manifestato in Gesù: ma Gesù è morto duemila e più anni fa e la cosa, dopo alcune apparizioni ai suoi, nei giorni precedenti l’ascensione, è finita li.
Ma allora come, dove, quando, noi possiamo fare esperienza, incontrare il Signore della Vita?
Lo possiamo solo attraverso gli occhi della fede: accostandoci all’Eucaristia, avvicinando il nostro prossimo, il fratello sofferente, il fratello ferito nel cuore, il fratello calunniato, insultato, deriso… È così che possiamo oggi vedere Gesù in carne e ossa. Beh, a parole è semplice, ma non nei fatti, anche perché talvolta questo “fratello” è proprio il nostro “peggior nemico”, uno che ce ne ha fatte passare di tutti i colori! Come dobbiamo comportarci allora? Dotando la nostra vita di amore, di carità, di perdono; virtù che possiamo trarre dall’Eucaristia. Dobbiamo amare, perdonare, perdonare sempre. La vita di Gesù è costruita tutta sul perdono, sull’amore. Ricordate i momenti tragici vissuti dai discepoli subito dopo l’uccisione del Maestro? Ce lo suggerisce Giovanni, facendoci intravvedere i pensieri che opprimono il cuore dei discepoli in queste ore, subito dopo l’uccisione di Gesù.
È una situazione molto difficile la loro. Si sono rinchiusi per la paura. Il loro cuore è carico di preoccupazioni, di ansia: “ciò che è successo a Lui, può succedere anche a noi”. Sono pieni di tristezza, ma sono anche pieni di rabbia per come ciò è accaduto: l’hanno ucciso come un malfattore, un ladro, un delinquente. Ed essi sanno che l’hanno fatto ingiustamente, per invidia, in maniera crudele, pretestuosa, falsa.
Per questo, quando Gesù appare loro, la prima cosa che dice è: “Pace a voi”. Egli sa che la loro anima è nella tempesta, che il loro cuore è stravolto soprattutto dalla rabbia e dall'odio.
Gesù infatti, augurando la “pace”, vuol dire: “Perdonate, lasciate andare (“rimettere”, in greco f°jmi, è “lasciar andare, lasciar perdere”). Il senso delle parole di Gesù è molto semplice, e Giovanni, il discepolo dell’amore, il “discepolo che Gesù amava”, ce lo sottolinea di proposito; anzi lo pone come “ambientazione”, come condizione essenziale per poter vedere Gesù: “Perdona, lascia andare, piuttosto ama”. “Perdonare i fratelli” vuol dire allora “buttar fuori” tutti i risentimenti che coviamo dentro (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), svuotare completamente il nostro cuore; liberarlo, rinnovarlo. Vuol dire non trattenere niente dentro di tutto ciò che ci turba, e accettare la realtà, vivere la vita così com'è, con i suoi alti e i suoi bassi, con le sue soddisfazioni e le sue contrarietà. Se non perdoniamo rimarremo ancorati tutti i giorni alle ferite del nostro cuore; e tutti i giorni ci sentiremo traditi, oltraggiati, uccisi.
Non perdonare significa “trattenere”: e in questo caso la vita, fratelli miei, non scorre più.
Se noi “tratteniamo” le emozioni, la rabbia, l'odio, ponendole come una diga verso l’esterno, non potremo più alimentare il nostro cuore con la vitalità, la carità, l’amore. Diventiamo aridi, secchi, avvelenati. È per questo che spesso siamo infuriati, arrabbiati, nervosi: perché non perdoniamo, tratteniamo tutto e non c’è più posto per l’amore.
Gesù diceva agli apostoli: “Se entrate in una città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente” (Lc 10,11). Cosa vuol dire? Vuol dire: “Perdonate!”. Non facciamone una questione personale: ci hanno rifiutato, ci hanno detto di no? esprimiamo il nostro dolore, la nostra rabbia ma lasciamo quel dolore lì, non portiamocelo dietro. Lasciamo andare.
Del resto, altra verità, l'amore nasce proprio dalla nostra vulnerabilità, dall'incontro con le nostre ferite.
La prima volta che Gesù appare non c'è Tommaso. Tommaso non crede. Per credere deve toccare le ferite: mani e costato. Deve fare esperienza diretta col dolore. Tommaso, chiamato “Didimo” (in greco significa “gemello”), rappresenta tutti noi: c'è una parte di noi che crede e una parte che non crede; in ciascuno di noi ci sono due persone gemelle, ma contraddittorie.
E qui Giovanni ci dice proprio che per incontrare Gesù dobbiamo “incontrare” le nostre ferite; dobbiamo mettere il dito nelle piaghe del nostro cuore. Dobbiamo cioè “separare” semplici sensazioni dall’amore vero. Dobbiamo fare un passaggio decisivo dall’io al noi. Mi spiego.
Per Maddalena Gesù era tutto: lei era totalmente “dipendente”, da Lui: grazie a Lui era guarita da sette demoni. È chiaro che Gesù era il suo “amore”: lei era morta, era pazza, era indemoniata, e Lui l'aveva guarita. È ovvio anche per noi attaccarci a chi ci ha dato la vita; è ovvio che non possiamo non amare chi ci ha ridato dignità; è ovvio che non possiamo non essere per sempre grati a chi ci ha salvato e guarito. Lo siamo per i genitori che ci hanno dato la vita fisica, lo siamo altrettanto per chi ci dà la vita del cuore.
Lei ha amato Gesù, lo ha toccato, lo ha abbracciato. Certamente fra lei e Gesù c'è stato un rapporto particolare, speciale, un rapporto d'amore vero e puro. Poi “glielo” hanno portato via: così va comunque al sepolcro, e se non può stare con il corpo vivo del “suo amore”, ci starà con il corpo morto. Ma là non trova più neppure quello! Lei infatti sente Gesù come cosa “sua”: “Hanno portato via il mio Signore”: quando amiamo, sentiamo l'altro come nostro; lui ci appartiene e noi gli apparteniamo. Sentiamo di non poter vivere senza di lui; sentiamo che la vita non ha senso senza di lui, senza quel rapporto, senza quell'amore. Ebbene: quello che vuol indicarci Giovanni è Il grande passaggio di Maddalena: il suo è un passare dall'amore perché “sei mio”, all'amore “sei di tutti”, “sei della Vita”; dall'amore “ce l'ho vicino” (l'amore fisico, esterno, di presenza, di vita), all'amore “ce l'ho nel cuore” (l'amore interno, dell'anima).
E se fuori i nostri amori ci possono essere sottratti, dal nostro cuore nulla ci può essere rubato. Dentro di noi non perdiamo mai chi amiamo, nulla potrà mai esserci veramente sottratto, mai!. È questo il grande passaggio: dall'amore di attaccamento all'amore di libertà. Gesù le dirà: “Non mi trattenere”: “Lasciami andare, non sono tuo, sono mio e della Vita. Non ti attaccare”. Amiamo le persone ma non attacchiamoci ad esse perché non sono nostre; godiamo di loro e viviamo dell'amore, ma non facciamo del nostro legame un idolo e un possesso. Quando la Maddalena, dopo la sua “conversione interiore”, torna dai discepoli, dice: “Ho visto il Signore”; non dice più “il mio Signore”. Lei continuerà ad amarlo dentro di sé, ma non è più suo: lo ha lasciato andare. È il grande passaggio: ma se muore l'amato, non muore l'amore.
Così, quando arriva la Maddalena e annuncia ai discepoli la scomparsa di Gesù, Pietro e Giovanni corrono a vedere. Non è la corsa dei due discepoli che Giovanni vuol farci rimarcare. Egli vuol dire appunto qualcos'altro di molto più profondo.
Pietro è la testa, l'intelligenza, la razionalità, la concretezza, la praticità delle azioni e dei pensieri. Arrivati al sepolcro, lui entra e vede “le bende per terra e il sudario”, ma non ci capisce nulla. Per Giovanni è diverso: di lui dice infatti che “vide e credette”; di Pietro dice semplicemente che “vide”, ma non che “credette”. Credere è amare. Pietro la razionalità, Giovanni l’amore: egli giunge per primo, ma dà la precedenza al secondo, alla “razionalità”: a lui basta un colpo d’occhio dall’esterno; vede e crede. Non è un caso il suo; egli rappresenta il cuore, l'amore, il sentire, la sensibilità, colui che è vicino al cuore di Gesù, della Vita. È colui che è in grado di percepire con “l'interno”.
Ecco, questo è il messaggio di Giovanni. Azzardo una sintesi: nessuno potrà mai vedere Dio, se il suo cuore non è vivo, non è in grado di percepire, di sentire, di vibrare alla Vita. Anche qui c’è dunque un “passaggio”: Pietro, dopo la sua conversione, diventerà quello che Giovanni è; Giovanni invece è già quello che Pietro sarà. Il grande passaggio è aprire il proprio cuore all’amore, è tornare a sentire il palpito della Vita. Il Vangelo non ha dubbi: se vuoi “vedere il Signore” il tuo cuore deve essere vivo.
Altra considerazione: l’importanza delle “ferite”, del dolore. Quando la nostra anima grida di dolore, noi cosa facciamo? Abbiamo paura: cerchiamo di non sentirla. Abbiamo dei bisogni? cerchiamo di ignorarli. Abbiamo subito un trauma? meglio lasciarlo da parte. C'è qualcosa da affrontare? meglio non farlo, perché poi nascono problemi.
Ma Giovanni dice: “Bisogna toccare le ferite; bisogna mettere il dito sulla piaga, bisogna curarla; perché finché una ferita è viva, continua a sanguinare, ci fa urlare, ci impedisce di vivere e soprattutto ci impedisce di amare”.
Le ferite ci rendono vulnerabili. Nessuno di noi vuole soggiacere, nessuno di noi accetta di essere ferito; siamo tutti diffidenti; e lo saremo finché non scopriremo l’Amore, il più grande, quell’Amore che ha sopportato le più strazianti ferite, che ha affrontato perfino la morte per amore nostro.
Rifugiamoci anche noi, allora, nel “cenacolo”: predisponiamoci ad incontrarlo veramente. Andiamo in chiesa, con il nostro cuore ferito: chi di noi non ha ferite? Chi di noi a sua volta non ha ferito? Andiamo in chiesa con le nostre mani ferite: sono state legate, inchiodate, paralizzate, è vero; ma le “nostre” mani hanno anche colpito, umiliato e ferito i fratelli.
Andiamo in Chiesa a incontrare Gesù, perché si posi nella nostra mano e ci guarisca (la comunione). E poi mangiamolo, Gesù, perché entri nel nostro cuore, lo guarisca e lo risani. Ecco, fratelli, la Pasqua domenicale, l’Eucaristia è proprio questo incontro che ci ridà la forza di guardare a ciò che ci fa male, a ciò che non va, a ciò che non ci piace, a ciò che metteremo in un angolo, che non vorremmo mai vedere.
L'Eucarestia ci dà la forza per toccare le nostre ferite, per metterci mano, per guardarle in faccia. In questo senso l'Eucarestia è terapeutica, risanatrice, curativa, lenitiva, trasformativa.
Giovanni vuol dire proprio questo: che l'incontro con l’Amore, con l’Eucarestia, è un incontro che ci salva, che ci guarisce. E ci offre tante allusioni all'Eucarestia con le parole di oggi: “il primo giorno dopo il sabato”, è la domenica, è il giorno del Signore, il giorno dell'Eucarestia. “Pace a voi” è il saluto di Gesù, è il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano per il banchetto eucaristico. Il “toccare” è il segno domenicale del toccare/ricevere il corpo di Cristo. “Mio Signore e mio Dio!” è ciò che ci deve succedere in ogni eucarestia: un'esperienza, un incontro vivo. In ogni messa noi dobbiamo far esperienza del Risorto, toccarlo, sentirlo.
Tommaso non rappresenta colui che dubita, ma colui che deve fare esperienza per poter credere. Del resto, vale per tutti: non possiamo credere in qualcosa che non abbiamo conosciuto, sentito, visto, toccato, percepito.
“Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”: dalla morte di Gesù, come abbiamo detto, non è più possibile vederlo fisicamente: ma possiamo vederlo e sentirlo interiormente sia nell’eucarestia, come nei nostri fratelli.
Ma dobbiamo fare attenzione: non confondiamo il fine con i mezzi.
I “mezzi” - il canto, le letture, la celebrazione, le parole, i bei riti, la liturgia - ci devono servire solo per arrivare ad incontrare il “fine”, Gesù in persona. Ma se la messa non è un'esperienza, un vero incontro, se noi non usciamo dalla messa con la sensazione chiara, netta, definita, di averlo sentito vivo in noi e in quella comunità, la nostra messa è stata inutile, non è servita a nulla. Come facciamo a ricaricarci, trasformarci in Amore? Cosa riusciremo poi a trasmettere nella carità ai fratelli? Penso che a questo punto dobbiamo farci delle serie domande: perché, fratelli, l'Eucarestia, è rendere vivo, incontrare un Vivo, non un morto! L'eucarestia non è il semplice ricordo di un fatto storico, ma è fare esperienza del Risorto oggi. L'eucarestia è un'esperienza sanante, guaritrice, un incontro con Colui che è la Vita e che ci fa vivere. E se un incontro c'è, si vede, si sente, si percepisce anche all’esterno, perché ci cambia. Altrimenti non c'è incontro, ovvio!
Allora chiediamoci: le nostre Messe sono esperienze di Vita, esperienze del Signore Risorto? Oppure rispondono ad un’usanza, a un qualcosa che “dobbiamo” fare perché gli altri lo fanno? Quando usciamo ci sentiamo trasformati? Parlano al nostro cuore, lo fanno vivere, lo fanno vibrare? Quando ci accostiamo all'Eucarestia cosa cerchiamo? Il corpo vivo e palpitante di Cristo cosa rappresenta per noi? Un'esperienza, un anestetico, un calmante oppure la vera Vita? Possiamo dire dopo un'Eucaristia: “Sì, o Signore, io ti ho visto, ti ho toccato, ti ho incontrato, ho sentito la tua voce parlare al mio cuore?”. È questo incontro, fratelli, che accresce la nostra Vita. Perché Lui è la Vita, e incontrarlo significa vivere veramente e far vivere di più. Amen.
 

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