mercoledì 24 aprile 2013

28 aprile 2013 – V Domenica di Pasqua

«Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 31-33a. 34-35).
Sono parole che Gesù pronuncia durante l'Ultima Cena in un contesto di grande intimità: ma anche di tradimento. Gesù si apre con i suoi discepoli, e comunica loro ciò che più gli sta a cuore. Sono le sue ultime parole, e come spesso accade, le ultime parole di una persona racchiudono tutta la sua vita, sono il centro della sua vita.
Il contesto di questo vangelo ci aiuta a capire che non c'è intimità senza la possibilità del tradimento. Il tradimento mentale è molto più del semplice tradimento fisico.
Anche Gesù sperimentò il tradimento: Giuda (uno dei suoi) lo consegnò ai nemici; Pietro lo rifiutò, lo rinnegò, lo disconobbe quando era il momento di difenderlo; le folle lo seguivano e lo acclamavano, ma quando venne l’occasione per sorreggerlo, lo lasciarono solo.
C'è un intimo legame tra “confidarsi” e “tradire”, tra amore e vulnerabilità. Non possiamo conoscere l'intimità se non vinciamo la paura di rimanere feriti nell’anima.
Tutti noi vorremmo una garanzia per la nostra intimità: tutti sappiamo quanto sia difficile aprirsi, farsi vedere per quello che si è veramente, svelare le nostre zone di luce e le nostre zone d’ombra. Vorremmo pertanto essere certi che quando lo faremo, non saremo traditi.
Ma nessuno può garantirci questo. Fa parte dell'aprirsi, la possibilità di essere derisi, svergognati, traditi, non compresi, giudicati.
Se ci apriamo possiamo dunque essere feriti. Ma qual è l'alternativa? Rimanere chiusi per sempre? Ma essere adulti, essere come Gesù, vuol dire però aprirci; concederci agli altri, dare fiducia agli altri; renderci vulnerabili, correndo anche il rischio del tradimento.
Non c'è amore senza apertura. E ogni apertura vuol dire “spazio aperto” dove qualcuno ci può anche pugnalare alle spalle.
Ogni volta che recitiamo il Padre Nostro noi apriamo le mani; è un gesto con un significato molto profondo: vivere, aprirsi, mostrarsi, far entrare qualcuno nel nostro intimo e nella nostra vulnerabilità, è un rischio, ma ne vale la pena; per questo chiediamo a Dio di avere il coraggio e la forza per farlo.
Poi, il vangelo, in due versetti, usa per ben cinque volte il termine “gloria” (dçxa).
Per noi è incomprensibile questa parola. Quando pensiamo a “gloria” normalmente pensiamo a personaggi famosi, a quelli che hanno notorietà, potere e riconoscimenti. Gloria è fare qualcosa per cui saremo ricordati per sempre, non saremo mai dimenticati; gloria è essere conosciuti da tutti; gloria è essere ammirati da tutti; gloria è arrivare molto in alto.
Ma “gloria” (da dokw) vuol dire letteralmente “mostrarsi, farsi vedere”. La gloria è quando Dio si fa vedere nella nostra vita. Dio non si fa vedere materialmente, ma può “rivelarsi”, e noi in questo modo lo possiamo riconoscere. Noi viviamo le nostre giornate, ma in certe situazioni Dio ci si mostra: questa è “gloria”. Viviamo le nostre giornate, ma in certe nostre parole, in certi nostri comportamenti, in certe nostre scelte, Dio si dà a vedere.
Gesù “glorifica” Dio, perché la sua vita è stata trasparente: in Lui Dio si è reso visibile. L'uomo è “gloria” di Dio quando nella sua vita autentica Dio emerge.
Talvolta succede che nella vita di tutti i giorni, si apra una finestra sull'invisibile, sulla luce vera del mondo; e i raggi dello spirito entrano nella nostra vita materiale.
Allora accade che l'Oltre si fa presente in maniera indelebile nella nostra vita e lascia un segno che non possiamo assolutamente cancellare.
Questa è gloria: sentire anche solo per un attimo la Voce e vedere anche per un solo istante la Luce. La gloria umana è sentirsi Dio, divino, potente, immortale. Ma questa non è gloria, è idolatria. La vera gloria non è sentirsi Dio, ma sentire Dio, vederlo, percepirlo, riconoscerlo. Ci entra dentro qualcosa che non potrà mai più uscire, qualcosa che non ci lascerà mai più.
Poi il vangelo prosegue dicendo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. È un comandamento nuovo? Un po' sì perché per un ebreo l'amore era riservato a quelli della propria famiglia o al massimo a quelli della propria gente. È una piccola novità, in effetti. Ma non è questa la vera novità.
La vera novità è contenuta nella riga successiva: “Come io vi ho amato”. Questo è il criterio: amare, come Gesù ci ha amati. Questo determina, mostra, rivela l'essere o meno discepoli di Gesù: “Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni gli altri, come io vi ho amati”.
I primi cristiani erano testimoni di questo: si amavano in maniera diversa da tutti gli altri. C'era un di più, un diverso, una libertà maggiore, un perdono più vero e profondo, una gioia non comune. Quando la gente comune li guardava diceva: “Quelli si amano proprio, per davvero!”.
Con queste parole Gesù capovolge le nostre categorie religiose. Per noi è “cristiano”, cioè “di Cristo”, chi è battezzato, va a messa, rispetta certe regole e certe norme.
Ma per Gesù è “cristiano”, è “suo discepolo”, chi ama come Lui ha amato.
Dio è amore”, dice Giovanni: dove c'è qualcuno che ama nella verità, lì c'è Dio. Ma possiamo anche dire il contrario: “L'Amore è Dio”. Andare dove qualcuno ama veramente, è andare da Dio.
Con l'espressione “per il tuo bene” o “per amore” si sono compiute le peggiori atrocità.
Attenzione allora alla parola “amore”: può comprendere tutto e il contrario di tutto.
Gesù non fece grandi discorsi sull'amore. Gesù si focalizzò sulle persone. Mentre l'ebreo di fronte a certe persone si chiedeva: “Questo lo devo amare o no?”, Gesù non si fece mai questo problema. Quando vedeva le persone, se ne prendeva cura e basta.
A volte le amò e cambiò loro la vita; altre volte le guarì dai loro mali fisici e spirituali; altre volte semplicemente le accettò per quello che erano, riconoscendo che più di quello non potevano dare.
L'amore è fare sempre il vero bene dell'altro. Amore è prendere l'altro dov'è, e aiutarlo nella sua situazione. Amare non è “fare nuovi cristiani, convertire”; Madre Teresa diceva: “Esiste un solo Dio, ed egli è il Dio di tutti. Perciò è importante vedere tutti gli uomini come uguali davanti a Dio. Io ho sempre detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a diventare un musulmano migliore, e un cattolico a diventare un cattolico migliore”.
L'amore si impara vivendo nell'incontro con i volti delle persone; l'amore s'impara amando. A ben pensarci nessuno di noi sa amare. Possiamo imparare cos'è, maturando sempre di più con la vita ciò che altrimenti è solo un concetto. Quando nasce, il bambino “ama” sua madre, ma non è amore: è bisogno assoluto, dipendenza totale, egoismo (senza di lei muore). Molte persone sono rimaste a questo livello di amore.
L'amore è passione, sentimento: per Gesù l'amore è passione per la vita fino alla morte. Gesù entrava dentro ad ogni cosa con tutto se stesso e con la forza di tutte le sue emozioni. Quando c'era da essere felice lo era pienamente; quando era toccato dal dolore della gente, lo era profondamente; quando amava, amava così autenticamente che l'altro guariva; in ogni cosa era dentro del tutto. Per il cristianesimo amore è dare, donare, donarsi, lasciarsi toccare da ciò che si vede. Se non c'è gratuità non c'è amore. Se tutto viene misurato in base a ciò che si dà e in base a ciò che si riceve, allora c'è economia: ti do questo e tu mi dai questo. Ma non c’è amore. L'amore vero non fa soldi (infatti fa felici) perché in sé è sprecone. Dà e non gli interessa il ritorno.
L'amore è ciò che non muore, è la non-morte (a-mors). L'amore fa vivere oggi e ci farà vivere domani. È l'unica cosa che ci fa vivere perché è la non-morte. L'amore è la Vita, è ciò che non può morire e che resterà per sempre.
Ecco, fratelli: queste sono soltanto alcune delle dimensioni dell'amore. Ma in fin dei conti non conta neppure conoscerle tutte. Non conta, infatti, sapere tanto cos'è l'amore, ma amare tanto. Viviamo la forza dell'amore: amiamo, guardando a Gesù. Solo così sapremo e conosceremo l'amore. Amen.

giovedì 18 aprile 2013

21 aprile 2013 – IV Domenica di Pasqua

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10, 27-30).
La maggior parte delle persone fa confusione tra “udire” e “ascoltare”. Udire è percepire un suono: è un fenomeno fisiologico e non coinvolge l’emotività. Ascoltare invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo e intorno a noi. Ascoltare è porre attenzione, è un atto consapevole, implica il cuore e l’intelligenza. Possiamo udire,ma non per questo ascoltiamo.
Ne consegue che come uno “ascolta” così anche agirà; come uno ascolta, così camminerà, canterà, parlerà. Da come noi parliamo, ma ancor più da come noi ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Mio nonno diceva: “Non fidarti mai di chi non sa ascoltarti”.
Non possiamo diventare adulti, maturi, cresciuti, senza la capacità di ascoltare: prima di tutto noi stessi e poi gli altri. Dall’ascolto dipende la nostra maturazione, la nostra crescita: è ciò che ascoltiamo che ci “costruisce” dentro.
Dio ci ha forniti di due orecchi e di una sola bocca: sicuramente perché dovremmo ascoltare molto di più, e parlare molto meno. Abbiamo due orecchi e una bocca sola, perché abbiamo bisogno almeno del doppio di cibo dell'anima (gli orecchi) rispetto al cibo del fisico (la bocca). Se vogliamo imparare, pertanto, non abbiamo alternative: dobbiamo ascoltare! Non è un caso, allora, se si dice che la “fede nasce dall'ascolto”: dall'ascolto, non dall'aver udito tante parole religiose! Una delle espressione più usate nella Bibbia è infatti: “Hanno orecchi per udire, ma non odono” (Ez 12,2).
Ogni giorno noi udiamo milioni di suoni, ma quanti ne ascoltiamo? Alcuni santi si sono addirittura convertiti in seguito ad una parola ascoltata. Quasi tutti noi, invece, abbiamo letto l’intera Bibbia più volte e il Vangelo migliaia di volte, senza che in noi scattasse qualcosa. Perché? Perché ci fermiamo alla percezione del suono delle parole; ascoltarle invece significa farle risuonare in noi, significa far vibrare le corde della nostra anima.
Nella realtà è difficile che qualcuno ascolti gli altri. Neppure noi, ascoltiamo noi stessi.
Se ci ascoltassimo potremmo scoprire che dentro di noi c’è una folla di personaggi parlanti, che vivono nella scena della nostra anima, e sono tutti da ascoltare, da conoscere. Se ci ascoltassimo di più, avremmo molto meno bisogno di cercare fuori di noi le risposte per la nostra vita: le troveremmo direttamente in noi. Ovviamente è molto più comodo trovare qualcuno che ci dia risposte già confezionate, piuttosto che doverle elaborare da noi: ci costa molto meno fatica! Ma quelle risposte vengono da estranei, mentre le domande sono le mie. Vogliamo qualcosa? Cerchiamola! Se ascoltassimo di più, potremmo non solo ascoltare le parole degli altri, ma entrare anche in contatto con la loro anima. Se ascoltassimo di più, potremmo percepire che il anche il silenzio parla. Se ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo noi, ma è quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così assurda. Gli uomini conducono una vita assurda (ab-surdus) perché non si ascoltano, perché non sentono più le esigenze dell'anima, i richiami del profondo, i richiami delle esigenze fondamentali della vita: sono sordi! E se uno è sordo, può succedere di tutto! Così, se sapessimo ascoltare, sentiremmo la profondità e la forza del Vangelo; sentiremmo l'energia e la potenza vulcanica di queste parole.
E invece noi udiamo tutto: sono voci che entrano e che escono; ma sono voci che non si fermano, che non creano vibrazioni, che non si sedimentano.
Siamo chiusi. Quando siamo stati battezzati, il sacerdote ha fatto un gesto: ci ha toccato le orecchie e le labbra: è il rito dell'Effatà, Apriti!; che in pratica significa: “Fa' in modo che le tue orecchie siano sempre aperte, perché se saranno chiuse, tutte le mie Parole non serviranno a niente”.
Se non c'è l'ascolto siamo come Pietro che colpisce con una spada l'orecchio del servo del sommo sacerdote e gliela recide (Gv 18,10-11). Se non ascoltiamo e se non ci ascoltiamo, se non comprendiamo gli eventi, se non abbiamo l'intelligenza spirituale della situazione, non vediamo il senso profondo delle cose, e allora “tranciamo” giudizi superficiali su fatti e persone; parliamo a sproposito: il vaniloquio,è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare per niente, solo perché si ha una bocca ma non un'anima. Chi non ascolta, giudica e giudicherà sempre; e più un uomo giudica, più sarà incapace di ascoltarsi e di ascoltare gli altri.
«Io le conosco ed esse mi seguono».
Conoscere, per noi, significa sapere chi è un tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma che conoscenza è questa? È una raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Per la Bibbia, invece, conoscere è fare un'esperienza, incontrare, sentire, percepire. Quando un uomo conosce una donna, nella Bibbia, nasce un figlio: hanno cioè, un incontro sessuale.
Conoscere è sperimentarsi, incontrarsi. Ci conosciamo non perché sappiamo chi siamo o dove abitiamo o cosa facciamo nella vita. Ci conosciamo se “ci” sentiamo, se avvertiamo ciò che siamo dentro, ciò che proviamo, ciò che vibra in noi. Ci conosciamo se ci incontriamo, se cogliamo ciò che ci abita dentro, ciò che sta in noi, ciò che vive in noi.
Le persone pensano di conoscere solo perché hanno un sacco di informazioni su di sé o sugli altri. È come dire: conosco cos'è un liquore perché ho letto la sua marca sulla bottiglia. Ma conoscere un liquore è berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Allo stesso modo possiamo dire di conoscere la parola di Dio, non se l’abbiamo imparata a memoria; ma solo se ne sentiamo le vibrazioni in noi, se avvertiamo in noi la sua potenza e la sua forza, se ci coinvolge e, penetrandoci, ci cambia. Perché è solo questa la conoscenza che ci cambia.
«Le mie pecore non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano».
In greco ƒrpzw vuol dire “rapire, strappare via, prendere, rubare”: tutti noi siamo percorsi da questa paura. È la paura e l'angoscia di perdere la nostra vita, di essere strappati via dai nostri cari; la paura di uscire di casa, la paura che qualcuno entri di nascosto in casa nostra; la paura che qualche malintenzionato faccia del male, rapisca i nostri figli; la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, i soldi. In certi giorni abbiamo paura perfino di quello che potrà dire il nostro capo, gli amici, la gente, gli altri. In certi giorni abbiamo paura anche di noi stessi, di aver sbagliato tutto.
Ma se ci abbandoniamo a Dio, se ci ancoriamo in Lui, cosa mai può farci paura?
Se ci ancoriamo ai soldi, prima o poi ce li sottrarranno. Se ci ancoriamo all’amore dei figli, un giorno o l’altro, da grandi, potrebbero non darcene più. Se ci ancoriamo a quello che gli altri possono o non possono dire di noi, ci costringiamo a vivere nell'ansia, a controllare ogni nostro movimento, a chiederci sempre: “Andrà bene? Piacerà?”, e in ogni caso, continueremo ad avere sempre dei nemici. Se ci ancoriamo alla salute, sul fatto che oggi non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, facciamo attenzione, perché verrà il giorno in cui non basteremo più a noi stessi e avremo bisogno degli altri. Se ci ancoriamo alla vita, di sicuro prima o poi la morte ce la strapperà.
Allora dov'è che possiamo ancorarci in sicurezza? Dov'è che possiamo trovare una roccia che tenga, che non frani sotto i nostri piedi, facendoci precipitare nel buio e nel vuoto?
Solo in Lui. Dio infatti non vuole la nostra fine, la nostra morte: la permette solo perché attraverso lei, impariamo che è Lui l’unica nostra certezza; perché la morte ci metta in contatto con ciò che di più bello Lui vuol darci, con ciò che non abbiamo saputo o voluto imparare durante la vita: il suo immenso amore; un amore che possiamo provare solo abbandonandoci completamente, senza riserve, a Lui.
Verrà un giorno in cui non potremo più contare su di noi, in cui non potremo più controllare tutto e tenere tutto sotto controllo; un giorno in cui non ci rimarrà altro da fare che stendere le nostre mani e lasciarci accogliere nel suo abbraccio. Per molti quel giorno è “morire”, un’esperienza negativa, distruttiva. Ma per noi credenti la morte non è così; per noi è un ritorno, un incontro, un'esperienza religiosa: “Non ho più nulla, se non Te, Signore. Mi fido di Te e mi lascio avvolgere dal tuo amore”.
Per trovare la felicità, fratelli, per trovare la vita vera, dobbiamo rinunciare alla tentazione di possedere, di trattenere qualcosa per noi; perché tutto ci sarà strappato: perderemo tutto, proprio tutto. Seguire Gesù, significa quindi spogliarsi dell’illusione di possedere le cose di questo mondo. Il mondo non sarà mai nostro; non avremo mai alcun potere su di lui; qui tutto è aleatorio, passeggero, deteriorabile. Solo Dio resta: e noi siamo stati creati solo per Dio. Nulla appartiene a noi, ma noi apparteniamo a Lui, e questo ci deve bastare.
Se comprenderemo a fondo questa verità, ci sentiremo al sicuro, rannicchiati nel palmo della mano di Dio; capiremo che quello è l'unico posto in cui potremo avere riposo e felicità; che quella è l’unica nostra ricchezza e salvezza.
Chi ha paura di vivere è perché ha paura di morire; e chi ha paura di morire è perché ha paura di vivere, perché è attaccato a qualcosa che teme di perdere. Chi ha paura di morire è perché non conosce Dio, non ha ancora capito chi Lui sia veramente.
I primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi. Nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Chi vive così, fratelli, vive davvero. Chi vive così, cosa può temere? Chi vive così non avrà mai alcun timore, perché per quanto una situazione sia drammatica, dura, straziante, egli è nelle mani di Dio, nel palmo delle Sue mani.
Se abbiamo paura, è perché in fondo non ci fidiamo poi così tanto di Dio. Se viviamo nell'ansia è perché, in fondo in fondo, non consideriamo Dio nostro Padre e Pastore. E non ci rendiamo conto con quale e quanta libertà potremmo invece vivere, se solo ci fidassimo di più, se ci abbandonassimo di più in Lui. Amen.
 

giovedì 11 aprile 2013

14 aprile 2013 – III Domenica di Pasqua

«Disse Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù...» (Gv 21, 1-19).
Se leggiamo questo vangelo come un racconto “storico”, come una cronaca di quanto è successo nei fatti, non riusciamo a venirne fuori. Sono troppe le stranezze, troppe le cose che non tornano. Per esempio: i discepoli, che erano pescatori e conoscevano perfettamente il loro mestiere, pescano tutta la notte senza prendere nulla; ma poi, quand'è mattina - e tutti sanno che non si pesca di mattina! – stando a pochi metri dalla riva, prendono una quantità enorme di pesci! Gli stessi discepoli, che erano stati tre anni con Gesù, quando lo vedono, non lo riconoscono; com'è possibile? Praticamente quando hanno il Signore lì davanti a loro, non si accorgono che è lui; solo Giovanni, e da lontano, se ne accorge; eppure avevano rischiato la vita, avevano abbandonato tutto e tutti per lui, figurarsi se non lo conoscevano! Altro particolare: Pietro è nudo, ma prima di buttarsi in acqua per raggiungere Gesù, si cinge la veste, si mette cioè il vestito; forse che noi quando andiamo a fare il bagno ci vestiamo prima di buttarci in acqua? Che senso ha? Inoltre, perché devono buttare la rete proprio dal lato destro? Quando scendono poi a terra, trovano già il fuoco acceso con tanto di pesci alla brace: ma se tutto è già pronto, che bisogno c’era che Gesù chiedesse se avevano qualcosa da mangiare? E la rete? I discepoli tutti insieme non riescono a trascinarla a riva, tanto è piena di pesci; ma poi Pietro, da solo, la scarica dalla barca e la porta a riva! E la quantità del pescato? Centocinquantatre pesci: avevano per caso contato i pesci uno per uno, per conoscerne il numero esatto?
Un racconto insomma che è tutto un problema. Ma tralasciamo i particolari: fermiamoci piuttosto al messaggio che ne possiamo trarre.
“Vado a pescare”, dice Pietro; e tutti dicono: “Veniamo anche noi!”. Una risposta di automatica, di routine, quella degli apostoli, una risposta senza iniziativa, senza entusiasmo, una risposta “rassegnata”. Quella per loro è una mattina grigia, fiacca, senza entusiasmo, senza passione. Un po’ come lo sono tante nostre mattine.
Infatti, eccoci qua: noi siamo esattamente come gli apostoli. C'è da andare a pescare, e nessuno ne ha voglia. Ma lavorare bisogna; vivere bisogna; fare questo bisogna; come pure fare quell'altro. E continuiamo ad andare avanti così, perché “bisogna”: ma, fratelli miei, che vita è questa? Dov'è il gusto, la gioia di vivere, l’iniziativa e l’inventiva personale? Che tristezza: uno fa una cosa e tutti lo seguono; uno si comporta in un certo modo, e tutti a imitarlo. Qualcuno si pavoneggia per qualche ritrovato d’avanguardia? E noi a fare altrettanto. Gli altri hanno il navigatore, l’iphone, il tablet di una certa marca? Detto fatto, ce l’abbiamo anche noi!
Si, perché noi non solo dobbiamo essere sempre “come” gli altri, ma addirittura “sopra” gli altri: “ma come!? tuo figlio non va in palestra? Ma come!? non avete ancora la tv satellitare? Ma come!? non conoscete ancora quel nuovo congegno, quella nuova marca, non indossate ancora quell’accessorio all’ultima moda?
Purtroppo, oggi il modello di vita è uno solo; uno “status” a cui tutti ambiscono arrivare: lavorare lui e lei, avere una bella casa, uno o al massimo due figli, una vita tranquilla, avere disponibilità economica per le vacanze; potersi permettere, lui una “buona” auto, e lei dei “buoni” vestiti.
Beh, fratelli: è proprio questo livellamento che tutti i sacrosanti giorni ci rende tristi: sogniamo, desideriamo, facciamo tutti le stesse cose. Siamo tutti omologati sullo stesso standard.
Noi stiamo bene, ci sentiamo tranquilli, solo quando siamo esattamente “come tutti”: perché solo se facciamo come tutti, la società, il branco, ci accetta; altrimenti ci esclude, ci giudica, ci mette al bando.
Ma fare come tutti significa essere nessuno; fare come tutti significa rinunciare a noi stessi, alla nostra individualità, al nostro volto, alla nostra personalità. Fare come tutti ci protegge dal giudizio e dall'essere sotto i riflettori, è vero, ma produce in noi un vuoto tremendo.
I discepoli, quella notte, “non presero nulla”. Una constatazione che ci fa percepire la nullità, il vuoto assurdo, appunto, di una vita “trascinata”, di una vita senza entusiasmo, amorfa. Facciamo una prova: chiediamo alle persone: “Perché vivi?”. Vedremo che alcuni non sapranno cosa risponderci e staranno zitti. Altri ci daranno delle risposte a cui neppure loro credono. Pochissimi ci diranno: “vivo per realizzare il potenziale che Dio ha messo dentro di me; vivo e metto tutte le mie energie per fare questo mondo migliore, più vero di quello che è; vivo perché la gente possa essere se stessa; vivo per fare del bene, per disseppellire l'anima delle persone; vivo perché mi sento un balsamo per molti cuori sofferenti (Etty Hillesum); perché sono una matita nelle mani di Dio (Madre Teresa); perché voglio essere per gli uomini l'amore (Teresa di Lisieux)”.
La gente oggi non crede più che si possa essere felici. Crede che “bisogna tirare avanti”, che “bisogna accontentarsi”, che “bisogna prendere quello che viene”. Quanta tristezza, fratelli, si nasconde dietro queste parole: solo rassegnazione, vuoto, sconforto.
“Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù”. È sempre così: Dio c'è già, ma noi non lo vediamo, quindi non c'è.
Lui chiede: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Ebbene, facciamo per un istante mente locale: noi, abbiamo qualcosa che veramente “nutra” la nostra vita? Se siamo onesti, dobbiamo ammettere: “No”. Dobbiamo cioè ammettere che in fondo non siamo affatto felici; che ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati; che “svegliarci” la mattina è faticoso, che preferiamo andare avanti “dormendo”, rimanendo tranquilli, senza sussulti.
Beh, fratelli, non possiamo risolvere un problema che non vogliamo ammettere, di cui non accettiamo l’esistenza. La prima cosa da fare è puntare i piedi e dirci: “Così non va!”. E vi assicuro, per fare questo, ci vuole coraggio. Perché è più facile illuderci, è più facile fingere che tutto vada bene: “Abbiamo il lavoro, abbiamo la casa, abbiamo dei figli: non ci manca niente”, e ci trastulliamo in questa illusione. Dimenticando volutamente cos’è la vera felicità. Preferiamo indossare la maschera del “Mulino Bianco”, della famiglia spensierata e felice. Quando invece dentro di noi moriamo di solitudine, di insoddisfazione, di rabbia, di vuoto.
No, fratelli: dobbiamo ammettere che siamo noi gli ammalati; che siamo noi quelli che devono guarire, non gli altri. Dio non ci cambia la vita come pensiamo noi. Ce la cambia, ma non come noi la vogliamo.
«Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Gesù rimanda i suoi nel mare: ma come, c'erano già stati fino a poco fa e non avevano combinato nulla! È vero: ma ora li manda con un compito ben preciso.
Esattamente come rimanda anche noi nello stesso mare della nostra vita: non ci dice infatti di cambiare lavoro, di cambiare residenza, di andare in Africa o chissà dove. Ci dice semplicemente di fare le stesse cose di prima, ma di farle ora in un altro modo, in maniera “consapevole”. Non possiamo più permetterci di vivere senza un obiettivo “valido” da raggiungere; non possiamo più vivere con la testa fra le nuvole; dobbiamo invece farci domande, dobbiamo osservarci, dobbiamo studiarci; dobbiamo guardarci come reagiamo, dobbiamo chiederci cosa ci appassiona, cosa vogliamo esattamente da noi, dalla vita.
Noi illudiamoci che tutto quello che ci serve, che ci soddisfa pienamente, stia al di fuori di noi. Nossignori: tutto ciò che riempie le nostre reti, cari fratelli, ciò che ci fa cantare dalla gioia, che ci fa sentire tutti uniti e amati dallo stesso Dio; ciò che ci rende così felici e vivi da ringraziarlo giorno dopo giorno; ciò che fa esplodere tutta la nostra energia interiore, bene: tutto questo non esiste fuori, ma soltanto dentro di noi.
Ecco perché dobbiamo ripristinare il “contatto” con noi stessi; dobbiamo tornare ancora dentro il nostro mare, dentro di noi, se vogliamo che le nostre reti (l'anima) tornino piene, colme, di Dio. Dobbiamo imparare a conoscerci bene: non possiamo più fuggire di fronte ai nostri “mostri”, alle nostre debolezze, ma dobbiamo familiarizzare con loro; non possiamo più nascondere i nostri istinti, ma dobbiamo farceli amici; dobbiamo essere in grado di padroneggiare quel mare burrascoso che è dentro di noi, se vogliamo che la nostra vita si riempia di Vita, di Dio.
È stato proprio questo il miracolo degli apostoli. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, di tutti i giorni. E la loro vita non fu più la stessa, tutto cambiò.
Giovanni, colui che lo riconosce, è il discepolo che Gesù amava: se non amiamo Gesù, se non amiamo e non siamo attratti da ciò che abbiamo dentro, se non riusciamo a fare “bonaccia” dentro di noi, se non desideriamo fare chiarezza nel nostro cuore, non potremo mai “vedere” il Signore. Non servono programmi strabilianti: Giovanni si è reso conto improvvisamente che “È il Signore!”, mentre faceva quello che aveva sempre fatto: il pescatore. Ma da lì, la sua vita è cambiata.
Il giorno in cui, pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di sorpresa, potremo finalmente esclamare: “È il Signore!”, allora anche la nostra vita inizierà a cambiare.
Potremo “vederlo” (non pensarlo), potremo percepirlo, proprio attraverso quei piccoli eventi che accompagnano la nostra vita di tutti i giorni: quando riusciamo a dare una “risposta” diversa dalle solite; un “no” che prima non dicevamo; una fragilità che riusciamo ad ammettere; uno “scusami!” che finalmente riusciamo a pronunciare; un lasciarci andare alle piccole emozioni della vita: per un incontro che non ci aspettavamo, per un tramonto o una passeggiata solitaria, per uno sguardo o un sorriso rasserenante di una persona cara, per una complicità con i fratelli, con chi ci sta a cuore, con chi soffre, ecc. Ecco, è anche in questi casi che potremo veramente dire: “È il Signore!”.
Noi pretendiamo invece di incontrare Dio nelle visioni, nelle apparizioni, nelle estasi, negli eventi soprannaturali: per questo lo cerchiamo “fuori”. È invece nella nostra vita che Egli si lascia “vedere” continuamente. Nell’umiltà, nel silenzio, nell’autenticità.
A volte invece, noi siamo presi dall’eccezionalità, dalla ricerca affannosa di esperienze forti, decisamente “mistiche”: vaghiamo da un’apparizione all’altra, da un santuario all’altro, senza renderci conto che forse tutto questo nostro cercare proviene più da un nostro bisogno di sensazionale, di estemporaneo, piuttosto che da una nostra convinta, intima necessità, di “vedere”, di “incontrare” il Signore.
Dio c'è dove noi siamo in grado di “poterlo vedere”, cioè col cuore puro e con la mente retta. Altrimenti è una “idea” vaga di Dio, quella che noi inseguiamo, un’idea che noi ci siamo costruiti solo nella nostra testa: nient’altro. Se viviamo con questa illusione, ricordiamocelo, sarà molto difficile, se non impossibile, incontrarlo veramente.
Lui è più vicino a noi di quanto pensiamo. Gli apostoli hanno fatto la loro pesca eccezionale a cento metri dalla riva. Non in alto mare!
Ascoltiamo piuttosto la sua voce. È una voce intima, non un urlo! Egli ci chiede insistentemente, ma sommessamente, quanto noi siamo disponibili ad amarlo. Non per mari, non per monti. Ma nella nostra quotidianità. Quello che conta è la nostra risposta, perché Egli non chiede altro che amore. E solo allora, solo quando gli avremo assicurato tutta la nostra adesione, Egli ci dirà, come già a Pietro: “Seguimi!”. Seguirlo, significa camminare dietro a Lui, seguire i suoi passi, non correre a destra o a sinistra, da un posto all’altro, seguendo le nostre voglie del momento.
Ecco, fratelli: lasciamo che sia Dio a portarci, anche se non sappiamo dove stiamo andando, anche se non vorremmo andarci, anche se a volte gli resistiamo con tutte le nostre forze. È vero: ciascuno di noi vorrebbe essere lui a decidere per la propria vita, a tenerla in pugno ed essere lui a stabilire dove andare. Ma seguiamolo lo stesso! Avere “fede”, amare Dio, significa infatti lasciare spazio a Dio: lasciare che sia Lui a condurci, a portarci, a dirigere la nostra vita.
Chi dice che Dio infatti non voglia proprio rovesciare la nostra vita? Chi dice che Dio non voglia qualcosa di grande da noi? Chi dice che Dio non stravolga tutte le nostre sicurezze, le nostre idee, per seguirlo? Chi dice che Dio non ci aspetti anche nel dolore, nelle avversità della vita, per consentirci di cambiare radicalmente il nostro carattere, di trasformarci in persone completamente diverse? Chi dice insomma che Dio non scombini questa nostra vita, che noi ci sforziamo invece di costruire secondo i nostri calcoli? Noi continuiamo a vederci sempre come siamo ora: continuiamo a fare progetti senza pensare mai che la nostra vita potrebbe invece cambiare radicalmente dall’oggi al domani!
In ogni caso, Signore, qualunque sia il tuo progetto su di noi, dovunque vorrai condurci, te lo assicuriamo sin d’ora, noi ti seguiremo. Sempre. Perché sappiamo che tutto quello che fai, lo fai per il nostro bene. Amen.
 

giovedì 4 aprile 2013

7 aprile 2013 – II Domenica di Pasqua

«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». (Gv 20,19-31).
Il Vangelo di oggi cerca di spiegare cosa vuol dire “vedere” il Signore, il Risorto, nella vita di tutti i giorni. È la domanda che tutti noi ci facciamo: “Come possiamo vedere Dio? Come possiamo incontralo?” Dove e quando? Pensiamo che incontrarlo significhi vederlo fisicamente: “Se lo vedessi... Se avessi una visione... Se mi facesse un miracolo, allora sì crederei!”. Ma Dio non lo possiamo incontrare così, fisicamente, come vorremmo noi. Fisicamente Dio si è incarnato una volta, si è manifestato in Gesù: ma Gesù è morto duemila e più anni fa e la cosa, dopo alcune apparizioni ai suoi, nei giorni precedenti l’ascensione, è finita li.
Ma allora come, dove, quando, noi possiamo fare esperienza, incontrare il Signore della Vita?
Lo possiamo solo attraverso gli occhi della fede: accostandoci all’Eucaristia, avvicinando il nostro prossimo, il fratello sofferente, il fratello ferito nel cuore, il fratello calunniato, insultato, deriso… È così che possiamo oggi vedere Gesù in carne e ossa. Beh, a parole è semplice, ma non nei fatti, anche perché talvolta questo “fratello” è proprio il nostro “peggior nemico”, uno che ce ne ha fatte passare di tutti i colori! Come dobbiamo comportarci allora? Dotando la nostra vita di amore, di carità, di perdono; virtù che possiamo trarre dall’Eucaristia. Dobbiamo amare, perdonare, perdonare sempre. La vita di Gesù è costruita tutta sul perdono, sull’amore. Ricordate i momenti tragici vissuti dai discepoli subito dopo l’uccisione del Maestro? Ce lo suggerisce Giovanni, facendoci intravvedere i pensieri che opprimono il cuore dei discepoli in queste ore, subito dopo l’uccisione di Gesù.
È una situazione molto difficile la loro. Si sono rinchiusi per la paura. Il loro cuore è carico di preoccupazioni, di ansia: “ciò che è successo a Lui, può succedere anche a noi”. Sono pieni di tristezza, ma sono anche pieni di rabbia per come ciò è accaduto: l’hanno ucciso come un malfattore, un ladro, un delinquente. Ed essi sanno che l’hanno fatto ingiustamente, per invidia, in maniera crudele, pretestuosa, falsa.
Per questo, quando Gesù appare loro, la prima cosa che dice è: “Pace a voi”. Egli sa che la loro anima è nella tempesta, che il loro cuore è stravolto soprattutto dalla rabbia e dall'odio.
Gesù infatti, augurando la “pace”, vuol dire: “Perdonate, lasciate andare (“rimettere”, in greco f°jmi, è “lasciar andare, lasciar perdere”). Il senso delle parole di Gesù è molto semplice, e Giovanni, il discepolo dell’amore, il “discepolo che Gesù amava”, ce lo sottolinea di proposito; anzi lo pone come “ambientazione”, come condizione essenziale per poter vedere Gesù: “Perdona, lascia andare, piuttosto ama”. “Perdonare i fratelli” vuol dire allora “buttar fuori” tutti i risentimenti che coviamo dentro (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), svuotare completamente il nostro cuore; liberarlo, rinnovarlo. Vuol dire non trattenere niente dentro di tutto ciò che ci turba, e accettare la realtà, vivere la vita così com'è, con i suoi alti e i suoi bassi, con le sue soddisfazioni e le sue contrarietà. Se non perdoniamo rimarremo ancorati tutti i giorni alle ferite del nostro cuore; e tutti i giorni ci sentiremo traditi, oltraggiati, uccisi.
Non perdonare significa “trattenere”: e in questo caso la vita, fratelli miei, non scorre più.
Se noi “tratteniamo” le emozioni, la rabbia, l'odio, ponendole come una diga verso l’esterno, non potremo più alimentare il nostro cuore con la vitalità, la carità, l’amore. Diventiamo aridi, secchi, avvelenati. È per questo che spesso siamo infuriati, arrabbiati, nervosi: perché non perdoniamo, tratteniamo tutto e non c’è più posto per l’amore.
Gesù diceva agli apostoli: “Se entrate in una città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente” (Lc 10,11). Cosa vuol dire? Vuol dire: “Perdonate!”. Non facciamone una questione personale: ci hanno rifiutato, ci hanno detto di no? esprimiamo il nostro dolore, la nostra rabbia ma lasciamo quel dolore lì, non portiamocelo dietro. Lasciamo andare.
Del resto, altra verità, l'amore nasce proprio dalla nostra vulnerabilità, dall'incontro con le nostre ferite.
La prima volta che Gesù appare non c'è Tommaso. Tommaso non crede. Per credere deve toccare le ferite: mani e costato. Deve fare esperienza diretta col dolore. Tommaso, chiamato “Didimo” (in greco significa “gemello”), rappresenta tutti noi: c'è una parte di noi che crede e una parte che non crede; in ciascuno di noi ci sono due persone gemelle, ma contraddittorie.
E qui Giovanni ci dice proprio che per incontrare Gesù dobbiamo “incontrare” le nostre ferite; dobbiamo mettere il dito nelle piaghe del nostro cuore. Dobbiamo cioè “separare” semplici sensazioni dall’amore vero. Dobbiamo fare un passaggio decisivo dall’io al noi. Mi spiego.
Per Maddalena Gesù era tutto: lei era totalmente “dipendente”, da Lui: grazie a Lui era guarita da sette demoni. È chiaro che Gesù era il suo “amore”: lei era morta, era pazza, era indemoniata, e Lui l'aveva guarita. È ovvio anche per noi attaccarci a chi ci ha dato la vita; è ovvio che non possiamo non amare chi ci ha ridato dignità; è ovvio che non possiamo non essere per sempre grati a chi ci ha salvato e guarito. Lo siamo per i genitori che ci hanno dato la vita fisica, lo siamo altrettanto per chi ci dà la vita del cuore.
Lei ha amato Gesù, lo ha toccato, lo ha abbracciato. Certamente fra lei e Gesù c'è stato un rapporto particolare, speciale, un rapporto d'amore vero e puro. Poi “glielo” hanno portato via: così va comunque al sepolcro, e se non può stare con il corpo vivo del “suo amore”, ci starà con il corpo morto. Ma là non trova più neppure quello! Lei infatti sente Gesù come cosa “sua”: “Hanno portato via il mio Signore”: quando amiamo, sentiamo l'altro come nostro; lui ci appartiene e noi gli apparteniamo. Sentiamo di non poter vivere senza di lui; sentiamo che la vita non ha senso senza di lui, senza quel rapporto, senza quell'amore. Ebbene: quello che vuol indicarci Giovanni è Il grande passaggio di Maddalena: il suo è un passare dall'amore perché “sei mio”, all'amore “sei di tutti”, “sei della Vita”; dall'amore “ce l'ho vicino” (l'amore fisico, esterno, di presenza, di vita), all'amore “ce l'ho nel cuore” (l'amore interno, dell'anima).
E se fuori i nostri amori ci possono essere sottratti, dal nostro cuore nulla ci può essere rubato. Dentro di noi non perdiamo mai chi amiamo, nulla potrà mai esserci veramente sottratto, mai!. È questo il grande passaggio: dall'amore di attaccamento all'amore di libertà. Gesù le dirà: “Non mi trattenere”: “Lasciami andare, non sono tuo, sono mio e della Vita. Non ti attaccare”. Amiamo le persone ma non attacchiamoci ad esse perché non sono nostre; godiamo di loro e viviamo dell'amore, ma non facciamo del nostro legame un idolo e un possesso. Quando la Maddalena, dopo la sua “conversione interiore”, torna dai discepoli, dice: “Ho visto il Signore”; non dice più “il mio Signore”. Lei continuerà ad amarlo dentro di sé, ma non è più suo: lo ha lasciato andare. È il grande passaggio: ma se muore l'amato, non muore l'amore.
Così, quando arriva la Maddalena e annuncia ai discepoli la scomparsa di Gesù, Pietro e Giovanni corrono a vedere. Non è la corsa dei due discepoli che Giovanni vuol farci rimarcare. Egli vuol dire appunto qualcos'altro di molto più profondo.
Pietro è la testa, l'intelligenza, la razionalità, la concretezza, la praticità delle azioni e dei pensieri. Arrivati al sepolcro, lui entra e vede “le bende per terra e il sudario”, ma non ci capisce nulla. Per Giovanni è diverso: di lui dice infatti che “vide e credette”; di Pietro dice semplicemente che “vide”, ma non che “credette”. Credere è amare. Pietro la razionalità, Giovanni l’amore: egli giunge per primo, ma dà la precedenza al secondo, alla “razionalità”: a lui basta un colpo d’occhio dall’esterno; vede e crede. Non è un caso il suo; egli rappresenta il cuore, l'amore, il sentire, la sensibilità, colui che è vicino al cuore di Gesù, della Vita. È colui che è in grado di percepire con “l'interno”.
Ecco, questo è il messaggio di Giovanni. Azzardo una sintesi: nessuno potrà mai vedere Dio, se il suo cuore non è vivo, non è in grado di percepire, di sentire, di vibrare alla Vita. Anche qui c’è dunque un “passaggio”: Pietro, dopo la sua conversione, diventerà quello che Giovanni è; Giovanni invece è già quello che Pietro sarà. Il grande passaggio è aprire il proprio cuore all’amore, è tornare a sentire il palpito della Vita. Il Vangelo non ha dubbi: se vuoi “vedere il Signore” il tuo cuore deve essere vivo.
Altra considerazione: l’importanza delle “ferite”, del dolore. Quando la nostra anima grida di dolore, noi cosa facciamo? Abbiamo paura: cerchiamo di non sentirla. Abbiamo dei bisogni? cerchiamo di ignorarli. Abbiamo subito un trauma? meglio lasciarlo da parte. C'è qualcosa da affrontare? meglio non farlo, perché poi nascono problemi.
Ma Giovanni dice: “Bisogna toccare le ferite; bisogna mettere il dito sulla piaga, bisogna curarla; perché finché una ferita è viva, continua a sanguinare, ci fa urlare, ci impedisce di vivere e soprattutto ci impedisce di amare”.
Le ferite ci rendono vulnerabili. Nessuno di noi vuole soggiacere, nessuno di noi accetta di essere ferito; siamo tutti diffidenti; e lo saremo finché non scopriremo l’Amore, il più grande, quell’Amore che ha sopportato le più strazianti ferite, che ha affrontato perfino la morte per amore nostro.
Rifugiamoci anche noi, allora, nel “cenacolo”: predisponiamoci ad incontrarlo veramente. Andiamo in chiesa, con il nostro cuore ferito: chi di noi non ha ferite? Chi di noi a sua volta non ha ferito? Andiamo in chiesa con le nostre mani ferite: sono state legate, inchiodate, paralizzate, è vero; ma le “nostre” mani hanno anche colpito, umiliato e ferito i fratelli.
Andiamo in Chiesa a incontrare Gesù, perché si posi nella nostra mano e ci guarisca (la comunione). E poi mangiamolo, Gesù, perché entri nel nostro cuore, lo guarisca e lo risani. Ecco, fratelli, la Pasqua domenicale, l’Eucaristia è proprio questo incontro che ci ridà la forza di guardare a ciò che ci fa male, a ciò che non va, a ciò che non ci piace, a ciò che metteremo in un angolo, che non vorremmo mai vedere.
L'Eucarestia ci dà la forza per toccare le nostre ferite, per metterci mano, per guardarle in faccia. In questo senso l'Eucarestia è terapeutica, risanatrice, curativa, lenitiva, trasformativa.
Giovanni vuol dire proprio questo: che l'incontro con l’Amore, con l’Eucarestia, è un incontro che ci salva, che ci guarisce. E ci offre tante allusioni all'Eucarestia con le parole di oggi: “il primo giorno dopo il sabato”, è la domenica, è il giorno del Signore, il giorno dell'Eucarestia. “Pace a voi” è il saluto di Gesù, è il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano per il banchetto eucaristico. Il “toccare” è il segno domenicale del toccare/ricevere il corpo di Cristo. “Mio Signore e mio Dio!” è ciò che ci deve succedere in ogni eucarestia: un'esperienza, un incontro vivo. In ogni messa noi dobbiamo far esperienza del Risorto, toccarlo, sentirlo.
Tommaso non rappresenta colui che dubita, ma colui che deve fare esperienza per poter credere. Del resto, vale per tutti: non possiamo credere in qualcosa che non abbiamo conosciuto, sentito, visto, toccato, percepito.
“Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”: dalla morte di Gesù, come abbiamo detto, non è più possibile vederlo fisicamente: ma possiamo vederlo e sentirlo interiormente sia nell’eucarestia, come nei nostri fratelli.
Ma dobbiamo fare attenzione: non confondiamo il fine con i mezzi.
I “mezzi” - il canto, le letture, la celebrazione, le parole, i bei riti, la liturgia - ci devono servire solo per arrivare ad incontrare il “fine”, Gesù in persona. Ma se la messa non è un'esperienza, un vero incontro, se noi non usciamo dalla messa con la sensazione chiara, netta, definita, di averlo sentito vivo in noi e in quella comunità, la nostra messa è stata inutile, non è servita a nulla. Come facciamo a ricaricarci, trasformarci in Amore? Cosa riusciremo poi a trasmettere nella carità ai fratelli? Penso che a questo punto dobbiamo farci delle serie domande: perché, fratelli, l'Eucarestia, è rendere vivo, incontrare un Vivo, non un morto! L'eucarestia non è il semplice ricordo di un fatto storico, ma è fare esperienza del Risorto oggi. L'eucarestia è un'esperienza sanante, guaritrice, un incontro con Colui che è la Vita e che ci fa vivere. E se un incontro c'è, si vede, si sente, si percepisce anche all’esterno, perché ci cambia. Altrimenti non c'è incontro, ovvio!
Allora chiediamoci: le nostre Messe sono esperienze di Vita, esperienze del Signore Risorto? Oppure rispondono ad un’usanza, a un qualcosa che “dobbiamo” fare perché gli altri lo fanno? Quando usciamo ci sentiamo trasformati? Parlano al nostro cuore, lo fanno vivere, lo fanno vibrare? Quando ci accostiamo all'Eucarestia cosa cerchiamo? Il corpo vivo e palpitante di Cristo cosa rappresenta per noi? Un'esperienza, un anestetico, un calmante oppure la vera Vita? Possiamo dire dopo un'Eucaristia: “Sì, o Signore, io ti ho visto, ti ho toccato, ti ho incontrato, ho sentito la tua voce parlare al mio cuore?”. È questo incontro, fratelli, che accresce la nostra Vita. Perché Lui è la Vita, e incontrarlo significa vivere veramente e far vivere di più. Amen.