giovedì 30 agosto 2012

2 Settembre 2012 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro». E diceva ai suoi discepoli: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, in­ganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall'interno e rendono impuro l'uomo» (Mc 7,1-8.14-15.21-23).
Dopo la lunga parentesi in cui abbiamo meditato per intero il sesto capitolo del vangelo di Giovanni, riprendiamo la lettura di Marco che ci accompagnerà fino alla conclusione di quest’anno liturgico. Per meglio comprendere l’assurdità dell’episodio che Marco oggi ci propone, dobbiamo necessariamente rifarci ai fatti che immediatamente lo precedono: Gesù ha appena vissuto tre esperienze fortissime in prossimità del lago di Tiberiade.
La prima sulla riva: molta gente lo seguiva perché “erano come pecore senza pastore” (6,34). Avevano lasciato casa, lavori, campi e si erano perfino disinteressati del cibo pur di ascoltarlo. E proprio per loro Gesù opera la moltiplicazione dei pani (6,34-43); Egli fa esperienza di una gran folla di persone assettate, affamate, che vogliono sapere, che vogliono nutrirsi, che vogliono mangiare cibo di vita.
La seconda durante la traversata del lago: i suoi discepoli sono angosciati per il forte vento e non riescono a remare. Gesù va incontro a loro camminando sulle acque. I discepoli sono terrorizzati e credono sia un fantasma. Ma Gesù dice: “Coraggio sono io, non abbiate paura” (6,47-52). Gesù sente, percepisce la paura, il terrore dei suoi amici: il terrore di affondare nel vento, il terrore nel vederlo, nel vedere cose straordinarie che non riescono a metabolizzare.
La terza dopo l’approdo sulla riva opposta: la gente lo riconosce e lungo tutto il suo passaggio una folla di malati e paralitici, solo toccando il suo mantello, improvvisamente “venivano salvati” (6,53-56). Gesù sente il dolore della malattia, della sofferenza, del limite, dei condizionamenti.
Gesù dunque si sente immerso nella vita, è attorniato da gente che vive ai margini dell’esistenza umana, dove la miseria scorre, dove si soffre, dove si cerca disperatamente di sopravvivere: dove si piange e ci si dispera, dove ci si rialza, dove, insomma, si vivono intensamente sentimenti di pathos, di dolore, di disperazione.
E mentre Gesù vive e condivide tutto questo, alcuni farisei e scribi si avvicinano e si lamentano con lui: “I tuoi discepoli non si sono lavate le mani; i tuoi discepoli mangiano di sabato; i tuoi discepoli toccano persone impure; i tuoi discepoli non sono religiosi perché non rispettano tutte le leggi”. Ecco, questo è il loro grande assillo, il loro problema esistenziale! È naturale quindi che Gesù di fronte a tanta stupida superficialità si scateni. Diventa furibondo contro questi ottusi legalisti, questi “ipocriti”, questa gente che rispetta tutti i 613 precetti della legge soltanto per salvare le apparenze, per farsi belli di fronte agli altri. E Gesù si esprime nei loro confronti ruvidamente, gelidamente, con rabbia. “Sono questi i vostri problemi vitali? Siete senza cuore, non avete anima, non avete ancora capito né percepito chi è davvero Dio, cosa vuole e a che cosa ci chiama veramente. Con le vostre stupide tradizioni e leggi vi fate soltanto compatire. Voi vi preoccupate di essere a posto, bravi, in perfetta regola davanti agli altri; a me invece interessa l’uomo, il suo interiore, l’anima, l’amore, la vita. A voi interessano tutti i precetti della legge, a me interessa l’amore dell’uomo, le sue fatiche, le lacrime, le conquiste, i piccoli passi, le libertà conquistate. A voi interessano queste leggi perché siete legati dentro, con voi stessi; a me interessa l’uomo perché sono libero. A voi interessa l’apparire; a me interessa l’essere”.
Al tempo di Gesù la legge ebraica è ancora scrupolosamente rispettata da tutti. Il favore poi, di cui i farisei godono tra i loro concittadini, è fuori discussione. Quindi Gesù, che li critica, si scaglia non solo contro di loro ma contro un sistema di valori, che era accettato e condiviso dall’intera popolazione. Ciò che Gesù dice è pertanto contro la morale comune. Ciò che Gesù dice è altamente scandaloso.
Del resto le regole dei farisei originariamente non erano stupide; è che nel corso dei secoli hanno perso il loro valore. Lavarsi le mani o rispettare il sabato aveva sicuramente un senso molto profondo. Era un modo per dire: “Devo avvicinarmi a Dio con le mani e soprattutto con il cuore puro; ritagliare un tempo, il sabato, di preghiera, di silenzio, di pace, per vivere ricordandomi che Dio è il signore del tempo e di ogni giorno. In quel giorno non farò niente non perché Dio voglia che io non faccia niente, ma perché nessun lavoro può essere paragonato a Dio”. Gesti che col tempo hanno perso la loro anima, si sono svuotati. Non hanno più significato, si continuano a fare perché si è sempre fatto così, perché si è stati abituati così.
Quando un gesto perde la sua anima, diventa automaticamente formale o “fondamentalista”.
Un gesto esprime (o dovrebbe esprimere) un senso, un’anima, un sentimento del cuore. È la conseguenza di un impulso interiore, di ciò che abbiamo e proviamo dentro. Se perdiamo di vista l’obiettivo, se il nostro gesto non esprime più l’intenzione è inutile, è formale, sicuramente anche falso.
Quindi, pur nel loro scrupoloso e formale attaccamento alla legge, le persone che attorniavano Gesù erano tutto sommato delle brave persone: e tra queste persone Gesù mette in atto la profonda rivoluzione del suo Vangelo. Purtroppo è che molti di loro non sono riusciti comunque a incontrare il Dio di Gesù! Anzi, non l’hanno voluto proprio incontrare!
Beh, fratelli, quante volte anche noi diciamo: “Sono un bravo cristiano! Vado a messa tutte le domeniche, non faccio male a nessuno, non rubo, non uccido”. Tutto questo è una cosa buona, positiva. Ma non è il Dio di Gesù. Il Dio di Gesù è misericordia, amore, perdono, vita.
Cosa proviamo nel nostro cuore? Quando trattiamo col nostro prossimo, cosa sentiamo, cosa avvertiamo dentro? Il nostro cuore vive più di odio o di amore? Nel risentimento vendicativo, o nella gioia della vita? Se gli altri hanno successo, proviamo piacere o invidia? Il nostro cuore è isolato, chiuso, o è aperto all’amore e alla compassione verso tutti? Oppure il nostro cuore non sente più nulla, è morto, arido, rinsecchito?
Fino a qualche tempo fa anche nella nostra chiesa cattolica questa mentalità “esteriore” era molto in auge (e per molti lo è ancora oggi!). C’era la tendenza a “quantificare”, a “contabilizzare” tutto ciò che riguardava la vita cristiana. La domanda classica era: “Quante volte?”. Nel catechismo c’era, ad esempio, l’invito a fare spesso il segno della croce: “Perché tante volte?” (il catechismo era fatto a domande e risposte). “Perché in ogni tempo e luogo i nostri nemici ci combattono e ci perseguitano”. Vero, ma pensate che paranoia, che senso di persecuzione si nascondeva dietro ad una risposta del genere! Un bravo cattolico inoltre doveva conoscere: le 7 domande del Padre Nostro, i 10 comandamenti, le 14 opere di misericordia (7 spirituali e 7 corporali), i 7 sacramenti, le 5 parti o condizioni del sacramento della penitenza, le 9 cose mediante le quali si perdonano i peccati veniali, i 7 peccati capitali, le 7 virtù teologali, le 4 virtù cardinali, i 5 sensi corporei, i 7 doni dello Spirito e i loro 12 frutti, le 8 beatitudini, i 4 novissimi, i 15 misteri del rosario, ecc. ecc.
Una edizione del catechismo diceva addirittura che pecca mortalmente: “colui che giura dubitando se ciò su cui sta giurando sia effettivamente vero ; colui che lavora più di 2 ore nei giorni di festa senza bisogno; il figlio che non obbedisce ai genitori per quanto riguarda i buoni costumi; colui che dice o canta cose sconce o le ascolta con piacere; chi assiste alla messa senza attenzione per un tempo notevole; chi non digiuna senza legittima causa; chi è obbligato all’astinenza delle carne nei giorni stabiliti e non la osserva; chi non compie una penitenza grave o la rinvia per molto tempo, ecc.
Fratelli miei: di fronte a tutte queste “prescrizioni legali” chi potrebbe professarsi ancora un “bravo cattolico? Gesù li chiama “ipocriti” i legalisti. “Ipocrita” in greco vuol dire “colui che recita, che declama”; “ipocrita” indica una falsa apparenza, una maschera, uno che all’interno è all’opposto di quello che fa vedere all’esterno.
Gesù condanna questa gente per due motivi. Primo: hanno deformato il comandamento di Dio, mettendo in bocca a Dio leggi e norme umane. Cioè: fanno dire a Dio quello che vogliono loro (il loro pensiero). Secondo: non sono le cose ad essere pure o impure ma è il cuore dell’uomo a renderle tali. Non è ciò che è fuori che contamina o consacra le persone, ma ciò che è dentro. “Tutto dipende dal nostro cuore” dice Gesù, e “Ciò che hai dentro è la tua vita o la tua morte”.
Se ciò che facciamo non nasce dal cuore, è una semplice “prestazione”, un esercizio meccanico. Noi possiamo pregare: ma se la nostra preghiera non ha un cuore, non ci coinvolge, non ci “tocca”, non ci fa vibrare, non ci procura dei sussulti, non potrà mai metterci in contatto con il Padre.
Se noi preghiamo e la nostra preghiera non ha un cuore, non sarà mai lode a Dio; lo facciamo, come i farisei, per altri motivi: per essere bravi, per essere ammirati, stimati, a posto con la legge e con la nostra coscienza (deformata!).
Noi possiamo dare un bacio: ma se il nostro bacio non ha un cuore, cioè se non vogliamo bene alla persona che abbiamo baciato, non proviamo affetto per lei, non proviamo un sentimento, il nostro bacio è come quello di Giuda. Giuda, un apostolo, bacia Gesù, ma il suo bacio è impuro. Anche la Maddalena e altre donne, considerate “donnacce”, lo baciano, ma il loro è un bacio puro, di amore autentico.
Non è il gesto ma l’intenzione con cui lo facciamo che lo rende decisivo. È ciò che abbiamo dentro che determina ciò che facciamo fuori; in altre parole è ciò che abbiamo dentro che determina la nostra vita e diventa il nostro destino.
Cosa succede allora se dentro abbiamo un vulcano? Cosa possiamo seminare, cosa può uscire da noi se dentro siamo solo un magma rabbioso? Come possiamo rapportarci ai figli, al coniuge, ai confratelli, a qualunque altra persona, con tutto quel livore che bolle dentro di noi? Prendiamoci cura del nostro cuore, fratelli, perché è da lì, da dentro, che viene ciò che distrugge noi e chi ci sta vicino.
Cosa succede se dentro abbiamo un cuore superbo, prepotente, tiranno? Giudichiamo tutto e tutti: bianco o nero; bene o male, giusto o sbagliato, bravo o cattivo. Il nostro comportamento con gli altri è sempre duro e intransigente. Allora prendiamoci cura del nostro cuore perché da esso sgorga la vita o la morte.
Cosa succede se dentro abbiamo una tempesta di dubbi? Non sappiamo ascoltarci, siamo frastornati dalle nostre fantasie: e non possiamo certamente ascoltare gli altri. Non siamo felici noi e non faremo felici gli altri. È ora che ci prendiamo cura del nostro cuore perché è la sorgente di ogni felicità e di ogni infelicità.
Cosa succede se dentro non abbiamo amore? Se siamo aridi? Se sentiamo un “vuoto” di amore? Ebbene, non potremo che essere gelosi, insensibili, egoisti e invidiosi degli altri. Prendiamoci cura dei “vuoti”, delle voragini del nostro cuore, e così non cercheremo di riempirli con cose e persone sbagliate. Prendiamoci cura del nostro cuore, fratelli,  e il mondo non potrà che inchinarsi ai nostri piedi. Se il cuore è libero vive d’amore. Ma se è pieno d’altro, di questo vive. Amen.

 

mercoledì 22 agosto 2012

26 Agosto 2012 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse allora Gesù ai Dodici: Volete andarvene anche voi? Gli rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 60-69).
Il vangelo di oggi è la continuazione di quello di domenica scorsa e conclude il lungo discorso di Gesù sul pane. Abbiamo già detto che le parole di Gesù sono difficili da capire, e oggi Giovanni ce lo ribadisce ancor più chiaramente: «molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
In questo lungo discorso, in estrema sintesi, Gesù sostiene che bisogna nutrirsi di autenticità e denuncia le ipocrisie dei suoi ascoltatori: in altre parole, non basta dirsi credenti, non basta una semplice preghierina, non basta un’opera buona, non basta avere ottime intenzioni, non bastano i buoni propositi… Tutte cose lodevoli, ma non bastano, non servono, non sono sufficienti.
Quante volte ci siamo proposti anche noi di fare questo e quello, e poi puntualmente non l’abbiamo neppure iniziato. E non possiamo accampare scuse: è più onesto ammettere che non abbiamo voglia di farlo, che non abbiamo motivi sufficienti, ragioni profonde.
“Chi mi vuol seguire deve mangiare la mia carne”: l’invito è chiaro; chi vuol essere mio discepolo deve respirare la mia stessa aria, deve fidarsi di Me, deve essere convinto, deve avere i piedi ben piantati per terra, deve sentirsi protetto e sicuro nella Mie mani, anche se si trova in mezzo a conflitti e difficoltà di ogni tipo; e soprattutto deve vincere la paura, qualunque paura.
Anche se perentorio, capiamolo bene fratelli, quel “deve” non indica comunque un “obbligo”, una costrizione; è un “deve” che ci offre di scegliere l’unica, valida opportunità per seguire Gesù. In tutta libertà. Possiamo farlo o non farlo, dipende da noi. L’importante è che di fronte a questo bivio dobbiamo essere onesti con noi stessi: non possiamo illuderci, non possiamo prenderci in giro; non possiamo pensare di accantonare l’invito, privilegiando percorsi fasulli, che non potranno mai portarci a nulla di buono.
Gesù non costringe nessuno a seguirlo. Non costringe i suoi fedeli. Egli non sa che farsene di persone che lo seguono per obbligo, per dovere, per costrizione. Non facciamo così anche noi? chi infatti sceglierebbe per amico fidato una persona che non ama, che non stima, che odia? Sarebbe assurdo! E allora come facciamo a pensare di piacere a Dio, di essergli amici, discepoli fedeli, se lo seguiamo soltanto per “dovere”, perché così ci è stato insegnato fin da piccoli, perché purtroppo ci “tocca” e non possiamo farne a meno di fronte agli altri, alla famiglia, alla comunità? Dio non sa che farsene di gente simile, di gente che non lo ama! Gesù vuole essere seguito nella libertà e per amore: nella libertà perché siamo noi che lo scegliamo; perché siamo noi che lo vogliamo, che decidiamo di volerlo; il motivo? perché Lui per noi è l’aria che respiriamo, il pane che ci sazia e l’acqua che ci disseta; la Vita che ci fa vivere; e lo facciamo per amore perché siamo attratti da Lui, sentiamo che la nostra vita senza di Lui è vuota; perché abbiamo assoluto bisogno del suo amore, quel Pane che ci nutre, quella Strada sicura, quella Via verso la Verità e la Vita. Lo seguiamo perché ci conquista continuamente, ci affascina, ci prende l’anima.
Ecco perché i tiepidi, i poco innamorati, i poco convinti, quelli cioè che seguono Gesù solo per convenienza, di fronte alla Sua proposta secca e perentoria, rimangono costernati, allibiti, pietrificati: “È duro questo linguaggio, chi può intenderlo?”
E sono anche vili: perché non hanno il coraggio di dirlo apertamente a Gesù; borbottano tra di loro, di nascosto, con cattiveria. Niente di nuovo, comunque: è tipico di chi è insignificante, mediocre, “mezza tacca”, comportarsi in questo modo. Se ha qualcosa da dire, se non è d’accordo, se c’è qualcosa che non gli va, non è mai chiaro, franco, sincero; preferisce nascondersi nell’ombra, nella critica subdola, nella maldicenza, nel colpire a tradimento, nello sparlare alle spalle. È gente che si comporta così proprio perché ha paura; teme il confronto, perché non sa sostenere pubblicamente le proprie idee, le proprie posizioni. I loro sussurri si basano soltanto su malevoli “si dice”, spesso vere e proprie calunnie; evitando il confronto diretto, contrabbandano per autentiche le loro meschine falsità.
Questi pseudo discepoli hanno dunque paura di Gesù. Temono il suo giudizio e quindi preferiscono nascondersi (ricordate Adamo nell’Eden?), scelgono di borbottare alle sue spalle piuttosto che comunicargli i loro sentimenti. Ma Gesù coglie distintamente le loro mormorazioni, coglie la loro poca convinzione, la loro meschinità: “Questo Rabbi è troppo esigente, ci chiede troppo; se le cose stanno così, noi ce ne andiamo!”.
Quanti “cristiani” anche oggi, fratelli, ricorrono alle più futili spiegazioni, accampano le scuse più banali per giustificare il loro abbandono della fede e della Chiesa! Dicono che la chiesa deve cambiare, che non è più quella di Cristo, che nella chiesa ci sono troppe “mele marce” (il che è anche vero, ma purtroppo è fatta di uomini), che preferiscono seguire una “loro” religione più spirituale, più coerente di quella cattolica; ma “per carità: noi non rinunceremo mai di professarci cristiani”! Poveretti. Il vero motivo invece, fratelli miei, è che hanno capito che Gesù è esigente, che non si accontenta di parole, di “manfrine”, di parate esteriori. Il vero motivo è che non vogliono mettersi in gioco; hanno capito che seguire Gesù non è proprio come andare a divertirsi. Il divertimento si risolve nel presente, nell’attimo fuggente, non impegna il domani. Seguire Gesù invece è una scelta “pesante”, con delle conseguenze che si ripropongono incessantemente, ogni istante della giornata, tutti i giorni della vita. Hanno insomma capito che Gesù non ammette scorciatoie, sotterfugi, furberie: se vogliono seguire Gesù, devono purtroppo dire “sì” a certe cose, e “no” a certe altre. Non ci sono altre possibilità.
“Questo linguaggio è duro”. È vero. E chiediamoci anche: “chi può capirlo veramente in tutta la sua portata? Chi lo può fare proprio? Chi può viverlo coerentemente?
È chiaro che Gesù qui si è stancato di assistere all’indifferenza, all’egoismo, al tornaconto materiale di gran parte della folla che lo segue. La sua pazienza è andata oltre ogni limite. E fissa i paletti: mette cioè quelli che dicono di volerlo seguire, di fronte alle proprie responsabilità. E lo fa in maniera risoluta: “Se non lasci tuo padre e tua madre, non mi puoi seguire”. Se cioè ti volti indietro e ti attacchi al passato, se pensi a quanto bello era una volta, a come stavi bene prima, non mi puoi seguire! Gesù deve talvolta sembrare minaccioso, deve essere severo, deve farsi temere. E nonostante che questo lungo discorso sul “pane della vita”, Gesù lo faccia in una sinagoga (Gv 6,59), quindi alla presenza di persone “religiose”, di persone “esperte”, molte di loro se ne vanno. Gli dicono: “Chi ti può seguire Gesù, se è così come dici tu?”. Gesù non le ferma. Non si preoccupa affatto di quanta gente lo segua. Gesù non vuole folle oceaniche di discepoli, vuole semplicemente innamorati della Vita e dello Spirito.
Si racconta che un santo abate avesse raccolto al suo seguito circa duecentomila monaci. Un giorno un visitatore gli chiede: “So che i tuoi monasteri sono tutti sovra popolati; quanti monaci arrivi a contare in totale?”. E lui risponde: “Quattro o cinque!”.
Gesù con dodici persone (anzi undici perché uno lo tradì) cambiò il mondo. La quantità non è mai stata una sua preoccupazione. Noi invece siamo molto sensibili ai grandi “numeri”: e non ci rendiamo conto che l’ansia per il numero è segno della nostra voglia di emergere, della nostra sete di potere, di essere importanti, di essere riconosciuti. “Guarda quanta gente ti abbiamo portato, Signore! Guarda, quanti discepoli abbiamo radunato nella tua Chiesa!”. E non ascoltiamo quello che Egli invece vuol dirci: “Non preoccupatevi troppo del numero, non è affare vostro; preoccupatevi piuttosto che le vostre parole e la vostra vita siano “si, si; no,no”; siano cioè coerenti allo Spirito di Vita”.
Gesù non dice a chi se ne vuole andare: “Ma perché te ne vai? ho detto qualcosa che ti ha fatto male? Non andartene, ti prego!”. Gesù non li ferma. Non vuole sudditi, marionette, servi. Vuole uomini liberi. Se rimangono, rimangono perché lo vogliono, perché credono in Lui. Nessuno deve rimanere con Lui per paura, per senso di colpa, per dovere.
A questo punto si rivolge anche ai dodici senza mezzi termini: “Volete andarvene anche voi?”. Eppure gli apostoli erano la sua casa, i suoi amici, i suoi “partner”. Ma Gesù non si attacca neanche a loro, vuole un rapporto basato sulla libertà, sulla sincerità. Un invito coraggioso il suo: “Siete liberi di rimanere o di andarvene”. Gesù non usa particolari strategie per trattenerli: né sensi di colpa, né il suo fascino, né il suo potere, né la manipolazione, né l’adulazione, ecc.
E finalmente, a questo punto, interviene Pietro; esplode! L’impulsivo e passionale Pietro sbotta: “Ma Signore da chi vuoi che andiamo? Da chi altri troveremo mai quello che ci dai tu?”.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. L’economia, il mondo, la società, ci possono dare i soldi e il benessere, ma non ci possono dare la felicità dell’anima, la sensazione di essere vivi, la passione e la vitalità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La giustizia e la magistratura possono darci sentenze, ma solo tu sai cosa c’è nel cuore dell’uomo. Tu solo conosci la vera giustizia e la verità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La famiglia può darci amore e affetto, gioia e unione, ma nessun amore può spegnere la nostra sete e la nostra ricerca infinita di amore, di approvazione. Solo tu puoi amarci di un amore incondizionato. Lo psicologo, la guida spirituale, possono migliorare le nostre relazioni, curare e rimarginare le ferite dell’anima. Ma poi, altri dolori e altri dispiaceri si accumulano nel nostro cuore.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?” Chi ci può ascoltare sempre? Chi asciuga in ogni istante le nostre lacrime? Chi c’è sempre pronto a soccorrerci? Quando sbagliamo, quando combiniamo guai terribili, da chi possiamo ricorrere ogni volta? Chi ci può dire: “Io ti perdono, va’ in pace, tutto è cancellato, ricomincia da capo, come nuova creatura”? Quando “scantoniamo”, quando inganniamo noi stessi per paura di affrontare la realtà, sei Tu che ci riporti in noi stessi; sei Tu che permetti alle situazioni di costringerci a farlo. Per fortuna ci sei Tu! Chi altro può dirci: “Va bene così”, in modo da farci sentire a casa nostra, a nostro agio, anche se non siamo perfetti? Chi altro può dirci: “Ci sono io”, così da sentirci sempre seguiti, accompagnati, quando non sappiamo dove andare? Chi altro può dirci: “Non aver paura”, quando siamo paralizzati dal terrore?
Solo Tu, Signore. Solo Tu hai parole di vita eterna!
Allora, “da chi altro vuoi che andiamo, Signore?” Solo da Te. Amen.


giovedì 16 agosto 2012

19 Agosto 2012 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51-58).
Giovanni nel vangelo di oggi ci ripropone ancora il concetto del “pane della vita”, un argomento decisamente di non facile comprensione. Gesù stesso se ne rende conto di fronte alle contestazioni dei giudei: e per questo Egli insiste e sottolinea ancora una volta l’importanza del suo dono; la sua carne e il suo sangue sono gli elementi che trasmettono la vita divina all'uomo e lo trasformano in una nuova creatura.
Gesù non fa nulla per sfruttare la popolarità del momento, dovuta al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci operato poco prima; né si preoccupa di ammorbidire le sue affermazioni, che sa in aperto contrasto con la mentalità dei suoi ascoltatori. Anzi, sembra quasi che provi piacere nel provocarli... «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna... dimora in me e io in lui».
«Bere il sangue»: è infatti difficile immaginare una espressione più dirompente, più scandalosa per gli ebrei del suo tempo. Il sangue era sinonimo di vita: bere il sangue di un’altra creatura, era impensabile, vietatissimo, perché ciò avrebbe creato una “commistione” di vita. Proprio per questo, nella macellazione degli animali essi facevano fuoriuscire dall’animale ogni traccia di sangue prima di consumarne la carne; e sempre per questo motivo guardavano con orrore i pagani che mangiavano la carne senza sottoporla ad un analogo trattamento.
Quando Gesù, pertanto, invita tutti a «bere il suo sangue» sa perfettamente di irritare, scandalizzare, provocare rifiuto, contrasto, disapprovazione.
E allora perché lo fa? Non poteva scegliere un'immagine meno forte? Non era forse meglio evitare di ferire le orecchie dei fedeli del suo tempo? Proprio perché conosceva bene le loro tradizioni e le loro «manie»?...
Certo noi, fedeli di oggi, abituati ad una comunicazione melliflua, in “politichese”, che crei consenso generale, avremmo preferito che le parole di Gesù trovassero approvazione da parte del suo pubblico. Ma per Gesù, quello che conta veramente, è di presentare in maniera chiara e nitida ciò che egli offre, perché lo si possa accettare o rifiutare liberamente.
La verità, dunque, anche se dura, anche se ostica, anche se poco gradevole, conta di più di qualsiasi altra cosa. E noi sappiamo che la sua è una verità di salvezza, una verità consolante, benefica. Il sangue è vita? Ebbene; Gesù, versandolo per noi, ci ha dato la sua vita. «Mangiare la sua carne e bere il suo sangue» significa quindi entrare in comunione profonda con Lui, entrare nella sua vita.
“Carne e sangue”, dunque, potranno anche sembrare termini esagerati: ma non lo sono se passiamo attraverso l'esperienza che Gesù ci propone; non lo sono se avvertiamo il vincolo di amore che egli nutre nei nostri confronti; allora nulla vi è di eccessivo. Anche se siamo ancora tanto lontani. Anche se queste parole scandalizzano pure noi.
Noi, malati di possesso, di accumulo, di sicurezze, di garanzie.
Noi, che viviamo sul crinale dell’idolatria, che rischiamo di dimenticare il significato della parola “gratuità” e cavalchiamo la logica del tornaconto.
Noi, che permettiamo alla pubblicità di plasmare i nostri bisogni, per poi correre ai nuovi “templi” domenicali per cercare di saziarli.
Noi, che non sappiamo più nemmeno chiamare per nome i sentimenti che ci abitano, che siamo analfabeti del cuore e balbuzienti dello Spirito.
Sì, fratelli: la Parola di oggi è veramente anche e soprattutto per noi.
Gesù ci invita a nutrirci di Lui, a nutrirci di Amore, della Sua carne e del Suo sangue, dono totale di sé stesso nelle mani del Padre, dono perpetuo della Sua Pasqua. Nutrirci di Lui per capire finalmente e credere che “la carne che dona vita eterna” è quella offerta per amore, e non quella conservata “sotto vuoto”; che la gratuità è il ritmo cardiaco della felicità; che solo Dio sazia l’insaziabile desiderio di amore che ci abita.
Lasciamoci dunque portare dallo Spirito sulla strada che Lui ci ha tracciato; e se facciamo un po’ di fatica per seguirla, tranquilli: vuol dire che siamo sulla strada giusta.
Le parole di Gesù alludono chiaramente all’Eucaristia domenicale: quella Eucaristia che il più delle volte stancamente facciamo nelle nostre distratte comunità.
Ci crediamo veramente, fratelli? Crediamo veramente che, grazie alla preghiera della comunità, al dono dello Spirito e all'imposizione delle mani di un prete (talvolta purtroppo lui stesso inconsapevole del potere che ha), Gesù si rende cibo?
Ebbene, Gesù allude proprio a questo dono semplice e tremendo, gioioso e durissimo, che ci obbliga alla fede, che ci scardina dalle nostre tiepide abitudini. Ogni domenica ci raduniamo per ripetere la Cena, un gesto di caldo affetto e di obbedienza al Maestro; ogni domenica ci nutriamo del pane della Parola e del pane Eucaristico, e custodiamo questo pane nelle nostre Chiese per i nostri malati, per segnalare una Presenza nel caos anonimo e dissacrante delle nostre città.
Siamo lì per questo, fratelli; per questo ci raduniamo, perché, affamati, abbiamo urgente bisogno di saziare il cuore, di illuminare il cammino, di credere, finalmente, senza ambiguità, senza ritrosia. Credere, fratelli; credere con tutto il cuore e con tutta l'anima. Perché nell’eucaristia non mangiamo il corpo “umano” di Gesù. Non potremmo. Quel corpo è stato legato al suo tempo e ai suoi luoghi. Ora non c'è più. Mangiamo però il suo “corpo” risorto, quel corpo uscito dal sepolcro la mattina di Pasqua, vittorioso sulla corruzione e la morte. E noi possiamo mangiare questo corpo, perché è Dio; quindi infinito, dovunque, al di fuori del tempo e dello spazio, inesauribile, presente nella sua interezza in ogni frammento di pane e in ogni goccia di vino consacrati.
La messa è nutrirsi di Gesù risorto; è un pezzo di risurrezione che entra e cresce dentro di noi. È una cosa straordinaria. La messa non dà soltanto qualcosa di buono, di santo, di grande: la messa trasforma, “fa essere”. Fa essere direttamente Gesù risorto: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui».
Allora, fratelli miei, chiediamoci tutti onestamente: cos'è l'eucarestia nella nostra vita? Che importanza ha per noi? Perché andiamo a messa la domenica? Certo, partecipare a certe messe nelle nostre chiese non è che ci aiuti poi tanto: sono messe “stanche”, non ci entusiasmano, sono troppo “rituali” ed esteriori; le viviamo con un senso di abitudine e di noia. Inutile scandalizzarci, strapparci le vesti: nelle nostre celebrazioni, fratelli miei, manca soprattutto la fede, sia in chi presiede che in chi partecipa. Perché allora non cominciamo a credere veramente noi per primi? Perché non facciamo di quella Cena il cuore della settimana, lo stimolo per la nostra vita? Perché non osiamo di più? Perché non ci riappropriamo dell'eucarestia, perché non ci innamoriamo di questo gesto, e lo prepariamo con gioia, con serenità? Perché non facciamo diventare le nostre eucarestie un capolavoro di autenticità e di fede, di bellezza e di lode, cosicché nessuno più possa fare a meno di parteciparvi?
La messa infatti è un dono che agisce solo se viene accolto e trafficato. Il pane vivo ci porta verso la risurrezione se viviamo da risorti: da uomini saggi, secondo la volontà di Dio.
È vero, non è per nulla facile capire bene le parole di Gesù, e metterle in pratica.
Noi però siamo fortunati in questo: perché c’è Maria, la nostra mamma, che ci aiuta; Maria, una creatura come noi, che è già quello che noi saremo. È stata assunta in cielo, come abbiamo festeggiato alcuni giorni fa; è sbocciata alla risurrezione, perché Gesù ha dimorato in lei e lei in lui. È la nostra speranza, la nostra garante: anche noi sbocceremo alla vita eterna, se, come lei, crediamo nell'adempimento delle parole del Signore: di tutte le sue parole, anche di quelle di oggi: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno». Crediamoci dunque, fratelli, crediamoci veramente. È vero, siamo tiepidi, sconcertati, distratti, svogliati; siamo pieni di dubbi e abbiamo paura della fatica: ma nonostante tutto, crediamoci! Amen.


martedì 14 agosto 2012

15 agosto 2012 - Assunzione in cielo di Maria SS.ma

Il significato del dogma
Il dogma dell'Assunzione di Maria Santissima al cielo, è stato definito da Papa Pio XII il 1º novembre 1950, al termine di un anno santo che concludeva un periodo, durato circa un secolo, di straordinario fervore devozionale verso la Vergine Maria, anche a motivo delle apparizioni di Lourdes e di Fatima.
Il testo suona così:
«L'Immacolata sempre Vergine Maria, Madre di Dio, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo» (DS 3903).
La verità definita riguarda soltanto lo stato glorioso raggiunto dalla Vergine, ma non dice nulla circa il modo in cui Maria vi giunse, se cioè passando attraverso la morte e la risurrezione, oppure no.
La gloria celeste di cui si parla qui, è lo stato di beatitudine nel quale si trova attualmente il corpo santissimo di Gesù Cristo; stato, al quale giungeranno tutti gli eletti alla fine del mondo.
Il privilegio dell'Assunzione concesso a Maria consiste pertanto nel dono dell'anticipata glorificazione integrale del suo essere, anima e corpo, a somiglianza di Gesù suo Figlio.
L’espressione «assunta alla gloria celeste» non vuol dire di per sé una traslazione locale del corpo della Vergine dalla terra al cielo, ma il passaggio dalla condizione dell'esistenza terrena alla condizione dell'esistenza propria della beatitudine celeste.
Il magistero della Chiesa e i teologi, però, sono comunemente concordi nell’ammettere che il «cielo» non significhi soltanto uno stato, ma anche un «luogo»: il luogo dove si trova appunto Cristo risorto e glorioso, in anima e corpo, e dove si trova Maria accanto a Lui.
Precisare ulteriormente dove si trovi, e in quale ordine di rapporti sia con il nostro universo visibile, è assolutamente impossibile.
La Costituzione Munificentissimus Deus che accompagna la definizione dogmatica sviluppa la prova del dogma in tre tempi:
·        innanzitutto porta come argomento fondamentale, e per se stesso pienamente sufficiente, l’unanime consenso dell'Episcopato (diversamente da quanto si era verificato circa un secolo prima in occasione della definizione del dogma dell'Immacolata); il Magistero ordinario e universale della Chiesa, infatti, essendo infallibile nell'insegnare la verità rivelata non in virtù di ricerche o conoscenze naturali, ma per l'assistenza dello Spirito Santo, garantisce l'origine rivelata di ciò che insegna in modo unanime, a prescindere dalle prove positive o speculative che possano venir portate per il suo insegnamento.
·        offre poi un breve excursus storico sul modo in cui la fede nell'Assunzione di Maria si è affermata, sviluppata, giustificata e imposta nella Chiesa, fino a diventare una verità universalmente creduta;
·        infine indica quali sono i fondamenti rivelati di questa fede nell’intima connessione di Maria con Cristo come ci è insegnata dalla Scrittura.
Per quanto riguarda lo sviluppo storico della dottrina dell'Assunzione, la prima testimonianza sulla fine di Maria, è di Epifanio († 403), nato e vissuto nella Giudea e morto vescovo di Salamina.
Nel suo Panàrion egli si propone per ben tre volte il quesito circa la fine di Maria: e come risposta, enuncia tre ipotesi possibili,  sostenute allora anche da diversi autori:
Maria non è morta, ma è stata trasferita da Dio in un luogo migliore;
Maria è morta martire;
Maria è morta di morte naturale.
Egli non sa scegliere con sicurezza fra le tre ipotesi, poiché «nessuno ha conosciuto la sua fine», ma pensa che in ogni modo la fine di Maria, deve essere stata «gloriosa», degna di lei.
Una testimonianza, questa, che ci rivela come nella Chiesa, alla fine del V secolo, non esistesse alcuna tradizione precisa, né di carattere storico, né di carattere dogmatico, circa la fine di Maria.
Dopo Epifanio i primi testimoni sono gli apocrifi. Quelli conosciuti sono circa una ventina; hanno origini diverse e appartengono a famiglie diverse: i più antichi sembrano quelli siri ed egiziani e quelli di una famiglia greca. Non ci si può attendere nulla di sicuro da essi dal punto di vista storico; rappresentano invece chiaramente la reazione della fede popolare nei secoli V e VI alla domanda circa la fine di Maria.
Pensiero comune a tutti gli apocrifi è che il corpo di Maria non poteva in alcun modo essere soggetto alla corruzione del sepolcro; circa la sua condizione attuale non sono invece concordi: per alcuni esso giacerebbe incorrotto nel paradiso terrestre in attesa della risurrezione finale; per altri, e sembrano essere gli apocrifi più recenti, Maria è già risorta ed è stata assunta alla gloria celeste accanto al Figlio.
Un'evoluzione analoga viene documentata dai testi liturgici.
Le origini della festa dell'Assunzione non sono state ancora completamente chiarite. I primi indizi di una festa del transito di Maria (Dormitio Mariae, dormizione) li troviamo in Oriente, tra il 540 e il 570, come risulta dal racconto dei pellegrini che hanno visitato Gerusalemme in quegli anni. Poco dopo, verso il 600, un editto dell'imperatore Maurizio estende già la festa a tutte le regioni dell'impero, fissandola al 15 agosto.
In Occidente appaiono i primi segni di una festa «in memoria» della Vergine, nel VI secolo, precisamente nella Gallia, dove viene celebrata il 18 gennaio sotto il titolo di «Depositio Sanctae Mariae». A Roma la celebrazione viene introdotta nel VII secolo, assieme alle altre feste mariane: la Purificazione, l'Annunciazione e la Natività: diviene subito la più importante di tutte e presenta, fin dalle origini, il nome e il significato attuali. Da Roma poi si estende rapidamente, durante i secoli VIII e IX, a tutto l'Occidente, anche alla Gallia, precisando il contenuto e modificando la data della festa dal 18 gennaio al 15 agosto. Le origini e lo sviluppo della festa, come pure l'esame accurato delle testimonianze liturgiche, manifestano inoltre lo sviluppo della dottrina: al principio l'oggetto del culto era il «transitus», il passaggio di Maria da questa vita terrena a quella celeste; solo più tardi sarà l'Assunzione, come appare negli scritti dei quattro maggiori testimoni del secolo VIII: Germano di Costantinopoli († 733), Andrea di Creta († 740), Giovanni Damasceno († 749), e, infine, l'autore di un panegirico sulla festa dell'Assunzione, già attribuito al vescovo di Gerusalemme Modesto († 634), ma certamente posteriore.
In Occidente lo sviluppo dottrinale fu più lento che in Oriente.
Nel 1854 nel richiedere a Papa Pio IX la definizione dell'Immacolata, alcuni vescovi espressero il desiderio che venisse definita insieme anche l'Assunzione; un desiderio e una proposta che più tardi molti Padri del Concilio Vaticano I del 1869 faranno propria.
Nasce così il «movimento assunzionista», che si va estendendo fino alla pubblicazione degli atti relativi nel 1944; i lavori delle varie correnti teologiche si concludono definitivamente il 14 agosto 1950 data in cui il Papa annuncia pubblicamente che la definizione sarebbe stata imminente: esattamente il 1° novembre dello stesso anno.
Da questi brevi accenni storici sulla dottrina dell'Assunzione, risultano chiaramente due cose:
·        che non esisteva nella Chiesa primitiva una tradizione di origine apostolica esplicita, né scritta né orale, circa l'Assunzione di Maria;
·        che la dottrina si è formata a poco a poco come frutto di una riflessione amorosa della fede cristiana intorno alla dignità della Madre di Dio, alla sua intima unione spirituale e fisica con il Figlio, alla sua posizione del tutto singolare nell'economia divina della Redenzione.
Poiché la Chiesa, però, non può insegnare come rivelata una dottrina che non sia realmente rivelata, sorge il problema: come e dove è stata rivelata la dottrina dell'Assunzione?
E come la Chiesa, in mancanza di asserzioni esplicite della Scrittura e della Tradizione, ha potuto raggiungere la certezza dell'origine rivelata di una dottrina che ha la sua causa prossima nella riflessione umana?
La storia mette in luce chiaramente un fatto: la dottrina dell'Assunzione non si presenta come una dottrina isolata nel V secolo: essa fa parte di tutto un movimento dottrinale che precisa, a poco a poco, la posizione e i privilegi della Madre di Dio nell'economia della Redenzione, la sua santità perfetta, la sua posizione unica accanto al Figlio.
Alla base stanno la dottrina della Nuova-Eva, che risale sicuramente al II secolo (Giustino, Ireneo, Tertulliano) e che per la sua diffusione e i suoi caratteri appare d'origine apostolica; poi la verginità e la maternità divina. Maria è certamente anch'essa redenta da Cristo, ma è anche «accanto a Cristo» in un modo del tutto singolare; e per Lei le leggi ordinarie della Provvidenza, nel campo fisico (come nella generazione) e nell'ordine morale (riguardo al peccato) non valgono.
Ora, unendo queste idee fondamentali, la riflessione cristiana poteva ricavare due ulteriori conseguenze, che ne appaiono come lo sviluppo logico: per Maria, che è stata «accanto a Cristo» in modo così singolare, non valgono neppure le leggi ordinarie della trasmissione del peccato originale e della ritardata beatificazione integrale, in anima e corpo. Come immagine perfetta del Figlio anch'Essa ha 1) dovuto essere «immacolata», e 2) deve aver goduto di una piena glorificazione anticipata anche nel corpo.
La fede dei cristiani ha compiuto questo passaggio: dapprima in forma spontanea e intuitiva; poi, sotto la guida del Magistero e con il sostegno della riflessione teologica, in un modo sempre più chiaro e sicuro.
Non va dimenticato, inoltre, che la causa reale ultima dello sviluppo dogmatico è l'azione dello Spirito Santo, che illumina l'intelligenza della Chiesa, nei fedeli e nei Pastori, a comprendere il contenuto totale della Rivelazione: lo sviluppo di un dogma appartiene alla «sovra-conoscenza» che Dio dona alla Chiesa come e quando vuole (cfr. Ef 1,17-18).
A questo punto è compito della teologia, di fronte al dato rivelato, stabilire degli argomenti di convenienza, che permettano di collegare il dato stesso con le altre verità della fede, e di coglierne il significato profondo.
Eccone alcuni di questi motivi di convenienza.
A) ASSUNTA PERCHÉ IMMACOLATA
La Munificentissimus Deus afferma che vi è un nesso strettissimo fra la verità dell'Assunzione e quella dell'Immacolata Concezione. Infatti le parole rivolte da Dio ad Adamo dopo il peccato (Gn 3,19): «Tu sei polvere e in polvere ritornerai» indicano il castigo del peccato originale. Ora, la Vergine Maria fu esente dal peccato originale, quindi anche dal suo castigo.
Dall'effetto (l'Assunzione) si risalì alla causa (l'Immacolata) e dalla causa (l'Immacolata) si discese all'effetto (l'Assunzione). Di questo passaggio si hanno infatti nel corso della storia varie conferme, che crescono in modo impressionante nel medioevo e nel periodo moderno, fino a raggiungere quasi la forza di un plebiscito dopo la definizione del dogma dell'Immacolata. Nessuna meraviglia dunque se questo argomento viene autorevolmente accolto e ribadito nella Costituzione di Pio XII.
B) ASSUNTA PERCHÉ MADRE DI DIO
La maternità divina è un forte argomento di convenienza per la glorificazione immediata di Maria. Infatti il corpo di Maria è stato il tempio del corpo di Cristo, e quindi era necessario che sfuggisse alla corruzione del sepolcro. Si dice giustamente: “Caro Christi caro Mariae”, la carne di Cristo è la carne di Maria, e quindi era conveniente che la sorte toccata alla carne di Cristo toccasse anche alla carne di Maria, ossia che il corpo di Maria fosse glorificato come lo fu quello di Cristo.
C) ASSUNTA PERCHÉ SEMPRE VERGINE
Un argomento antichissimo, che prende rapidamente una sua forma chiara e incisiva.
La perfetta e perpetua verginità di Maria, professata sin dai primi secoli, veniva a collocare la Beata Vergine in una sfera superiore, cioè in uno stato di incorruttibilità.
Ella rimase miracolosamente incorrotta quando avrebbe dovuto corrompersi. Ora, come non vedere nella preservazione dalla corruzione del concepimento e del parto una specie di presagio della preservazione dalla corruzione della morte?
D) ASSUNTA PERCHÉ ASSOCIATA A CRISTO
Noi vediamo che la Madre è sempre strettamente associata al Figlio. Ella partecipa alle sue gioie e ai suoi dolori, per cui noi diciamo che se Gesù è «l'Uomo dei dolori», Maria è «la Donna dei dolori», e se il Figlio è Redentore, Maria è in un certo senso, Corredentrice.
Come Eva ha cooperato con Adamo nella rovina, così la Nuova Eva con il Nuovo Adamo ha cooperato nell'opera della riparazione.
Questa associazione si riscontra anche nell’Anno Liturgico, in cui alle principali feste del Signore corrispondono altrettante feste di Maria.
·        Al concepimento di Gesù il giorno dell'Annunciazione (25 marzo) corrisponde l'Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre).
·        Alla Natività di Gesù (25 dicembre) corrisponde la Natività di Maria (8 settembre).
·        Alla passione di Gesù, ricordata oltre che il Venerdì Santo anche nella festa della Santa Croce (14 settembre), fa immediatamente seguito la memoria dell'Addolorata (15 settembre).
·        Alla festa della glorificazione di Gesù, cioè alla festa dell'Ascensione, è giusto quindi che corrisponda la festa dell'Assunzione di Maria (15 agosto), e alla festa di Cristo Re (ultima domenica dell'anno liturgico) corrisponda la festa della Regalità di Maria, celebrata otto giorni dopo la sua Assunzione (22 agosto).
Ed è proprio su tutte queste ragioni che si appoggia il documento di Papa Pio XII:
·        Adamo ed Eva sono stati princìpi universali di morte soprannaturale, e conseguentemente anche di morte naturale (pena del peccato);
·        Cristo e Maria, il nuovo Adamo e la nuova Eva, sono stati invece princìpi di vita soprannaturale, e conseguentemente anche di vita naturale, ossia di vittoria sulla morte.
·        Perciò, mentre la prima Eva, associata al primo Adamo, è stata principio e causa della nostra morte, così la seconda Eva, associata al secondo Adamo e in dipendenza da lui, è stata principio e causa della nostra risurrezione alla vita.
·        Ora, chi è principio e causa della risurrezione non può essere soggetto al dominio della morte. Vi sarebbe una incompatibilità intrinseca.
E) ASSUNTA PER ESSERE PIENAMENTE NOSTRA MADRE E REGINA
Maria è stata «esaltata quale Regina dell'universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, Signore dei dominanti»: è quanto ci dice la Lumen Gentium.
La regalità di Maria non va pertanto separata dalla sua intercessione materna. Maria è Regina perché è associata alla regalità di Cristo, e coopera con il Figlio nel procurare la salvezza delle anime. Possiamo dire che la sua è una regalità materna.
Ora, perché Maria Santissima possa pienamente esercitare questa sua regalità, che si estende a tutto l'universo, e la sua maternità verso di noi, alle quali è stata chiamata in quanto Madre del Redentore a Lui in tutto associata, è necessario che Ella sia nel possesso pieno della sua realtà umana: una realtà umana che si ha solo quando l'anima è unita al corpo. L'anima separata dal corpo, infatti, non può a rigore di termini neppure essere chiamata «persona», essendo solo una parte della natura umana.
Possiamo quindi dire che l'Assunzione corporea rende Maria Santissima più vicina a noi, in quanto grazie ad essa ella ci può aiutare nel modo migliore, ed esercitare in pienezza la sua maternità universale alla quale è stata chiamata secondo il piano divino.
La glorificazione di Maria non è quindi solo per lei, ma anche per noi. L'Assunzione, lungi dallo scavare un abisso tra Maria e gli altri uomini, la rende ad essi più vicina.
F) ASSUNTA PER ESSERE ICONA ESCATOLOGICA DELLA CHIESA
Che Maria sia modello e figura perfettissima della Chiesa è un pensiero che risale ai Santi Padri, soprattutto a S. Ambrogio. Ma perché potesse esserlo pienamente era necessario che venisse glorificata in anima e corpo, così da apparire come «la Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (Ap 12,1), come ci viene presentata dalla liturgia nella festa dell'Assunzione.
«Così la Chiesa in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione, e in lei contempla con gioia, come in un'immagine purissima, ciò che essa, tutta, desidera e spera di essere».
C’è infine la questione della morte di Maria
Pio XII, nella definizione dogmatica dell'Assunzione, ha deliberatamente evitato di pronunciarsi sulla questione se Maria sia prima morta, per poi risorgere, oppure sia stata assunta immediatamente senza passare attraverso la morte.
La questione è stata implicitamente demandata alle discussioni teologiche successive.
L'argomento più forte di quelli che sostengono la morte di Maria, i «mortalisti», sembra essere quello che la Beata Vergine doveva essere configurata a Cristo nella sua morte e risurrezione, per poter essere così il modello universale dei redenti. «Ma si domanda il Laurentin fautore della tesi «immortalista» non le era sufficiente essere configurata a Cristo sul Calvario, quando "una spada" di dolore "trapassò la sua anima" (Lc 2,35), quando "morì in ispirito" con Cristo, secondo un'espressione tradizionale che risale ad Arnaldo di Chartres (XII secolo)?». Tanto più che Maria, la prima dei redenti, è configurata più alla Chiesa che a Cristo. Ora, la Chiesa passerà alla vita eterna senza passare attraverso la morte (cfr. 1Ts 4,17; 1Cor 15,51; 2Cor 5,2-4).
Un altro argomento dei «mortalisti» è che Maria ha assunto le pene del peccato (tra cui la morte) per cooperare più efficacemente alla redenzione. Ma, ribattono gli immortalisti, non possiamo dimenticare che Maria Santissima è stata esente dalle principali pene inflitte a Eva (concupiscenza, sottomissione alla libido, cfr. Gn 3,16, dolori del parto).
L'immortalità completerebbe armoniosamente questa serie di esenzioni.
Ma, a mio parere, l'argomento più forte degli «immortalisti» sta nell'esame del concetto di corruzione. Abbiamo visto negli argomenti di convenienza a favore dell'Assunzione che il dato di fondo, presente sin dall'inizio, è che la sensibilità cristiana ha ritenuto inconciliabile la dignità di Maria, Immacolata, Madre di Dio, sempre Vergine, con la corruzione del sepolcro. Scrive Pio XII nella Munificentissimus Deus: «Bisognava che colei che aveva conservata intatta la sua verginità nel parto conservasse il suo corpo senza alcuna corruzione».
Senza alcuna corruzione! Ma la morte, cioè la separazione dell'anima dal corpo, è la corruzione fondamentale. Infatti il «cadavere» (così dobbiamo chiamarlo) è semplicemente un insieme di sostanze organiche senza più alcuna relazione reale con l'anima. Non è più un corpo «umano». Che poi sopravvenga anche una disgregazione esterna, con il fenomeno della putrefazione, è del tutto secondario dal punto di vista filosofico.
Ora viene spontaneo chiedersi: se Dio ha conservato miracolosamente illesa la verginità del corpo di Maria, preservandolo dalla corruzione del parto, perché non avrebbe dovuto preservarlo anche da questa ben più grave corruzione?
Può però a questo punto sorgere una difficoltà: anche il corpo di Gesù è stato soggetto a questa corruzione, poiché Gesù è veramente morto. Senza dubbio, ma vi è una differenza sostanziale: il corpo morto di Gesù è infatti rimasto unito al Verbo, e ha continuato a esistere dell'esistenza del Verbo; quindi non si può dire che fosse «un'altra realtà» rispetto al corpo vivo.
Nel caso di Maria, invece, il suo corpo morto sarebbe stato un'altra realtà, anche se secondo l'esperienza sensibile rimaneva «incorrotto».
Scrive sempre il Laurentin: «Il cadavere della Vergine, se essa morì, perse la sua identità. Divenne puramente e semplicemente altro, estraneo alla persona di Maria. Fece ritorno alla pura molteplicità del ciclo della natura. Niente legava più alla Madre di Dio il residuo di questo corpo che aveva generato il Figlio di Dio, e il fondamento della maternità divina si trovava momentaneamente alterato».
In ogni caso, al di là di ogni convincimento, dobbiamo affrontare queste questioni con grande modestia e umiltà. La morte di Maria, la “dormitio Mariae”, è senza dubbio verosimile; verosimiglianza resa rispettabile dall'ondata di autori che l'hanno accettata.
Personalmente mi piace molto la tesi della traduzione letterale del termine “dormitio”: Maria si sarebbe “addormentata” e durante il riposo il suo corpo sarebbe stato assunto in cielo.
Comunque si è in diritto di pensare, con Epifanio, che la fine di Maria resta e resterà un mistero: un mistero, nascosto in Dio, che noi dobbiamo rassegnarci a ignorare quaggiù.
San Bernardo non aveva dubbi: “De Maria numquam satis” di Maria non si dirà mai abbastanza. Perché? Perché chi loda Maria, chi prega Maria, chi medita Maria, loda, prega, medita Gesù stesso.
Maria ha raggiunto il motivo per cui l’uomo è stato creato: dare gloria a Dio in eterno, in un modo completo. Noi pensiamo che “dare gloria a Dio” voglia dire abbassare la testa di fronte a lui, ringraziarlo dei doni ricevuti, offrirgli la nostra sofferenza.
Sì, è tutto questo, ma non è soltanto questo.
Dobbiamo essere sempre pronti a fare la volontà di Dio.
Che Dio ci utilizzi per cose piccole o grandi, dipende da Dio, non da noi.
Da noi dipende invece saper dire come ha detto Maria: "Eccomi!".
Disponibilità totale.
Siamo capaci di fare questo?
La Madonna ci ha lasciato il suo esempio e il suo messaggio: è stata la mamma per eccellenza, la servitrice sollecita, la cristiana perfetta.
Tocca a noi, ora, seguire il suo esempio!
Leggere il vangelo è importante, ma poi è molto più importante fare in modo che il vangelo sia vissuto nella nostra vita di famiglia, nel nostro lavoro, nelle nostre relazioni personali con gli altri, sia vissuto anche nei nostri pensieri, nei nostri progetti.
Certo qualche volta ci troviamo sotto la croce insieme a Maria e ci sembra di morire dal dolore: "… perché mio figlio?… perché i miei parenti?… perché io?… perché devo essere trattato a questo modo?"
Fiat voluntas tua! "Signore, sia fatta la tua volontà".
Mentre stiamo vivendo questo tempo, dobbiamo avere sempre presente il punto d’arrivo: la nostra unione gloriosa con Lui. Maria è stata glorificata proprio perché ha saputo dire "Eccomi". Un “Eccomi!” realizzato sotto la croce, concretizzato fino al termine della sua missione.
Concludo: sulla porta di un’officina mi è capitato di leggere un cartello con la scritta a grandi caratteri: “Chiuso per troppo lavoro”. E più sotto in piccolo: “In caso di urgenza pregasi chiamare la signora di sopra: se non sente, urlate!”.
Bene: anche noi abbiamo la nostra "Signora di sopra".
Per i casi urgenti, non temiamo: raccogliamoci un momento, pensiamo a lei, urliamo con fiducia la nostra preghiera: e allora, vi assicuro amici cari: allora vedrete che
Lei che ha camminato, vegliato, vigilato e sofferto con la Chiesa nascente,
Lei così discreta, premurosa  e così femminile,
Lei così forte e dolce,
Lei così mamma che ha cresciuto il bimbo Gesù perché crescesse anche in noi…
ebbene, lei, la Signora di sopra, non tarderà a risponderci… Amen.

mercoledì 8 agosto 2012

12 Agosto 2012 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 41-51).
Elia mormora, i giudei mormorano, noi mormoriamo: chi non accetta la realtà, se la prende con Dio e mormora. È una constatazione. Triste, ma succede spesso anche a noi! Ciò che non vogliamo accettare lo rifiutiamo. Ciò che critichiamo è ciò che ci rifiutiamo di vivere, di capire. Ma la realtà, fratelli, non si cambia. La realtà si vive, e basta! La realtà è che gli altri sono più sensibili di noi, sono più intelligenti di noi, sono più attraenti o affascinanti di noi. La realtà è che gli altri sono più di noi, e anche se diciamo che va bene così, non è vero, perché vorremmo essere proprio come e più di loro.
La realtà è che se anche siamo importanti, anche se ci riteniamo insostituibili, la vita va avanti anche senza di noi. Perché non siamo altro che una goccia del mare, una foglia dell’albero, una minima parte dell’universo. Inutile illuderci, è così; inutile pensarci unici, celebri, ammirati da tutti: siamo purtroppo destinati ad essere dimenticati. È normale, è giusto che sia così.
La realtà è che tutto inizia e che tutto finisce perché tutto evolve. I nostri figli crescono e se ne vanno; noi invecchiamo e non siamo più guardati per il nostro fascino giovanile; tutto quello che prima avremmo giurato “eterno” adesso non lo è più, quello che prima avremmo giurato di non diventare, ora invece lo siamo diventati. Ed è necessario che sia così, che tutto passi, che tutto divenga, che tutto fluisca, che tutto abbia il suo corso.
La realtà, fratelli, è che siamo bisognosi di aiuto. Vorremmo poter vivere senza dipendere dagli altri, senza dover ricorrere alle attenzioni degli altri; vorremmo essere sempre autonomi, vorremmo condurre la nostra vita come ci piace, senza farci influenzare dagli altri, dal loro giudizio, da ciò che pensano di noi. Vorremmo...
E, invece, ci ritroviamo ad essere deboli, ci scopriamo non più autosufficienti, debilitati, attenti a non deludere chi ci sta vicino per paura che ci rifiuti; ci ritroviamo a dipendere dagli altri, ad aver paura della solitudine, a elemosinare amore in mille modi. È la realtà.
Insomma vorremmo che la realtà fosse come la pensiamo noi, come la vogliamo noi, come la desideriamo noi. E, invece, la realtà è diversa da noi. La realtà è quella che è. La realtà (Dio, la Vita) è più grande di noi; e aver fede, fiducia, significa accettarla, accoglierla, fidarci di lei, lasciarci andare. Nella vita tutto ha un senso anche se noi non lo capiamo. Inutile lottare contro la realtà, perché tanto, ciò che dobbiamo vivere, lo vivremo comunque. Forse conviene lottare insieme a lei. Buona fortuna? Cattiva fortuna? Lasciamo fare alla Vita. Qualunque cosa ci proponga la vita (la realtà), accettiamola! Cerchiamo di capire!
Non facciamo come i giudei che, mentre Gesù parla di una cosa (il pane dal cielo), essi non lo capiscono, capiscono tutta un’altra cosa. Gesù sta su di un piano, i Giudei su di un altro.
Un detto cinese dice: “Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda solo il dito”.
Gli ebrei nel deserto avevano la manna: era il cibo miracoloso. Ma nella manna essi vedevano solo il cibo di ogni giorno, un cibo di cui si stancarono presto. Non sono riusciti a scorgere in esso la bontà di Dio che li accompagnava, che li sosteneva, che provvedeva a tutto e non li abbandonava. Da sciocchi guardavano il dito!
Così succede anche per i giudei che seguono Gesù: Egli sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta mostrando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la vera fame, e loro non riescono ad andare oltre il dito: per loro Gesù non può che essere il “figlio di Giuseppe”; per loro il pane è solo quello di farina, il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia, Dio è solo uno da pregare perché tenga lontano le disgrazie o ci mandi ricchezza e benessere.
Gesù dirà: «Siete ciechi… Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo… e se non cambierete modo di vedere, morirete nei vostri peccati» (Gv 8, 23-24).
Se non sappiamo andare oltre le apparenze, al di là di quello che può sembrare, allora abbiamo decretato la morte della nostra anima. Non guardiamo oltre al dito…
La felicità per molte persone è avere qualcosa. Felicità per loro è avere una posizione da esibire, un auto o una casa da mostrare, una dote da manifestare, una capacità con cui avere successo ed essere stimati. Sono solo ciechi. Felicità è poter sentire la vita che ci abita dentro, che cresce, che diviene, che si espande. Felicità è poter stare bene nel nostro corpo, nella nostra anima, sentire il nostro cuore pulsare e gustare la vita.
Dio, per molte persone, è una preghiera da dire, un rito da compiere, una “rottura” da evitare, un impiccio di cui non sappiamo che farcene. Sono ciechi! Dio è la sensazione profonda di essere immersi in qualcosa di più grande; è vivere l’esperienza di essere parte dell’immenso, di essere immersi in una corrente oceanica che, nostro malgrado, ci trascina sulla spiaggia della salvezza; è sentirsi amati al di là del bene e del male quotidiano; è sentirsi degni di esistere perché Qualcuno ci vuole; è sentire che non dobbiamo aver paura perché c’è un grande Abbraccio che ci difenderà da ogni pericolo.
I figli, per molti di noi, rappresentano il successo e la realizzazione della nostra vita. Se non li abbiamo, la vita non ha senso; se li abbiamo, devono essere obbedienti, devono diventare i migliori per renderci felici e non deluderci. Siamo ciechi! I figli sono il dono che la vita ci fa per consentirci di esprimere l’amore che ci portiamo dentro; sono il mezzo per realizzare la nostra vita, sono il senso delle nostre giornate. Ma sono un mezzo, non il fine. I figli sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui impariamo la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo anche se se ne andranno), l’alterità (sono altri, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.
E così per tutte le cose. Tutto ciò che ci riguarda può essere banalizzato, tutto reso insignificante o inutile; ma tutto può anche essere entusiasmante, profondo, divino. Quando il saggio indica la luna, fratelli, dove corre il nostro sguardo?
Gesù poi dice: «Io sono il pane vivo». C’è un pane vivo e c’è un pane morto. C’è un pane che nutre solo il corpo e c’è un pane che nutre anche l’anima.
La domanda che Gesù pone è: “Che cosa nutre veramente?”. Il pane era il cibo tipico, normale per gli antichi. Dire “pane” significava dire nutrirsi, sfamarsi. Il cibo ci nutre; ogni giorno mangiamo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente il pane della terra? O cerchiamo ancora qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore? Il cibo riempie il nostro stomaco, ma cos’è che riempie la nostra anima? Di cosa deve sfamarsi?
Pensiamo che sia sufficiente mangiare tutti i giorni al ristorante? Che sia sufficiente lavorare e avere una bella casa in cui abitare? Che sia sufficiente avere un auto sportiva, dei vestiti firmati, essere rispettati e ammirati dalla gente? Ci siamo mai chiesti perché i maghi e le chiromanti sono sempre pieni di clienti? Perché gli studi dei terapeuti sono sempre stracolmi di persone? Perché siamo così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, depressi? Cos’è che ci manca? Non abbiamo pane per la nostra anima? Di cosa ci nutriamo?
Ebbene, fratelli, la nostra grande fame è quella dell’amore. Siamo bisognosi d’amore. Abbiamo bisogno di essere amati, che qualcuno creda in noi, che qualcuno ci apprezzi, che ci dia valore e fiducia. Se non siamo amati, siamo nessuno, non valiamo, che ci siamo o non ci siamo è la stessa cosa; vivere o morire non è che cambi poi così tanto. Questa è la nostra fame, fame terribile: e nessuno in questa vita potrà mai saziare pienamente questa nostra fame. Perché noi abbiamo bisogno di un Amore “altro”. Perché la nostra vera fame è Dio.
Noi abbiamo bisogno di sentirci rassicurare: “Non aver paura”; perché siamo sempre in ansia, abbiamo paura: perché la vita finisce, perché la vita passa, perché la vita non dura in eterno, perché i nostri cari muoiono, perché un giorno lasceremo i nostri figli e chi amiamo, perché ci ridurremo a polvere, perché noi da soli non possiamo salvarci. Allora abbiamo bisogno di agganciarci a Lui, di sentire che ci possiamo fidare di Qualcuno, di percepire che non saremo lasciati soli, che non saremo dimenticati, che tutto non finirà nel nulla. Abbiamo bisogno di Qualcuno che ci dica: “Ci sono io, non aver paura. Tu sei nelle mie mani, nel mio Cuore, non cadrai mai nel vuoto. Stai tranquillo”.
Ecco, fratelli: di fronte a tutto ciò – che incoscienza non pensarci prima! – una cosa sola può saziarci, salvarci dalle nostre paranoie. Lui, il Pane vivo. Abbiamo bisogno di quel Pane celeste; abbiamo bisogno di quel Pane vero, di quel Pane che, solo quello, sazia la nostra fame interiore, la nostra fame di Divino. Amen.