mercoledì 23 febbraio 2011

27 Febbraio 2011 – VIII Domenica del Tempo Ordinario

« Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete… non preoccupatevi del domani…».
“Disfattista”. Ecco cosa direbbe un convinto sindacalista moderno di fronte alla logica del Vangelo di oggi. “Come si fa a campare così? Dove andrebbe a finire l’industria, il commercio, il prodotto interno lordo, e via dicendo, se tutti la pensassero così? Hai voglia a guardare gli uccelli, i fiori dei campi e quant’altro: qui, se non ti dai da fare, se non ti preoccupi, non arrivi a mangiare. Altro che i passeri!” Eh sì, fratelli: questa è la mentalità dominante: questa è la legge che fa girare il mondo; «di queste cose vanno in cerca i pagani» ribatte Gesù. E come al solito non gli si può dar torto.
Del resto che fa la nostra società tutti i sacrosanti giorni? Guardiamoci un po’ intorno: un attivismo frenetico la domina incondizionatamente, spingendola su due fronti diametralmente opposti: alcuni vivono l’oggi in modo sregolato, cercando di cogliere al volo l’attimo fuggente, approfittando di tutte le occasioni – lecite o non lecite non importa – purché assicurino piacere, soddisfazione, senso di appagamento; altri invece investono tutte le loro risorse proiettati solo nel domani, vivendo quotidianamente in un crescente affanno per assicurarsi benessere, prosperità, ricchezza, incapaci di porre limiti alla loro fame di potere.
Gli uni e gli altri, a ben vedere, ci fanno pena: la voracità del piacere li schiavizza entrambi; entrambi calpestano il presente, l’oggi, tormentati dall’inquietudine per un ipotetico domani: illusi! Ma chi vi assicura di arrivare a quel domani?
Un atteggiamento questo che, in verità, non deve proprio essere una esclusiva del nostro tempo, se già più di duemila anni fa Gesù ne denunciava l'assurdità, invitando piuttosto a confidare nella Provvidenza, ad avere fiducia in Dio che conosce bene “quello di cui abbiamo bisogno”: il che, guardate, non significa vivere da incoscienti, senza far nulla, aspettando la manna dal cielo; significa invece non dare alle cose materiali un'importanza maggiore di quella che dovrebbero avere, non vivere nell’ansia continua per quanto si teme possa accadere in futuro. Questo è da gente senza fede.
Al contrario «cercate – prima di tutto – il regno di Dio e la sua giustizia»; cercate cioè quello che è giusto davanti a Dio: il resto verrà da sé. Dio è un Padre che non abbandona, che non può trascurare chi si ricorda di essere suo figlio. «Non preoccupatevi del domani; a ciascun giorno basta la sua pena». In questo sta la saggezza cristiana.
"Guardate, osservate" insiste Gesù. Una raccomandazione che coglie nel segno, che vale proprio per noi. Noi infatti non siamo più capaci di osservare; non siamo più capaci di riempirci gli occhi dell’altro mondo, di ciò che ci circonda. Passiamo davanti ad universi di bellezza ogni giorno, e noi nulla: non alziamo neppure lo sguardo. Ininterrottamente presi dai nostri affanni, dalle nostre fatiche, dalle nostre rinunce, dai nostri progetti e soprattutto dalle nostre manie.
Osserviamo invece la vita, fratelli; guardiamoci intorno, osserviamo la natura... C'è un universo di bellezza, un oceano di meraviglie nel quale tuffarci.
E Gesù lo sa bene: non si inventa nulla di strano per rassicurarci, per lanciarci dei messaggi. Non passava certo ore e ore della notte per scoprire qualcosa di nuovo da raccontarci! Preferiva camminare, osservare, guardare: la donna che impasta il pane con una misura di lievito, la bellezza della luce, il semplice e forte sapore del sale, il male provocato da uno schiaffo, il chicco di grano che marcisce nella terra, il sole che sorge sui buoni e sui cattivi, la pioggia che cade, una donna che piange, un uomo che prega nascosto in una stanza, e un altro ritto come in una piazza.
«Guardate gli uccelli del cielo e i gigli del campo! Non vi rendete conto di quanto valete? Non preoccupatevi di quello che mangerete, di quello che berrete e del vostro vestito».
Attenzione però: le parole di Gesù, lo ripeto, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto a quei poveri che lui ha ben presenti, che gli sono sempre davanti, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa non mangiare domani. Non sono parole, le sue, che invitano ad una filosofia di vita apatica, indifferente, insensibile, stoicista! Non confondiamo. Gesù conosce bene la vita. Conosce bene la tentazione per l'uomo di affannarsi, di agitarsi convulsamente per qualunque cosa i suoi occhi la vedano “buona”! Fino al punto di perdere la bellezza della vita stessa.
Non è così fratelli? Non rischiamo anche noi tante volte, volendo capire tutto della vita, col finire di non capirci nulla? È vero: l'affanno procura tesori, ma i tesori procurano affanno; e diventiamo cani che si mordono la coda; più ci affanniamo e ci preoccupiamo e più ci allontaniamo dalla possibilità di vivere la vita, più ci facciamo condizionare da essa; più ci allontaniamo dal vivere le possibilità che il tempo ci dona, e più ci lasciamo travolgere dalla velocità degli eventi stessi. Vorremmo essere al sicuro, possedere la sicurezza della vita, vorremmo avere tutto in mano. Anche il domani. E invece Gesù sa che il domani è nelle mani di Dio, che il tempo è nelle sue mani e nella misura in cui vogliamo possederlo, proprio allora esso ci sfugge di mano.
E allora, fratelli, accogliamo con tutta semplicità l’oggi che ci è dato di vivere; e mettiamo il domani nelle mani di Dio. Accogliamo in questo modo il messaggio di Gesù, accogliamo il suo Vangelo!
Chi, come noi, ha riconosciuto Gesù quando è passato lungo la propria vita, e ha abbandonato la barca degli affanni materiali per seguirlo, è veramente libero: è libero di darsi da fare, di appassionarsi per la propria vita, per la vita dei fratelli; ma con l’operosità lieta di chi sa che la vita è veramente un dono di Dio. Un dono che ci supera. Che ci sovrabbonda.
Gesù ci chiama a vivere nella libertà, ci vuole uomini e donne libere, non schiavi dell'ansia, dello stress o dell'affanno, non schiavi delle nostre paure: paura del giudizio degli altri, paura di chi ci vive accanto, paura di morire, paura del domani, paura di ingrassare, paura di non essere alla moda... Non dobbiamo vivere sempre sotto la minaccia di noi stessi; le paure sono anzitutto dentro di noi: Martin Luther King al termine di un suo discorso disse: "La paura ha bussato alla mia porta; l'amore e la fede hanno risposto; e quando ho aperto, fuori non c'era nessuno." Amore e fede annientano qualunque ansia, qualunque paura.
«Non vi affannate... non vi affannate»: per ben cinque volte in pochi versetti Gesù ci ripete questa raccomandazione. Si, perché noi già viviamo con tante, con troppe cose: abbiamo gli armadi pieni, le dispense colme, eppure viviamo sempre nell’affanno, preoccupati del domani. L'ansia ci fa accumulare cose inutili, e più accumuliamo, più sentiamo il bisogno di avere. Gesù invece ci invita a chiedere solo il pane per l'oggi: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Non ci dice di chiederlo in anticipo anche per domani. No, solo per oggi.
«Cercate – ci dice ancora – cercate il regno di Dio». In altre parole, “cercate prima di tutto di vivere con amore, cercate di avere l'amore tra voi, cercate di essere fratelli, cercate di volervi bene, cercate chi ha più bisogno di voi, cercate l'accordo, cercate la mia Presenza. Cercate prima di tutto queste cose: questo è l'importante: tutto il resto vi verrà dato in aggiunta”. È infatti l'amore, il cercare di far felice l'altro, l'antidoto all'ansia, al nostro affanno quotidiano.
Questo deve essere, fratelli, il nostro “cercare” quotidiano. Ed è proprio in questo continuo “cercare”, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, vangelo dopo vangelo, che noi intuiamo e scopriamo il senso della vita. Cercare non significa capire tutto, ma essere pronti ogni giorno a imparare. Imparare a vivere. Imparare ad amare. Il senso della vita, infatti, è nelle pieghe stesse del nostro vivere: usciamo di casa ogni mattina, fratelli, e osserviamo, guardiamo, camminiamo, apriamo gli occhi e spalanchiamo il cuore.
E impariamo. Impariamo che la vita è un dono, un tesoro, è oro puro. E respiriamo. Si, respiriamo questa vita, a pieni polmoni, respiriamo l’amore, respiriamo la fede, cantando con gioia a Dio. Amen.

mercoledì 16 febbraio 2011

20 Febbraio 2011 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Imitate il Padre, imitate Dio, siate perfetti come lui».
Ci risiamo. Per la terza volta veniamo messi con le spalle al muro. Se non l’abbiamo capito prima, dobbiamo per forza capirlo ora. Ma cosa vuole Gesù da noi?
Nulla, fratelli miei: semplicemente che diventiamo santi!
Capitolo quinto di Matteo: ricominciamo ancora da capo. Facciamo in modo che la nostra vita ricominci da qui. Dove mai siamo stati in tutti questi anni? Che abbiamo fatto di tanto speciale, da sentirci così tanto sicuri? Da non provare più alcuna esitazione nel sistemarci le cose a modo nostro? Da mettere con tutta naturalezza il vangelo tra i tanti libercoli e opuscoli farciti di stupidaggini che amiamo così tanto consultare per la nostra vita diventata ormai atona, incolore, senza slanci veri?
Si certo, siamo ossequienti al Vangelo, in qualche momento amiamo anche Gesù, sinceramente e con trasporto: ma poi? Beh, ma poi ci sono anche tante altre cose che ci aspettano, tante cose di cui solo noi dobbiamo farci carico, che nessuno si offre di risolvercele: c’è il lavoro, c’è la famiglia, ci sono i figli, i nipoti, i confratelli e le consorelle, tutti che rompono in continuazione; poi c’è la palestra, c’è la cucina, e perché no? C’è finalmente anche un po’ di relax, di svago tutto per noi. Anche noi ne abbiamo diritto, no?
Che possiamo fare ancora di più?
Matteo, capitolo quinto: una serie di staffilate secche per il nostro pietismo, per la nostra indifferenza, per la nostra supponenza, per la nostra superbia, per il nostro egoismo, per la nostra “astuzia” nel trovare sempre una scappatoia di fronte alle nostre responsabilità.
Per favore, fratelli, non facciamo anche adesso i soliti perbenisti! Cerchiamo di essere onesti con noi stessi almeno in questo momento! Smettiamola di guardare all’altro, come termine di paragone per la nostra condotta! Un esempio da seguire ce l’abbiamo, chiaro e lampante:«Siate santi come il Padre mio». Dove corriamo a destra o a sinistra? La strada giusta è qui, davanti a noi.
Matteo, capitolo quinto: altro che “politically correct”: qui è tutta un’altra musica!
«Beati i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i puri….; sarete beati quando vi insulteranno, quando vi perseguiteranno… Voi siete sale della terra e luce del mondo… Avete sentito dire: non uccidere, ma io vi dico chiunque si adira con suo fratello sarà sottoposto a giudizio… Udiste che fu detto: occhio per occhio, dente per dente. Io però vi dico: non opporti al malvagio, anzi se uno ti colpisce la guancia destra, tu porgigli anche l’altra… ».
È un crescendo, una escalation: dal “beati” iniziale, che tutto sommato poteva anche starci, siamo passati a doverle anche buscare, sempre e comunque, felici e contenti. Non è un po’ troppo?
E allora chiediamocelo ancora: Ma cosa vuole veramente Gesù da noi?
E la solita voce dentro di noi ci ripete implacabile: “Voglio che tu sia santo come il Padre mio!”
Altro che chiacchiere. È arrivato il momento di buttarci finalmente tutto alle spalle, di capire che non è più possibile condurre una vita, corretta si, magari anche in ordine con una certa morale, ma appena passabile rispetto al vangelo!
E poi, quale morale? Quella cristiana? Ma senza Cristo, anche quella è inutile; senza la “carità” anche i miracoli sono luce fatua!
Invece come cambierebbero le cose se ci mettessimo nella prospettiva di Matteo cinque: come cambierebbero radicalmente le cose se ci mettessimo nella determinazione di imitare il Padre! Diventeremmo capaci di amare fino all'inimmaginabile, perché solo così ci sentiremmo amati da Dio, esattamente nel modo in cui lo siamo realmente!
Allora, fratelli, cosa aspettiamo di uscire dalla logica dell'occhio per occhio e dente per dente? Quando diremo basta al do ut des? Quando decideremo di farla finita con la nostra fede anestetizzata?
Prendiamo con coraggio in mano il Vangelo, allunghiamo con decisione il passo sulle orme di Cristo, non facciamoci distrarre dagli specchietti luccicanti del mondo, siamo seri!
Crediamo, osiamo, voliamo in alto! Non trinceriamoci dietro al “ma ciò richiede eroismi impossibili”. Tentiamo, semplicemente tentiamo con tutta la nostra volontà: sforziamoci sinceramente e, soprattutto, ascoltiamo la presenza di Dio dentro di noi; lasciamoci consumare dalla sua presenza, perché questo, e questo soltanto, ci cambia nel profondo. Totalmente.
Si, fratelli: questa è la grandezza di Dio, qui c’è Gesù in persona; un Gesù che da anni, pazientemente, vuol farci entrare in zucca un fatto elementare: Lui ci ama, ci ama sempre, ci ha sempre amati. Tutti, uno per uno. E non si dà pace nel vederci andare alla deriva, allo sbando. Facciamogli un cenno, che ci costa? Basta anche un piccolo cenno, un primo passo, dimostrargli, anche con poco ma con animo sincero e determinato, che sì, noi siamo là, che finalmente abbiamo capito e siamo là, che apprezziamo quanto egli fa per noi. Proviamoci: così, tanto per cominciare.
Perché è così che imbocchiamo la strada che conduce alla santità. La santità passa da qui!
Che aspettiamo? Animo, osiamo, buttiamoci! Amen!

mercoledì 9 febbraio 2011

13 Febbraio 2011 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«Così fu detto agli antichi: ma io dico a voi…».
Un brano duro, quello di oggi: schietto, senza fronzoli. Un brano che puntualizza punto per punto la rivoluzione che Gesù ha portato con il suo comandamento nuovo.
Non che la Legge fosse una cosa cattiva, anzi: era il vademecum per chi voleva essere fedele all’alleanza che Dio aveva stabilito con l’uomo. E i profeti? Erano i giudici di percorso, quelli che alzavano la bandierina gialla di pericolo, quando qualcuno tagliava la curva, pensando di fare il furbo e di guadagnarci sopra. Gesù non è venuto a sconfessare nulla di tutto ciò. Quello che Gesù attacca senza mezzi termini è il freddo “legalismo”, la degenerazione della vera osservanza, l’osservanza sterile, formale, quell’osservanza che lungo i secoli aveva perso per strada la fede viva e l’amore sincero.
L’uomo dell’Antico Testamento, nato dalla polvere del deserto, aveva ricevuto dal soffio divino l’autocoscienza, la possibilità di gestirsi liberamente nelle sue scelte. Un po’ alla volta però, il suo rapporto con Dio perdeva ogni spontaneità, la sua visione delle cose si cristallizzava; perdeva ogni impulso vitale suggerito dall’amore. Gli bastava essere un osservante esteriore della Parola, senza troppi coinvolgimenti interiori. Paradossalmente era proprio la legge, con i suoi divieti, i suoi comandi, le sue limitazioni, che permetteva al peccato di esprimere in lui tutta la sua potenzialità negativa; serviva in qualche modo a stuzzicargli la voglia di peccare e a far uscire il veleno che c’era nella sua anima. L’uomo, la creta primordiale dell’Eden, pur se vivente, era come morto. Si, perché aveva perso l’Amore.
Gesù è venuto proprio per colmare questo vuoto; con il nuovo soffio dello Spirito, l’uomo ora è rinato a vita nuova; la Pasqua di Cristo gli ha restituito l’antica dignità; non più legge antica dunque, ma legge nuova, quella dell’Amore. Una legge che è sinonimo di dono, di libertà, di accoglienza, di perdono, di interiorità, di purezza, di fedeltà, di fratellanza. Una legge che va oltre l’esteriorità, l’apparenza, l’egoismo, l’odio: una legge amministrata dal cuore, che prescrive definitivamente la vendetta, l’occhio per occhio del taglione.
Non esiste infatti solo l'omicidio a procurare la morte: esiste anche l'odio, l'ira, la vendetta, il giudizio maligno, la maldicenza che, screditando, uccide; esiste il sospetto, la diffamazione; esiste il disprezzo e tutto quanto l'inimicizia e la mancanza d'amore generano nell’uomo, inquinando pesantemente i suoi rapporti umani. E Gesù è inesorabile nei confronti di chi agisce contro l'amicizia e l'amore, quell'amore che ci rende somiglianti a Dio, e che cresce nel nostro cuore fino a renderci capaci di misericordia e perdono.
È una legge che non ammette deroghe quella di cui Cristo parla, e che ha come fondamento l’amore. Nessuna offerta, infatti, è gradita a Dio se chi presenta il suo dono non è capace di amare il suo prossimo.
«Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare, ammonisce Gesù, e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello, e poi torna a offrire il tuo dono».
Meditiamole queste parole di fuoco, fratelli miei. Meditiamole, perché sono quelle su cui troppo spesso, e ormai inconsciamente, andiamo ad inciampare.
La nostra lingua è spada tagliente, i nostri giudizi sono macigni dirompenti: contro chi probabilmente ha la sola colpa di starci vicino, di condividere lo stesso nostro percorso, i nostri stessi interessi. Colpiamo con estrema precisione, elegantemente, senza alzare la voce: ma forse seminiamo morte e disperazione nei cuori.
È questo che Dio non sopporta. A che serve tutto il nostro buonismo? A che serve il nostro impegno in mille iniziative caritative, il nostro recitare rosari, il nostro non mancare un giorno a messa, se poi, in un attimo solo, con disinvoltura, facciamo terra bruciata attorno a noi?
Credetemi: siamo talmente bravi ed esperti in questo, che quasi ormai non ci accorgiamo più di quanto sia grave il nostro comportamento. È diventato parte di noi, quasi una forma lacerante per la sopravvivenza.
“Lascia lì il tuo dono davanti all'altare! Non so cosa farmene del tuo dono, offerto pubblicamente a beneficio di chi ti guarda. Sana prima le ferite occulte; asciuga le lacrime che hai fatto versare. E solo allora torna, col cuore contrito e rinnovato, per fare la tua offerta…”
Si, fratelli, perché è sempre il cuore quello che deve esser risanato dalla capacità di amare veramente; e amare significa donazione di sé, una donazione incondizionata, sincera profonda e fedele. Amare è donarsi senza limiti, senza pretendere nulla in cambio.
Qualunque sia il comandamento di Dio, in qualunque modo si esprima, esso è sempre fondato sull'amore ed ha come fine l'amore: è questo il compimento che Gesù è venuto a portare. È questo il comandamento che deve fare luce ai nostri passi.
Invochiamo allora lo Spirito della Sapienza, come ci suggerisce san Paolo, per accogliere nella nostra vita questa pagina, apportatrice di amore e di gioia interiore. Amen.


mercoledì 2 febbraio 2011

6 Febbraio 2011 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo…»
Anche se le Beatitudini restano una proposta folle, eccessiva, paradossale, orientarsi verso quella direzione significa voler cambiare quel mondo che non vive la beatitudine, ma si dibatte in una felicità effimera e traumatizzante. Incontrare il volto beato di Dio vivendo le beatitudini converte i nostri cuori. Per questo Gesù insiste: "voi pescatori pescati, pescatori di umanità, che avete conosciuto il volto di Dio e ne siete stati colmati, siete chiamati ad essere sale della terra, per insaporire con la vostra testimonianza la vita di chi vi è accanto, siete chiamati a lasciar brillare la luce che l'incontro con Gesù ha acceso nella vostra vita". L'incontro con Dio non può restare nascosto, la conversione del cuore deve diventare evidente e la luce che si è accesa nei nostri cuori deve brillare nella quotidianità.
"Voi siete" dice il Signore alla sua comunità, alla Chiesa. Si, perché il discorso della montagna è rivolto prima di tutto ad una comunità; non lo si può vivere da soli, siamo chiamati a viverlo insieme, in funzione dell’altro. La comunità cristiana è una famiglia di fratelli: al suo interno si vive un rapporto forte con Dio che è Padre e quindi si realizza un rapporto forte con i fratelli. Solo così la comunità cristiana diventa fermento e speranza per l'intera umanità, perché di questo ha bisogno il mondo.
E continua Gesù: "Voi siete il sale della terra", il sale che dà sapore. "Voi siete la luce del mondo", la luce che dà il senso della vita, la saggezza.
Essere luce ed essere sale significa essere elementi essenziali per la vita, significa dare significato e speranza, aiutare le persone a rispondere alle grandi domande che tutti ci poniamo: che senso ha la vita? Dove va il mondo?
Una ricca trama simbolica è sottesa alle parole di Gesù. È necessario rendersene conto, perché esse ottengano pienamente il loro effetto. Le parabole di Gesù hanno sempre la capacità di dire grandi cose con parole semplici, facendo riferimento alla concretezza della vita.
Alla fine ci rendiamo conto che non c’è grande distanza tra il mistero del Regno e i piccoli eventi quotidiani della nostra vita: perché ogni cosa può parlarci del mistero di Dio. Anche nei momenti più difficili. Anche quando ci accorgiamo di essere incamminati verso la strada del non ritorno.
Inutile ignorarlo: la nostra società sta toccando il fondo. Il dramma del nostro tempo è quello di un cristianesimo senza Cristo, di una religione senza fede, di un culto senza celebrazione.
Le drammatiche realtà che viviamo ci devono scuotere: ci devono obbligare ad una riflessione seria sul senso della vita umana e sul compito che, come cristiani, dobbiamo svolgere in questo nostro mondo. C’è molta conflittualità: il positivo desiderio naturale dell'uomo di conoscere, seppur vagamente, il senso della propria vita, del proprio operare e della propria morte, deve purtroppo fare i conti con la minacciosa e incombente prospettiva di una insanabile sconfitta della civiltà cristiana, di una caparbia negazione del trascendente, di una insensata indifferenza ai valori umani e religiosi.
L’uomo tuttavia cerca disperatamente un appoggio che dia sicurezza alla sua esistenza. In questo momento drammatico della storia, il mondo attende inconsciamente una chiara e concreta risposta dai noi cristiani, un'indicazione, una testimonianza che dia speranza e ragioni per continuare a vivere.
Essere luce e sale, in questo contesto, è un compito che ci fa trepidare, soprattutto se guardiamo alla nostra debolezza, alle nostre infedeltà che ci rendono tanto spesso opachi, pieni di ombre, assolutamente insipidi.
Si, perché essere luce del mondo e sale della terra equivale a far dono di sé agli altri; decisamente. Equivale a dimostrare che il nostro cristianesimo non è affatto sterile e passivo, ma al contrario dinamico, entusiasta, intraprendente: in una parola è vita vissuta in Cristo, intrisa di gioia e di esultanza.
Grazie a Dio ne abbiamo tanti di questi esempi: ci sono persone che per la propria carità, per il proprio altruismo senza limiti si conquistano la nostra stima. Sono sacerdoti, religiosi, uomini e donne consacrati, laici... che vivono in atteggiamento di servizio disinteressato per gli altri. Sono persone che troviamo negli ospedali, nelle case, nelle scuole e nell'industria, insegnanti e operai. La loro carità, nonostante i loro limiti personali, è illimitata.
Ecco: se da un lato, dobbiamo aprire i nostri occhi a questa realtà e scoprire quanto di buono e bello c'è davvero nel mondo, dall’altro, coscienti del male e del peccato che insidia il cuore umano, ciascuno di noi deve sentirsi interpellato, deve sentirsi impegnato, in quanto nominalmente chiamato. Deve chiedersi: sono io luce per i miei fratelli, per le persone che vivono con me? Sono io sale che dà una ragione per vivere? La mia vita è realmente un dono per gli altri? Mi rendo conto che la mia vocazione innata è l'amore e che, quando non amo resto nell'oscurità, nella tristezza e nella disperazione?
Il grande pericolo che ci insidia è dentro di noi, fratelli, e ha un nome: egoismo, indifferenza.
Ognuno di noi, davanti a siffatte minacce del mondo moderno, dovrebbe rinvigorire questa intima convinzione: "ho una missione inalienabile da compiere in questa vita, una missione che si chiama amore". Non altrove, in terre lontane, ma attorno a noi, nella famiglia, nel lavoro, nelle nostre comunità, nella costruzione della società civile in cui viviamo: è qui che noi dobbiamo essere fermento di vita cristiana e di amore cristiano. Ogni giorno, ogni minuto che lasciamo passare per egoismo o pigrizia, è un giorno perso, un'occasione mancata. Al contrario, ogni atto di amore e carità che facciamo, è un gran dono per il mondo, perché rivela un riflesso del volto di Dio.
La Parola di oggi deve farci riflettere: siamo convinti fratelli di questa nostra chiamata? Siamo convinti che la carità è una dimensione ineluttabile che dobbiamo vivere tutti i giorni, anche nelle circostanze più piccole e insignificanti, e che qualsiasi cosa facciamo, anche per noi stessi, non deve mai perdere di vista il bene degli altri? Siamo disposti a donare noi stessi agli altri nel nostro atteggiamento quotidiano (un sorriso, una parola, un buon consiglio) prima di tutto verso il nostro prossimo più vicino (familiari, confratelli, amici, vicini di casa) per poi estenderci anche ai più lontani, a quelli che riteniamo estranei, a quelli che consideriamo nostri “nemici”? Siamo convinti che l'amore al prossimo è l'unica caratteristica che convincerà gli altri del nostro cristianesimo e che soltanto l’amore ci renderà luce del mondo e sale della terra?
Bene, fratelli. Questo ci chiede oggi il Signore. Non perdiamo tempo, crediamoci fortemente e agiamo di conseguenza. Amen.