venerdì 31 ottobre 2008

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno

"Non vogliamo, fratelli, che ignoriate la condizione di quelli che dormono nel Signore, affinché non siate tristi come quelli che non hanno speranza” (l Ts 4,13). Così l’apostolo Paolo scrive alla comunità cristiana di Tessalonica. Con questa memoria liturgica oggi la Chiesa vuole sostenere la nostra speranza. Non è a caso che la festa di Tutti i Santi sia così strettamente unita alla memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto. Per certi versi direi che è la stessa festa che continua. Se pensiamo a coloro che sono morti, particolarmente a quelli che sono più cari al nostro cuore, non possiamo non sentire la tristezza della separazione. Tuttavia l’apostolo Paolo ci invita a non dimenticare il futuro che è riservato ai figli di Dio. “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli... E se siamo figli, siamo anche eredi”, scrive Paolo ai Romani. Aggiunge: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,15.18). Oggi, la santa liturgia schiude ai nostri occhi uno spiraglio di questa “gloria futura”. Per noi è futura; per i nostri cari è svelata. Essi abitano su quel monte alto ove il Signore ha preparato un banchetto per tutti i popoli. Il velo “che copre la faccia” e che fa ripiegare su se stessi è stato definitivamente strappato; i loro occhi contemplano il volto di Dio, nessuno più versa lacrime di tristezza, semmai sono di commozione senza fine. La liturgia ci dona oggi questa visione, perché sappiamo dove essi sono e dove noi andremo. La morte ci separa, è vero, e ne sentiamo tutta la tristezza; eppure non ci allontana gli uni dagli altri, non rompe i vincoli di amore che abbiamo legato sulla terra, non ci fa uscire dalla famiglia di Dio alla quale siamo stati chiamati. È quanto il Signore Gesù ci dice nel brano evangelico che abbiamo ascoltato (Mt 25,31-46). Sì, l’unica cosa che conta nella vita è l’amore: l’unica cosa che resta di tutto quel che abbiamo detto e fatto, pensato e programmato, è l’amore. L’amore è sempre grande: sebbene si manifesti in gesti piccoli come un bicchiere d’acqua, un pezzo di pane, una visita, una parola di conforto, una mano che stringe. L’amore è grande perché è sempre una scintilla di Dio che infuoca e salva la terra. Quell’abside d’oro, care sorelle e fratelli. ove vivono i santi e i nostri cari, quel mosaico infuocato possiamo costruirlo già da ora con le piccole tessere dell’amore per tutti e particolarmente per i poveri. Beati noi, se seguiremo poveramente ma decisamente il Vangelo. Ci sentiremo dire al termine dei nostri giorni: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Allora la nostra gioia sarà piena.

Chi sono i santi

Da tempo gli scienziati mandano segnali nel cosmo in attesa di risposte da parte di esseri intelligenti esistenti in qualche pianeta sperduto. La Chiesa da sempre intrattiene un dialogo con abitanti di un altro mondo, i santi. Questo è ciò che proclamiamo dicendo: "Credo nella comunione dei santi". Se anche esistessero abitanti al di fuori del sistema solare, la comunicazione con essi sarebbe impossibile perché tra la domanda e la risposta dovrebbero passare milioni di anni. Qui invece la risposta è immediata perché c'è un centro di comunicazione e di incontro comune che è il Cristo risorto. Forse anche per il momento dell'anno in cui cade, la festa di Tutti i santi, ha qualcosa di particolare che spiega la sua popolarità e le numerose tradizioni ad essa legate in alcuni settori della cristianità. Il motivo è in ciò che dice Giovanni nella seconda lettura. In questa vita, "noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo ancora non appare"; siamo come l'embrione nel senso della madre che anela a nascere. I santi sono quelli che sono "nati" (la liturgia chiama "giorno natalizio", dies natalis, il giorno della loro morte); contemplarli è contemplare il nostro destino. Mentre intorno a noi la natura si spoglia e cadono le foglie, la festa di Tutti i santi ci invita a guardare in alto; ci ricorda che non siamo destinati a marcire in terra per sempre come le foglie. Il brano evangelico è quello delle Beatitudini. Una beatitudine in particolare ha ispirato la scelta del brano: "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati". I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure. Ci aiuta a capire chi sono i santi la prima lettura della festa. Essi sono "coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello". La santità si riceve da Cristo; non è di produzione propria. Nell'Antico Testamento essere santi voleva dire "essere separati" da tutto ciò che è impuro; nell'accezione cristiana vuol dire piuttosto il contrario e cioè "essere uniti", s'intende a Cristo. I santi, cioè i salvati, non sono soltanto quelli elencati nel calendario o nell'albo dei santi. Vi sono anche i "santi ignoti": quelli che hanno rischiato la vita per i fratelli, i martiri della giustizia e della libertà, o del dovere; i "santi laici", come li ha chiamati qualcuno. Senza saperlo anche le loro vesti sono state lavate nel sangue dell'Agnello, se hanno hanno vissuto secondo coscienza e hanno avuto a cuore il bene dei fratelli. Una domanda viene spontanea: "Cosa fanno i santi in paradiso? La risposta è, anche qui, nella prima lettura: i salvati adorano, gettano le loro corone davanti al trono, gridano: "Lode, onore, benedizione, azione di grazia...". Si realizza in essi la vera vocazione umana che è di essere "lode della gloria di Dio" (Ef 1,14). Il loro coro è guidato da Maria che in cielo continua il suo cantico di lode: "L'anima mia magnifica il Signore". È in questa lode che i santi trovano la loro beatitudine ed esultanza: "Il mio spirito esulta in Dio". L'uomo è ciò che ama e ciò che ammira. Amando e lodando Dio ci si immedesima con Dio, si partecipa della sua gloria e della sua stessa felicità. Un giorno un santo, S. Simeone il Nuovo Teologo, ebbe una esperienza mistica di Dio così forte che esclamò tra sé: "Se il paradiso non è che questo, mi basta!". Ma la voce di Cristo gli disse: "Sei ben meschino se ti accontenti di questo. La gioia che hai provato in confronto a quella del paradiso è come un cielo dipinto sulla carta rispetto al cielo vero" (padre Raniero Cantalamessa).

sabato 25 ottobre 2008

Amerai il prossimo tuo come te stesso

"Amerai il prossimo tuo come te stesso". Aggiungendo le parole "come te stesso!", Gesù ci ha messi davanti uno specchio al quale non possiamo mentire; ci ha dato un metro infallibile per scoprire se amiamo o no il prossimo. Noi sappiamo benissimo, in ogni circostanza, cosa significa amare noi stessi e cosa vorremmo che gli altri facessero per noi. Gesù non dice, si badi bene: "Quello che l'altro fa a te, tu fallo a lui". Questo sarebbe ancora la legge del taglione: "Occhio per occhio, dente per dente". Dice: quello che tu vorresti che l'altro facesse a te, tu fallo a lui (cf. Mt 7,12), che è ben diverso.
Gesù considerava l'amore del prossimo come il "suo comandamento", quello in cui si riassume tutta la Legge. "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi" (Gv 15, 12). Molti identificano l'intero cristianesimo con il precetto dell'amore del prossimo, e non hanno del tutto torto. Dobbiamo però cercare di andare un po' oltre la superficie delle cose. Quando si parla di amore del prossimo il pensiero va subito alle "opere" di carità, alle cose che bisogna fare per il prossimo: dargli da mangiare, da bere, visitarlo; insomma aiutare il prossimo. Ma questo è un effetto dell'amore, non è ancora l'amore. Prima della beneficenza viene la benevolenza; prima che fare il bene, viene il volere bene.
La carità deve essere "senza finzioni", cioè sincera (alla lettera, "senza ipocrisia") (Rom 12, 9); si deve amare "di vero cuore" (1 Pt 1,22). Si può infatti fare la carità e l'elemosina per molti motivi che non hanno nulla a che vedere con l'amore: per farsi belli, per passare da benefattori, per guadagnarsi il paradiso, perfino per rimorso di coscienza. Molta carità che facciamo ai paesi del terzo mondo, non è dettata da amore, ma da rimorso. Ci rendiamo infatti conto della differenza scandalosa che esiste tra noi e loro e ci sentiamo in parte responsabili della loro miseria. Si può mancare di carità, anche nel "fare la carità"!
È chiaro che sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro l'amore del cuore e la carità dei fatti, o rifugiarsi nelle buone disposizioni interiori verso gli altri, per trovare in ciò una scusa alla propria mancanza di carità fattiva e concreta. Se tu incontri un povero affamato e intirizzito dal freddo, diceva san Giacomo, a che gli giova se gli dici: "Poveretto, va', scaldati, mangia qualcosa!", ma non gli dai nulla di ciò di cui ha bisogno? "Figlioli, aggiunge l'evangelista Giovanni, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Gv 3,18). Non si tratta dunque di svalutare le opere esteriori di carità, ma di far sì che esse abbiamo il loro fondamento in un genuino sentimento di amore e benevolenza.
Questa carità del cuore o interiore è la carità che tutti e sempre possiamo esercitare, è universale. Non è una carità che alcuni -i ricchi e i sani- possono solo dare e gli altri -i poveri e i malati- solo ricevere. Tutti possono farla e riceverla. Inoltre è concretissima. Si tratta di cominciare a guardare con occhio nuovo le situazioni e le persone con cui ci troviamo a vivere. Quale occhio? Ma è semplice: l'occhio con cui vorremmo che Dio guardasse noi! Occhio di scusa, di benevolenza, di comprensione, di perdono... Quando questo avviene, tutti i rapporti cambiano. Cadono, come per miracolo, tutti i motivi di prevenzione e di ostilità che impedivano di amare una certa persona e questa comincia ad apparirci per quello che è nella realtà: una povera creatura umana che soffre per le sue debolezze e i suoi limiti, come te, come tutti. È come se la maschera che gli uomini e le cose hanno posto sul suo volto venisse a cadere e la persona ci apparisse per quello che è veramente. (Padre Raniero Cantalamessa)

giovedì 23 ottobre 2008

26 Ottobre 2008 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

Bisogna allontanarsi dagli uomini per trovare Dio? E chi ha trovato Dio può ancora ritornare verso gli uomini e vivere con loro, interessarsi di loro e lavorare con loro e per loro? In altre parole, l’amore di Dio e l’amore degli uomini sono compatibili o, al contrario, l’uno esclude l’altro in modo che bisogna assolutamente operare una scelta? Ognuna di queste domande ha ricevuto da Gesù una risposta essenziale: il primo comandamento è di amare Dio, e il secondo, che gli è simile, è di amare gli uomini. Non si può, dunque, pensare che l’entrata di Dio in una coscienza provochi l’esclusione dell’uomo (Vangelo). Anzi, i testi più sicuri del messaggio dell’Antico Testamento e di Gesù ci portano a credere con certezza che l’incontro con Dio rinnova e perfeziona l’attenzione e la sollecitudine verso gli uomini (Prima Lettura). «Dio quando si rivela personalmente lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito di amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio» (RdC 122b). Ma occorre approfondire alcuni problemi che sono imposti dagli stessi testi evangelici. Bisogna amare gli uomini, ma bisogna anche guardarsi dal mondo, saper lasciare il padre e la madre... Come accordare tra loro proposizioni che, a tutta prima, sembrano andare in direzione opposta? Dovendo assolutamente scegliere tra l’uomo e Dio, come fare? L’amore degli uomini non minaccia, a volte, l’amore di Dio? Mai la Scrittura e la tradizione cristiana hanno permesso al cri­stiano di disinteressarsi dell’uomo, sotto il pretesto di interessarsi unicamente di Dio. Mai hanno lasciato di indicare nel servizio dell’uomo un modo di servire Dio.
L’attenzione a Dio e l’attenzione all’uomo non sono così facilmente separabili. Il coltivare la «vita interiore» è un valore cristiano, un valore permanente, come il bisogno di raccoglimento. Però la “vita interiore”, quando è cristiana, non solamente non è monologo, ma neppure un parlare con Dio solo. Incontrando Dio nell’orazione il cristiano, più o meno presto, incontra inevitabilmente gli uomini che Dio crea e vuol salvare. Egli non può non sottoscrivere queste righe del p. Ricoeur: «La mia vita interiore è la sorgente delle mie relazioni esteriori. All’opposto delle sapienze meditative e contemplative della fine del paganesimo greco o dell’Oriente al di là dell’Indo, la predicazione cristiana non ha mai opposto l’essere al fare, l’interiore all’esteriore, la teoria alla prassi, la preghiera alla vita, la fede alle opere, Dio al prossimo. E’ sempre nel momento in cui la Comunità cristiana si disfa o la fede decade, che la si vede abbandonare il mondo e le sue responsabilità e ricostruire il mito dell’interiorità. Allora il Cristo non è più riconosciuto nella persona del povero, dell’esiliato, del prigioniero».
Il cristiano può allontanarsi momentaneamente dagli uomini, per pregare, per non pensare che a Dio. Può fare un’ora di meditazione senza ritrovare, espressamente, nella contemplazione di un mistero divino, il pensiero dei bisogni degli uomini... Questo, anzi, diventa, in certi momenti, una sentita necessità. Nella vita cristiana come nella vita umana in genere, esistono normalmente dei ritmi; si va dalla contemplazione all’azione, e dall’azione alla contemplazione. Ma l’allontanamento dagli uomini è sempre e solo provvisorio. Così, come accade all’interno della nostra esistenza nella quale si succedono momenti di ritiro a momenti di intensa attività; anche all’interno della Chiesa vediamo contemplativi e attivi. Il mistero di Cristo è vissuto nella Chiesa dal suo complesso, nell’insieme dei suoi membri e in quello dei secoli. Il contemplativo serve gli uomini servendo Dio, l’attivo serve Dio servendo gli uomini. I due esprimono, specializzandosi nell’imitazione dei Cristo, uno stesso e unico mistero: quello della vita religiosa del Verbo incarnato. Così è capitato e capita ancora nella storia della Chiesa. Il santo Curato d’Ars sospirava il convento e la solitudine mentre si prodigava fino in fondo a favore degli uomini; e il convento ha dato alla Chiesa grandi papi, grandi vescovi, grandi riformatori e missionari che sono passati dalla contemplazione e dalla solitudine all’azione più indefessa e senza soste.
«Amerai...». Come ricorda anche papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, questo verbo pone un vero dilemma. Da una parte il termine “amore” oggi è diventato una delle parole più usate e anche abusate (n. 2), alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Dall’altro, «Dio è amore» esprime la centralità della fede cristiana, che ha accolto il nucleo della fede di Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità in Cristo. Il divario tra il linguaggio comune e il linguaggio della fede obbliga il credente a non accontentarsi di generali e ambigue affermazioni sull’amore. E’ fondamentale che egli assuma tale termine nella ricca accezione biblica, scoprendo il cuore di Dio entro le azioni e le parole della Storia della Salvezza. L’amore cristiano ha nell’amore di Dio la propria origine, forza e riferimento, e questo è lontano da ogni retorica sentimentale e mal sopporta generiche esortazioni. Al centro ha, infatti, l’evento sconvolgente della morte di Cristo, sacrificio di perenne valore e totale donazione, croce che dice amore salvifico e di perdono, amore creatore e libero.

giovedì 16 ottobre 2008

19 Ottobre 2008 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Diverse e talora divergenti sono le interpretazioni date alla celebre frase-risposta di Gesù a coloro che volevano tendergli una trappola: una frase ad effetto, quasi una “scappatoia” con la quale Gesù risponde senza sbilanciarsi; una risposta ironica, come se Gesù volesse dire: solo quando c’è da pagare le tasse tirate fuori il problema della coscienza; una precisa definizione dei limiti di campo e dei rapporti reciproci fra Stato e Chiesa. Emerge comunque chiaro che ciò che importa è il regno di Dio. Questo è l’unico assoluto da ricercarsi. Gesù è venuto a predicare il regno: questa è la realtà fondamentale e discriminante. Di fronte a questo annuncio tutto passa in secondo piano. Con questo, Gesù non vuol negare la funzione di Cesare, ma vuol colpire i suoi avversari che non hanno compreso la sua missione e dimenticano la questione decisiva.
Spesso il brano odierno viene usato per riaffermare e per dare un fondamento biblico, rivelato, alla distinzione e reciproca autonomia tra la Chiesa e lo Stato. Molto probabilmente la risposta di Gesù non aveva questa intenzione: sia per il contesto del racconto, che non esigeva un pronunciamento su questo problema; sia per il contesto storico dei suoi tempi, nei quali non si distingueva ancora tra potere politico e religioso. Ma la risposta di Gesù è ugualmente illuminante perché indica una direzione. Gli Ebrei del tempo di Gesù erano abituati a concepire il regno inaugurato dal futuro Messia nella forma di una teocrazia, cioè come dominio diretto di Dio, tramite il suo popolo, su tutta la terra. La parola di Gesù rivela l’esistenza di un regno di Dio nella storia, nel quale è possi­bile ad ognuno, e non solo all’ebreo, entrare fin d’ora, senza attendere che si inauguri un ipotetico regno politico di Dio su tutta la terra. Il regno di Dio, infatti, è possibile all’interno di un regno pagano, non meno che nel quadro di una teocrazia, poiché non si identifica né con l’uno né con l’altra. Si rivelano così due modi qualitativamente diversi di dominazione e di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la signoria temporale che egli esercita indirettamente, mediante il libero gioco delle cause seconde.
La parola di Gesù richiama la nostra riflessione su uno dei problemi più importanti e cruciali dei cristiani oggi. L’uomo moderno ha la profonda convinzione di avere un compito storico da svolgere sulla terra, un compito che è proporzionato alle sue possibilità sempre maggiori e che implica un reale dominio sull’universo. Il fine è questo: la promozione della comunità umana nel seno di una “città” sempre più fraterna. Questa presa di coscienza si accompagna talvolta a una critica amara nei confronti della religione, che viene considerata la responsabile della secolare alienazione degli uomini. Molti assumono nei confronti della religione un atteggiamento di non considerazione, come se essa non avesse alcun apporto positivo da offrire. La fede cristiana, vissuta integralmente, lungi dal suggerire rassegnazione ed evasione nei confronti dei compiti terreni dell’uomo, aiuta il credente ad assumere le proprie responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi che si impongono alla coscienza moderna. Gli appelli del mondo attuale trovano una eco sempre più profonda in vasti strati del popolo cristiano, e fortunatamente non sono scarsi i cristiani coerenti che si assumono i ruoli della promozione, della liberazione e della costruzione di una città terrena più giusta ed umana. Il Concilio Vaticano II ha dedicato una parte importante dei suoi lavori all’analisi delle preoccupazioni dell’uomo del XX secolo, problemi in apparenza più profani che religiosi, sicché le reticenze o le assenze del cristiano di ieri in rapporto al suo impegno nel mondo, dovrebbero essere superate. Rimane, tuttavia, una domanda: la costruzione della città terrena è un compito importante, ma non è essa caduca? Costruendo la città degli uomini si contribuisce o no all’edificazione del regno di Dio? Non sono due regni diversi?
La speranza cristiana, certo, non si compie pienamente se non nel mondo futuro. Tuttavia, essa mostra fin d’ora la sua efficacia: è una forza immensa nel mondo, è un fermento che lo fa lievitare, è un sale che dà senso e sapore allo sforzo umano di liberazione, all’impegno temporale. Non è alienazione, non è alibi. Non esistono due speranze: una terrena e l’altra celeste, la speranza è una sola: guarda alla realtà futura, ma, attraverso l’impegno cristiano, l’anticipa nella realtà terrestre.
Nella risposta di Gesù alla domanda insidiosa dei suoi interlocutori, non c’è condanna per il potere politico. Gesù distingue, istruisce e illumina su una grande realtà: la moneta coniata da Cesare ha la sua immagine e gli appartiene, l’uomo è creato e porta l’immagine di Dio e appartiene a Dio; egli non può essere usato e schiavizzato da nessun potere, al quale è comunque riconosciuta una sua propria sfera d’azione, purché non sia contro l’uomo.

sabato 11 ottobre 2008

12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

L'importante e l'urgente
È istruttivo osservare quali sono i motivi per cui gli invitati della parabola rifiutano di venire al banchetto. Matteo dice che essi "non si curarono" dell'invito e "andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari". Il Vangelo di Luca, su questo punto, è più dettagliato e presenta così le motivazioni del rifiuto: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo… Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli… Ho preso moglie e perciò non posso venire" (Lc 14,18ss). Cos'hanno in comune questi diversi personaggi? Tutti e tre hanno qualcosa di urgente da fare, qualcosa che non può aspettare, che reclama subito la loro presenza. E cosa rappresenta invece il banchetto nuziale? Esso indica i beni messianici, la partecipazione alla salvezza recata da Cristo, quindi la possibilità di vivere in eterno. Il banchetto rappresenta dunque la cosa importante nella vita, anzi l'unica cosa importante. È chiaro allora in che consiste l'errore commesso dagli invitati; consiste nel tralasciare l'importante per l'urgente, l'essenziale per il contingente! Ora questo è un rischio così diffuso e così insidioso, non solo sul piano religioso, ma anche su quello puramente umano, che vale la pena riflettervi sopra un poco.
Anzitutto, appunto, sul piano religioso. Tralasciare l'importante per l'urgente, sul piano spirituale, significa rimandare continuamente il compimento dei doveri religiosi, perché ogni volta si presenta qualcosa di urgente da fare. È Domenica ed è ora di andare alla Messa, ma c'è da fare quella visita, quel lavoretto in giardino, il pranzo da preparare. La Messa può aspettare, il pranzo no; allora si rimanda la Messa e ci si mette intorno ai fornelli.
Ho detto che il pericolo di tralasciare l'importante per l'urgente è presente anche nell'ambito umano, nella vita di tutti i giorni, e vorrei accennare anche a questo. Per un uomo è certamente importantissimo dedicare del tempo alla famiglia, a stare con i figli, dialogare con essi se sono grandi, giocarci se sono piccoli. Ma ecco che all'ultimo momento si presentano sempre cose urgenti da sbrigare in ufficio, straordinari da fare sul lavoro, e si rimanda a un'altra volta, finendo per tornare a casa troppo tardi e troppo stanchi per pensare ad altro.
Per un uomo o una donna è cosa importantissima andare ogni tanto a far visita all'anziano genitore che vive solo in casa o in qualche ospizio. Per chiunque è cosa importantissima far visita a un conoscente malato per mostragli il proprio sostegno e rendergli forse qualche servizio pratico. Ma non è urgente, se rimandi, apparentemente non casca il mondo, forse nessuno se ne accorge. E così si rinvia.
La stessa cosa si realizza anche nella cura della propria salute che è anch'essa tra le cose importanti. Il medico, o semplicemente il fisico, avverte che ci si deve riguardare, prendere un periodo di riposo, evitare quel tipo di stress...Si risponde: sì, sì, lo farò senz'altro, appena avrò portato termine quel lavoro, quando avrò sistemato la casa, quando avrò estinto tutti i debiti...Finché ci si accorge che è troppo tardi. Ecco dove sta l'insidia: si passa la vita a rincorrere le mille piccole faccende da sbrigare e non si trova mai tempo per le cose che incidono davvero sui rapporti umani e possono fare la vera gioia (e, trascurate, la vera tristezza) nella vita. Così vediamo come il Vangelo, indirettamente, è anche scuola di vita; ci insegna a stabilire delle priorità, a tendere all'essenziale. In una parola, a non perdere l'importante per l'urgente, come successe agli invitati della nostra parabola. (P. Raniero Cantalamessa)

giovedì 9 ottobre 2008

12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Venite alle nozze!»
Il tema della “convocazione” e del “raduno” universali percorre la Scrittura in tutti i suoi libri e definisce l’esperienza sia di Israele sia della Chiesa. Il popolo eletto percepisce la sua unità come quella di un raduno continuamente provocato dalla convocazione di Jahwè. Il quadro di questi raduni è quasi sempre cultuale e sacrificale e si richiama al grande raduno in cui fu conclusa l’alleanza, e prelude al raduno escatologico universale. Quando i profeti evocano l’avvenire messianico, fanno appello al tema dell’assemblea nella quale Jahwè radunerà non solo le 12 tribù di Israele, ma tutte le nazioni della terra.
Il disegno di riunire tutte le nazioni si realizza in Cristo. Dio vuole operare questo raduno attraverso il popolo eletto, già precedentemente destinato nei piani di Dio ad essere lo strumento privilegiato del raduno universale. Ma il rifiuto di Israele lo priva del suo privilegio e la riunione universale si farà attorno al Cristo crocifisso che risuscita dai morti. Alcuni elementi caratterizzano questo raduno e lo distinguono da quello descritto dall’Antico Testamento. E’ Dio, attraverso Gesù, che “convoca” questo raduno, ma il suo disegno di riunificazione non potrà riuscire senza l’attiva partecipazione e collaborazione dell’uomo. Il disegno di Dio costituisce un compito per l’uomo. Il regno di Dio non discende dal cielo come un lampo. Se è vero che Cristo costituisce la pietra d’angolo della costruzione, gli uomini non possono esimersi dal collaborare all’innalzamento dell’edificio. Più nessun privilegio è riconosciuto ad Israele in questa riunione universale. E’ l’atto di nascita di un nuovo universalismo, del resto già previsto nell’Antico Testamento. Il convito sul monte il Signore lo preparerà per tutti i popoli (Prima Lettura).
Dal giorno della Pentecoste il segno e il luogo privilegiati della riunione universale voluta da Dio sono la Chiesa. Il miracolo delle lingue e la presenza a Gerusalemme di genti venute da ogni parte del mondo esprimono bene fin dal suo nascere la natura e la missione della Chiesa, il cui mistero può esprimersi proprio in termini di convocazione e di raduno. La Chiesa non è fedele a se stessa se non si pone come ponte che unisce gli uomini non solo con Dio, ma anche fra di loro. Essa ha per compito quello di andare incontro agli uomini e di raggiungerli là dove si trovano.
Nel mondo moderno, secolarizzato, la situazione e la presenza della Chiesa tra gli uomini è molto cambiata. In tempi di “cristianità” la Chiesa radunava non solo attorno all’Eucaristia, ma anche in molti altri settori della vita e dell’attività umana, sui quali esercitava una vera tutela; oggi questo compito è molto diverso per le mutate condizioni. Potremmo dire che la vera unità, il vero raduno degli uomini avviene, oggi, al di fuori della sfera d’influsso della Chiesa, quando non in opposizione ad essa. La convocazione e il raduno degli uomini avviene oggi attorno agli ideali di giustizia, di liberazione, di presa di coscienza della propria dignità, che raccolgono le masse in partiti, in sindacati. Gli uomini si ritrovano uniti nella lotta contro le malattie, la fame, nel tentativo titanico di liberarsi dalle schiavitù e dai limiti delle forze della natura; si raccolgono attorno alla scienza e alla tecnica alla quale credono come in una nuova e terrena speranza; si raccolgono e si uniscono compatti nella lotta di classe, contro l’oppressione e il potere di un sistema. Questa raccolta e questa riunione è favorita e resa possibile dai grandi mezzi di comunicazione sociale di massa: radio-TV, giornali, sport...Questo è il terreno dove gli uomini, oggi, si incontrano e dove l’uomo moderno ha sempre più coscienza di portare a termine un destino storico che sembra estraneo alle preoccupazioni religiose. In questa situazione il cristiano prova la sensazione di sentirsi “disperso” in mezzo agli altri uomini, ma il cristiano non è mai un “isolato” perché resta membro vivo della Chiesa. Per portare nel pieno della vita la testimonianza della risurrezione di Cristo, come lievito nella pasta, il cristiano disperso ha bisogno di “segni” ecclesiali che sono gli altri membri vivi della Chiesa, sacerdoti e laici, come lui immersi nelle realtà quotidiane. La “convocazione” della Chiesa, in questi ambienti, non avviene tanto attraverso la Parola proclamata come nel passato, ma passa attraverso la testimonianza dei credenti che è davvero un appello per tutti alla salvezza e a una “riunione” molto più totale e profonda di quella che l’uomo riesce a costruire con le sue sole mani.
Tutti invitati alle nozze! Per questo la Chiesa evangelizza, essa va sollecita, sulle vie del mondo, per chiamare con urgenza tutti al banchetto preparato dal Padre, sul monte del Signore. Egli manterrà le sue promesse. L’ospite divino che ci accoglie nella sua tenda prepara per noi una mensa divina, succulenta, raffinata; nessuno ci può toccare e fare del male, chi infatti tocca l’ospitato, tocca l’ospite a danno suo. I servi, vescovi, presbiteri, diaconi, evangelizzatori, oranti, invitano al banchetto! La mensa è ricca, è la Parola e i divini Misteri, capaci di saziare la nostra fame e sete di vita piena.

giovedì 2 ottobre 2008

5 ottobre 2008 - XXVII Domenica del Tempo ordinario

Lasciamoci coltivare dal Signore
Gesù ha scelto, nel suo ministero, un messianismo fatto di tenerezza e di toni pacati, rifiutando il miracolo e preferendo il dialogo all'atto di forza. Ora, a distanza di tre anni, Gesù sa di avere fallito la sua missione.
La gente lo ha seguito, prima attratta dalla sua mitezza, poi dal suo innovativo modo di parlare di Dio; i miracoli, compiuti con parsimonia, senza mai violare la libertà di chi vi assiste, hanno accresciuto al sua fama. Deluso e amareggiato, il Signore si ritira in una sfera più intima, ma anche dai suoi apostoli riceve una cocente delusione: non hanno capito il suo progetto, litigano (e ti pareva!) sul loro ruolo nel futuro governo di Israele.
La folla, dopo un primo momento di euforia, cambia idea sul Nazareno: il Regno di Dio non è arrivato, i romani sono ancora lì, con la loro arroganza; Gesù è solo un clamoroso bluff.
Totalmente Dio, totalmente di Dio, l'uomo Gesù di Nazareth, si accorge di avere sopravvalutato gli uomini, cede alla sensazione (terribile), di avere completamente fallito il bersaglio.
Una sensazione tragica, che ho visto sul volto di molti fratelli adulti, di molte sorelle, al tramonto della loro vita. La sensazione di chi non può più tornare sui propri passi.
Cosa fare, ora?
Gesù parla, gli occhi bassi, seduto, quasi pensando tra sé e sé.
Racconta di una vigna, una bella vigna, data in gestione a dei vignaioli assassini.
É la tragica storia di Dio e dell'umanità, di una incomprensione che fatica a risolversi, di un dolore, il dolore di Dio, che spiazza e interroga.
Il dolore di Dio, palpabile in questa tragica parabola, mi zittisce.
Gesù parla (me lo vedo), la voce rotta dall'emozione: che fare? Che farò?
La storia dell'umanità è la storia di un amore in crisi, di un innamorato passionale, Dio, e di una sposa tiepida e opportunista: l'umanità.
Leggete bene, ve ne prego: quanta dignità in questo padrone che prepara con cura e amore la vigna da dare in affitto, quanta idiota arroganza in questi fittavoli che pensano, uccidendo il figlio del padrone, di diventare eredi!
Immagine dell'umanità che non riconosce il proprio Creatore, il proprio limite, questa tragica parabola è la sintesi della storia fra Dio e Israele, fra Dio e l'umanità. L'uomo non riconosce il suo Creatore, si sostituisce a lui: ecco il peccato di fondo, la tragica fragilità dell'uomo, credere di essere autosufficiente, senza dover rendere conto, misconoscere il proprio limite.
Ancora oggi accade così, in questi deliranti tempi in cui, invece di riconoscere la propria origine e la propria dignità, l'umanità pensa a come fregare il proprietario, nega l'evidenza della propria creaturalità, si perde nel delirio di onnipotenza di chi crede di manipolare l'origine della vita, il cosmo, la natura.
Che fare? Mi commuove questo Dio onnipotente fermato dal nostro rifiuto, come un amante scosso, un genitore ferito, un amico che si scopre improvvisamente tradito.
Che fare? Questo Dio sconsiderato rischia la vita del figlio, pensando, così facendo, di suscitare rispetto nell'uomo, se non giustizia. E invece no, anche questo gesto è stravolto, incompreso.
Che fare? Gesù non sa più cosa dire, aspetta una risposta dai fittavoli che, ingenuamente, nell'ottusità del loro cuore, non capiscono che proprio di loro si sta parlando. E inveiscono: morte, punizione, vendetta, maniere forti!
Il vangelo dunque ci presenta la situazione disperata di una vigna, che dopo essere stata accuratamente fatta fruttificare dal suo padrone, ora che è affidata a dei vignaioli profittatori, sta andando in rovina.
Tutti i richiami del padrone e i suoi messaggeri sono rifiutati, annientati.
Ma sulle rovine di questa vigna il padrone ricostruisce la sua casa. I vignaioli omicidi saranno allontanati, e altri faranno fruttificare la vigna.
Il richiamo è per noi, carissimi fratelli. Anzi, proprio per me.
Perché anche dentro di me c'è sempre la tentazione del vignaiolo omicida: annullare l'altro, profittare delle cose e delle occasioni, rifiutare tutto ciò che non viene costruito e ideato da me.
Il mondo e il presente sono due grandi occasioni dove io posso mostrare la mia potenza e giocare le mie carte vincenti, per il mio successo materiale o per il mio potere personale.
Anche dal punto di vista spirituale, sono un divoratore di situazioni che mi si confanno, e mi riempiono moralmente, a tal punto da farmi parere a me stesso e agli altri un padreterno.
In questa autostrada che percorro a velocità sempre più crescente e in modo sempre più spericolato, non mi curo più delle regole del buon senso, delle leggi vigenti, del buon senso e del rispetto, della presenza dell'altro.
Tutto quanto, nel mio agire spericolato della mia vita, mentre appare sempre più piacevole e travolgente per me, travolge sempre più le cose e le persone che incontro su questa strada.
Tutto accresce la mia utilità, la mia convenienza, la mia bella figura, la mia intoccabilità di buon credente nella vita, accresce la quantità delle mie pratiche e delle mie partecipazioni alla collettività, tutto mi fa essere uno proiettato a razzo nella socialità, nella spiritualità, nella vitalità.
Tutto a scapito dell'altro e del mondo.
L'altro e il mondo diventano la mia spazzatura, il luogo dove riporre il resto di tutto ciò che faccio, il luogo dove lasciare tutto quello che ho appena vissuto, sperimentato, gustato, assaporato per me.
Ma ciò che noi scartiamo ogni giorno, non è altro che la primizia della vigna rinnovata.
Ma come è possibile questo?
La potenza della verità è superiore a noi: quello che scartiamo, essa lo recupera, lo trasforma; quelli che noi eliminiamo, ce li rimette in piedi e in prima fila, a costruire la nuova umanità, quella vera, e non la nostra.

Dice Gesù: Che cosa dovevo fare di più che non ho fatto?
Egli, con immagini, esempi e parabole, ci ricorda il suo amore provvidente, rigenerante e creativo.
"Dio è amore". Meraviglioso il cantico della vigna di Isaia, propostoci nella prima lettura. È un poema che esprime il grande amore di Dio verso il suo popolo, ma la gente è ingrata, non vuole o non può apprezzare tutta questa cura che il Signore ha. Gesù torna su questo argomento, ripetendo quasi il profeta Isaia. Gesù, nuovo profeta, è venuto a ricordare e portare a compimento l'amore grande di Dio, ma ancora una volta il popolo non corrisponde.
Gesù non sarà accolto, sarà ucciso.
Dio non si stanca di continuare il suo dialogo d'amore: uccidono i profeti, uno, poi l'altro, poi l'altro. Ma Dio manda suo Figlio. Gesù parla di se stesso. Sottolinea che non ci può essere un amore più grande di questo: dare la vita.
Dio non vuole perdere la speranza che ha verso gli uomini.
Dio non ha paura di dare il suo Figlio, per dimostrare che con lo stesso amore ama anche ciascuno di noi. Per Dio, l'uomo ha lo stesso valore di suo Figlio.
Nella nostra vita deve essere presente questo ringraziamento al Signore: è il dono più grande: abbiamo capito quanto Dio ama il suo popolo. Questo dono è Gesù Crocifisso. Ringraziamento non solo per le cose belle, ma per tutta la potenza di grazia che c'è anche nel sacrificio e nella sofferenza della vita.
Dio per salvare il suo popolo, l'intera umanità, ha dato ciò che aveva di più caro.
Noi siamo come questi vignaioli: abbiamo ricevuto tante cose.
I vignaioli hanno dimenticato chi è il padrone; hanno voluto farsi essi padroni della loro vita, della vita del mondo.
Il cantico della vigna possiamo dunque applicarlo a noi e contemplare quanta cura il Signore ha per la sua vigna, cioè per il suo popolo, per l'umanità, per ciascuno di noi.
"Che cosa dovevo fare di più, che non ho fatto?" Non avremmo mai voluto sentire questo lamento di Dio. Eppure esprime tutta l'intensità dell'amore di Dio e tutta la tragedia del peccato dell'uomo.
Un giorno, in una rivelazione a S. Margherita Gesù dirà: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e che non riceve che ingratitudini e oltraggi!".
Oggi ci è richiesta una forte revisione di vita. Sappiamo contemplare e percepire tutto quello che il Signore ha fatto e fa per ciascuno di noi, per la Chiesa, per l'umanità, per l'universo intero? "La sua bontà è grande come il cielo", possiamo dire anche noi con il salmo. Avvertiamo veramente e concretamente la paternità di Dio sulla nostra vita?
Ci accorgiamo di essere amati, desiderati, voluti dal Padre o Lui è per noi una figura lontana? Siamo figli grati, riconoscenti, pieni di amore?
Chiediamoci: perché nella nostra società c'è tanto rifiuto di Dio? Perché tanta indifferenza o lotta contro i valori e i segni della fede? Qual è la nostra riflessione e il nostro atteggiamento di fronte a tutto questo?
Ma anche quando non corrispondiamo, anche quando rifiutiamo il Signore Gesù, Lui, il Cristo, rimane sempre la pietra angolare, il Salvatore, la roccia.
Quel Figlio, morto sulla croce, "pietra scartata dai costruttori" diventa "testata d'angolo", il fondamento di tutto. Che altro poteva fare il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio che verrà consegnato alla morte di croce. Gesù, sulla croce, come dice S. Paolo, "mi ha amato e ha dato tutto se stesso per me". Questa è l'opera mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento e l'inizio di ogni vita nuova. E' la rivincita, la vittoria dell'amore. Ma "il regno di Dio sarà tolto a quelli che lo hanno rifiutato e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare".
Invece, che cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere ciò che non si può possedere: la vigna non è loro. La vigna va curata, fatta fruttificare, lavorata, ma non è loro. E questo è il loro problema. Il grande problema dell’uomo è che la morte esiste. Per cui l’uomo non ha potere su nulla. Non c’è nessuna cosa a cui tu possa dire: “Tu sei mia”. L’uomo, se ci pensa bene, non è proprietario di nulla. Non abbiamo diritto a niente e nessuno ci deve qualcosa perché non possediamo nulla. Questo ci fa sentire vulnerabili, spogli, nudi e impotenti. Per questo ci illudiamo possedendo e accumulando.
L’amore non si può possedere. L’amore va espresso, condiviso, manifestato, ma non lo puoi possedere. L’altro non puoi farlo tuo. L’altro rimarrà sempre un dono. “Tu sei mio! Mi devi amare! Con tutto quello che io faccio per te!”. “No, caro! Non ti devo niente!”.
La vita non si può possedere. Può essere vissuta, intensa, realizzata, gustata, ma non si può possederla. La vita non si possiede: si vive. Non dare anni alla tua vita, ma dà vita ai tuoi anni. C’è della gente che si comporta come se dovesse vivere per sempre. Non la capisco. Puoi decidere come vivere, ma non puoi decidere sulla vita.
La vigna è la mia vita. La mia vita è stata creata perché porti frutti, perché sia feconda e si espanda.
La Vita, Dio, ha fatto ciò che doveva fare: poi ha affidato a me la mia esistenza. La mia vita non è mia, mi è stata donata, come la vigna del vangelo, perché porti frutto, perché sia gustosa come il vino.
Dio non mi abbandona e quando si accorge che ho sovvertito l’ordine, quando mi allontano dal portare frutto, dall’essere ciò che posso essere, quando mi allontano dalla mia essenza, allora mi manda dei messaggi: “Stai attento perché qui le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”.
Ma l’uomo spesso se ne infischia di questi messaggi, ride e fa finta di niente.
Invece ascoltiamoli questi messaggi, ascoltiamoli nel nostro cuore, dove Dio ci parla silenzioso.
Altrimenti saremo proprio come quei vignaioli: degli stolti! Come pensavano infatti di farla franca?
La vita è così: alcuni messaggi si capiscono subito, altri nel tempo. Ma ciò che è importante è accogliere tutto, ascoltare ciò che ci succede, le malattie del nostro corpo, i sentimenti della nostra anima, i fatti che ci succedono. Tutto parla (o niente parla). Ciò che conta è rimanere aperti e anche se qualcosa non si capisce subito non buttarla in cantina, in soffitta, dimenticarla, ma tenerla lì. A suo modo e a suo tempo parlerà.
Io sono io, ma non sono mio.
Continuerò a combattere, ad accumulare, a protestare, a volere, a possedere, a gestire; continuerò a voler conquistare qualcosa che non si può conquistare; continuerò a rincorrere qualcosa che non si può rincorrere. E mi attaccherò alle cose, alle persone, al raggiungere traguardi, successi e fama…
Ma così non mi potrò mai abbandonare sereno nelle braccia della vita perché vivo ancora nell’illusione di possedere qualcosa, che qualcosa sia mio, di aver potere di vita e di morte su qualcuno. Ma non è così!
Pensiamoci!