venerdì 29 agosto 2025

07 SETTEMBRE 2025 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 14,25-33 
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 
 

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù sta proseguendo nel suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste dei suoi discorsi e delle sue opere straordinarie. Lo seguono materialmente, senza sapere esattamente cosa voglia dire, cosa comporti, “seguire” Gesù. 
Essere semplicemente “entusiasti” del personaggio Gesù, e “seguirlo concretamente con la propria vita”, sono due cose molto, ma molto, diverse: un conto infatti è ammirarlo, un altro è seguirlo, perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa giungere a conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione severa, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno tra amici, tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce, la sua apoteosi d’amore, ormai imminente. Vi sono poi quelli che lo “seguono”: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza e qualcuno inizia a mugugnare, a brontolare, lagnandosi della situazione. Un borbottio che progressivamente si espande, cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quanti lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti anche a noi di iniziare con entusiasmo un certo percorso, salvo poi abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile! Non fa per me”. Sissignori, è vero: nella vita tutto è difficile, ma se ci mettiamo impegno, tutto diventerà più facile! Dobbiamo capire che se alla prima contrarietà ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere”, perdiamo tutto, anche quel poco che avevamo conquistato, e ci sarà impossibile raggiungere qualunque obiettivo. Diventiamo insomma come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono grave e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Effettivamente, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre ecc.”), difficilmente potremmo attribuirla a Gesù. Ma dice veramente che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma possibile che abbia usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato, “miseo”, in greco, significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, prima di tutto, e in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare”, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro; anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci donano, poiché nulla, vita compresa, ci è dovuto! Gesù qui si riferisce “non” ad un “sentimento”, ma ad un ipotetico “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere “come se”; un modo cioè che ci renda veramente “liberi” da ogni coinvolgimento o “distrazione”. Per farsi capire ha dunque usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per chiarirci quanto sia determinante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, rendersi completamente “libero” per Lui. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che può prestarsi ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stàuros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno”, “prendere” volontariamente, o “bastàzo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù.
Non significa poi, come ho detto, dover subire passivamente, da rassegnati, obtorto collo, le sofferenze, le disgrazie, le malattie, i dolori che la vita ci riserva; ma vuol dire accettare gioiosamente, volontariamente, e quindi liberamente, qualunque contrarietà come conseguenza della nostra adesione a Cristo, ivi compresa la progressiva distruzione da parte del mondo della nostra personalità, delle nostre scelte, della nostra reputazione: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”.
La croce altro non è quindi che l’accettazione delle discriminazioni che ci vengono imposte per la nostra determinazione di voler vivere il “Regno di Dio” già su questa terra: un vivere, in altre parole, “come ha fatto Gesù”, comportarsi cioè “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del pensiero comune: come per esempio “accumulo” con “condivisione, compartecipazione”, “prestigio personale, egoismo” con “uguaglianza, equità”,sopraffazionecon “servizio”. Solo se avremo un cuore veramente libero dalle pastoie del mondo, potremo infatti amare veramente Dio e il prossimo, metterci umilmente a servizio degli altri, disinteressandoci del giudizio della gente: perché perdere la loro stima non significa perdere la nostra dignità: spesso, anzi, proprio per non perdere la dignità, dobbiamo rinunciare ai riconoscimenti del mondo! Amen.

 

 

martedì 12 agosto 2025

31 AGOSTO 2025 – XXII DOMENICA DEL T.O.


Lc 14,1.7-14 
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». 

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben visto per questo, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia condizionare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre qualcosa di nuovo: in particolare a coloro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a coloro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli. L’andare a “pranzo” da questa gente, significava per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali il suo cibo, il suo nutrimento spirituale, i suoi insegnamenti, la sua Parola: un cibo ben più importante di quello materiale.
Qui siamo di sabato; è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto. Di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, i partecipanti si intrattenevano per un “pranzo”, al quale era invitato anche il rabbi o il predicatore di turno. Il testo ci fa notare che in quel caso, trattandosi della casa di un capo dei farisei, oltre alla gente comune, dovevano essere presenti anche delle persone importanti, degne di riguardo.
Da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù si serve di questo particolare per la sua catechesi: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Egli osserva la scena, e nota la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Più o meno quello che succede di solito anche ai nostri giorni.
Ora, Gesù non si indigna tanto per il fatto in sé; questo lo dà per scontato. Quello che lo indigna è la molla che fa scattare tale comportamento, il “perché” avviene: Egli cioè constata che le persone, pur di avere i primi posti, pur di sentirsi superiori alla massa, sono pronte a tutto, a qualunque sacrificio, a qualunque “spintone”. La cosa grave è il “fine” di tale comportamento, quello che Gesù stigmatizza; Egli pone un principio fondamentale: non è importante accaparrarsi quello che ti qualifica davanti agli uomini - sappiamo che tutto è apparenza - ma quello che ti qualifica davanti a Dio; perché quello che è più importante, che è essenziale, è come tu ti poni davanti a Lui. Sembra infatti dirci: “Non ti accorgi che per questa tua smania di autopromuoverti ad ogni costo, finisci col calpestare il valore, la dignità degli altri? Come mai per te contano soltanto quelli che occupano i primi posti? Perché consideri insignificanti, uno scarto, delle nullità, quelli che stanno agli ultimi posti?”. Per cui: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui, venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare allora ad occupare l’ultimo posto” (Lc 14,8-10).
È chiaro che Gesù qui trova lo spunto nei comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: era tipico di quella società classista, di quella cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Cosa propone allora Gesù? Una cosa molto semplice, fondamentale anche per noi: evitare di mettersi al posto d’onore, ma di sceglierne uno tra gli ultimi. Con questo Egli intende condannare le auto-gratificazioni onorifiche, non certo il giusto riconoscimento agli invitati di riguardo: tant’è vero che aggiunge subito: “Allora [tu] ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
È ovvio inoltre che Egli intende qui condannare anche quella “modestia”, falsa e affettata, con cui uno ostentatamente si mette all’ultimo posto: una modestia “pelosa”, tipica di quelle persone che pur rappresentando il penultimo gradino della società, coltivano una enorme autostima: “vorrei essere al primo posto, ma non potendolo occupare, assumo un tono umile, dimesso, come se la cosa non mi interessasse”. È l’atteggiamento subdolo di quelle persone che fingono di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, e si accomodano vistosamente tra “gli ultimi”.
Solo che scegliere l’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, non è scritto da nessuna parte nel vangelo; al contrario significa darsi da fare, adoperarsi per questo genere di persone, cercare di migliorare le loro condizioni sociali, in modo che ci siano sempre meno “emarginati”.
La differenza è minima ma sostanziale: in pratica dobbiamo metterci all’ultimo posto non perché ci sentiamo inferiori, ultimi, ma perché non ci sentiamo “superiori” degli altri. In altre parole dobbiamo metterci all’ultimo posto solo perché convinti che tutti i presenti, tutte le persone, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. È il presupposto per una società di amore, fraterna, che può verificarsi solo se tutti sono considerati e si considerano essi stessi uguali agli altri.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Legare la nostra felicità al solo sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, una vuota immagine: inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, quando in realtà, siamo semplicemente delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nulla di esteriore, nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine, per quanto grandiosa, può renderci felici: non lo può per definizione! Perché la felicità nasce solo dal vissuto concreto, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore.
Al contrario, più l’immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci sembreranno sfocati, scontornati, eliminati, distrutti: e la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento. Allora dobbiamo reagire: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie.  

Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?

Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata: Regno dei cieli, infatti, è percepire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore, quelle che riflettono l’amore di Dio. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l’ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli è dispensare presenza, affetto, amore ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza desiderare, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e senza valore. Regno dei cieli è sentirci parte integrante ed essenziale di questo mondo, esattamente come si sente un figlio, parte integrante di una famiglia vera, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre. Perché tutto questo è “normalità”, un soffio soprannaturale di Dio, che nasce in noi con noi. Purtroppo è “crescendo “che la società ci fagocita, inducendoci ingannevolmente ad abbandonare questo nostro “Regno dei cieli”. Sapientoni del nulla, legislatori microcefali, si affannano nel sostenere che tutto ciò è soltanto una grande “balla”, un miraggio per deficienti, una “illusione” insulsa per preti, suore, gente esaltata. Ma noi, in cuor nostro, sappiamo con certezza che non è così, che mentono, che i poveri illusi sono proprio loro!
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14).
Anche qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non dovremo di certo invitare chiunque incontriamo per strada! Non è questo che Gesù vuol dire. Noi continuiamo pure ad invitare soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli. Il principio fondamentale che Gesù vuole qui trasmetterci è che non dobbiamo impostare i nostri rapporti secondo il famoso “do ut des”, io ti faccio dono di qualcosa per avere da te un contraccambio. Questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali, poiché le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrirci in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, non sulla base dell’utile che possiamo ricavare.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce solo dall’amore, dalla gratuità. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: ebbene: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: e allora, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati e gioiosi, sappiamo già come comportarci. Amen.


domenica 10 agosto 2025

24 AGOSTO 2025 – XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 13,22-30 
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Gesù continua il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il riferimento ad un continuo e progressivo avanzamento sulla via della perfezione. Se non notiamo alcun progresso spirituale, vuol dire che non camminiamo, non ci muoviamo, siamo fermi: e se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. E mentre le persone “vive” camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono, le persone “morte”, al contrario, rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si intestardiscono, si impuntano.
Ci siamo mai chiesto perché il Signore dica ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire” comporta necessariamente un costante avanzamento. Non si può seguire il Signore e rimanere fermi, rimanere sempre gli stessi, fossilizzati sulle stesse idee, sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella propria vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni alternative più appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, al suo particolare percorso di sequela.
Vuoto immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta: perché, ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete passivamente, senza alcun entusiasmo, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di andare al massimo, di trarre il meglio da sé stessa, di costruire il suo esclusivo percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui. Ma così facendo rinuncia ad essere sé stessa, si lascia trascinare supinamente dal pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale. 
Vogliamo, a questo riguardo, fare una verifica sulla nostra situazione personale? Vogliamo sapere se siamo veri discepoli del Signore, in continua tensione? È molto semplice: è sufficiente controllare se la nostra fede, il nostro credere, le nostre preghiere, il nostro comportamento nei confronti di Dio e del prossimo, sono gli stessi della nostra infanzia: se è così, vuol dire che il nostro cammino cristiano è rimasto allo stadio infantile; non siamo cresciuti, siamo rimasti fermi ai primi passi; vuol dire che gran parte della nostra vita è passata inutilmente. Se a quarant'anni la nostra coscienza ci rimprovera ancora: “Bugie, parolacce, preghiere dimenticate, disobbedienze”, vuol dire che siamo ancora ai nostri otto anni, alla prima comunione! Dal punto di vista spirituale siamo rimasti immobili, immaturi; non siamo cresciuti per nulla.  
“Seguire” il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale della vita, è appunto quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda chiaramente superficiale, di uno che parla tanto per dire qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle comunemente poste nelle interviste di oggi, fatte con l’intenzione di creare qualche “scoop” da dare in pasto allo “spettegolio” quotidiano. Ma Gesù non gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà... allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci su come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri si salveranno o no: il problema vero è se noi riusciremo a salvarci!
Un problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto dura, forte, drammatica. Non sono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze. Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente un Dio diverso dal padre buono, dal buon samaritano, dal buon pastore, dal padre che aspetta il ritorno del figlio prodigo, dal padre che ci cerca, che ci ama alla follia, che ci perdona ogni cosa, che accoglie tutti a braccia aperte. È un Dio “intransigente”, che va temuto e rispettato. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: “Signore aprici!”, Egli non ha esitazioni o ripensamenti: “Non vi conosco, non so di dove siete…
Una risposta terribile, tremenda, che ci porta però all’esatta interpretazione della situazione, ci offre un insegnamento per noi estremamente importante: non è Dio che ci rifiuta, che ci condanna: unici responsabili siamo noi! Egli nel crearci ha impresso in ciascuno di noi, con la sua somiglianza, la nostra esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi, strada facendo, alteriamo i nostri lineamenti sovrapponendo, alla “somiglianza” con Lui, tutta una serie di maschere, come quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza, convinto di poterselo permettere; se insomma preferiamo stoltamente di deformare le nostre sembianze originali, divine, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano e ci rendono irriconoscibili, è naturale che nel presentarci a Lui, Dio ci ignori: “Non vi conosco. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!”. Chiaro? “Operatori di iniquità!”. Ma come è possibile? Proprio noi che ci consideriamo perfetti? Noi, i “grandi”, i “sapientoni”, gli esperti di chiesa, di fede, di vangelo? Proprio noi, cattolici “adulti”, impegnati nel sociale e nelle catechesi? Ebbene sì! Siamo proprio noi, che ci sentiamo dire: “fuori!”, “esclusi!”. Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, gli orgogliosi discepoli “duri e puri”, siamo destinati al “pianto e stridor di denti!”. Quelli invece che noi deridiamo, quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità, delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’amore e nella gloria di Dio.
Beh, è questa l’esatta spiegazione del Vangelo di oggi, che noi, nella nostra ottusa e presuntuosa superiorità, ci ostiniamo a sfuggire, ad ignorare! Allora, prima che sia troppo tardi, facciamo in modo di esaminare quanto prima, alla luce esatta della prospettiva evangelica, l’intera nostra personale situazione.
È vero, quella di oggi è un’immagine di Dio di forte impatto emotivo, tipica però dello stile e della cultura del tempo. Immagine tuttavia che, ripeto, non deve farci pensare erroneamente ad un Dio prepotente e crudele, uno dalla condanna facile e immotivata; un Dio irremovibile, che decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la condanna finale non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato delle nostre premesse, una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare le scelte di “non scegliere”, di vivere senza mai porsi delle domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò determinerà un giudizio negativo.
Immaginiamo due facce della stessa medaglia: da un lato c’è Dio che è grande, misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, e anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci sarà mai quella “presa” che ci salva. Per cui se manchiamo la “presa” la colpa non è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che dobbiamo aver paura. È di noi stessi che non dobbiamo fidarci, del nostro agire fuori regola, del ritardo delle nostre risposte, delle nostre mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza. Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza. Nessun altro.
Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”, dobbiamo fare necessariamente delle scelte, dobbiamo “entrare” in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma la nostra stessa coscienza ci dirà: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile, impresentabile! Non è una punizione divina, ma la semplice conseguenza delle tue libere scelte, del tuo agire”.
Sforzarsi”, in greco agonizomai, significa letteralmente “lottare, combattere, gareggiare”.
“Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare; “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
Un verbo che implica delle difficoltà. Nessuno dice infatti che tale situazione sia facile; ma è giocoforza affrontarla, dobbiamo passarci dentro, perché è quella l’unica porta attraverso cui tutti dobbiamo transitare. Una circostanza che incute certamente paura; forse ci farà anche piangere, creerà tensioni, vere lacerazioni interiori. Ma se la ignoriamo, se la lasciamo lì, se facciamo finta di nulla, verrà un giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente.
Molti, come ho detto, penseranno: “Ma io sono già cristiano: io prego; vado in chiesa tutte le domeniche; non ho mai fatto male a nessuno; mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto: ma è evidente che tutto questo non è sufficiente: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Che “tradotto” vuol dire: “Come mai proprio noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Evidentemente questo da solo non basta; significa che abbiamo fatto queste cose rimanendo comunque “fuori” dalla nostra anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta “stretta” che ci introduceva alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva in contatto intimo con Dio. In pratica, non avendo ascoltato le sue Parole, non le abbiamo neppure messe in pratica.
Purtroppo se continueremo ad ascoltare il mondo, a seguire la sua mentalità, continueremo a trascurare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi, fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere la “Casa” stessa! È una eventualità che non va sottovalutata!
In conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante è uno solo: c'è una benedetta porta stretta da oltrepassare, per entrare alla presenza di Dio. O ci decidiamo a farlo in fretta, indossando il nostro “vestito” migliore, oppure rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta che altrimenti rimarrà per noi irrimediabilmente chiusa. È una decisione che noi soltanto possiamo prendere! Amen!

 

17 AGOSTO 2025 – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 12,49-53 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera». Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?».

Il vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali, risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”, diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell’uomo vecchio, quello incentrato su sé stessi, e la nascita dell’uomo nuovo, quello che ci fa vivere da figli di Dio. 
Un cambiamento che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono sempre stati considerati all’opposizione, “dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza, le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano proprio questa situazione di ostracismo e di divisione. 
Scegliere di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”, segno di “contraddizione”; in una società dell’immagine e del consumismo come quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico, difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”! 
Le parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a rotolarsi nelle ingiustizie e nelle ignobili perversioni; Egli è venuto a portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che non va bene, di ciò che ferisce l’uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta” necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori). 
Le persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano questo; questo ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?” (Eb 12,7). È chiaro? “Resistere contro il male fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto come succede a noi! 
La Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questa nostra società, di “salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”, di “principi morali inalienabili”. Noi ci nascondiamo: un po’ come fanno certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi addirittura di indossare una veste, “una divisa” che li distingue dagli altri, li identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento “superiore”, “convinto”, da “consacrati”, apertamente “coerente” con la fede che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non è questo che Gesù vuole: perché tutti gli uomini sono dei “chiamati”. Per cui ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non taciamole queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente, in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato. Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede e della morale cattolica! Perché solo così la verità “ci farà liberi”. 
L’uomo non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere Verità, l’essenza del suo essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per sé stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c’è verità c’è libertà, e dove non c’è verità, c’è inevitabilmente schiavitù. Cerchiamo la verità? Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità, della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è aver paura di essere sé stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità intellettuale, la propria personalità. Ripeto: è la verità, solo la Verità, che ci farà liberi. Non dubitiamo mai di ciò: perché questa è l’esperienza degli uomini di Dio, i grandi della terra!
Dio si racconta, si rivela, si avvicina all’uomo, si offre di aiutarlo. Siamo discepoli di un Dio che per amore non ci lascia mai rilassati, paghi delle nostre certezze, trincerati nelle nostre tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri esclusivi gruppi di spiritualità: siamo infatti discepoli di un Dio che ci scuote, che ci brucia dentro, che ci spinge al di fuori, nel mondo: e noi che facciamo? Troppo spesso gli rispondiamo con sufficienza: “No, grazie!
Allora, con grande onestà, è proprio il caso di chiederci: “ma noi, lo ascoltiamo veramente questo Dio che ci parla dentro, che brucia con le sue parole il nostro cuore, la nostra anima? Questo Dio che ci infiamma a tal punto da non poterci esimere dall’annunciarlo, dal parlare di Lui con chiunque avviciniamo? Siamo pronti a difenderlo nelle discussioni con quanti lo negano e lo disprezzano? Non importa se per le nostre convinzioni, per i nostri comportamenti deridono e disprezzano anche noi! È normale: e se non lo fanno, vuol dire che le nostre argomentazioni non lo meritano, vuol dire che la nostra vita non è coerente con le nostre parole, vuol dire insomma che la nostra realtà di cristiani, la nostra testimonianza, è talmente insignificante e priva di mordente che nessuno si accorge di noi; viviamo cioè da cristiani “tiepidi”! Ma attenzione, perché proprio per questo nostro essere “né freddi, né ferventi”, rischiamo di essere “vomitati” da Dio, esattamente come ci dichiara la Scrittura in termini drammatici (Ap 3,16).
Mai dimenticare allora che dobbiamo essere autentici “discepoli” di Cristo: è Lui infatti che ci ha chiamati al suo seguito, per essere come Lui “Verità”, veri rivoluzionari dell’Amore, autentici incendiari del Vangelo: gente che scuote, che infiamma il mondo; gente che, senza alcun timore reverenziale, annuncia e professa di fronte a tutti i popoli il proprio Dio, Padre misericordioso, per collaborare con Lui alla completa realizzazione del suo Regno celeste su questa terra! Amen.

 

mercoledì 6 agosto 2025

10 AGOSTO 2025 – XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 12,32-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. [Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».] Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

Ci sono cose che nessuno può portarci via: la serenità di una vita spesa bene, un ideale per cui combattiamo, soffriamo, resistiamo; la commozione provata nei momenti più importanti e toccanti della vita, come la nascita di un figlio; la risposta d’amore che scorgiamo negli occhi delle persone che amiamo; i colori della natura, il profumo dell'erba appena tagliata, il suono del vento, il canto degli uccelli; la gioia del nostro cuore quando ci sentiamo vivi, vita in mezzo alla Vita. Sono emozioni che nessuno potrà mai portarcele via. Esse rimarranno sempre in noi. Ma in noi ci sono anche tante cose inutili, tanta zavorra che ci rallenta nel cammino. Cose superflue, anzi a ben vedere, nocive, deleterie; cose che abbiamo stoltamente raccolto lungo il percorso della nostra vita. Ebbene, liberiamocene, buttiamole via: stiamo soprattutto attenti a non attaccarci ad esse; non facciamo di esse il nostro “tesoro”, il nostro riferimento, l'oggetto dei nostri pensieri quotidiani.
Riempiamo le nostre “borse” di cose vere, procuriamoci beni che non passano, che durano, che non invecchiano, ai quali la ruggine, i ladri e le tarme non possono arrivare.
Il denaro può esserci rubato. Le ricchezze possiamo perderle. L'auto può essere distrutta in un attimo. Gli oggetti più belli e costosi si possono rompere. Le persone più care possono morire improvvisamente. Tutto ciò che è “materiale” passa. Solo i tesori dell'anima, del cuore, quelli spirituali, celesti, nessuno ce li potrà mai sottrarre. Impariamo a custodirli scrupolosamente nella nostra anima e non avremo più bisogno di possedere altro. Impariamo ad arricchire la nostra anima, e non avremo più bisogno di ricchezze. Tutto ciò che è temporale, aleatorio, prima o poi lo perderemo. Tutto ciò che non appartiene a questa vita provvisoria (Dio, l’anima), deve costituire la nostra vita piena, adesso e in futuro.
Perché dov’è il nostro “tesoro”, là c’è anche il nostro cuore.
Noi cristiani, per il semplice fatto che ci definiamo tali, siamo convinti che Cristo sia il centro della nostra vita: come pure l'amore, la famiglia, la vita dei nostri cari, i valori morali e sociali, la ricerca costante del bene. Ma è veramente così?
Facciamo una piccola prova. Analizziamo bene ciò che durante il giorno assorbe di più la nostra attenzione: perché è quello che costituisce il nostro “tesoro”. Se il nostro esame sarà onesto, ci renderemo conto che non è Dio il nostro polo di costante attrazione, ma tante altre cose: sono i soldi? i beni materiali? le ricchezze? il sesso? la voglia di emergere? il pregiudizio sugli altri? l'odio? la vendetta? Ecco: in tal caso, noi “ci immedesimiamo” esattamente in questi altri interessi, in questo nostro “tesoro”. Se la nostra mente è pervasa sempre da pensieri negativi, da paura, da una critica distruttiva; se vediamo intorno a noi solo dei nemici da combattere, un mondo disgustoso da dominare; se ignoriamo tutto e tutti e sperperiamo i nostri giorni nei piaceri, nei godimenti della vita, nell’egoismo, nella sopraffazione, vuol dire che noi siamo diventati tutto questo, perché dov'è il nostro “tesoro” (i pensieri, i nostri interessi) lì è anche il nostro cuore (noi stessi). Altro che pensare a Dio!
Non possiamo quindi continuare così: dobbiamo pensare seriamente a cambiare, a disciplinarci, a sostituire quello che è il “nucleo” della nostra vita, il centro dei nostri pensieri.
Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese…”. Il tempo a nostra disposizione è limitato. Non facciamo l’errore di pensare che il presente sia eterno. Le parole di Gesù hanno un senso ben preciso: “Siate svegli, non dormite, siate consapevoli, state attenti a non prendere sonno”, perché il sonno della ragione genera mostri, perché il sonno dell'anima genera solo morte.
Purtroppo nell’uomo vi sono due tendenze contrastanti: quella dell’attesa, del soprassedere, del rimandare, del fermarsi, e quella al contrario dell’andare sempre avanti, del progredire, dell’evolversi, del perfezionarsi. Quante volte capita anche a noi di pensare: “Va bene così; credo in Dio, amo il prossimo a differenza di tanti altri, faccio le mie elemosine, vado in chiesa la domenica; insomma, mi sento un buon cristiano e quindi mi fermo qui; che mi serve crescere ancora, continuare a sacrificarmi: in fin dei conti non sono un prete, un frate, una suora”. Nulla di più sbagliato: la strada da percorrere è in continua salita, pericolosamente sdrucciolevole; fermarsi, significa scivolare giù. Il tempo della vita è sempre mutevole, un costante divenire: il domani non sarà mai uguale all’oggi. Solo ciò che è morto rimane immobile, smette di andare avanti, di crescere, di svilupparsi.
Quelli che pensano di essere svegli, quando in realtà dormono, avranno un risveglio molto duro. Sarà una sberla in faccia, un pugno allo stomaco: dovranno fare i conti con una nuova impostazione della vita; dovranno affrontare quella che si chiama “conversione”, dovranno cioè cambiare strada, cambiare vita; si renderanno conto che quella che pensavano fosse vita era invece un letargo, una sterile sopravvivenza, un brancolare nel buio; era solo illusione e falsità.
A proposito del dover prendere in mano la propria vita, c'è una storiella che racconta di un padre che al mattino bussa alla porta del figlio: “Antonio, svegliati, devi andare a scuola”; e Antonio: “Non voglio alzarmi papà; non voglio andare a scuola”. “E perché mai?” esclama il padre. “Per tre motivi”, risponde Antonio. “Prima di tutto, è una noia; secondo, i ragazzi mi prendono in giro; terzo, odio la scuola”. E il padre di rimando: “Bene, adesso ti dico io tre ragioni per cui devi invece andare a scuola: primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai quarantacinque anni, e terzo perché sei il preside”.
Una storiella che farebbe sorridere, se non riflettesse in pieno la voglia che tutti abbiamo di scrollarci di dosso le nostre responsabilità, la realtà della nostra vita, i nostri doveri: una tentazione fin troppo frequente per tutti.
Allora svegliamoci! Apriamo gli occhi, prendiamo coscienza di chi siamo, da dove veniamo, dove siamo diretti, come viviamo; affrontiamo la realtà che ci riguarda. Molte persone, al contrario continuano a trastullarsi con i loro giocattoli (soldi, auto, vestiti, fama, il sentirsi importanti). Dicono che hanno intenzione di crescere, di diventare adulti, di nutrire un serio desiderio di Dio, di volere, insomma, uscire definitivamente da quell’asilo nido in cui si trovano; ma poi nei fatti non dimostrano alcuna affidabilità, non sono credibili. Vogliono al contrario procurarsi “giocattoli” sempre nuovi: “Voglio un'altra moglie; voglio altri soldi; voglio divertirmi, voglio solo comodità e benessere; non voglio soffrire, non voglio cose mortificanti e impegnative!”. È una “malattia” umana troppo frequente. Le persone non accettano di sottoporsi a cure radicali e risolutive: preferiscono un palliativo, un sollievo temporaneo, provvisorio. Meglio qualche compressa, qualche soluzione facile facile, già “pronta all'uso”. Preferiscono rimanere tranquilli, nel loro sonno comatoso. Solo che il risveglio finale è sempre doloroso: improvvisamente tutte le illusioni svaniscono, tutto ciò in cui si credeva, quello che si pensava fosse verità e vita, quello che era il riferimento, l’appoggio, tutto si dissolve nel nulla. Unica consolazione è pensare al grave pericolo scampato: si poteva continuare a vivere quella “non vita”, ad impastoiarci sempre più in quelle illusioni; invece ci si è svegliati appena in tempo da quella catalessi distruttiva; abbiamo capito, e ciò è stata la nostra salvezza.
Ora, completamente svegli, dobbiamo vedere le cose per come sono; perché tutto ciò che esiste è realtà, tutto ha un valore di cui siamo chiamati a rispondere: desideri, sentimenti, pregiudizi, ricordi, traumi, complessi, idee giuste e sbagliate; guerra e amore; vita e morte; potere e impotenza.
La nostra deve essere pertanto un’attesa vigile: non sappiamo quando verremo chiamati all’appello finale. Sicuramente quando meno ce l'aspettiamo. E allora perché aspettare senza far nulla? Perché sprecare il tempo dell’attesa?
Tutti noi siamo semplici “amministratori” della nostra vita; il tempo non è nostro, ne abbiamo solo una piccola quantità da gestire. E di come lo avremo impiegato, saremo chiamati a darne conto a Lui. Inutile illuderci. Se dicessimo in cuor nostro: “Beh, sicuramente il padrone non arriverà oggi!”, e ci dessimo alla pazza gioia, a mangiare, a bere e a ubriacarci, saremmo degli emeriti stolti. Come potremmo giustificarci se il padrone arrivasse proprio allora? Sarebbe troppo tardi per qualunque rimedio, e a nulla servirebbe piangere sulla nostra infedeltà, sulla nostra stoltezza!
Allora, lo ripeto, non perdiamo altro tempo. Siamo vigili. Trattiamo ogni cosa, ogni essere, ogni creatura, con tutto l'amore e il rispetto di cui siamo capaci. Iniziamo soprattutto da noi stessi, dal nostro mondo interiore, dalle persone che ci circondano, dai più vicini, da quelli che in qualche modo “ci abitano”. Stiamo attenti a non addormentarci; non viviamo di sogni illusori, non dissipiamo il nostro tempo, “fregandocene” di tutto e di tutti. Stiamone certi, il padrone verrà. Non è un monito, non una minaccia: è la semplice constatazione della realtà. Perché prima o poi, tutti dovranno rendere conto di come hanno amministrato i doni divini avuti in consegna. Amen.


 

martedì 29 luglio 2025

03 AGOSTO 2025 – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 12,13-21 
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Gesù sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo; forse centinaia o migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie, importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; al contrario verrà tradito, “sconfessato”, portato davanti ai tribunali; ma non deve mai temere di nulla, perché Dio si preoccupa di lui, pensa personalmente a lui; a Dio non sfugge nulla di quanto lo riguarda, ha contato perfino i capelli del suo capo! 
Sono considerazioni profonde, di interesse generale: ma improvvisamente un tale lo interrompe per porgli una questione personale, specifica, di nessun interesse per gli altri, completamente fuori tema. Ciò che preoccupava il tizio era infatti un problema di ordine economico: per poter espandere i suoi commerci, incrementare i suoi utili, le sue ricchezze e darsi finalmente alla bella vita aveva cioè urgente necessità di ampliare i suoi magazzini, insufficienti a contenere i raccolti eccezionali dei suoi poderi; ma c’era un problema: suo fratello non voleva cedergli proprio quella parte di eredità comune, indispensabile all’ampliamento. È chiaro a questo punto che al tizio stanno più a cuore i suoi interessi economici che non gli insegnamenti di Gesù: in pratica gli dice: “Mio fratello sta commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”.
Ma Gesù, che gli legge dentro, di rimando: “Sono forse io il giudice che deve sentenziare tra te e tuo fratello?”. In altre parole: “Tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché sei avido, sei geloso di chi è più ricco di te. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, non interrompermi per i tuoi interessi inutili. Perché ammesso anche che tu ottenga l’intera eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono a nulla; e non ti servono a nulla perché il tuo cuore non è libero, vivi solo per i soldi, vivi solo per accumulare, sei schiavo delle tue ricchezze”.
Attenzione: Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Al contrario Egli vuol sottolineare una triste realtà: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che si comportano come voi, tutti quelli che pensano come voi solo ad arricchirsi, a voler tutto in questa vita, alla fine, quando moriranno, perderanno tutto: perderanno la vita, le ricchezze e soprattutto perderanno l’anima, la parte più produttiva, più feconda, più vera della loro esistenza: poiché era l’unica che poteva assicurare loro la gioia eterna di un’intima relazione d’amore con Dio.
Le parole con cui Gesù spiega questo concetto, sembrano quasi una maledizione divina: “Visto che tu hai accumulato tutto, io ti tolgo tutto!”. È invece una triste considerazione, una anticipazione di quanto realmente accadrà a tutti quelli che durante la loro vita hanno ignorato completamente di “arricchirsi” anche e soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno avuto alcun interesse per la propria anima, che hanno svenduto la propria esistenza soltanto per il lusso, le ricchezze, i “magazzini” stracolmi, le cose materiali: “Chi vive così, finirà così!” sentenzia Gesù. Le illusioni passeggere del presente devono fare i conti con il futuro, con una realtà che abbiamo volutamente ignorato, con quelle certezze che in vita non abbiamo voluto prendere in considerazione.
L'uomo della parabola, preoccupato solo di arricchirsi, è “anonimo” come tutti i “ricchi” descritti nel vangelo. Non viene identificato con un nome proprio, perché non merita una identità personale: tutta la sua attenzione è infatti concentrata unicamente all’esterno; la sua vita è una continua ricerca di quelle ricchezze che ancora non possiede, e che forse mai potrà possedere, ma che egli comunque vuole a tutti i costi; per essi ha svenduto la sua anima, la sua personalità, in cambio di beni effimeri, temporanei. E in questa affannosa ricerca finisce col perdere l'unica cosa preziosa che possiede: sé stesso. 
Gesù l’ha detto chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di chi amiamo, la crescita dei nostri figli, la forza trainante di una vera amicizia? Significherebbe vivere come l’uomo descritto subito dopo dalla parabola, in una situazione tragicamente irreale, con una visione del tempo totalmente sfasata: per lui il presente non esiste, parla e pensa unicamente al futuro: “Farò così, farò colà, demolirò, costruirò, raccoglierò”. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, tutto passerà, perché tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive per sempre. La vita ha una sua durata temporale ben definita e immutabile: inizia, cresce, raggiunge il suo apice, finisce. Ciò che in questo percorso abbiamo rinviato, scartato, perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Incurante di ciò, quell'uomo  continuava ad illudersi: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi darò alla pazza gioia”. 
Quante persone continuano a rimandare continuamente i momenti più importanti della vita, perché c’è il lavoro, la carriera, l’affermazione sociale, i guadagni da aumentare, la corsa al benessere economico. Purtroppo, per l’uomo di ogni tempo, il meglio, quello che conta, quello che desidera nel proprio cuore, è sempre quello più lontano, quello più difficile, più proibito, quello che egli vuole e deve ad ogni costo raggiungere. Tutto il resto, molto più appagante, più a portata di mano, come vivere in pace con la propria coscienza, con Dio, con sé stessi, con la famiglia, con gli amici più cari, tutto può aspettare: per cui rimandano, rimandano, rimandano! Poi, un giorno, improvvisamente, tutti i loro progetti, i loro sogni, i loro traguardi, si frantumano: di fronte ad un evento tragico, ad un contrattempo imprevedibile, ad una malattia fulminante, alla morte! Dalla sera alla mattina, ogni loro ambizioso progetto si rivela una inutile, stupida, irrazionale illusione. 
Purtroppo, per natura, noi siamo portati a desiderare tutto ciò che non abbiamo, e non ci rendiamo conto che possediamo già il meglio, tutto il desiderabile, che dentro di noi abbiamo già “il tesoro” più grande e prezioso al mondo: la nostra anima, lo Spirito che ci inabita.
Inutile illuderci, inutile sprecare il nostro tempo: nessuna ricchezza terrena, nessun prestigio, nessun riconoscimento esteriore potrà mai farci sentire importanti, appagati, se non siamo coerenti, se non siamo spiritualmente onesti, sicuri di noi stessi: nessun “Dio” di questo mondo, infatti, può farci sentire più vivi, più realizzati, più vincitori di quanto riesca a fare la nostra coscienza, quando riusciamo a compiere quelle indicazioni di “vita” che il “nostro” Consigliere, lo Spirito di Dio, con infinito amore, puntualmente ci suggerisce. 
Amen.

 

martedì 22 luglio 2025

27 Luglio 2025 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 11, 1-13 
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era infatti naturale, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile.
Qui Gesù spiega ai discepoli e a noi non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.

«Quando pregate dite: Padre».
“Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione.
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Ecco, Dio è proprio così, figlio mio!”.
Ebbene: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio.
È Gesù stesso che ci ha parlato di Dio come di un Padre. E come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”: è uno che deve soprattutto imparare ad amare come ama Lui, con la sua stessa apertura e accoglienza.
Quella che Gesù ci propone è l’immagine di un Dio decisamente nuova: a Dio infatti non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù propone come modello di credente, un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto, poiché solo lui ha misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i religiosi, gli osservanti della legge, come il sacerdote e il levita, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza materiale, stretta e letterale, a tutte le leggi (il sacerdote e il levita) ma vuole che l’amore che noi riceviamo da Lui, non rimanga infruttuoso, ma al contrario dobbiamo sentirlo, percepirlo, accettarlo, in modo da condividerlo, espanderlo, riversarlo su tutti i nostri fratelli, come fece il samaritano: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Con Gesù, dunque, tutto è cambiato rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, ma è Lui che serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se le religioni dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù (“to eu anghelion” - la “buona notizia”), dice invece ciò che Dio fa per l’uomo: lo ama spontaneamente aldilà di ogni cosa.
San Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15).
Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.

«Sia santificato il tuo nome».
Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva. Noi infatti non “santifichiamo il nome di Dio”, cioè già lo “bestemmiamo”, quando sprechiamo la nostra vita con i suoi doni; bestemmiamo Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, per dipendenza o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; bestemmiamo Dio tutte le volte che i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite prescindendo da lui, senza amore, senza fondamenta, senza ideali: sono vite inconsistenti, inutili, superficiali, banali. Allora possiamo anche confessare di aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio: ma dobbiamo anche e soprattutto chiedere perdono quando con la nostra vita ci rifiutiamo di compiere quelle cose che Dio si aspetta da noi, disprezzando la loro grandezza, la loro bellezza, la loro delizia. Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto conosciamo di Dio. Allora adoriamo il suo mistero; non abbassiamolo, per cercare di capirlo, alle microscopiche possibilità della nostra mente. Dio è infinitamente più grande di ogni nostra possibilità, Dio è oltre, Dio è una tale esperienza d’amore che noi non riusciremo mai di conoscere, di capire, di sperimentare; per quanto ci sforziamo di capirlo, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà continuamente, ci sbalordirà sempre e in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è Santo, è Altro, è Oltre.

«Venga il tuo regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun sovrano ne fu all’altezza! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto, senza la conversione del cuore, si è rivelato inefficace. Quindi si pose in attesa di un intervento diretto di Dio (apocalissi). Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la intransigente osservanza delle leggi (i farisei). Infine venne Gesù che non disse più: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è vicino a noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più autentica la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non ci tiriamo indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.

«Dacci ogni giorno il pane quotidiano».
Gesù, alludendo al pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il pane “che costruisce”; un concetto che (tradotto in greco “epiousion”, e in latino “super-substantialem”), caratterizza quindi un pane che va ben oltre il semplice “cibo quotidiano”, il pane del fornaio; noi chiediamo infatti a Dio un qualcosa di soprannaturale, di decisamente più importante: è quel pane sostanzioso, quel pane vero, miracoloso, che sfama l’anima. Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di questo cibo “particolare”: un po’ di silenzio, un dialogo profondo con noi stessi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio, sull’anima; una parola, una lettura che ci insegnino qualcosa, che ci facciano riflettere; un abbraccio che ci faccia sentire “compresi”, amati; un po’di preghiera con cui rasserenare le nostre preoccupazioni, ascoltando il canto dell’anima che si sente al sicuro, tra le Sue braccia. Noi in questo modo possiamo pian piano nutrire la nostra vita, plasmarla, darle la forma che desideriamo.
Tocca a noi scegliere questo cibo “nutriente”, spirituale: non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta. Dobbiamo fare molta attenzione al nostro disimpegno, perché non voler scegliere, è già una scelta, e spesso problematica!
Non è vero che tutto è uguale, che una cosa vale l’altra: avere per amico una persona o un’altra, non è la stessa cosa; così, se ciò non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere prodotti solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo farlo anche per l’igiene della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita ciò che abbiamo sottomano, qualunque cosa ci capiti davanti; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima. Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici, i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Se invertiamo l’ordine delle lettere alla parola “pane(lehem), essa diventa meleh, cioè “sale, saggezza”: è la “saggezza”, quindi, che deve essere il nostro nutrimento quotidiano, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”, pieni di gusto, di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di Dio, dell’universo.

«E condona (afìemi) i nostri peccati…»
Se poi al termine “saggezza-meleh” (traslitterazione di lehem-pane), sostituiamo la vocalizzazione, allora otteniamo la parola mahol, che vuol dire “perdono”.
Per cui, anche il perdono è il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che noi abbiamo fatto e continuiamo a fare, nonché la forza di perdonare quanti fanno del male a noi. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare sempre che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Ma in particolare dobbiamo perdonare anche gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che prò continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che ognuno possa pensare come meglio crede, accettando la possibilità anche di venire feriti?
“Perdono” in ebraico oltre che mahol si dice anche kafor, che letteralmente vuol dire “coprire una ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono.
Il perdono deve essere il nostro “habitus” giornaliero, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.

«… perché anche noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Noi possiamo condonare, perdonare tutto ai nostri fratelli, solo se noi stessi abbiamo fatto personalmente esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “condonare”.

«Non abbandonarci alla tentazione».
Ritengo più corretta e pertinente l’antica traduzione che diceva “non ci indurre in tentazione”: infatti il verbo greco eisenènkes, e quello latino inducas, esprimono entrambi esattamente lo stesso concetto, cioè non “in-ducere, indurre, introdurre, portare dentro, nella tentazione”.
Nell’Antico Testamento il termine tentazione inoltre non indica mai una “sollecitazione al male”. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo. Pertanto la tentazione, la prova, altro non è che un passaggio obbligato attraverso cui crescere, maturare, e poter andare avanti, ricchi delle nostre esperienze. Infatti nahasc (il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da superare: se noi lo superiamo, la nostra anima si illumina di una luce, di una consapevolezza, di una potenzialità, di una forza, prima completamente nascosta, segreta. Il suo significato quindi è sempre positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo crescere, dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, la generosità che c’è in noi.
Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”; Dio non tenta nessuno! Gli chiediamo invece di risparmiarci qualunque situazione pericolosa; come a volergli dire: “sai che sono debole e povero; vigila tu su di me, affinché le tentazioni e le prove non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che la tentazione del maligno abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano e fa’ che non cada sotto un peso troppo grande per me”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente in linea con la misericordia e l’amore di Dio.
Infine, dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: con la prima ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo inopportuno, anche in modo “sfacciato”. A Dio, cioè, possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere, tutto ciò che siamo, tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà. Con la seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece cosa significa avere Dio come “padre”: ogni padre infatti sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non permetterà mai che la vita ci riservi contrarietà tali da risultare per noi insuperabili. Essere convinti di ciò, anche nelle prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo, o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una tragedia.
In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde alle nostre aspettative; noi cerchiamo e Lui ci fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le strade che noi avremmo gradito, perché in ogni caso noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, mi ama, e questo mi basta”. Consapevoli di ciò, anche noi allora fidiamoci di Dio: tranquillamente. Amen.