giovedì 27 marzo 2025

30 Marzo 2025 – IV DOMENICA DI QUARESIMA


Lc 15,1-3.11-32 
“In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Il vangelo di questa domenica ci presenta un testo “classico” della quaresima: la parabola del figliol prodigo o del Padre misericordioso. Una delle parabole più incisive del Vangelo che ci descrive in maniera sublime il comportamento di un Padre innamorato che riabbraccia con gioia il figlio che è ritornato a casa, nonostante se ne fosse andato sbattendo la porta, e gli avesse estorto insolentemente un’eredità che non gli spettava. Un Padre che lo perdona e che dimentica tutte le offese, che lo stringe al suo cuore, dimostrandogli tutto il suo amore, la sua dolcezza, la sua misericordia.
È una parabola molto gratificante per noi poiché, nei nostri rapporti con Dio, stabilisce una nuova “meritocrazia” non più si basata sul “quanto”: “Quanto preghiamo; quanto siamo religiosi; quanto siamo bravi; quanti errori abbiamo evitato; quanto siamo in regola con le leggi”, ma solo sul “come”, se gestiamo la nostra vita rispondendo al suo amore. Il nuovo criterio di valutazione, è quindi soltanto: “Tu mi ami? Come mi ami?”. Perché Dio, rapportandosi a noi, per primo dice: “Io ti amo e continuerò ad amarti. Ho fiducia in te; credo in te, al di là di quello che sei veramente, al di là di ciò che fai. Io ti amo, e sono sempre pronto ad aiutarti, a rialzarti quando cadi”.
È una parabola in cui l’amore paterno ha il sopravvento sull’ingratitudine e la cattiveria dei figli. Due figli che sembrano diversi, che hanno comportamenti solo apparentemente opposti; ma in realtà essi hanno lo stesso problema: entrambi non “capiscono”, non “sentono” l’amore del padre, entrambi non lo amano, anzi lo considerano addirittura un nemico: entrambi sono dominati dall’egoismo, entrambi si comportano non da figli, ma da mercenari.
Il minore cerca di arraffare quanto più può dei beni del padre: lotta addirittura contro di lui, pretende da subito un’eredità che può far sua soltanto dopo la morte del genitore. Praticamente gli dice: “Tu per me sei già morto. Non ho più nulla a che vedere con te: perciò mi prendo quanto mi spetta e me ne vado, tu per me non esisti più!”.
Il maggiore a sua volta dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo ordine”. In pratica fa capire al padre di sentirsi trattato come un qualunque servo, uno schiavo: gli ha sempre dimostrato rispetto e ubbidienza, è vero, ma in cuor suo covava rabbia, risentimento, odio: a suo vedere il padre, troppo preso dalla perdita del minore, non si sarebbe accorto di lui, non avrebbe apprezzato il suo lavoro, il suo attaccamento al dovere. Egli ha vissuto quindi dominato solo dall’ossessione di dimostrargli quanto lui fosse migliore del fratello, ingrato e dissipatore: “Tu mi rifiuti, non mi ami, non mi apprezzi per quanto valgo, per la mia professionalità, per il mio rendimento e la mia fedeltà; tu sei concentrato solo sull’altro tuo figlio, ma un giorno ti accorgerai dell’errore, di come ti sei sbagliato!”.
Tra i due figli si era quindi creata una distanza incolmabile, si era innalzato un muro insormontabile tra loro: niente affetto fraterno, solo invidia e rancore.
Il maggiore infatti non darà mai del “fratello” all’altro: tant’è che rivolgendosi al padre gli dice: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute”. La sua rabbia è tangibile. Si sente l’odio per il fratello, per colui che, a suo modo di vedere, l’avrebbe defraudato dell’amore paterno: “Io ho vissuto sempre onestamente al tuo fianco, mi sono sempre comportato bene con te, ma tu tratti questo tuo figlio scellerato, meglio di me!”.
Ci tiene a sottolineare: “Ha dissipato tutto con le prostitute”: il testo non dice se ciò sia realmente accaduto; ma, vero o no, il tentativo di screditare il fratello, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo davanti al padre, è evidente. Non sono tanto i soldi, l’eredità, che divide i due, ma è proprio avere l’esclusiva dell’amore paterno.
Ma il padre? Il padre al contrario li ama entrambi: li ama profondamente, senza preferenze; ma lascia che ciascuno dei due arrivi a capirlo da solo: entrambi devono maturare, devono ricredersi, entrambi devono sistemare le proprie deficienze, i propri sentimenti, la propria vita. E per arrivare a tanto, entrambi devono compiere un difficile percorso interiore, nella loro anima: in una parola devono “convertirsi”
Il minore, dopo aver ottenuto dal padre quanto erroneamente riteneva già suo, intraprende questo viaggio purificatore: ma lo inizia in maniera tragica, dissipando la sua dignità di figlio, sperperando qualunque possibilità di recupero: cade talmente in basso, da sottrarre il cibo ai porci per poter sopravvivere. E qui capisce finalmente il suo tremendo errore: decide di tornare alla casa paterna, di chiedere perdono per il suo peccato. Ma non è ancora completamente guarito: la sua decisione è motivata dalla fame, dall’interesse; non mira all’amore paterno ma, pur di non morire di stenti, si accontenta di essere accettato come servo, tra i servi di casa.
La sua catarsi finale, la sua totale conversione, avverrà solo nell’incontro col padre: un padre che, dimentico di ogni offesa, di ogni oltraggio, in costante apprensione per questo suo figlio smarrito, non appena lo vede da lontano, corre premuroso fuori di casa, lo aspetta a braccia aperte, lo stringe al suo cuore; un padre che sembra aver perduto ogni dignità, ma che con il suo abbraccio forte, generoso e risoluto, decreta il trionfo finale dell’amore.
Ora la situazione cambia: il figlio minore, “rientrato in sé”, parla del suo errore, della sua strafottenza, di ciò che ha imparato a sue spese, di ciò che ha capito, del suo vitale bisogno di amore. Un amore del quale ora, completamente pentito e purificato, può saziarsi.
Anche il maggiore a questo punto parla: egli però non ha fatto alcun viaggio di conversione, in lui nulla è cambiato; è ancora lì a rinfacciare torti subiti, a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: lui non ha ancora capito. È rimasto nella sua rabbia, nel suo odio, nella sua invidia.
Anche se non si è allontanato da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. È rimasto un ribelle, sordo ad ogni invito: per lui sarà più difficile entrare nella casa del Padre, perché egli nasconde, difende, giustifica il suo peccato, con l’orgoglio, con la presunzione di chi si sente perfetto.
Quale considerazione, allora, quale insegnamento ci lascia questa parabola? A mio avviso, uno in particolare: l’importanza fondamentale cioè, di aprirci, di “parlare” col nostro Padre celeste: di esprimergli le difficoltà, le delusioni, le contrarietà, le sconfitte, con le quali dobbiamo misurarci in questo faticoso viaggio di ritorno alla Casa paterna; apriamoci con Lui, comunichiamogli ciò che proviamo nel nostro cuore; nella nostra confusione; ascoltiamo il suo invito chiaro e accorato: “Non importa se hai peccato contro di me: ritorna! Non importa se mi hai offeso oltre ogni limite, se hai oltraggiato gravemente il mio cuore; sappi che Io, tuo Padre, sono sempre pronto a ricominciare con te, tutto da capo; non ti respingerò mai! Fino all'ultimo ti cercherò, ti starò addosso: se solo aprirai il tuo cuore di figlio, ti sarà impossibile rifiutare il mio amore”.
Questo ci dice oggi Gesù: il suo è un invito pressante, vitale, che non possiamo disattendere. Sono parole che devono iniettare, nella nostra stanca e indolente quotidianità, una overdose di entusiasmo, di ottimismo, di fiducia, di umiltà, nella prospettiva filiale di incontrare anche noi, nel perdono, l’infinito amore del Padre, di fonderci in quell’abbraccio misericordioso, con cui ci spalanca le porte della Sua casa celeste. Amen.

 

giovedì 20 marzo 2025

23 Marzo 2025 – III DOMENICA DI QUARESIMA


Lc 13,1-9 
In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”». 

Nel vangelo di questa domenica Gesù fa riferimento a due fatti di cronaca avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato di un gruppo di Galilei, forse dei rivoltosi, che si erano recati a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di alcune persone coinvolte nel crollo della “torre di Siloe”. 
All’epoca tutti erano convinti che le disgrazie, le malattie, la morte, fossero la giusta punizione di Dio per le colpe commesse personalmente dai malcapitati o dai loro antenati.
Pertanto quelli che erano al seguito di Gesù, pensavano che la loro estraneità a disgrazie del genere, fosse dovuta alla loro condotta giusta e rispettosa della legge.
Ebbene, Gesù sconfessa decisamente questa convinzione: “Quelli che sono morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come a dire: “Non è vero che quei poveretti siano morti per espiare le loro colpe personali o quelle dei loro antenati; e non è vero neppure che, per il fatto che siete qui sani e salvi, voi siate più giusti di loro”.
In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non vanno in alcun modo considerati come punizione divina per la nostra cattiva condotta. Dio non vuole questo; non ce l’ha con noi in alcun modo, non ci ha preso di mira, non si comporta come se si fosse stancato di noi.
Bestemmiano gravemente quanti si lasciamo andare ad esclamazioni tipo: “Ma che male ho mai fatto perché Dio mi debba castigare in questo modo?”. È una esclamazione contro la bontà di Dio, contro il suo amore, la sua misericordia: eppure, quante volte succede anche a noi di esprimerci in questo modo!
Gesù vuol dirci invece che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità.
Non è Lui che stabilisce come deve essere la nostra vita: siamo noi che ce la organizziamo come ci pare. Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare le cose, di farle in un modo piuttosto che in un altro. Egli, nel suo paziente amore, ci lascia completamente liberi di fare le nostre scelte: le quali però, alla fine della nostra vita, determineranno un premio o un castigo.
Un giorno un Padre del deserto disse ai suoi discepoli: “Vi do due notizie: una buona e l’altra cattiva. Quella cattiva è: Se fate cose cattive, mortali, inique, morirete. “E quella buona?”, chiesero incuriositi i discepoli: “Che adesso lo sapete, e non avete più attenuanti!”, rispose il maestro.
Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in assoluta libertà.
È da sciocchi pensare che Dio stia nascosto dietro l’angolo, pronto a colpirci con il pungolo del castigo ad ogni nostra mossa sbagliata; al contrario è un padre amoroso che segue ogni nostro passo con attenzione, sempre disponibile ad intervenire per darci una mano, per correre in nostro aiuto ad ogni nostra richiesta. Lui ci ama veramente, e chi ama sul serio non si diverte a fare del male, a punire, a procurare dolori e sofferenze a quanti ama.
Il punto è invece un altro: è come noi rispondiamo a tanto amore; se cioè noi replichiamo a Dio con altrettanto amore: perché solo in questo modo tutto ciò che la vita ci riserva sarà più affrontabile, tutto sarà più sopportabile, più superabile.
Subito dopo aver chiarito pazientemente questo problema, Gesù prosegue: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Un’affermazione con cui sembra contraddire tutto quanto ha detto in precedenza. In altre parole dice: “se non cambierete vita, se non la smetterete di fare il male, anche voi morirete allo stesso modo; farete la stessa fine di quei Galilei”. Ma cosa vuol dire Gesù con queste parole? È per caso una minaccia, un’intimidazione, un ricatto? Nel senso che se non cambiamo vita, se continuiamo a vivere nei nostri peccati, Dio per punizione ci farà morire? Assolutamente no! Non è questo il senso: Egli vuol semplicemente dire: “Guardate che tutto quello che voi fate nella vostra vita, un giorno avrà delle conseguenze, delle ripercussioni”; ossia: “Se voi continuate a comportarvi negativamente, se nella vostra vita seminate solo erbacce, ciò che alla fine andrete a raccogliere, saranno solo sterpaglie da bruciare! Le parole di Gesù, quindi, non hanno un tono ricattatorio, ma spiegano solo una naturale conseguenza: ottenere cioè in questa nostra vita, frutti buoni o cattivi, dipende soltanto da noi, dalle nostre mani, dalle nostre scelte. Ecco perché dobbiamo essere attenti e guardinghi; se ci rendiamo conto di vivere nell’errore, di tenere Dio fuori dai nostri pensieri, dai nostri interessi, dal nostro amore, dobbiamo correre ai ripari. Dobbiamo insomma “convertirci”. Questo è il punto fondamentale. Ecco allora che questa quaresima è il tempo più favorevole per farlo.
“Convertirsi” infatti vuol dire cambiare decisamente direzione; “shub” in ebraico indica appunto un cambio radicale di rotta: se nel nostro percorso stiamo andando in una direzione sbagliata, dobbiamo fare una netta inversione di marcia. Questo è convertirsi.
Ma di cosa debbo convertirmi? Non mi pare di essere peggio degli altri!”. È quanto ci diciamo ogni qualvolta sentiamo parlare di “conversione”. Purtroppo noi non siamo attenti e scrupolosi giudici di noi stessi: molti dei nostri usuali comportamenti, apparentemente insignificanti, causano in noi la perdita della percezione interiore: ci rendono superficiali, ci allontanano sempre più da noi stessi e da Dio. E non ce ne accorgiamo!
Non sottovalutiamone i “segni”: non giustifichiamo sempre e comunque i nostri comportamenti, le nostre decisioni; non esaltiamoci per le nostre fuorvianti ideologie, non perdiamo la nostra lucidità, non ottenebriamo la nostra mente. Comportiamoci invece da “responsabili” amministratori della nostra vita.
A conferma di tutta questa sua catechesi, Gesù narra la parabola di un padrone che di fronte ad un albero di fichi, che per anni non aveva mai prodotto un solo frutto, lo fa tagliare per farne legna da ardere. Cosa vuol dirci Gesù con questa storiella? Semplice: “Cercate di non ridurvi a fare la stessa fine di quell’albero”.
Anche noi infatti, siamo già “cresciuti”, siamo diventati cristiani “adulti” e sappiamo molto bene cosa si aspetta da noi il “padrone” della vigna: dobbiamo solo essere noi stessi, rispondere positivamente alla nostra natura di figli di Dio, essere coerenti con la nostra condizione di cristiani, dobbiamo, in altre parole, portare frutto: dobbiamo cioè far crescere, sviluppare e maturare in noi, con la nostra vita, quei doni che lo Spirito ha seminato nel nostro cuore col battesimo. Dobbiamo, insomma, quando il “padrone” passerà per la raccolta, essere carichi di frutti maturi e gustosi. Se ci presentiamo pieni soltanto di foglie, sappiamo già quel che ci aspetta.
Del resto, non dobbiamo fare “miracoli”, gesti eroici: la vita offre a tutti la possibilità di portare frutto in base alle proprie capacità; a tutti offre occasioni continue perché ciò avvenga: per esempio tutti abbiamo incontrato persone perbene, disponibili, positive, pronte a darci un consiglio, una buona parola, un aiuto morale; tutti nella vita abbiamo vissuto anche situazioni difficili, dolorose, che attraverso la sofferenza, ci invitavano a rivedere il nostro rapporto con Dio. Come abbiamo reagito noi a questi inviti? Li abbiamo accolti, oppure li abbiamo accantonati, disattesi, rimandati? Perché una cosa nella vita dobbiamo avere chiara: che se rinunciamo, rimandiamo, lasciamo correre, arriveremo prima o poi al famoso punto di “non ritorno”; verrà cioè quel giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più nulla: e, non avendo prodotto nulla di buono, il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato come legna da ardere: dentro infatti era già completamente arido, rinsecchito, morto.
Che questa nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, una quaresima di preghiera, una quaresima altamente meritoria: una quaresima in cui riscoprire le cose veramente importanti, in cui potare i nostri rami secchi, in cui convertirci veramente; una sosta di rifornimento, insomma, da cui riprendere con slancio ed entusiasmo il nostro cammino verso l’incontro finale con il Dio di Gesù. Amen.

 

giovedì 13 marzo 2025

16 Marzo 2025 – II DOMENICA DI QUARESIMA


Lc 9,28b-36 
“In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia. Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo! Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto”.

I discepoli non possono assolutamente accettare le parole che Gesù, poco prima del vangelo di oggi, aveva loro detto: “Amici miei, guardate che mi prenderanno e mi uccideranno. E a farlo saranno proprio gli scribi, i sommi sacerdoti e gli anziani. Ma non preoccupatevi perché io, poi, risorgerò”. 
Essi non possono condividere una tale prospettiva, proprio perché le loro aspettative si concentrano su un Gesù-Messia potente, imbattibile, trionfale, liberatore del popolo.
Preannunciare la propria morte, significa per loro evocare lo spettro della fine di ogni aspettativa riposta in lui, decretare il fallimento totale della sua missione.
Di fronte a tanto smarrimento cosa fa Gesù? Prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta in un luogo appartato, su un alto monte. Gesù non è nuovo a tale esperienza: “appartato” in un monte alto, c'era già stato nell'episodio delle tentazioni di domenica scorsa: allora a portarlo lassù era stato satana, per tentarlo; qui invece la tentazione gli viene direttamente da Pietro e dai discepoli, che non lo capiscono.
Gesù dunque, volendo allontanare qualunque tipo di “tentazione”, approfitta dell’intimità di un luogo solitario e impervio, per chiarire meglio a questi suoi collaboratori più stretti la sua vera identità.
E qui essi assistono ad un evento straordinario, impensabile: Gesù è in compagnia di Mosè ed Elia, le due personalità della Scrittura che ogni ebreo di allora considerava come figure di “riferimento” per il futuro Messia.
La loro è una presenza che improvvisamente scuote dalle radici le incrollabili certezze dei discepoli, perché i due trattano Gesù con quel rispetto e deferenza che si deve ad una persona più importante, di gran lunga superiore a quella loro.
I tre spettatori a questo punto rimangono ammutoliti, rapiti, estasiati; solo Pietro ha la forza di esclamare: “Signore, per noi è bello stare qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia”.
Preso dal suo solito entusiasmo, Pietro però non si accorge di insistere ancora nel suo vecchio modo di vedere le cose: per lui Mosè è ancora la figura profetica insuperabile, tant’è che pone proprio lui, e non Gesù, nella posizione centrale delle tre tende, in quella posizione, cioè, che era sempre riservata di diritto al personaggio più importante.
Ancora una volta, da testa dura come la pietra, dimostra di non aver capito nulla, e in cuor suo insiste nel pensare: “Gesù, tu devi continuare ad essere come Mosè, perché è lui il nostro grande riferimento, è Lui che tornerà per ridarci nuovamente la libertà e la salvezza!”. Ma la voce di Dio, tonante dall’alto, stravolge, annienta ogni sua possibile certezza: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. In altre parole: “Guardate che mio figlio Gesù non è quel Messia storico, quello che Israele e voi tutti continuate ancora ad aspettare; Gesù non è quel tipo di Messia: però è lui che dovete ascoltare e seguire, non Mosè o Elia, che sicuramente sono stati grandi personaggi, ma improponibili al suo confronto. È Gesù l’unico punto di riferimento: Mosè, Elia, Legge e Profeti, hanno un senso solo se vengono interpretati attraverso la sua Parola”.
Praticamente Gesù, con la trasfigurazione, demolisce le aspettative sia dei discepoli che della gente: Lui non è come essi lo volevano, un condottiero invincibile, trionfale; Gesù è sì il Messia, ma nella sofferenza, a servizio dei più deboli e bisognosi. Egli non sterminerà gli operatori di iniquità, non ha vendette da sanare o conquiste da stabilire. Sarà solo sé stesso, sarà Gesù e basta! Non ha paura di questo, anche se conosce fin troppo bene il costo che dovrà pagare: odio, impopolarità, sofferenza, morte. Ma l’esempio che egli lascerà al mondo con la sua vita è l’autenticità, l'essere felici di ciò che si è, la forza cioè di vivere la nostra missione ovunque ci porti, perché è questo che ci dà una vitalità e una forza impagabili. È questo il grande compito della nostra vita. Dobbiamo cioè essere sempre noi stessi, per seguire Gesù; perché solo così potremo realizzare e vivere la nostra “originalità”.
Sì, perché noi tutti siamo unici. È così che Dio ci ha voluti; per questo esistiamo. Se non fosse così, il nostro esserci non avrebbe alcun senso; Dio non ama le fotocopie umane, per lui non esistono. Le mezze tacche, le imitazioni, i fantasmi, non gli interessano.
Eppure, la maggior parte degli uomini tende a diventare come tanti altri: lo sport preferito è di imitare, di scimmiottare gli altri, di fare e pensare esattamente come la massa: “Solo se sarò come i potenti verrò rispettato e accettato; altrimenti verrò emarginato, isolato, estromesso dal gruppo”. Un modo di pensare ingiustificabile. È l’atteggiamento puerile degli insicuri, dei perennemente indecisi. Ma noi non siamo più dei bambini. Siamo adulti, il nostro compito è dimostrare al mondo la nostra originalità, la nostra unicità, la nostra dignità al seguito di Gesù, che nella sua vita terrena è stato davvero unico, “fuori” da ogni schema umano: perché chi segue Dio, si interessa solo di Dio, ama solo Dio; nella sua vita è sempre fedele al ruolo specifico che Dio gli ha assegnato, non ha né tempo né voglia di seguirne altri.
La vera felicità della vita sta soltanto nel dare e ricevere amore; nel sentire che qualcuno è con noi, sta con noi, è dalla nostra parte, condivide tutto di noi. È una sensazione esplosiva, un dono di Dio, una sferzata vitale alla nostra debolezza, una iniezione di forza, di coraggio, di voglia di combattere, di andare avanti.
Significa, in una parola, vivere la nostra trasfigurazione: allora il tempo può anche scorrere vertiginosamente intorno a noi, ma noi non ce ne accorgiamo; viviamo, ma la nostra vita, le nostre fatiche, le nostre lotte, non ci pesano, hanno finalmente un loro senso; ci rendiamo conto cioè che la nostra esistenza è veramente una benedizione di Dio, capiamo che la nostra esistenza è importante, perché gli altri hanno bisogno di noi, perché il mondo ha bisogno di noi! Con queste certezze, tutto diventerà più luminoso, più chiaro, più sereno: perché stiamo realmente vivendo la nostra trasfigurazione, viviamo in Dio, e Dio vive in noi.
Allora, di fronte ad una esperienza dolorosa, tragica, invece di rifiutarla con fastidio, con repulsione, chiediamoci: “Cosa vuol dirmi Dio con questa prova? Cosa vuole insegnarmi?”.
E capiremo che tutto quanto ci accade ha una sua spiegazione, è sempre finalizzato al bene.
È stato così per Gesù sul Tabor, quando si è sentito riconosciuto, amato, protetto dal Padre; e sarà sempre così anche per noi. La felicità sta tutta qui: nel sentirci anche noi, nella nostra trasfigurazione, figli amatissimi di Dio. La nube che ci circonda, la quotidianità, la materialità, spesso ci distoglie da questa verità: ma il sole dell’amore la penetra, la dissolve, e il nostro sguardo potrà finalmente ammirare Dio che si riflette in noi, trasfigurandoci nel suo amore.
Certo la nostra vita è lavoro, è fatica, è sacrificio: ma se la viviamo con Dio, è trasfigurazione, è felicità. Se guardiamo con gli occhi della fede, tutto nella vita diventa più bello: un fiore, un tramonto, il volo degli uccelli, la risacca silenziosa del mare, le cime maestose, le montagne e le valli innevate, tutto diventa trasfigurazione.
Se ci capita di commuoverci di fronte a parole come: “Ti amo! Ti voglio bene! Sei la mia ragione di vita!”, anche questo è trasfigurazione. Se ci capita di prendere in braccio un neonato, figlio o nipote, e guardandolo rimaniamo commossi e senza parole di fronte al miracolo della vita, questo è trasfigurazione. Se ci capita di piangere senza alcun motivo particolare, semplicemente perché ci sentiamo felici, questo è trasfigurazione. Se ci capita un evento tragico che ci sconvolge la vita, che ci “distrugge”, ma nel nostro cuore percepiamo la voce amorosa di Dio che ci conforta, questo è trasfigurazione.
Il monte della Trasfigurazione è la nostra anima, il nostro cuore: lì noi capiremo l’essenziale. Lì capiremo l’importanza di sentirci figli di Dio, lì sentiremo la sua voce che ci sussurra: “Coraggio, sii felice, io sono sempre qui con te, perché tu sei il mio figlio prediletto!”
Ecco: Noi abbiamo bisogno di questa sicurezza: dobbiamo imparare ad esclamare più spesso come Pietro: “Che bello, Signore, essere qui!”. Quando entriamo in chiesa per la Messa, gridiamolo nel nostro cuore: “che bello esser qui!”. Ripetiamolo durante l’intera liturgia: nel silenzio, nel canto, nell’ascolto della Parola, nella comunione: “che bello!”. Il nostro dovere di cristiani è di essere più veri, più sinceri, più convinti nel professare la gloria di Dio, la sua maestà, il suo amore, mormorando: “Signore, è bello per noi essere qui, alla tua presenza!”. Allora partecipare all’Eucaristia domenicale sarà veramente per noi come salire sul Tabor, e riempirci gli occhi e il cuore della bellezza, della luminosità di Dio, nella gioia della nostra trasfigurazione. Amen.

  

giovedì 6 marzo 2025

09 Marzo 2025 – I DOMENICA DI QUARESIMA


Lc 4,1-13 
Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano; e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

Con il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40 giorni che precedono la Pasqua, deve rappresentare uno stile di vita, un sistema di autocontrollo; per noi, “quaresima”, dev’essere infatti quel tempo che ci serve per rialzarci, per riabilitarci e fortificarci di fronte ad una qualche situazione spirituale un po’ compromessa; quel tempo in cui dobbiamo camminare, crescere, faticare, piangere, lavorare; dev’essere insomma il tempo di “conversione”, del ritornare cioè sui nostri passi, del rimetterci nella giusta direzione facendo un’inversione di marcia; quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli, inadatti, insufficienti, un tempo in cui ci rendiamo conto di non poter fare a meno Dio.
Noi spesso pecchiamo di un’autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti siamo costretti a fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo alla fine ricongiungerci a Cristo, nostra Pasqua.
Anche Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto: il vangelo di oggi ce ne chiarisce le modalità, le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù: Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora Satana, subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione, lo raggiunge con le sue proposte. Ma ogni suo tentativo viene prontamente respinto da Gesù.
È fondamentale anche per noi non arrenderci mai, non aver mai paura delle tentazioni, esattamente come Gesù ci ha insegnato: noi dobbiamo guadarle in faccia, dobbiamo esorcizzarle queste “tentazioni”, dobbiamo capirne subito il contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle faccia a faccia, senza panico e incertezze. Il mondo in cui viviamo, la società, sono il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. Ma questo fa parte della vita, e noi lo sappiamo.
Questo è il punto: quaresima, deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra realtà, alla nostra coscienza, alla nostra vera entità: nudi, senza fronzoli, senza maschere, senza abbellimenti di facciata, senza ritocchi ad uso di chi ci guarda.
In greco “tentare” (peiràzein), significa “provare”, “verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa nascondiamo dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al prossimo. Un’analisi, questa delle tentazioni, che nessuno può evitare, in quanto non dipendono da noi.
Tutta la vita è una tentazione: è un banco di prova, un test di verifica, che evidenzia la tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle loro radici; ci segnala i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità e autenticità della nostra fede.
Le tentazioni servono in particolare per tenerci umili, per fugare tutte quelle velleità del nostro ego, basate sull’eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata superbia, non le tentazioni.
Purtroppo sono situazioni con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi da certi pastori, da chi sta sopra di noi, dalla famiglia, dalla società? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Subito una vocina ci suggerisce: “A che ti serve credere, a che ti serve frequentare questa comunità, a che ti serve darti da fare, essere fedele, se poi chi ti dovrebbe insegnare, chi dovrebbe guidarti con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarti, confortarti, capirti, si comporta così male con te?” Oppure: “Quel prete non mi piace; inutile andare in quella chiesa; non ci vado più e basta! Preferisco frequentare un’altra comunità, un’altra parrocchia; perché lì sto bene, trovo la mia pace interiore, vivo meglio il mio cristianesimo, c’è un prete veramente in gamba, allegro, che saluta sempre tutti!”. Ecco, questa è la prova classica dell’orgoglio: è veramente il nostro “cammino di cristiano” che ci fa cambiare parrocchia, o è il nostro orgoglio che si è risentito? Perché, sotto sotto, il nostro “ego” ci assicura e ci convince: “tu vali, sei il più preparato qui, potresti fare cose eccelse, potresti far “resuscitare” una comunità “senza vita”, solo se “qualcuno” ti desse credito!”. E noi ci crediamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno.
Ebbene: in queste settimane di quaresima ci aspetta un bagno di umiltà: dobbiamo percorrere il nostro deserto con grande compostezza e umiltà, soprattutto con obiettività!
Eravamo convinti di avere una solida fede, ma poi al dunque, si è rivelata una montatura a beneficio degli altri: non si trattava di una fede profonda, convinta, ma del nostro orgoglio travestito da religiosità, da amore per il prossimo.
Ecco: la “quaresima” della nostra vita, con le sue prove, con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi: perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: e noi dobbiamo essere consapevoli di come realmente siamo, dobbiamo avere le idee chiare su cosa correggere, su cosa rimediare, su cosa fare nostro.
Se non affrontiamo i nostri demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto della mia vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che non conosciamo noi stessi! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi” dagli altri, di essere migliori in assoluto! Ci fa vedere come acquisito ciò che non esiste, ciò che è irrealizzabile. Ma a noi piace, ci piace così tanto, da crederci veramente: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, su di essa orientiamo la nostra vita.
Salvo poi, quando ci accorgiamo che tutto è soltanto una misera illusione diabolica, sentirci frustrati, profondamente delusi, dei falliti.
Ecco perché non possiamo perdere altro tempo. Ecco perché dobbiamo agire: perché il tempo favorevole è ora, è in questa quaresima. Amen.

  

giovedì 27 febbraio 2025

02 Marzo 2025 – VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 6,39-45 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

Anche questa domenica proseguiamo la lettura del “Discorso della pianura” di Luca.
Gesù continua a puntualizzare quella che deve essere la fisionomia del cristiano, cogliendo, molto bene, purtroppo, lo sbandamento tipico della società contemporanea, che ha definitivamente cancellato i fondamentali valori morali dell’uomo.
Quella contemporanea è infatti una società alla deriva, nella quale, cosa ancor più grave, i pastori, le guide, che dovrebbero contrastare tale situazione per mandato divino, sono invece cieche e mute, occupate in altre cose, e non offrono più alcuna sicurezza al gregge,
Lo sport più seguito dai cristiani di oggi, per esempio, non è tanto l’innocuo calcio, ma quello di criticare il prossimo, di screditarlo, più in privato, a mezza bocca, che apertamente, a ragione o a torto, senza alcuna discrezione e ogni buon senso.
Siamo tutti solerti nell’individuare “la pagliuzza” nell’occhio del vicino, e non ci accorgiamo delle travi che occludono i nostri occhi, impedendoci qualunque visuale corretta e serena.
“Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello!”, esclama Gesù.
Sono parole sacrosante, estremamente vere, realistiche, che ci mettono di fronte ai nostri errori personali, al nostro puntiglioso sminuirli, a giustificarli ad ogni costo, rifiutando ostinatamente di riconoscerli e di correggerli.
Siamo molto comprensivi e benevoli con noi stessi, mentre con gli errori degli altri siamo il più delle volte spietati, li trattiamo con ingiustificata durezza e severità. Basterebbe ascoltarci quando parliamo della gente, quando spariamo giudizi sulle persone, sui vicini, sui conoscenti, sui colleghi di lavoro, sugli amici…
È vero: in ogni famiglia, in ogni comunità ci sono dei problemi: ma niente ci autorizza a sentirci immuni da tutto, superiori e intoccabili, ad esprimerci come se le parole di Gesù riguardassero esclusivamente tutti gli “altri” e non soprattutto “noi”.
Ci comportiamo troppo spesso da immaturi e insicuri: sempre attenti a proteggere la nostra immagine, a far apparire il meglio di noi, per paura che gli altri vedano la realtà, spesso interiormente squallida! Impariamo invece a guardare “noi stessi” e gli altri, con gli occhi di Dio! Non è che dobbiamo ammutolirci di fronte a situazioni insostenibili! Anzi, dobbiamo esprimere il nostro parere, anche con la fermezza della vera carità, in particolare se le cose sono in stridente contrasto con gli insegnamenti del vangelo: anche in questo però dobbiamo prima di tutto cambiare il nostro criterio di riferimento, dobbiamo cioè guardare, giudicare persone e cose, con lo sguardo pieno di speranza e di carità del Padre che, nonostante tutto, fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi: siamo tutti peccatori, siamo tutti suoi figli: non serve a nulla voler apparire più belli e buoni di quanto siamo, anche davanti al Padre. Anzi, è sempre controproducente!
Una prima verità che possiamo infatti ricavare dal vangelo di oggi è che Uno solo può giudicare: è Lui, il nostro Padre che è nei cieli. Noi non ne abbiamo alcun titolo: infatti, chi più chi meno, siamo tutti “ciechi”, e nessun cieco può farsi guida di altri ciechi. Giudicare il prossimo equivale mettersi al posto di Dio.
E allora, come comportarci con le persone che sbagliano? Pretendere di correggerle ricorrendo alla nostra superiorità, all’autorità, al potere, è pura ipocrisia: spesso infatti, piuttosto di una correzione fraterna, esercitiamo sul malcapitato di turno una buona dose di superbia, di egoismo, e perché no, di una certa ben camuffata crudeltà.
Altro discorso invece è se la nostra correzione si basa sulla carità fraterna, sulla comprensione, sulla sincerità. È una soluzione che sicuramente aiuta noi e i nostri fratelli.
Noi infatti dobbiamo “vedere” prima di tutto il lato buono degli altri, per farne tesoro, e per cercare di imitarlo; soltanto dopo, il lato cattivo che va invece analizzato e corretto, immunizzandoci da sue possibili influenze su noi stessi. In questo modo il “correggere l’altro” si trasformerà, per quanto ci riguarda, in un sincero, onesto “riesame” delle nostre abitudini e dei nostri limiti
Se pensiamo di esercitare il dovere di “aiutare i fratelli”, conferitoci dal nostro battesimo, senza rifornirci prioritariamente di carità e amore, significa fallire in partenza: sarebbe come far viaggiare un carro zeppo di fragili vasi di terracotta: ad ogni scossone, sbattendo gli uni contro gli altri, finirebbero per ridursi in mille cocci.
È questa, purtroppo, la realtà con cui dobbiamo fare i conti, quotidianamente, all’interno delle nostre comunità. Per contrastarla opportunamente dobbiamo essere cristiani imbevuti di vangelo, dobbiamo cioè lasciarci forgiare dai suoi insegnamenti di Vita: in una parola dobbiamo avere continuamente il nostro cuore sintonizzato sul cuore di Dio: perché quando attingeremo dal tesoro buono del nostro cuore, traendone fuori il bene, quando sarà veramente la carità a guidare il delicato intervento di pulitura dalle pagliuzze l’occhio del prossimo, non ci sarà più spazio per alcun giudizio di condanna, di umiliazione, di prevaricazione. Sarà invece una “festa” di intensa carità, di luminosa speranza, di gloriosa risurrezione; sarà come offrire a Dio quel “culto a lui gradito”, attraverso il quale Lui stesso, attraverso i nostri cuori, continuerà a far germogliare nel mondo, pace, misericordia, amore, solidarietà, grazia, dignità, rispetto. Amen.

 

giovedì 20 febbraio 2025

23 Febbraio 2025 – VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 6,27-38 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gl'ingrati e i malvagi.  Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Siamo ancora nel “Discorso della pianura” di Luca: è l’importante discorso programmatico di Gesù sulle “beatitudini”, collocato da Luca appunto in quel “luogo pianeggiante” scelto da Gesù per parlare alla folla, una volta disceso dal monte su cui si era ritirato a pregare. 
Nel brano di oggi, che segue immediatamente quello di domenica scorsa, Gesù si spinge oltre, ponendo a quanti vogliono seguirlo, delle condizioni ancor più impegnative e difficili da praticare: amare, benedire, pregare, porgere l’altra faccia, donare, perdonare, non giudicare, ed altri verbi simili, richiedono effettivamente un comportamento “superiore”, un comportamento che, per la nostra mentalità tiepida ed egoistica, deve essere supportato da una dedizione cieca e assoluta, un eroismo, un particolare amore per la propria vocazione alla santità, un voler raggiungere quell’ascesi mistica che si specchia soltanto in Dio, sorgente di amore, di bontà e tenerezza.
Ma non è questo il pensiero di Gesù: per lui le azioni che raccomanda sono alla portata di tutti, indispensabili anche per chi vive semplicemente da buon cristiano, e segue gli insegnamenti del Signore, conducendo una vita normale.
Per questo le proposte del vangelo di oggi ci mettono in crisi profonda, perché nonostante ci suonino come un imperativo categorico, le leggiamo e rileggiamo senza neppur cercare di viverle veramente!
Abbiamo come l’impressione che siano dirette ad altri, forse più capaci, più buoni, più cristiani di noi. Per noi sono condizioni troppo difficili: ci vuole infatti una autentica padronanza di sé per arrivare ad amare i nemici, a benedire coloro che ci maledicono, a porgere l’altra guancia, a non riprenderci con gli interessi quello che ci è stato tolto...
Tuttavia, a guardar bene non è soltanto la nostra incapacità di accostarci con amore a chi ci fa del male; noi entriamo in crisi anche perché ci sentiamo colpevoli, sul banco degli imputati, in quanto ci rendiamo conto di essere degli ingrati approfittatori, non volendo usare verso il nostro prossimo, quella stessa condotta amorevole che Dio usa continuamente con noi. Le parole di Gesù di oggi, infatti, ci rivelano esattamente come Dio si è comportato e continua a comportarsi con noi.
Ed è proprio così: a noi sembra assurdo amare i nemici, eppure Lui ha continuato a rincorrerci quando Gli abbiamo girato le spalle; ha continuato a bussare alle nostre barriere, a tapparsi le orecchie alle nostre maledizioni, a sorridere ai nostri maltrattamenti, ad attendere pazientemente che sfogassimo la nostra rabbia sbattendogli la porta in faccia.
Non l’abbiamo mai trovato sordo alle nostre richieste, anzi, lui è stato ed è sempre pronto a donarci in abbondanza perdono, amore, accoglienza e comprensione.
È la storia di questa sua comprensione ad oltranza che ci sconcerta, ci confonde; e, mentre ammiriamo il Suo volto misericordioso, mentre ci rendiamo conto dell’amore con cui ci insegue, dobbiamo tornare in noi, dobbiamo tornare ad essere esattamente la Sua immagine, a fare tutto quello che ci dice. Non possiamo infatti continuare ad essere insensibili a tanto amore!
Allora capiamo che quella che prima ci sembrava un’assurda imposizione, è semplicemente la risposta logica e obbligata di quanti, come noi, hanno già beneficiato di tanto amore, di tanta pazienza e misericordia.
E finalmente la nostra storia personale cambierà: scopriremo la nostra vera identità di “guariti”, di persone cioè, che hanno recuperato gratuitamente, nel perdono e nell’amore di Dio, la loro forza, la loro dignità interiore. E così, guariti dalle nostre miserie, dalle nostre inimicizie, dalle nostre inutili paure, diventeremo anche noi “guaritori” della miseria e dell’inimicizia dei nostri fratelli.
C’è però chi soffoca ancora nelle sue paure. Paura di soffrire. Paura di pagare di persona. Paura di non essere ricompensato, capito, gratificato a dovere. Paura – in realtà - di andare oltre tutti i parametri, le aspettative, dettate dal suo piccolo “ego”. È un passaggio obbligato che talvolta dobbiamo nuovamente ripercorrere anche noi, quando ci perdiamo nelle nostre misere fragilità. E solo se scendiamo in profondità, possiamo andare oltre, ritornando noi stessi.
Perché solo se riascoltiamo con grande umiltà la Parola di Dio, solo se riaccogliamo nel nostro cuore la forza dello Spirito, ci sentiremo nuovamente rassicurati, capiremo di non aver nulla da temere.
Impariamo allora a chiedere perdono al nostro prossimo da subito, in casa, nel lavoro, nella vita sociale; e se subiamo un torto, consideriamolo come una grande occasione di poter disorientare con la bontà coloro che con noi si sono dimostrati meschini, di poter spiazzare con la mitezza i violenti, di poter fermare con la pazienza gli arroganti.
Allora capiremo perché S. Francesco sia arrivato a dire che perfetta letizia è quando veniamo offesi, quando veniamo provocatoriamente oltraggiati.
Sì, perché è l’offesa che ci offre la possibilità di amare senza alcuna ricompensa, senza nulla ricevere in cambio (“se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avete?”); è l’offesa che ci offre l’occasione di perdonare come Dio ci perdona (“siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”).
E questo ci darà una grande gioia, perché capiremo finalmente cosa significa diventare una cosa sola con Lui. Amen.

 

giovedì 13 febbraio 2025

16 Febbraio 2025 – VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 6, 17.20-26 
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una enorme folla composta soprattutto da persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate. 
Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, dichiarando che la sofferenza è il percorso più sicuro per entrare nel suo Regno.
Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: infatti come l’antico liberatore e legislatore di Israele sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna a quella folla di “poveri” la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
“Povero”, in greco “ptòkos”, termine che traduce l’ebraico “anì”, non vuol dire come in italiano, essere sprovvisto di beni materiali; ma indica uno che è “ripiegato” in sé stesso, sottomesso, afflitto, provato, uno che ha perso ogni entusiasmo, un rinunciatario, uno che non ha più voglia di reagire alla sua situazione.
Tutta quella gente che circonda Gesù, è “povera”, vulnerabile, debole, è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita, che sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire”, anche solo ascoltandolo, toccandolo.
Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra: con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non vive come voi l’amarezza del pianto; se non prova e non accetta umilmente il dolore dell’emarginazione, la rassegnazione per essere stati privati di soluzioni straordinarie e vitali”.
Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non cede mai alle disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: una mentalità “vincente”, ma lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini.
Ma attenzione: il senso delle beatitudini non è: “Si è felici soltanto se si piange, se si soffre, se si è poveri derelitti” ma “si è felici solo se, nonostante tutto, si cerca di partecipare alla Vita di Dio, di vivere sempre la vita come un suo dono, qualunque essa sia, nei suoi momenti esaltanti e in quelli di estremo dolore”.
Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, ci sarà impossibile capire il senso della vita, tanto meno di viverla: ed è allora che diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti. È allora che ci chiuderemo nel nostro rancore, ignorando e rifiutando Dio.
“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche l’uomo che diventa “divino”, che si “divinizza”, che fa di tutto per ridiventare immagine di Dio, capolavoro del creatore, come ci dice la Genesi all’inizio della Bibbia. “Elohim” allora è il nostro distintivo, è ciò che siamo in profondità, nella nostra essenza, nella nostra anima, è quel soffio divino di Dio, che ci ha dato vita, che ci ha fatto aprire gli occhi per ammirare e vivere le meraviglie del suo creato.
L’uomo, creatura di Dio, è un amalgama di terra e di Spirito: scopo della vita è di spogliarsi della sua fragilità di creatura provvisoria, per raggiungere nuovamente la sua originaria immortale, divina, dignità.
Invece cosa ha fatto Adamo? Ha tradito il suo compito, il suo essere, il suo nome, la sua missione; ha voluto essere immediatamente Dio, “da subito”, magicamente. Ha voluto saltare il cammino doloroso e faticoso della vita: ma questo non si può fare, dice la Bibbia, non è possibile. Perché l’uomo che vuole evitare il suo cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore, irrimediabilmente “si perde” nel peccato, nella superbia, nella ribellione, nell’egoismo: si condanna cioè ad una vita squallida, ad un cammino di morte, di sangue, di alienazione.
Lo stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è commisurato al grado di adesione alla volontà di Dio, con cui l’uomo conduce la sua vita su questa terra. Solo se antepone questa sua unione col divino, davanti a tutto e a tutti, il suo sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione, già su questa terra, della bontà e dell’amore del Padre.
Purtroppo noi moderni nutriamo nell’immediato, altre aspirazioni: facciamo dipendere la nostra felicità esclusivamente dal raggiungimento egoistico dei continui traguardi che ci poniamo: “Quando avrò ottenuto quella cosa, quando avrò raggiunto quell’obiettivo, quando sarò ricco, allora sicuramente sarò felice!”. Ci illudiamo che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo tutto, il meglio di noi stessi: il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità.
Solo che una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende un’amara sorpresa: non ci basta più, c’è dell’altro; davanti a noi si impone un nuovo traguardo, ancor più attraente, più indispensabile, più importante: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Purtroppo siamo schiavi del consumismo: consumiamo tutto, non solo le cose, ma anche le emozioni. Abbiamo bisogno di emozioni sempre più forti, intense, perché ormai siamo completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle emozioni spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
Tutti noi dobbiamo misurarci con due realtà dentro di noi in continua lotta: l’uomo materiale e quello spirituale. Per il primo, la felicità è raggiungere, possedere, conquistare, correre, avere; per il secondo, l’uomo delle beatitudini, la felicità è fermarsi, gustare, percepire, condividere, vivere. Per il primo, la vita è una linea retta: è andare sempre avanti, raggiungere, conquistare nuovi, innumerevoli traguardi. Per il secondo la vita è una spirale concentrica: è tornare continuamente in sé stesso per attingere vigore dallo Spirito e metterlo a disposizione degli altri.
Felicità, beatitudine, in ebraico è “ascèr”, che significa “progredire, continuare, ripetere”: allora, la gioia che proviamo nel vivere quaggiù lo spirito delle beatitudini, non deve essere un punto di arrivo, ma una spinta a proseguire, ad andare sempre avanti per quella strada maestra segnata da Gesù; strada che ci porterà al traguardo finale della felicità eterna, la “beatitudine” totale, nell’Amore del Padre. Amen.