giovedì 29 febbraio 2024

03 Marzo 2024 – III DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 2, 13-25 
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 Siamo in prossimità della Pasqua, la festa ebraica per eccellenza, in occasione della quale tutti gli israeliti si recano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. È quindi, soprattutto in quei giorni che, in quel luogo, c’è un’eccezionale affluenza di persone, e di conseguenza, anche una maggior concentrazione di attività commerciali. Il pio ebreo, come pure i commercianti, sanno bene che per tale occasione la legge prescrive di presentarsi davanti a Dio, grande e onnipotente, offrendogli in sacrificio animali, oggetti preziosi, denaro, in segno di amore e di gratitudine.
La grande confusione di persone, animali, venditori, banchi, merce, che regna fuori e dentro il tempio, è quindi normale, ovvia. Come ovvia è anche la presenza dei “cambiavalute”: gli Ebrei che vengono da lontano, disponendo di monete romane con le raffigurazioni pagane dell’imperatore o degli dei, devono necessariamente cambiarle con le monete ebraiche, perché solo con queste è possibile versare alle autorità del Tempio la tassa di ingresso in denaro. Uno stratagemma che assicura ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro, trasformando addirittura il tempio in una specie di banca, quindi nel posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, tanto da far pensare che nel tempio, non si adora più Jahweh, il Dio di Israele, ma il Dio denaro, Mammona, il Dio ricchezza.
Gesù, dunque, giunto anch’egli a Gerusalemme, sale al Tempio e improvvisamente si trova di fronte al baccano di questa enorme folla di pellegrini e venditori, impegnati i primi a contrattare la merce, i secondi a richiamare urlando la loro attenzione: pertanto non all’ingresso del Tempio di Dio, ma nel bel mezzo di un mercato affollato.
Di fronte a ciò cosa fa Gesù? Si prepara una “frusta di cordicelle”, e con quella inizia a percuotere quanti stazionano alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, e incalzandoli, rovescia i banchi con la loro mercanzia, cacciandoli tutti via!
Un vangelo singolare, molto forte quello di oggi: anche perché, leggendo attentamente tra le righe, possiamo cogliere, nel comportamento di Gesù, un significato ben più profondo del voler solo “ripulire” l’area del Tempio da gente indegna: possiamo infatti vedere in prospettiva l’eliminazione, la distruzione finale del tempio di Gerusalemme, peraltro apertamente confermata con le parole: “Non resterà qui pietra su pietra che non sia diroccata” (Mc 13,2). In altre parole Gesù annulla non solo “quel tipo” di tempio, con la sua ritualità, con la mentalità che lo anima, ma introduce una nuova concezione di “tempio”, un tempio più stabile e prezioso di quello in pietra, un tempio nuovo costituito dalla sua persona che, di fronte al tentativo dei giudei di distruggerlo, lui garantiva “in tre giorni lo farò risorgere”: e Giovanni si premura di precisare: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,19-21).
Con questo tempio indistruttibile, anche il modo di rapportarsi con Dio viene completamente rinnovato, sostituito; Gesù infatti introduce una nuova immagine di Dio, un Dio fino ad allora sconosciuto a tutti: un Dio che non gradisce, né tantomeno pretende dall’uomo, “offerte” e sacrifici “cruenti”, materiali; un Dio che, cosa fino ad allora impensabile e improponibile, diventa lui stesso “offerta e sacrificio” per l’uomo: da quel momento infatti, non è più l’uomo che si priva del pane, che se lo toglie di bocca per poter compiere il suo sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si fa “pane”, e diventa “nutrimento” per l’uomo.
Di conseguenza, il Dio di Gesù mette la parola fine anche al tempo delle imposizioni divine, della paura, del rapporto “servile” con un Dio Padrone, caratterizzato da una intransigente severità e regolamentato da rigide prescrizioni di legge: Dio non vuole più essere “servito” in questo modo: al contrario sarà Lui stesso, per primo, a servire e ad amare l’uomo.
Già anticamente per bocca dei profeti, Dio aveva espresso la sua contrarietà per come venivano compiuti i sacrifici in suo onore: “Sono sazio dei vostri olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli; smettete di portare offerte inutili” (Is 1,11-13); e decretava: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6).
Gesù poi, nel suo vangelo, è ancora più diretto: se la prende con l’esteriorità e l’esibizionismo delle elemosine, con la legge puntigliosa del sabato, con le riunioni in suo nome fatte senza convinzione, con le liturgie vuote e vanesie. Dio insomma non sopporta queste cose, non le gradisce, non vuole più offerte materiali: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13; 12,7).
Del resto, che senso avrebbe mantenere la ritualità dell’antico tempio, un manufatto in pietra destinato a scomparire, quando Cristo stesso si è fatto tempio, unico e autentico santuario di Dio? “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).
Sono parole chiare, determinanti, con cui Gesù stabilisce in via definitiva l’unico modo con cui adorare Dio. Dio è Spirito, è presente ovunque: per pregarlo, lodarlo, entrare in comunione con Lui, è sufficiente che il nostro “spirito”, la nostra anima, comunichi, interagisca con Lui, non importa dove ci troviamo. Per entrare in contatto personale con Dio non serve un luogo esclusivo, un tempio unico e grandioso, impreziosito da capolavori artistici.
Il Vangelo di oggi ci porta dunque a fare qualche considerazione proprio sul comportamento dei cristiani in quegli “spazi liturgici”, destinati fin dai primi secoli della Chiesa a raccogliere le moltitudini dei fedeli per le celebrazioni comunitarie, le liturgie sacramentali. Spazi che col tempo diventeranno nel mondo delle vere e proprie meraviglie architettoniche, orgogliose dimostrazioni della religiosità del nuovo popolo di Dio.
Certo, le Chiese possono essere anche di rara bellezza, le liturgie e i canti possono estasiarci per la loro maestosa solennità, ma se in esse non partecipiamo attivamente e consapevolmente, se alla nostra voce non uniamo anche il nostro spirito, la nostra anima (“mens nostra concordet voci nostrae”, raccomandava san Benedetto ai suoi monaci!), in una parola, se non entriamo in sintonia con Dio, se la nostra partecipazione non è per nulla “actuosa”, se non condividiamo quella “agàpe”, cioè quell’amore profondo e vitale per Lui e per i fratelli, il nostro sacrificio, la nostra liturgia, la nostra preghiera, la nostra lode a Dio, rimarranno sempre un culto puramente esteriore, inanimato, sterile.
Osservando infatti la scarsa affluenza domenicale nelle nostre chiese cattoliche, molti pastori giustamente si chiedono se i cristiani di oggi sentono ancora il bisogno di frequentarle, di presentare a Dio un degno sacrificio di lode. Giusta preoccupazione: ma sarebbe forse ancor più utile chiedersi: “Ma quelli che frequentano regolarmente le nostre liturgie, le nostre messe, percepiscono realmente la concreta presenza di Dio? Quando escono dalla chiesa, provano veramente in cuor loro la pace della “sua” benedizione, la serenità del “suo” perdono, la forza della “sua” misericordia? Si sentono veramente rinfrancati, toccati, guariti, conquistati dall’amore di Dio? Escono insomma seriamente consapevoli di dover trasmettere ai fratelli una testimonianza più credibile della loro fede, della loro carità, dell’amore a quel Dio, con cui hanno appena concluso un “pretiosum et admirabile convivium” assumendo Cristo, vero Dio e uomo perfetto, sotto le specie di un po' di pane?”
In questa quaresima di conversione armiamoci allora di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte quelle icone squallide che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo, questo nostro tempio così imbrattato: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore, restituendogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, per poter rivivere con maggior partecipazione e dignità interiore, il nostro “culto” sacrificale per eccellenza, la nostra “Eucaristia”, la nostra Pasqua settimanale. Perché solo così potremo tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore gratuito e incondizionato di Dio nostro Padre.
Amen.

  

giovedì 22 febbraio 2024

25 Febbraio 2024 – II DOMENICA DI QUARESIMA


Mc 9, 2-10 
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela a tutti la sua vera natura.
Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che dobbiamo vivere come un’esperienza rigorosa, votata alla penitenza, alla conversione, al sacrificio, alla preghiera continua? Cosa significa?
La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole anticiparci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice in pratica che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita potrà un giorno diventare radiosa solo se ora siamo mossi dall’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sull’eterno e luminoso Tabor celeste, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare contemplando quelle meraviglie che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere, meraviglie che commuovono, che trasmettono sensazioni e commozioni uniche.
Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di maturità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo arido, sterile. Vuol dire, in una parola, lasciarsi “trasfigurare”.
La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: sono momenti in cui ci rendiamo conto di essere veramente amati, di essere “speciali” per qualcuno; momenti in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dai nostri Tabor, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.
Senza queste “ricariche” di Dio, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché dobbiamo permettere alla Luce, al Calore, all’Amore divini di entrarci dentro; perché dobbiamo accettare con entusiasmo che Dio ci immerga completamente nella sua Vita, che viva in noi, che ci faccia sussultare, commuovere, estasiarci, rinascere continuamente in Lui, per Lui.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico, oltre che “principio di luce” significa anche “ombelico, cordone ombelicale”. Ebbene: la nostra personale trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che ci avvizziscono la vita. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione interiori, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla, implacabile e devastante. Se invece vogliamo rinascere, se vogliamo camminare spediti verso la Luce, impediamo con determinazione che zavorre pericolose ci rallentino, ci ostacolino: il nostro taglio deve essere netto, risoluto, definitivo.
Soltanto un cordone ombelicale non va mai reciso: è quello che ci lega a Dio; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significherebbe lontananza, condanna, perdizione, morte. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare direttamente l’amore nel nostro cuore. Un canale flessibile che, per quanto possiamo allontanarci, ci terrà sempre uniti a Lui, evitando che malefici deliri ci inducano a perderci nel vuoto. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi troveremo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: perché il Dio-Amore abita stabilmente nel nostro cuore. E potremo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello stare qui con te!”.
Ma è proprio vero? È veramente bello per noi rimanere soli con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra anima, in Chiesa, nei momenti di preghiera, di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro “esserci” è frutto soltanto di stanche abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per darci delle risposte sincere, per ritagliarci nuovi spazi di silenzio, per aprire il nostro cuore a Dio con maggior sincerità e amore filiale, per ristabilire nella nostra vita una perfetta armonia con Lui.
Per farlo, come ci ordina la Voce dalla “nube”, dobbiamo “ascoltare”. Dobbiamo cioè “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, la nostra coscienza, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo insomma imparare ad ascoltare Dio con umiltà, con attenzione: è da questo che dobbiamo ripartire; perché purtroppo oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel totale disinteresse; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orribili sono le città, orribili le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono le nuove scelte di vita.
È proprio vero! L’umanità intera necessita urgentemente di “trasfigurazione”: di quella trasfigurazione vera, luminosa, autentica, divina; ha improrogabile bisogno di rivestirsi con la bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore. Smettiamola di vivere allo sbando, di ingannare noi stessi, ostinandoci ad indossare maschere demenziali di stolti e idioti pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Una scelta decisamente stolta, insensata! Amen.

  

giovedì 15 febbraio 2024

18 Febbraio 2024 – I DOMENICA DI QUARESIMA


Mc 1, 12-15 
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

È la prima domenica di quaresima. La Parola ci riporta oggi al primo capitolo del vangelo di Marco, che nel suo stile stringato ed essenziale, in tre versetti liquida l’esperienza di Gesù nel deserto. Subito dopo la teofania del battesimo in cui la voce del Padre lo riconosce come Figlio amato, Gesù deve affrontare un altro evento, completamente diverso: lo stesso Spirito di Dio lo spinge nel deserto: cioè quel Dio che come Padre lo qualificava come “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti, di privazioni, dimora dei demoni e del male.
“Com’è possibile?” ci chiediamo: “come può un Padre dimostrarsi così insensibile, incoerente, nel mandare il figlio amato in un luogo tanto pericoloso, arido, inospitale, come il deserto”?
Ovviamente, se cerchiamo di capire il Vangelo con la mentalità di questo mondo, dimostriamo di non aver capito nulla di Dio; soprattutto di non aver capito nulla della missione salvatrice di Gesù. 
Noi, purtroppo, con i paraocchi della società contemporanea, siamo abituati a ragionare solo in un certo modo: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un suo regalo, e quindi Dio è buono; se, al contrario, una cosa è brutta, ostica, dolorosa, difficile, allora Dio è cattivo, non gli importa nulla di noi, ci abbandona con indifferenza in balia del diavolo e delle forze del male. 
Solo che in questo caso specifico, dimostriamo di non aver capito che “il deserto” non è un fatto negativo. I due momenti, battesimo-deserto, che vedono protagonista lo Spirito di Dio, sono infatti strettamente correlati, e si inseriscono perfettamente nel progetto divino della redenzione umana attraverso l’incarnazione di Gesù: riconosciuto “figlio di Dio” nel battesimo, Egli avrebbe potuto appellarsi alla sua natura divina, rifiutando di misurarsi col male; al contrario, rimane coerente alla sua realtà di uomo: accetta cioè di vivere fino in fondo questa vita umana con le sue prove, talvolta anche difficili e dolorose, ma tutte con una prospettiva altamente positiva e meritoria: perché nel “deserto”, luogo della prova e della fedeltà di Gesù alla sua missione, Egli propone all’umanità una via, un comportamento indispensabile ad ogni singolo uomo per amministrare correttamente la sua vita, meraviglioso dono di Dio. 
Un dono, la vita, che non è un regalo già pronto, finito, incartato e infiocchettato: ma, come una pianta, va coltivata, cresciuta, seguita, trattata con cura; è come un compito da svolgere, un quadro da dipingere, un manufatto da costruire in tutta la sua bellezza.
Dio ci affida questa minuscola parte del suo universale “progetto” di vita, questa piccola tessera che noi dobbiamo “elaborare, perfezionare” per poterla reinserire al suo posto nel maestoso mosaico dell’intera creazione. 
È una grande responsabilità, che richiede lavoro, applicazione, volontà, coraggio. Le contrarietà sono all’ordine del giorno, dobbiamo superarle: ma troppo spesso noi preferiamo abbandonare il compito assegnatoci da Dio, senza combattere, senza lottare, dimostrando di non aver capito nulla del suo progetto; perché Lui si aspetta da noi un comportamento positivo, vuole che vinciamo i nostri demoni, le tentazioni del male: ci vuole vincenti, vuole che il nostro impegno, i nostri progressi, risplendano preziosi agli occhi del Padre.
Purtroppo le contrarietà, il dolore, le difficoltà, le tentazioni che incontriamo in tale percorso, non sono delle pietre che Dio semina sul nostro cammino per farci inciampare, per farci cadere, come se lui si divertisse in questo. Lui non ama la nostra sofferenza: lui ama noi e vuole che siamo sempre felici. Le prove, il dolore, la sofferenza, sono invece parte integrante della vita umana, come ci insegna oggi Gesù stesso, che da uomo le ha affrontate.
Lui ha vissuto tutto ciò nella sua vita umana senza appellarsi mai, pur potendolo, alla sua natura divina!
Rileggiamolo allora quel versetto che inizialmente ci aveva scandalizzato: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche…”. 
Il “deserto”, quindi, non è stata una “cattiveria” di Dio Padre, ma la “fedeltà”, la coerenza di Dio Figlio che, assumendo le nostre sembianze umane, ha accettato di farsi carico anche delle relative debolezze, comprese anche le tentazioni di satana: e tutto questo, per diventare, come dice Clemente Alessandrino, nostro “pedagogo”, nostro “maestro”, nostra guida: per insegnarci cioè come dobbiamo comportarci nella nostra vita.
È quindi Dio, è la Vita stessa, che ci chiedono una gestione responsabile dei nostri progetti: per questo motivo lo Spirito spinge anche noi nel “deserto”: luogo difficile, impegnativo; luogo, che ci fa capire come, per conquistare qualcosa di veramente importante, qualcosa di bello, di assoluto, dobbiamo essere pronti ad affrontare anche un tempo di sacrifici, di prove, di contrarietà, di solitudine interiore.
Ebbene: la Quaresima rappresenta questo nostro passaggio nel deserto; un passaggio che va fatto necessariamente: perché è lì che dobbiamo spogliarci di noi stessi, vederci per quello che siamo realmente; è lì che dobbiamo affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne, per diventare solerti camminatori sulla strada che conduce a Dio. È un percorso che tutti dobbiamo affrontare e concludere. È un’esperienza ineludibile. È il nostro “esodo” dalla negligenza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida e indolente quotidianità.
Fintanto che il tempo della vita ci scivola via, calmo e silenzioso, noi stiamo bene nel nostro guscio autoreferenziale, tutto funziona, siamo soddisfatti, non ci sono problemi di sorta. Improvvisamente però, quando le cose cambiano, il meccanismo si inceppa, il rapporto con noi stessi si incrina. Non ci accontentiamo più di quel che facciamo; non ci basta, cominciamo a pretendere di più; siamo insoddisfatti, ci sentiamo soffocare; ciò che prima ci andava bene, ora non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide si impongono.
È normale: siamo arrivati ai margini del nostro “deserto”: non ci rimane che affrontarlo.
Dio dice al popolo eletto: “Ti ho fatto camminare nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no, i miei comandi” (Dt 8,2). Soltanto il deserto, infatti, può mostrare anche a noi cosa abbiamo dentro, solo il deserto può toglierci le illusioni costruite negli anni, le incrostazioni, le nostre maschere; solo il deserto può spogliarci, riportarci all’essenziale, all’originale, alla nostra candida e innocente nudità.
Perché il deserto è “peirasmòs”, vale a dire controllo, prova, verifica”.
Lo eviteremmo molto volentieri; lo vediamo come “zona di pericolo”, zona insidiosa, dominata dai richiami della coscienza che ci destabilizzano, ci scuotono dentro: molto meglio rimanere nel mondo, stordirli con il baccano, con fiumi di chiacchiere insensate, con rumori assordanti, con vuoti divertimenti, annegarli definitivamente nelle mille attrazioni inutili. Quanti cristiani infatti oggi si riducono a vivere così! 
Ma la vita che viviamo è la nostra: è vero che le esperienze positive, piacevoli, ce la rendono bella, godibile; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci maturano, che ci trasformano in meglio. È incontrando e vincendo i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli. Non giustifichiamo la nostra accidia, lamentandoci di non poter far nulla di meglio, di essere la vittima prescelta dal male, che la vita riserva a noi solo difficoltà, problemi, amarezze. Non ricorriamo a falsi pretesti, per rinunciare a combattere, non “tiriamo avanti” carponi, ma rialziamoci e marciamo eretti, da vincitori.
Soprattutto perché lo dobbiamo a Dio, nostro Padre, che pazientemente sta in attesa del nostro ritorno a casa.
Mercoledì scorso il sacerdote ci ha imposto la cenere sul capo: non è stato così, per gioco, ma per ricordarci quanto siamo deboli e provvisori: è stata l’occasione per guardarci con un po' più di umiltà. Ebbene, con questa stessa umiltà, attraversando il nostro deserto quaresimale, riconosciamo davanti a Dio la nostra debolezza, ammettiamo le nostre infedeltà, chiediamo la sua costante e misericordiosa protezione. Soprattutto non dimentichiamo mai: a chi apparteniamo, da dove veniamo, dove siamo diretti, di quale dignità siamo rivestiti, e con quale dignità siamo chiamati a presentarci. Buona quaresima! Amen.

 

 

giovedì 8 febbraio 2024

11 Febbraio 2024 – VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 40-45 
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Il vangelo di oggi ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso. È difficile per noi, oggi, capire cosa volesse dire a quel tempo essere lebbrosi. In pratica erano dei morti viventi. La lebbra, oltre che una malattia invalidante, era anche un oltraggio alla persona, perché il lebbroso, confinato fuori dall’abitato, escluso dalla comunità, doveva vivere lontano da tutti, tra stenti, privazioni, imposizioni. Se qualcuno inavvertitamente si avvicinava al suo rifugio, il disgraziato doveva allertarlo suonando un campanaccio e gridando: “lebbroso, lebbroso!”. Si pensava infatti che il contagio della malattia si trasmettesse anche a distanza.
Nel nostro caso, Marco dice che “venne da Gesù un lebbroso”. È quindi il poveretto che prende l’iniziativa e, contro ogni regola, si butta in ginocchio ai suoi piedi, supplicando: “Se vuoi puoi guarirmi!”: è un uomo stanco, distrutto dalla malattia: capisce di non aver ancora molto da vivere, di non poter continuare una simile esistenza, nel disprezzo e nella solitudine. Capisce che da solo non potrà mai venirne fuori: si rivolge quindi a Gesù e con il pianto in gola, prostrato per terra, guardandolo umilmente negli occhi, con grande fiducia mormora: “Signore, non ne posso più, ho bisogno di te, del tuo aiuto”.
Per una persona consumata, deformata, corrosa dalla malattia, evitata e schifata da tutti, è naturale provare il desiderio, intenso, essenziale, di sentirsi accolta, amata, stimata; di trovare qualcuno che le dimostri bontà, amore, che non la tratti con disprezzo, non la respinga. È solo in questo modo, infatti, che lei potrà nuovamente considerarsi una “persona umana” e non un miserabile rifiuto della società; solo così ritroverà la forza di combattere, la gioia di vivere, di riconquistare la sua rispettabilità, la sua dignità morale.
Gesù dunque, di fronte a quest’uomo così psicologicamente provato, ridotto quasi alla disperazione ma ancora con una grande volontà, dimostra subito di provare un sentimento forte, intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco “splanknìstheis”, più che compassione, indica quell’ amore profondo, viscerale, femminile, tipico di una madre per il suo neonato, un insieme di amore, tenerezza, generosità, apprensione, dolcezza.
Gesù dunque lo guarda, ma lo fa con occhi diversi da quelli dei presenti: “Io credo in te; so che dentro questo tuo corpo, reso così ripugnante dalla malattia, c’è una perla, c’è un fiore profumato, c’è una forza grande e preziosa. Sei stato deformato dal dolore della vita, ma io che ti conosco, vedo la bellezza interiore della tua anima. Per questo voglio che tu possa tornare a risplendere nella tua dignità!”.
E trasforma immediatamente questo sentimento “materno”, in guarigione fisica; “stese la mano”: l’amore diventa azione; “lo tocca”: il miracolo si compie, la lebbra scompare.
Oggi tutti noi possiamo vivere tranquilli, perché questa malattia è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti, meno visibile ma molto più diffusa, dalle mille varianti, tutte gravi e invasive: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri; è la lebbra di chi non ha alcun ideale per cui valga la pena di combattere, di vivere; la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce a ritrovare la propria dignità; la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; la lebbra dell’essere ritenuti inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ci sono ancora poi altre lebbre, moralmente più distruttive: come quella dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…: tutte "malattie" che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima.
Purtroppo tutto il genere umano è afflitto da questa persistente pandemia: sono pochi coloro che riescono a vaccinarsi alla luce della Parola di Dio. Che fare allora?
Come il lebbroso del vangelo, buttiamoci anche noi ai piedi di Gesù; “malati terminali”, irriconoscibili, chiediamogli a gran voce, umilmente, di tornare ad essere le creature immacolate delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”.
Entriamo più da vicino in quella scena, riviviamola nel nostro cuore: un pover’uomo, abituato ad essere rifiutato, respinto, che rimane sconcertato, sbalordito di fronte a Gesù che, a differenza di tutti, gli va incontro, lo tocca, gli stende le mani, quasi ad abbracciarlo, sfidando il pericolo del contagio. Un gesto di comprensione e accoglienza, imprevisto e imprevedibile: “Lo voglio, guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. È questo il significato del verbo greco “katharìzo”, usato da Gesù: tornare ad “essere puri, immacolati”, tornare allo stato originale”, tornare ad essere, cioè, quell’immagine di Dio, che Egli, creandoci, ha impresso in ciascuno di noi: una somiglianza che noi, purtroppo, con la lebbra delle nostre infedeltà abbiamo deformato, alterato, distrutto.
Ma, “Guarisci!”, ordina con voce chiara Gesù anche a noi; “torna com’eri originariamente, ristabilisci la tua somiglianza divina, mediante una radicale conversione di vita.
Quante volte, purtroppo, nel nostro delirio di onnipotenza, pretendiamo di cancellare questa nostra somiglianza con Dio, vogliamo essere “diversi”: disprezziamo cioè la nostra originale bellezza, dono incalcolabile, e preferiamo esibirci sul palco della vita ostentando una ridicola maschera di noi stessi: non accettiamo di essere “immagine splendida di Dio; preferiamo lasciarci stupidamente “deformare”, dai tanti “burattinai” di questo mondo.
Ma la vita non ci appartiene: e se fatalmente qualche evento tragico dovesse venire ad interrompere le nostre allucinazioni, se improvvisamente tutto il nostro scenario fatuo e posticcio, ci crollasse addosso, allora improvvisamente la nostra esistenza si rivelerebbe in tutta la sua cruda, squallida realtà: impresentabili, indegni, colpevoli, falsi. Allora, se avremo ancora un briciolo di umiltà per guardare nel profondo del nostro cuore, se avremo il coraggio di scendere nella nostra coscienza, nella nostra anima, potremo renderci conto che nel buio più totale, nonostante il nostro assoluto disinteresse, l’abbandono insensato di ogni nostra dignità, un piccolo spiraglio, un minuscolo raggio di luce è rimasto integro, intatto. È il nostro “marchio di fabbrica”, è lo Spirito divino che Dio, ha impresso in noi, a sigillo del suo amore; è quel “seme” di luce divina, eterna, inalterabile, che da sempre ci inabita: potremo fare le peggiori cose nella vita, potremo arrivare ad oscurare totalmente quella luce, potremo fossilizzarla, insudiciarla, ma non potremo mai, in nessun modo, distruggerla, cancellarla, demolirla.
È un po’ come scendere, dopo anni, in un locale completamente buio, abbandonato: non vediamo nulla, siamo avvolti nell’oscurità più totale, impenetrabile: ma sappiamo che al suo interno esiste silenziosa e invisibile una determinante, inestinguibile energia: dobbiamo solo premere un interruttore, e la luce immediatamente riesplode in tutta la sua brillantezza.
“Sii purificato!”. Ecco: Gesù aspetta che, nella nostra confusione, nel nostro rimorso e pentimento, ci decidiamo ad andare da Lui: e abbandonandoci tra le sue braccia, riusciamo finalmente a ripristinare il “contatto” con Lui, nostra Sorgente di Luce.
È l'unico modo per ottenere che il fascio luminoso, sfolgorante, del suo amore misericordioso, torni a illuminare il nostro cammino, a riscaldare il nostro cuore, a risanare le nostre ferite, a restituirci la nostra primitiva, nobile, divina, somiglianza col Padre. Amen.



giovedì 1 febbraio 2024

04 Febbraio 2024 – V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


 

Mc 1, 29-39 
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini. perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni.

Il vangelo di oggi ci presenta un Gesù in piena attività: predica, consola, scaccia i demoni, prega, guarisce tutti gli ammalati che incontra. Non fa a tempo ad uscire dalla sinagoga, che viene subito informato che anche la suocera di Simon Pietro è ammalata, è a letto con la febbre: e subito Lui la raggiunge e le tende la sua mano guaritrice.
Il vangelo non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta, e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi discepoli.
Potremmo quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.
Cerchiamo allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto più ampio.
Sappiamo, dal racconto di Marco sul malessere della “suocera”, che Simone è sposato, ha una famiglia, e possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la madre di sua moglie. Sappiamo che la sua attività di capo famiglia è la pesca, alla quale provvede nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà: un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, famigliari, attrezzatura e lavoro.
E allora pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della casa: Simon Pietro rappresentava pertanto il loro unico sostentamento.
C’è un verbo che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti usa il termine greco “purèssusa”, da “purèsso” che significa, oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato; avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira, arrabbiata furiosa, piena di risentimento, prima di tutto con il genero, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.
Appena Gesù viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.
Fra i due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”, si fa conoscere.
“La sollevò”: la donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si rasserena, si rialza cioè dal suo sgomento, dal suo profondo disappunto, dalle sue angosce per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene un’esperienza diretta. E lei finalmente si lascia andare. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”.
Non sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il capovolgimento dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: “si mise servirli”; il rancore si tramuta immediatamente in umile servizio, l’ostilità in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il volerlo evitare si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua completa disposizione.
Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza.
Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide le sue ragioni, allora tutta la sua animosità, il suo rancore, la sua febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, suo genero, di fronte alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di rassicurazioni. E Gesù gliele dà.
Esattamente come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
“Molti demoni”: certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!
Oggi, al contrario nessuno ne parla più, sembrano completamente spariti: in pratica, la gente non crede più al demonio. Un personaggio che non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste: quindi, tutti tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve preoccupare. È una favola d’altri tempi!
Ma noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, si dà da fare, eccome! Il Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza.
E i “demoni” che ci riguardano sono tanti: “demoni”, per esempio, sono tutte le continue lusinghe del male, accattivanti promesse di felicità, luci scintillanti del peccato, che accecano completamente la nostra ragione. Noi stessi possiamo essere autentici “demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce lo Spirito di Dio, la nostra coscienza; “demoni” siamo noi quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari, non appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.
Come combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è così, non è comportandoci da arroganti, da presuntuosi, che possiamo vincere i nostri demoni occulti e astuti! Amen.

 

giovedì 25 gennaio 2024

28 Gennaio 2024 – IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 21-28 
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga [a Cafarnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 È sabato, giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, seguito dai quattro discepoli appena scelti, entra nella sinagoga di Cafarnao e, senza tanti preamboli, si mette ad insegnare ai presenti. 
Per inciso: sappiamo dai vangeli che Gesù non è mai entrato nelle sinagoghe per pregare o partecipare a qualche riunione: qui lo fa, ma come sottolinea Marco, solo ed esclusivamente per insegnare!
Un comportamento il suo, con cui forse voleva farci capire che certe preghiere, certe catechesi o letture teatrali, oggi come allora, non sono per niente gradite a Dio.
Il che, tradotto in chiaro, ci porta a pensare: se le nostre preghiere, le celebrazioni e le liturgie delle nostre chiese non sono compiute con fede, esclusivamente a lode di Dio, se non si trasformano in vita cristiana vissuta, in amore, passione, coraggio, fiducia, in apertura e solidarietà verso i fratelli, rimangono soltanto delle “sacre” rappresentazioni, spesso neppure belle ed edificanti, che lasciano Dio completamente indifferente; se le nostre liturgie si limitano ad un insieme di movimenti sciatti, disordinati, meccanici, consunti dall’abitudine, se la nostra partecipazione è soltanto distratta ripetizione delle solite formule, senza alcuna convinzione, senza presenzialità, consapevolezza, spiritualità, ebbene: sono celebrazioni che non servono assolutamente a nulla, che non riusciranno mai a creare quella particolare atmosfera soprannaturale attraverso cui poter incontrare, ringraziare, lodare, il Dio della Vita.
Ecco perché le liturgie devono veramente emozionare, devono appassionare il nostro cuore, potenziare la nostra fede, le nostre risorse; devono soprattutto soddisfare la nostra anima creando quell’incontro specialissimo con l'Infinito, con il Dio Amore, che ha scelto di “rimanere” con noi, in noi.
Gesù dunque entra nella sinagoga, legge, spiega, in una parola, “insegna” e la gente si “stupisce”; rimane sorpresa, ammirata, (in greco “exeplessonto”, “sbalordivano, rimanevano sconvolti”), da ciò che dice, da come parla, perché lo fa con “autorità”, con credibilità, convinzione e fascino: la sua esposizione è decisamente superiore a quella degli scribi; tutti i presenti si rendono conto che, a differenza loro, le sue parole provengono direttamente da Dio, le sentono scendere in profondità nei loro cuori, cariche di umanità, di vita, di liberazione.
“Non come gli scribi”: un giudizio forte, pungente, quasi impietoso, questo di Marco, ma assolutamente veritiero, concreto, reale: con Gesù non c’è “scriba” che possa competere!
Un parere conciso, di quattro parole, che ci invita a riflettere seriamente: noi, che ci riteniamo cristiani osservanti, noi che partecipiamo assiduamente alle liturgie della Chiesa, che pensiamo di conoscere bene la sua Parola, che talvolta siamo chiamati anche a proclamarla nell’Eucaristia domenicale, ebbene proprio noi dobbiamo stare molto attenti a non trasformarci in altrettanti “scribi”; dobbiamo cioè svolgere sempre i nostri piccoli “ruoli” con grande umiltà, consapevoli dei nostri limiti, per evitare che un minuscolo servizio a Dio, diventi occasione di vani personalismi, di puerili protagonismi.
“Vigilate”, ci suggerisce tra le righe il vangelo: perché lo “spirito impuro” dell’orgoglio, può introdursi con grande facilità nell’animo di tutti.
Ma chi erano esattamente questi “scribi”? Inizialmente erano dei semplici funzionari incaricati a “trascrivere”, a ricopiare, i testi sacri (in greco “grammatèus” = scrivano, amanuense), che gradualmente si sono imposti nella comunità con una autorità così esclusiva, da ritenersi superiori allo stesso sommo sacerdote, superiori persino alla stessa Torah, della quale si dichiaravano infallibili interpreti, unici studiosi autorizzati a commentarla in pubblico nelle sinagoghe: quando parlavano era come se parlasse Dio stesso in persona. Solo che i loro interventi, i loro insegnamenti, erano diventati stucchevoli, monotoni, sempre uguali: praticamente consistevano in aridi interventi cavillosi, tenuti esclusivamente per lanciare accuse, critiche e rimproveri contro le inosservanze nella condotta dei presenti. Il risultato? Una tortura, poiché tutti, chi più chi meno, si sentivano colpevolizzati e mortificati: nessuno infatti avrebbe potuto ritenersi del tutto innocente di fronte ai 613 precetti della legge mosaica, particolarmente rigida e intransigente.
Poi nella sinagoga arriva Gesù: con le sue parole autorevoli, con la sua legge dell’amore, egli fa scoprire dai presenti un insieme di nuove emozioni, di sentimenti completamente nuovi, che in un attimo annullano quel clima rigido e terrificante che condizionava il loro rapporto personale con Dio. In sostanza Gesù dice: “Dio vi ama tutti, proprio tutti; vi ama come figli suoi, di un amore senza limiti; questa è la buona notizia (eu-anghèlion = il vangelo) che vi sto annunciando. Non ha importanza se pregate esattamente come ordina la legge, oppure no, se siete in regola con le purificazioni oppure no, se siete dei credenti perfetti oppure no: Dio vi ama, sempre e comunque, al di là di queste cose. Egli ama ciascuno di voi in maniera esclusiva, a prescindere da come siete, da come vi chiamate, da come vi presentate”.
Parole autorevoli, convincenti, completamente nuove e diverse da quelle degli scribi: parole che offrono nuove prospettive di salvezza; parole che infondono vigore nei cuori dei presenti, poiché hanno finalmente compreso il valore rivoluzionario, innovativo e risanante, di termini sconosciuti come “liberi, riscattati, apprezzati, amati da Dio”. E lo dimostrano apertamente, esternando a gran voce la loro profonda soddisfazione.
Nella sinagoga, tra i tanti, c’è anche un uomo “dallo spirito impuro”, che improvvisamente si mette a urlare; il suo spirito (ruah) non è quello di Dio, ma appartiene al male, è “impuro”, è contrario a Dio; egli inveisce con rabbia, con odio, contro la persona di Gesù, che ha appena parlato di salvezza, di misericordia, di amore: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”.
Anche qui il testo ci porta a fare alcune riflessioni: prima di tutto, perché questo tizio parla al plurale? Che ruolo pensa di interpretare attribuendosi l’autorità di parlare a nome degli altri? È chiaro che anche qui, come sempre, il maligno intende rappresentare tutti gli uomini, ed è a nome della collettività che egli si esprime usando il plurale. Ma perché tanta avversione nei confronti di Gesù e del suo messaggio? In fin dei conti il Maestro entra nella sinagoga e predica tranquillamente; solo che, fatto singolare, questa volta la gente capisce perfettamente quello che l’oratore espone, lo apprezza e si immedesima immediatamente nella bontà delle sue parole: è questo il motivo cruciale dell’avversione di satana.
In pratica, con la sua travolgente novità di un Dio che ama l’umanità intera in maniera costante, profonda, gratuita, Gesù distrugge quella che è la teologia ufficiale, l'insegnamento tradizionale degli scribi. Da qui la furia dello “spirito immondo”, l’avversione rabbiosa contro Gesù, e contro quel Dio che Egli vuol far conoscere a tutti.
Le persone che lo stanno ascoltando, sono dei poveracci, imbottiti di tradizioni antiche, di superstizioni popolari, di leggi opprimenti: le autorità religiose hanno sempre insegnato loro che Dio è vendicativo, terribile, crudele, che può distruggere, in caso di peccato, intere città: e tutti, indistintamente, soggiogati dalla tradizione ebraica, ne sono fermamente convinti.
Sono l’immagine di chi non pensa: sono solo dei “pensati” da altri. Non vivono: sono gli altri che vivono per loro. Non possono neppure giustificarsi, dicendo: “Io faccio solo quello che mi hanno ordinato; obbedisco e basta!”, perché tutti abbiamo una testa con cui pensare e ragionare; e qualunque cosa facciamo, siamo solo “noi” che la facciamo, siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni, è nostra unica responsabilità accettare o rifiutare la voce di Dio.
Nei vangeli Dio non chiede mai l'obbedienza. Possiamo leggerli e rileggerli, e non troveremo mai, neppure una volta, Gesù che chiede di “obbedire” (upakòuein) a Dio. Mai!
Le parole “obbedire, obbedienza”, sono presenti due sole volte in Marco, e quattro in tutti gli altri vangeli (Cfr. Mc 1,27; 4,41; Mt 8,27; Lc 4,36; 8,25; Gv 3,36): ma non è mai riferita all’uomo; quelle che obbediscono sono sempre le forze della natura o quelle del male, ostili a Dio: una di queste volte è infatti presente nel vangelo di oggi: “gli spiriti impuri obbediscono (upakòuûsin) a Gesù!”. Gesù dunque non ci chiede mai di obbedire a Dio: ci chiede piuttosto, ripetutamente e caldamente, di assomigliare, di imitare Lui e il Padre (Cfr. per esempio Lc 6,36-38; Gv 13,14; 15,10.12); una cosa che, riuscendo ad attuarla, ci spalancherebbe nuovi orizzonti.
“Che vuoi da noi Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”. Domande folli, irrazionali, da dissennati, di chi non vuole arrendersi all’evidenza: eppure quante volte assomigliamo anche noi all’indemoniato della sinagoga! È proprio così: ce ne stiamo nascosti, indifferenti, ma quando Gesù ci smaschera, quando ci mette di fronte alle nostre responsabilità, ai nostri sotterfugi, reagiamo anche noi urlando: Che vuoi tu da me?”; ma Gesù, con uno sguardo, manda in frantumi la nostra arroganza, le nostre solide impalcature, i nostri progetti, i nostri alibi: come un uragano, spazza via ogni nostra illusione, e tutto ciò che noi credevamo vero, reale, remunerativo, si dimostra falso, inesistente, fallimentare!
“Taci! Esci da lui!” sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: sono le Parole con cui Egli ci salva, ci libera dai nostri demoni; sono le uniche Parole che possono estirpare dal nostro cuore, dalla nostra mente, tutti quegli “spiriti immondi” che ci posseggono, e guarirci.
Guarire per mano di Gesù, venire risanati, perdonati sacramentalmente, è un evento di misericordia, di amore straordinario, meraviglioso: ci fa sentire nuovamente liberi, leggeri, ci restituisce la nostra identità, la nostra dignità, la nostra serenità, la nostra vita.
Ma guarire a volte “fa anche male”, è addirittura “straziante”, doloroso; perché significa strappare violentemente dal nostro cuore lo spirito impuro; dobbiamo cioè distaccarci radicalmente da tutto ciò che credevamo certezza, libertà, fantasia creativa, vita (spirito) e che, al contrario, si è rivelato nient’altro che insicurezza, schiavitù, distruzione, morte (impuro).
È un’esperienza dura, un’esperienza dolorosa che richiede coraggio: perché significa aprire, spalancare, quelle porte sbarrate, che ci rifiutiamo sempre di aprire, sapendo che nascondono realtà che ci fanno vergognare, scelte spiritualmente velenose, detestabili.
Inutile tentare la fuga, inutile opporci a tale purificazione: per risorgere a nuova vita, dobbiamo necessariamente scendere nel nostro intimo e con la fiamma del dolore, del rimorso, cauterizzare le ferite inferte dal maligno.
Percorrere la vita sulle orme di Cristo, non è un gioco; richiede tutto il nostro impegno: perché è molto meglio prevenire la cancrena, che dover poi ricorrere a dolorose amputazioni.
In questo non basta essere prudenti, aver timore, ma è necessario misurarci, combattere con coraggio, fronteggiare quel nemico che è sempre pronto a colpire, a lacerare, a straziare la nostra anima. Non permettiamogli scioccamente di anestetizzarci: è il suo mestiere, e lo sa fare molto bene.
Pietro, nella sua prima lettera, ci mette in guardia proprio da questo; scrive infatti: “adversarius vester diabolus, tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret”; come un leone ruggente va cercando qualcuno da divorare; “cui resistite fortes in fide”, resistetegli, saldi nella fede; infatti, prosegue Pietro, “dopo che avremo sofferto, Dio ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà… (1Pt 5,8-10). Adottiamo questa raccomandazione come nostro programma di vita: perché, dopo la sofferenza, avremo anche noi da Dio, serenità, conforto, amore infinito. Amen.

 

giovedì 18 gennaio 2024

21 Gennaio 2024 – III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 14-20 
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Gesù dopo il Battesimo e la sua successiva permanenza nel deserto “delle tentazioni”, per recarsi a Cafarnao, passa lungo le rive del “mare” di Genezareth; è qui che incontra Simone e Andrea, due fratelli pescatori, che stanno gettando le reti, e li invita a seguirlo per diventare suoi discepoli.
Non sappiamo cosa Gesù abbia notato di tanto interessante in loro: due poveretti che stavano semplicemente facendo il loro lavoro: un lavoro povero, umile, indispensabile per la sopravvivenza, che non aveva assolutamente nulla in comune con la missione che Gesù voleva loro affidare. Ma Egli vede più lontano di noi; capisce al volo le possibilità, i pregi e i difetti di quanti incontra; lo capisce dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Egli dunque li osserva (“vide”) mentre svolgono il loro lavoro, come affrontano le difficoltà del momento, come si comportano, e ciò gli basta.
“Se mi seguirete, Vi farò diventare pescatori di uomini”, dice loro a bruciapelo. 
È una proposta sconvolgente, un programma di cambiamento radicale che avrebbe rivoluzionato totalmente la loro esistenza. Ma loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Anche se in seguito li troviamo a fare lo stesso lavoro con le reti, (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), anche se continuano a fare le stesse cose di prima, anche se intrattengono gli stessi rapporti con i loro familiari, i loro amici, tuttavia non sono più gli stessi: perché è la loro mentalità, è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: ciò che è completamente cambiato, è il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca e la casa erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’Amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non da un lavoro, non da una casa! Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro città o in campagna, ma non può in alcun modo amarci. Così pure una barca, una professione, un lavoro, non possono amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per vivere, ci garantisce un certo benessere, un qualche prestigio sociale. Ma non può amarci!
Ma se i beni, il lavoro, le ricchezze, non ci possono amare, e senza amore non possiamo essere felici, perché continuiamo a sognare dimore sontuose, ricchezze e beni incalcolabili? Perché continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione, al di sopra di tutto e di tutti?
Ecco, proprio in questo deve consistere il nostro cambiamento, la grande “conversione” della nostra vita. Se siamo convinti che la felicità risieda in quello che facciamo, in quello che abbiamo, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone.
È vero: la società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto, è l’assoluto; ci investe continuamente con i soliti paroloni, sempre gli stessi, che si rincorrono con frequenza e precisione maniacale: lavorare, produrre, consolidare la carriera, orari sempre più lunghi, impegni sempre più gravosi, concorrenza sfrenata, libero mercato, globalizzazione, soldi, tanti soldi. Ma sono chimere, soltanto stupide chimere! La ricchezza, il benessere, la carriera non fermano il tempo: la vita continua a scorrere inesorabile, e solo se rientreremo in noi, capiremo che tutto ciò, tranne l’amore, è solo spazzatura.
Se scorriamo le pagine del vangelo, troviamo forse scritto che Gesù ha lavorato senza sosta, che è stato ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che ha perso la calma per non aver raggiunto qualche “target”? Assolutamente no; lo troviamo invece sempre impegnato a dare e ricevere amore e amicizia, ad usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Gesù infatti non era ricco: ma come uomo era sicuramente molto amato e molto felice, proprio perché era “libero” da preoccupazioni temporali.
Ecco: non potremo mai essere autentici discepoli di Cristo, non potremo mai essere la sua Chiesa, se non ci allontaneremo anche noi dalla mentalità del mondo. Il termine stesso di Chiesa, in greco “Ecclesìa”, vuol dire letteralmente “i chiamati fuori”, persone speciali, uniche, cioè, che non agiscono per far piacere agli altri, per avere la loro approvazione; persone, al contrario, che si sono completamente “affrancate” da qualunque tipo di pressione interiore, persone che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello a cui sono state chiamate, con amore e generosità, spinte non dall’ansia di ottenere ricompense, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
Per noi però non è così facile convertirci, rinunciare a noi stessi: non siamo per nulla entusiasti ad abbandonare ciò che siamo, ciò che sappiamo, ciò che viviamo, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, di impegnativo: noi siamo abituati nella nostra vita a muoverci sempre con garanzie, certezze, assicurazioni; vorremmo cioè che il mondo girasse sempre come vogliamo noi; siamo reticenti, non ci sentiamo ancora pronti a seguire Gesù, preferiamo rimanere seduti lungo la riva del lago, a riparare le nostre reti sdrucite!
Ma quando Gesù chiama, questo non è ammissibile, è semplicemente assurdo!
La vita che Gesù ci prospetta, è invece completamente diversa: dobbiamo semplicemente abbandonarci, fidarci, lasciar fare a Lui, senza alcuna pretesa, senza alcun diritto, senza calcoli pretestuosi.
Dobbiamo convincerci, che quel “venite dietro a me”, più che un ordine, è una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di incalcolabile valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una “imitazione”, ad una “sequela”, sicuramente non facile, ma sempre commisurata alle nostre possibilità: dobbiamo solo avere il coraggio di seguirlo, di fare il primo passo, di non resistergli, e come i primi discepoli, Lui trasformerà anche noi in “pescatori di uomini”.
Già, perché è proprio questo che noi, oggi, dobbiamo essere nella sua e “nostra” Chiesa: “pescatori di uomini”. La necessità è evidente: oggi infatti la Chiesa sta rinunciando al suo mandato divino di essere “mater et magistra”, alla sua fondamentale missione pastorale: si lascia irretire dalle tentazioni mondane, dalla notorietà, dal desiderio di essere “diversa”, di esibirsi, di ottenere facili consensi dal mondo, applausi e ovazioni mediatiche; si illude che spalancando semplicemente le sue porte, i figli lontani, i non credenti, i senza Dio, meravigliati e spinti da questa sua innovativa, affrancante, generosa accoglienza, si precipitino in massa a riempire i suoi spazi: ma non è così! Perché “seguire Cristo come suoi discepoli”, consiste in ben altro: noi tutti, infatti, siamo stati scelti e chiamati non per inseguire e giustificare le paradossali e futili scelte di vita del mondo attuale, ma per annunciare, diffondere, proclamare con fermezza i valori intangibili della nostra fede, quei principi irrinunciabili che la moderna società, refrattaria a qualunque suo adeguamento alla morale cristiana, rifiuta e oltraggia, giudicandoli deliranti, farneticanti, anticaglie d’altri tempi.
Oggi anche nella Chiesa la parola d’ordine è “libertà”, autonomia di giudizio, adattabilità e apertura su tutto, a tutti: la Chiesa deve materialmente aprirsi, deve spalancare le sue porte al mondo, deve uscire nel mondo, deve identificarsi col mondo, percorrendo strade e crocicchi, invitando chiunque alle nozze dello Sposo: solo che purtroppo, in tanto marasma, nessuno dei suoi “messaggeri” si ricorda più di fare qualche cenno all’obbligo di indossare la “veste nuziale”; oggi, nel moderno banchetto ecclesiale, è completamente scomparsa la figura magistrale del “responsabile di sala” con il compito specifico di “vigilare” preventivamente che il cibo servito ai commensali, provenga rigorosamente dalle scorte del Vangelo, evitando così che la moltitudine accorsa si nutra di cibo avariato, intossicato dal relativismo ateo e gaudente della società contemporanea.
La Chiesa cattolica sta purtroppo progressivamente allontanandosi dalla sua regale e divina prerogativa, di essere cioè immagine vivente, espressione visibile di Cristo, suo fondatore; sembra cioè che le sue urgenze siano altre, che abbia in particolare rinunciato del tutto al suo compito di “nutrire” con la Parola le folle, di “guarire” i feriti dal maligno, di “risuscitare” i peccatori, morti alla Grazia, esattamente come Gesù ha insegnato di fare.
Così, però, quel “fumo di satana”, tanto temuto dai santi pastori di un tempo, sta progressivamente invadendo, ammorbando e soffocando i suoi settori vitali.
Ci consola e ci sostiene la promessa di Cristo: “Io sarò con voi fino alla fine del mondo - èos tès suntelèias tù aiònos” (Mt 28,20). Ed è vero: perché ci sarà sempre nella Chiesa un insopprimibile manipolo di umili e santi profeti, che con la loro voce, le loro preghiere, la loro predicazione e la loro vita esemplare, riusciranno ad epurare ogni sudiciume e, come già il profeta Giona per la biblica Ninive, scongiureranno la totale distruzione della Casa di Dio terrena.
È quindi al seguito di questi degni, instancabili e fedeli “pescatori”, che anche noi dobbiamo prontamente tornare al “metodo” insegnato da Gesù; non abbiamo più molto tempo, non abbiamo secoli a nostra disposizione, perché, come ci ricorda Paolo, “il tempo si è fatto breve!” (1Cor 7,29). Ma esattamente qual è questo “metodo” di Gesù? È amore, misericordia, condivisione, fraternità, formazione: Egli per tutti è stato padre, pastore, medico, taumaturgo: guardava le persone, le amava, le conquistava.
Il suo era un amore profondo, concreto; un amore misericordioso, fatto di accoglienza, di ascolto, di empatia, di conforto, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia; ma era anche, non dimentichiamolo mai, un amore esigente, esclusivo, severo, attento, un amore che quando necessario, rovesciava banchi e mercanzie, sferzava venditori e ladri che occupavano vergognosamente l’area del sacro Tempio.
L’uomo contemporaneo, galvanizzato, stordito dal falso e indecente edonismo ateo, vive pertanto nella necessità vitale, di percepire, di sentire, di “toccare” con mano, questo amore, questa agàpe che è Dio stesso; ha estrema urgenza di questo amore che, unico nella sua simbiosi di misericordia e giustizia, riesce a illuminare la sua mente, trasformare il suo cuore, risanare la sua anima. Noi per primi, abbiamo personalmente bisogno di questo amore. La Chiesa tutta, comunità di cristiani, ne ha assoluto bisogno! Amen.