giovedì 27 luglio 2023

30 Luglio 2023 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 13,44-52
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Il vangelo di oggi parla del Regno dei cieli e per spiegarlo ci presenta tre similitudini: il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo, ad un mercante alla ricerca di perle preziose e infine ad una rete gettata in mare per la pesca. La prima e la seconda sono molto simili, il tema è identico: trovare il Regno dei cieli significa scoprire qualcosa di molto prezioso.
Vediamole più da vicino: l’uomo della prima similitudine, un contadino, mentre sta dissodando un campo, trova sepolto nel terreno un tesoro molto prezioso, un’autentica fortuna: lo nasconde nuovamente, e per impossessarsene vende tutto quello che possiede e compra quel campo.
La seconda allegoria racconta invece di un commerciante alla ricerca di perle preziose. Trovatane una particolarmente splendida, vende tutto pur di comprarla.
Ora, mentre il primo trova il tesoro per pura casualità, il secondo lo trova dopo una lunga e meticolosa ricerca. In ogni caso, entrambi trovano un oggetto di così grande valore, da rendere insignificante quanto già possiedono. Nessun prezzo infatti è adeguato al valore di quel tesoro e di quella perla.
Le due similitudini ci dicono in sostanza che Dio, il “Regno dei cieli”, è un qualcosa di meraviglioso, di incredibile, un qualcosa che non ammette confronti: il suo valore è talmente elevato che per ottenerlo è necessario rinunciare a tutto quanto si possiede.
Ebbene, Dio è questo “tesoro nascosto”: è lo Spirito di Dio che ci inabita fin dal primo istante della nostra esistenza, dal momento in cui il Padre celeste ha “alitato” in noi la Vita.
Se lo scopriamo veramente, se lo sperimentiamo, diventerà poi impossibile abbandonarlo: perché è Lui che ci spinge a diventare noi stessi, ad osare, a realizzarci come persone, a cercare sempre nuove soluzioni per servirlo; Lui ci stima, ci ama e ci fa sentire amati; con Lui ritroviamo la nostra autonomia di vita e di pensiero, diventiamo liberi, vinciamo le paure; è grazie a Lui che sentiamo sprigionarsi dentro di noi il fuoco della vita e dell’amore.
È impossibile fare a meno di Lui, siamo stati creati a sua “immagine”, portiamo impresso dentro di noi il suo indelebile marchio di fabbrica. Quando alla domenica le omelie della messa spiegano cosa deve fare il cristiano per custodire questo “tesoro unico”, sentiamo insistere soprattutto sulla necessità di pregare, di andare in chiesa, di frequentare piamente riti e liturgie; ma Dio non è una preghiera, non è una cerimonia (ancorché sublime), non è una professione di fede; non è un “Credo” o un “Padre nostro” recitati insieme ai presenti, magari pure distrattamente: Dio non è un qualcosa di statico, di immobile, di lontano da noi, in attesa di venire raggiunto dalle nostre svogliate e frettolose “incensazioni” spirituali.
Dio per chi crede è coinvolgimento, è dinamismo, è azione: non è una “scoperta” puramente casuale, come il tesoro nel campo, oppure una gemma rara, cercata e voluta caparbiamente, come la perla preziosa. A Dio non basta un’ora di preghiera al giorno; Dio non vuole che gli dedichiamo “una parte”, ancorché importante, della nostra vita: lui la vuole tutta. Lui vuol fare “alleanza” con noi, vuole “sposarsi” con noi, vuole rapirci, prenderci, assorbirci completamente. Perché ciò che Lui ci offre è amore allo stato puro, è passione che travolge, è necessità di un’altra vita per amarlo come merita. Basta solo un suo sguardo penetrante, amoroso, indulgente, per rapirci, per santificarci.
È infatti esattamente questo che Gesù faceva quando incontrava le persone: non guardava l’esteriore, non la bella presenza, ma l’anima, lo Spirito che le inabitava. È stato così con Maria Maddalena: mentre tutti vedevano in lei una donnaccia, una corrotta, una di malaffare, Lui vedeva il suo valore, la sua potenzialità, la sua dote spirituale, la sua sincerità interiore. E con questo la salvò. Lo stesso fece con Pietro, Matteo e tutti gli altri, gente comune, persone che si sentivano insicure e inadeguate. Ma Gesù le valorizzò, le amò, credette in loro, le trasformò, divenne in loro quel “tesoro nascosto”, quello Spirito che animò e trasformò radicalmente la loro vita.
Lo stesso è successo e succede anche per tutti noi: Dio è sceso in noi con il suo Spirito di vita, è la gemma che ci impreziosisce, è la nostra guida inseparabile, insostituibile; purtroppo, però, quanti si preoccupano oggi veramente di Lui? C’è ancora qualcuno, nella nostra società evoluta, che si renda conto della Sua intima e preziosa presenza? Certo, se siamo continuamente occupati a cercare soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, tranquillità, non potremo mai accorgerci di Lui: basterebbe anche poco per scoprirlo, ma preferiamo lasciarlo solo, nell’indifferenza, nell’abbandono più totale.
Allora, scendendo nel concreto, dovremmo chiederci: “Chi o cosa cerco io nella mia vita?”.
In particolare: “Dove cerco?”. Se pensiamo infatti che la felicità assoluta risieda in qualcuno o in qualcosa “fuori” da noi, il nostro cercare sarà inutile, continueremo cioè a cercare per tutta la vita e non troveremo mai nulla, perché il “tesoro” che dobbiamo cercare non è fuori di noi, ma dentro di noi. Trovarlo, significa appunto riscoprire quell’immagine, quella somiglianza divina che Dio ha impresso in noi fin dalla nostra nascita, significa “ricopiarla”, significa “dimostrarla” all’esterno con la nostra vita: sì, perché il “nostro” tesoro, la perla più preziosa, l’essenza del nostro vivere, è la nostra anima che si specchia costantemente in Dio.
Per questo dobbiamo cambiare metodo di ricerca, per questo la nostra vita deve necessariamente cambiare. Anche se gli altri ci deridono, anche se ci prendono per dei fuori di testa, noi in cuor nostro sappiamo perfettamente chi e cosa cercare.
Anche i due uomini della parabola si comportano da folli, da pazzi, perché, pur di entrare in possesso del “tesoro”, si disfano di ogni loro avere: lasciano il certo per l’incerto, vendono tutto quello che hanno, si spogliano di tutto, pur di ottenere un tesoro di cui ancora non conoscono il valore reale. Cose veramente da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, per i folli, perché non ci chiede qualcosa, ma pretende tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale, lo vuole tutto, lo vuole completo.
Ed è vero. Sono molte infatti le situazioni belle, soddisfacenti, che assorbono in maniera molto particolare la nostra vita; fatti che ci cambiano intimamente, in profondità, che ci maturano: come amare e prodigarsi per la propria famiglia, godere della costante presenza di amici sinceri, assistere alla nascita dei propri figli, seguendoli poi nella crescita, nella loro formazione e maturazione: ma “Panta rei”, dicevano i pensatori greci, tutto scorre, tutto passa: anche queste realtà così intime e vitali sono destinate, prima o poi, a “trasformarsi”, ad attenuarsi, a normalizzarsi: la famiglia, gli amici, pur coinvolgendoci profondamente, non rappresentano il “per sempre” divino della nostra esistenza: un semplice fatto tragico, un evento doloroso, possono modificare radicalmente, improvvisamente, la nostra vita, le nostre certezze; i figli stessi si allontaneranno, si staccheranno da noi per seguire la loro vita, i loro ideali.
Ebbene, Dio è molto più di tutte queste cose “transitorie”: più appassionante di un figlio, più disponibile di un amico vero, più impegnativo di qualunque progetto meraviglioso, più indispensabile di quanto riteniamo essenziale per la nostra vita. Il vangelo di oggi ci fa capire appunto che Lui è la “cosa” più bella in assoluto, che viene al primo posto nella scala dei valori, che è il più importante in assoluto perché va oltre i nostri limiti temporali: per Lui non esiste un “termine”, dopo il quale scomparirà lasciandoci soli. Una volta che l’avremo trovato, Egli rimarrà per sempre, per l’eternità, il nostro “tesoro prezioso”, la nostra “perla di inestimabile valore”.
Il Regno dei cieli infine è come quella “rete” gettata in mare per la pesca. Tutti noi, un giorno, saremo chiamati a tirarla fuori per dimostrare ciò che abbiamo “raccolto” nel corso dell’intera nostra vita: a quel punto non servirà più appellarsi a scuse di mare “troppo calmo” o “troppo tempestoso”: quello che abbiamo fatto, è fatto. Quello che conta allora è soltanto l’effettiva qualità del nostro “pescato”: le iniziative positive, le buone azioni, gli atti d’amore che hanno valorizzato la nostra vita. Se nella nostra rete non abbiamo di queste risorse, se cioè in vita non ci siamo preoccupati di mettere dei paletti, non abbiamo saputo controllare il nostro egoismo, il nostro orgoglio, non abbiamo saputo accettare e superare le prove dolorose, esprimere i nostri sentimenti di carità, se non abbiamo creato punti di forza, di ancoraggio, a salvaguardia della nostra fede, non avremo bisogno di condanne, perché capiremo immediatamente da soli il nostro fallimento, e saremo noi stessi che ci consegneremo agli angeli, incaricati di allontanarci dall’Amore eterno. Inutile qualunque recriminazione: dovevamo pensarci prima! Dovevamo “costruire” prima la nostra salvezza, perché il tempo dell’azione è la vita, è l’oggi, è ora: Il nostro benessere futuro, la nostra salvezza, il nostro entrare a far parte del Regno di Dio, dipende solo dall’impegno, dalla costanza, dal sacrificio, dall’amore, che mettiamo nella nostra “pesca” attuale; il suo risultato “miracoloso” dipende quindi da noi, dalle nostre scelte di vita: “a chi ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. Non c’è alternativa: se ci presenteremo con “pesce avariato”, se nulla di buono uscirà dalla nostra “rete”, finiremo gettati “nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.
Non servono corsi di teologia per capire il significato profondo di queste parole. Non le dico io, è Gesù che le dice: e per evitare che qualcuno le equivochi o le traduca in maniera più “buonista”, come tanto volentieri si fa oggi, Gesù chiede di proposito ai suoi discepoli: “Avete compreso tutte queste cose?». Ed essi, umili e convinti, gli rispondono: “Sì”; hanno capito e per loro tutto è chiaro: ma noi, cristiani di oggi, abbiamo veramente capito bene? Amen.

  

giovedì 20 luglio 2023

23 Luglio 2023 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
13,24-43 
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!»

È la celebre parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è; non sono cioè d’accordo con quanto Egli intende qui insegnare. Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà difficilmente accettabile, una situazione in contrasto con la loro idea di “discepolato”. 
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Durante la notte però il nemico, sempre pronto a colpire, vi semina sopra la “zizzania”, una graminacea altamente tossica, molto simile al frumento, e quindi non riconoscibile fino alla maturazione di entrambi i semi.
Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che gli apostoli non prendano molto bene la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata dagli interventi velenosi del maligno, la loro missione evangelica: perché accettare passivamente tale possibilità? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe meglio metterlo subito in condizione di non nuocere? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) sul nascere, si corre il rischio di estirpare anche il bene (il grano) poiché le radici di entrambi risultano strettamente intrecciate fin dal loro nascere.
Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole, non sta a noi giudicare in partenza chi è buono e chi è cattivo.
Nel libro della Genesi, nel raccontare la creazione del mondo, la Bibbia non dice che “prima” non c’era nulla, ma che c’era il “caos”, l’informe, l’indefinito. Cioè: c’era “un qualcosa”, ma non spiega chiaramente cosa fosse. L’opera di Dio creatore è stata pertanto, prima di tutto, quella di “distinguere” (termine più appropriato del nostro “separare”) le cose: di conferire cioè ad ogni elemento, con il nome, anche le rispettive caratteristiche: così la luce e il buio; le acque e la terra; le acque del mare e le acque del cielo e via dicendo.
Ebbene: questo è esattamente ciò che siamo chiamati a compiere anche noi nella nostra vita: distinguere, discernere, individuare ciò che è bene e ciò che non lo è, per seguire l’uno e combattere l’altro, per tornare ad essere alla fine quelle creature che Dio ha espressamente voluto a sua immagine.
Gesù ci ricorda a questo proposito che nel mondo non ci siamo solo noi, non siamo noi gli unici “lavoratori” impegnati su questa terra; per questo dobbiamo essere molto guardinghi, perché siamo circondati da una quantità infinita di operatori del male. Nella nostra vita, nel nostro piccolo “terreno” privato, per esempio, non siamo gli unici ad occuparci di “semina”, a renderci cioè autonomi nelle nostre scelte esistenziali: prima di noi infatti hanno seminato i nostri genitori, le persone che abbiamo incontrato, gli anni della nostra infanzia con le sue ideologie, le esperienze vissute, le paure, le ansie. La nostra attuale esistenza quindi non è “un nostro prodotto esclusivo”, ma il risultato di numerose concause, dell’intervento di molteplici “seminatori”. Saremmo degli illusi infatti se oggi pretendessimo di presentarci unicamente come “quel grano pregiato”, frutto della semina iniziale del Padrone; perché in realtà siamo il prodotto di un amalgama informe, costituito da condizionamenti, interferenze, intrusioni nefaste (le mode, la televisione, i media, il sociale), con cui necessariamente dobbiamo convivere.
Cosa ci fa capire allora questa parabola? Che chi vive in questo mondo è libero di spargere, su qualunque terreno, ogni seme a suo piacimento: salvo poi ovviamente dover rendere ragione a Dio delle proprie iniziative, se velenose, letali, mortifere.
Noi però, di fronte a tali cattiverie, a queste forme sempre nuove di “zizzania”, dobbiamo comportarci sempre come Gesù ci ha insegnato: con pazienza, con rassegnazione, con grande “carità”; dobbiamo cioè accettare comunque queste “disgrazie”, considerandole addirittura come “dono” di Dio; e non solo: perché sappiamo che di fronte all’odio, alle malignità, alle prepotenze altrui, nostro dovere è di reagire col bene, intensificando le nostre “semine” della Parola di Dio, rendendole ancor più abbondanti e incisive nella loro positività, nella fratellanza, nell’amore.
Ma anche in ciò, non dobbiamo pretendere di essere talmente bravi, da ottenere dal nostro impegno soltanto grano di prima scelta: dobbiamo invece fare sempre i conti con quel mix di sementi negative che, radicate in noi, sono diventate ormai “nostra zizzania”, talvolta anche della peggiore specie. È purtroppo con questa dicotomia di bene e male, fenomeno naturale e inscindibile dell’animo umano, che la nostra semina nei fratelli, le nostre scelte di vita, e infine la nostra personale mietitura finale, devono continuamente fare i conti.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma Gesù: “Fai attenzione, perché se nella pretesa di produrre nel tuo campo soltanto grano superiore, decidi di separarlo dalla zizzania, non ti rimarrà in mano niente di niente. Accettati invece umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue debolezze”.
Ascoltiamolo allora questo suggerimento di Gesù! Non ostiniamoci a voler strafare; non pretendiamo ad ogni costo una perfezione “assoluta”, al di sopra delle nostre possibilità. Cerchiamo invece di capire bene che il grado di perfezione, al quale Gesù ci ha chiamati, consiste nel concretizzare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che il Padre stesso ha tracciato per noi fin dalla nascita. Un programma adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, dei nostri limiti. Il Signore, infatti, ha ottenuto i migliori risultati proprio con persone nient’affatto perfette: con peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli infatti non teme i nostri errori; Egli “teme” piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo quel ruolo di suoi umili servitori, che rappresenta lo scopo reale della nostra vita.
E concludo: l’uomo “perfettissimo” non esiste; tutti, chi più chi meno, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo anche vittoriosi, ma in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza, la nostra meschinità. Consapevoli di ciò, affrontiamo comunque con decisione e umiltà l’impegnativa scalata alla nostra perfezione, cercando di trasformare le nostre vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio, a beneficio dei nostri fratelli. Amen.

 


giovedì 13 luglio 2023

16 Luglio 2023 – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
13,1-23 
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto distaccarci da quell’enorme vortice di pensieri, di preoccupazioni, di ambizioni, di distrazioni, che come un frullatore agitano continuamente la nostra mente: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a servirci di esse per riordinare la nostra vita, ci diranno molto più di quanto immaginiamo. 
Ebbene: la parabola del vangelo di oggi è particolarmente chiara, comprensibile; descrive in pratica i diversi comportamenti degli uomini nell’ascolto della Parola di Dio: c’è dunque un contadino occupato nella semina, e nel gettare la sua semente, succede che oltre a cadere nel terreno buono e fertile, una parte di essa cade sulla strada, un’altra tra i sassi, un’altra ancora tra i rovi.
Tutto ciò ha ovviamente il suo evidente significato: il seminatore è Dio che “semina” la sua Parola agli uomini. Una parte cade sulla strada; cosa vuol dire? “Strada” significa impenetrabilità assoluta; è una zona arida, battuta dai venti, calpestata da tutti, in cui niente può nascere, attecchire, crescere; “strada”, sono pertanto coloro che si rifiutano per principio di prendere in considerazione gli insegnamenti del Vangelo.
Un’altra parte cade tra le fitte pietre a bordo campo: i sassi, che ostacolano qualunque sviluppo, qualunque crescita di quel seme caduto tra le fessure, sono i primi entusiasmi di chi si avvicina al vangelo per caso, per curiosità, di chi conduce una vita superficiale, insensata, volubile: all’inizio la novità del “seme” li cattura, prende la loro anima, ma alla prima insignificante difficoltà, si dimenticano di tutto e continuano il loro cammino nel nulla.
Un’altra parte ancora cade tra cespugli di rovi fitti e spinosi: il “seme” cerca di crescere, ma viene soffocato immediatamente dal più rapido infittirsi dei rovi: sono le persone deboli, coloro che non hanno una personalità, una volontà forte, decisa; sono quelli che si lasciano condizionare dal tenore soffocante della vita; che, sottoposti a continue pressioni psicologiche, abbandonano sul nascere qualunque possibilità di affrancarsi, di crescere.
Un’ultima parte di semi cade infine nella zona fertile, nel terreno coltivato, nel terreno buono, preparato per riceverlo: ed è qui, solo qui, che esso stabilirà il suo “habitat”, svilupperà tutta la sua potenzialità, porterà in abbondanza quei frutti che il “seminatore” si aspetta.
Questa di oggi, dunque, proprio perché intuitiva, ci offre anche la possibilità di meditarla partendo da prospettive diverse, immedesimandoci cioè nei suoi vari elementi.
Immaginiamo, per esempio, di essere noi il “seminatore”: il vangelo non accenna ad alcuna reazione per il parziale fallimento del suo lavoro: ma quale potrebbe essere il nostro stato d’animo in una situazione analoga? Quante volte ci troviamo anche noi a dover constatare un nulla di fatto! Abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non abbiamo ottenuto assolutamente nulla: tempo e fatica sprecati. Certo, capita! E noi ce ne rammarichiamo profondamente, magari anche con qualche imprecazione! Ma così facendo, dimentichiamo un principio fondamentale: che chi fa le cose veramente per amore, chi offre con gioia tempo ed energia senza pretendere nulla in cambio, chi “semina” nell’assoluta carità, come ci ha insegnato Gesù, non deve mai abbandonarsi al pessimismo, alla delusione; c’è sempre una scintilla di bene che nasce e cresce, esattamente come in questo caso.  
Se ci mettiamo dalla parte del “seme”, dobbiamo porci immediatamente alcune domande: “Io, che tipo di seme sono? Mi rendo conto di avere un compito ben preciso da assolvere, proprio per la mia stessa conformità divina? Sono disponibile a “seminarmi” nei fratelli per estendere i frutti del suo amore? In una parola, investo fedelmente a beneficio del prossimo i carismi di cristiano credente, che Dio mi ha donato?” Noi, piccolo “seme” della Parola di Dio, nelle sue mani siamo pura potenzialità: nostra missione è appunto quella di realizzare, di “espandere” nel cuore dei fratelli questo bene divino, in modo che nel mondo cresca e si produca un sempre più crescente desiderio di seguire e amare Dio.
È fondamentale, nella nostra vita, essere consapevoli di avere delle responsabilità ben precise verso gli altri: consapevoli di essere “semi” di Dio, non possiamo in alcun modo confonderci con le miriadi di semi selvatici oggi in circolazione; non possiamo massificarci, non possiamo conformarci agli altri, perché questo ci ridurrebbe semplici fotocopie, doppioni farlocchi, privi di originalità, di personalità, di valore alcuno. Il vangelo ci mette in guardia a questo proposito: il “seme” di Dio realizza tutto il suo potenziale solo se cade nel terreno “buono”: ecco perché non possiamo nascere, crescere, svilupparci, produrre frutto, dovunque cadiamo, dovunque vediamo un’apparente possibilità di sopravvivenza: abbiamo bisogno di un humus particolarmente fertile, costantemente alimentato dalla “rugiada” del suo Spirito!
Se ci identifichiamo col “terreno”, è fondamentale sapere come classificarci: “Che tipo di terreno sono io?” Perché Gesù anche qui è molto chiaro: gli insegnamenti del vangelo (il seme) vengono recepiti da una grande varietà di “terreni”: ogni uomo, infatti, accoglie il vangelo in modo diverso, proprio perché ognuno ha un proprio grado di fede, una propria disponibilità all’ascolto; la qualità del risultato, pertanto, si differenzia da individuo a individuo, in relazione anche ai diversi momenti, positivi o negativi, della vita di ciascuno.
In tutto questo, al di là di ogni considerazione, ci è di grande consolazione la certezza di poter sempre ricorrere alla grande bontà, alla pazienza, al profondo amore di Dio nostro Padre, il quale, da generoso seminatore, ci assiste soprattutto in quelle particolari “stagioni” della nostra vita, in cui produciamo solo foglie, in cui ci comportiamo da “terreni” decisamente aridi. Egli sa molto bene infatti che il tempo della “mietitura ottimale” (la nostra perfezione) richiede una lunga e faticosa preparazione, spesso ostacolata dall’instabilità, dalla superficialità, dalla precarietà dei nostri propositi. Le perturbazioni, le crisi, sono sempre dietro l’angolo. L’importante è non dimenticare mai i nostri impegni assunti, rialzandoci sempre con grande umiltà dalle delusioni del mancato risultato. Anche perché Dio stesso, rassicurando il profeta Isaia, ha espresso la certezza su un raccolto comunque positivo: “La Parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata” (Is. 55, 10-11). È questa la speranza che in ogni caso ci sorregge. Amen.



giovedì 6 luglio 2023

09 Luglio 2023 – XIV Domenica Tempo Ordinario


Mt
11,25-30 
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

In queste parole di Gesù possiamo cogliere una sua esplosione di gioia, in un momento di particolare commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore. 
Un po’ come succede a noi quando, brancolando nel buio, nel dubbio, all’improvviso tutto si illumina, tutto diventa chiaro, comprensibile. Fino ad un attimo prima non riuscivamo a capire nulla, poi all’improvviso tutto appare semplice, ovvio, alla nostra portata.
Dal contesto del brano evangelico di oggi, possiamo dedurre che Gesù è triste, che si trova in un momento di profonda delusione per la diffidenza, l’incredulità, l’ottusità di chi gli sta vicino: è il lato sensibile di Gesù, che, come tutti noi, non riesce a capacitarsi, a spiegarsi, nonostante tutto, il perdurare di certi comportamenti umani.
Egli, ogni giorno, continua sempre e comunque a fare il bene: ovunque vada, ovunque si trovi, accoglie tutti, guarisce i malati, insegna ad amare, a non giudicare; tratta con dignità soprattutto quanti la dignità non l’hanno mai conosciuta; aiuta chiunque a ritrovare la nobiltà del proprio essere, deturpato dalle ferite della vita; a ritrovare il senso di una strada forse perduta o mai trovata; a riscoprire la gioia, l’emozione del vivere.
Ebbene: per tutta risposta, questa gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Una situazione purtroppo molto comune; una situazione che sarà capitata anche a noi, tanto dal chiederci: “Ma cosa ho fatto mai di male per meritare questo trattamento?”. E ciò proprio quando siamo certi di aver fatto solo del bene.
Ecco, è proprio su questo punto che dobbiamo lavorare, che dobbiamo fare il nostro salto di qualità: dobbiamo cioè passare dal fare qualcosa aspettandoci il riconoscimento degli altri, al farlo del tutto gratuitamente, come risposta alla specifica chiamata di Dio, che richiede sempre, per il suo campo d’azione, riservatezza e umile nascondimento del proprio io.
Dobbiamo essere determinati a fare tutto per la sola gloria di Dio; e dobbiamo farlo con decisione e costanza.
Succede invece che se la gente ci critica per quel che facciamo, se ci mette da parte, se ci fa sentire inadeguati, ci offendiamo, rinunciamo immediatamente a tutto, perdiamo ogni entusiasmo per continuare a combattere. Siamo insomma dei deboli, dei pusillanimi, degli egocentrici: per questo preferiamo dedicarci soltanto a quelle attività sociali, caritative, buoniste, che ci ripagano a livello umano: e grazie proprio a questi riconoscimenti umani, siamo convinti di condurre una vita meritoria, una vita altruista, retta e santa, senza accorgerci che col nostro comportamento, gratifichiamo soltanto il nostro amor proprio.
In questo brano di Matteo, ciò che ci colpisce, e che ci deve servire di esempio, è la reazione di Gesù, il quale, in una situazione di profonda delusione, di scoraggiamento, di insuccesso, molto simile a tante nostre, invece di recriminare, di inveire, innalza un inno gioioso di lode, dimostrando tutto il suo stupore e la sua ammirazione per quello che il Padre permette che accada nella sua vita. Egli non si lascia prendere dalla trappola del pessimismo: vede il male, vede la cattiveria, l’ignoranza della gente, ma prima di tutto vede e apprezza il bene, riesce a stupirsi per la bellezza del creato, per la perfezione delle cose, e per la luce di bontà, a volte purtroppo molto fioca, che riesce comunque ad illuminare il profondo dell’animo umano.
E noi, cristiani moderni, come reagiamo? Osserviamo un po’ da vicino questo nostro mondo, e chiediamoci: “Esiste ancora il male nell’uomo? Purtroppo sì, e più guardiamo, più ne vediamo. Esiste ancora il bene? Certamente: più osserviamo l’uomo in profondità, più ne troviamo. Esiste ancora l’ignoranza crassa, la volgarità, la stoltezza, l’egoismo? Oh sì in grande quantità, e più guardiamo questa nostra società, più ne scorgiamo. Esiste ancora l’entusiasmo, la gioia, l’ottimismo, la generosità? Certamente, sbocciano dal nulla ovunque; più cerchiamo, più ne scopriamo”.
Ebbene, è naturale che sia così: sono fenomeni che esistono da sempre, sono nati con l’uomo: solo che trovarli, vederli, valutarli, dipende da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, da come guardiamo; perché noi, in realtà, vediamo, troviamo, osserviamo, soltanto ciò che “vogliamo” vedere, trovare, osservare. Nient’altro: se ci interessa il bene, è il bene che ci colpisce; se il male, il male. Per cui ogni fenomeno che riguarda la nostra vita, può essere considerato in positivo o in negativo, dipende solo da noi.
Così, per esempio, una crisi, una malattia, una disgrazia, possono essere considerate un dramma, una tragedia, ma anche una grande occasione di riscatto morale: dipende dalla nostra sensibilità, da come le traduciamo in vita spirituale: perché per essere sereni, propositivi, in sintonia con lo Spirito che ci inabita, non è determinante ciò che ci succede all’esterno, ma ciò che noi trasferiamo ed elaboriamo nel nostro interno.
Ciò che, umanamente parlando, Gesù subiva per colpa della gente, non era infatti né bello né gratificante, anzi era altamente offensivo, lesivo: eppure Lui era sempre pronto a sorridere, a trasmettere tenerezza, ad abbracciare, a benedire.
Ecco, è esattamente questo il segreto che Gesù ci trasmette oggi: lasciarci stupire solo positivamente da quanto ci circonda, provando sempre e comunque, nei confronti del Padre, una grande riconoscenza per quanto ci succede! La vita che Lui ha predisposto per noi è troppo bella, interessante, ricca di soddisfazioni, di entusiasmi, di gioia; è il suo capolavoro d’amore; e se a volte è anche tragica, se ha dei momenti strazianti, dolorosi, vale sempre la pena di viverla in pieno, di rialzarci, e di ringraziarlo, dal profondo del cuore, per avercela concessa in dono.
E se poi ci accorgiamo che tutto ci crolla letteralmente addosso, se ci sentiamo soffocati dagli eventi, se pensiamo di non farcela proprio più, se vediamo tutto nero, ci rimane pur sempre una soluzione risolutrice: ricorrere a Lui con fiducia, rifugiarci tra le sue braccia e lasciarci stringere al suo cuore: Lui sa che questo è sempre il meglio per noi; è Lui stesso, infatti, che ci invita amorosamente: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Amen.

 

  

mercoledì 28 giugno 2023

02 Luglio 2023 – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
10,37-42 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Il testo del Vangelo di oggi chiude il “discorso missionario” del capitolo 10 di Matteo. 
Un testo duro, difficile da capire e da condividere, per certi versi assurdo! “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”. Siamo agli antipodi della nostra logica, del nostro buon senso. Sono parole, per noi “umani”, decisamente incomprensibili.
Ma cosa intendeva dire Gesù? Cosa dovevano scolpire in profondità, nella loro memoria, i suoi discepoli? Non dobbiamo dimenticare che Egli parlava a persone semplici, persone non certo istruite; era gente pratica, realista, poveri lavoratori impegnati ad assicurare giorno dopo giorno la sopravvivenza alle loro famiglie.
Quindi a gente “concreta”, parole concrete: “Voi che avete accettato di seguirmi, dovete capire che Io valgo più di qualunque altra cosa voi possediate, anche la più preziosa; Io sono più importante dei vostri affetti, della vostra famiglia, della vostra stessa vita: sono insomma il vostro valore assoluto! Genitori, moglie, figli, vengono tutti dopo di me. Niente e nessuno può interporsi tra me e voi, nessuno può ostacolarvi nel servizio che voi mi prestate. La vostra scelta di discepoli, essenziale e obbligata, è una sola: Io, il vostro Dio”.
Dobbiamo riconoscere che, tradotta anche in termini semplici, la prospettiva per chiunque decida di seguire Gesù, non è certo semplice. Diciamo anzi che quel cammino è percorribile soltanto da poche persone, dagli eroi della fede, dai santi: da quanti cioè hanno messo in bilancio anche la morte violenta, il martirio, pur di vivere nella piena obbedienza al volere di Dio.
Si tratta quindi di un percorso insolito, molto difficoltoso, molto selettivo, soprattutto per noi che ci professiamo “cristiani” nel mondo d’oggi: ma queste sono le parole che Gesù ha rivolto a tutti, noi compresi, per rianimare una vita spirituale che, in genere, è troppo spesso asfittica e denutrita.
Nella vita, prima o poi, tutti indistintamente ci troviamo di fronte ad un bivio, alla necessità categorica di scegliere il proprio percorso di vita: da un lato c’è Dio, con l’invito a seguire i suoi passi: un percorso difficile, impegnativo, più illogico, da percorrere con una pesante croce sulle spalle; dall’altro il mondo, con una prospettiva molto più appetibile, più “umana”, più logica, più adatta alla nostra mediocrità. Ebbene: è esattamente in questo caso che la schiettezza del vangelo ci disorienta, ci spaventa.
Perché il Gesù che ci proponiamo di seguire non è un Dio che si accontenta di poco, che accetta compromessi, che rimanda, che si accontenta di mezze misure: Egli è categorico: vuole tutto, chiede tutto. Ma ci dà anche tutto: con la stessa generosità con cui una volta ci ha dato sé stesso sulla croce, così continua in ogni istante a darsi ai suoi fedeli, a coloro che lo seguono, che lo amano: e lo fa in termini di conforto, di pace, di gioia, di amore.
Ecco: il punto nodale del nostro programma di vita cristiana è proprio questo: ricambiare questo suo amore con un amore che si trasformi in passione per Lui, che diventi un fuoco travolgente, un fuoco interiore che ci spinga a fare per Lui anche le scelte più difficili.
Questa è la logica dell’amore che Dio ci chiede. Non possiamo rispondere: “sì, Signore, io ti amo, lo sai, ma arrivo fino ad un certo punto; più in là non posso andare, non ce la faccio”. Questo però non è “amare”. L’amore con Dio non è misurabile, non è quantificabile; la vera, l’unica misura che dobbiamo raggiungere, è amarlo “più di qualunque altra cosa”, perché solo così possiamo ricambiare in parte il suo smisurato amore nei nostri confronti.
Ecco perché Gesù dice: “Chi perde la sua vita la ritrova, e chi guadagna la sua vita la perde”. In pratica Egli stabilisce un principio fondamentale: se lo seguiamo, se facciamo la volontà di Dio, se lo amiamo al di sopra di tutto, anche tra mille difficoltà, “perdendo la vita”, rinunciando cioè a vivere nei piaceri, nelle ricchezze, nelle gioie false ed effimere di questo mondo, la nostra vita non finirà, ma proseguirà nella beatitudine eterna: un “guadagno” incalcolabile, che invece ci verrà precluso, se non lo seguiamo, se agiamo contro la Sua volontà, se lo amiamo svogliatamente o per niente.
Vivere il vangelo come vuole Gesù, in tutto il suo radicalismo, non è come andare a passeggio, non è un diversivo piacevole da prendersi alla leggera: richiede invece un impegno totale, un autocontrollo costante; non sono ammesse scorciatoie; c’è un’unica strada, quella tracciata da Gesù, quella che passa attraverso il “Golgota”. Ed è proprio per questo che l’autenticità cristiana è vista da molti come un’utopia, un progetto irreale, inattuabile.
Del resto, anche noi che ci diciamo cristiani praticanti, arriviamo a viverne solo le briciole, nel senso che preferiamo fermarci ad un livello molto meno impegnativo, al semplice “apparire”; ci accontentiamo cioè di dare alla nostra immagine, alla nostra vita pubblica, una parvenza di autenticità, senza preoccuparci se corrisponde o meno a ciò che professiamo. L’importante è che gli altri ci considerino persone devote, osservanti, per bene, timorate e innamorate di Dio.
Ma così siamo “out” già in partenza: perché per seguire veramente Gesù, per essere veri cristiani, non basta l’entusiasmo di un attimo, non bastano le buone intenzioni, i grandi propositi, i teatrini a beneficio altrui.
Il vangelo di oggi è estremamente chiaro in questo. La “conversione” che Gesù ci chiede deve essere sincera, totale, profonda, soprattutto continuativa: dobbiamo cioè mettere Dio sempre e comunque al primo posto, da protagonista, lasciando tutto il resto come corollario, come sfondo.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta…”: parole tremende! Quante volte anche noi mortifichiamo Dio e la nostra fede, preferendogli semplici testimoni, santoni del momento, improbabili suoi imitatori, sedicenti veggenti! Quanti di noi, per esempio, vanno alla Messa domenicale, non per celebrare il Sacrificio Eucaristico, non per fare memoria con Lui del suo mistero pasquale, ma per ascoltare quello che noi stessi abbiamo elevato a “profeta” di turno: un oratore facondo, che sfoggia gigionescamente la sua “arte omiletica” (“vado sempre a quella Messa perché c’è Caio che predica così bene!”): e stupidamente non ci accorgiamo che in questo modo barattiamo una misera “esperienza” elocutoria, con l’altra esperienza soprannaturale, quella vitale e insostituibile, di poter interloquire direttamente con Dio, realmente presente nelle specie consacrate che accogliamo in noi: Lui, l’unico portatore di Grazia e di vitali benedizioni!
Ecco perché dobbiamo scendere nel profondo del nostro cuore, e coscienziosamente chiederci con umiltà e sincerità: “Quanto conta Dio nella mia vita? Lo amo e voglio veramente seguire il suo Vangelo? Gli ho mai chiesto di aiutarmi a diventare santo?”.
Proprio così: perché il radicalismo evangelico, se vissuto nella sua integrità, porta naturalmente alla santità, a “vivere” cioè di Dio”, profondamente innamorati di Lui. Uno stile di vita che tutti i cristiani indistintamente dovrebbero adottare, non solo i preti, i frati, le suore!
Ogni uomo che vuol seguire la chiamata di Cristo, proprio perché “umano”, è certamente debole, pieno di difetti, di tentazioni, di cadute. Superare tutte queste contrarietà, queste miserie, per amore di Gesù, è stato impegnativo anche per i Santi: del resto nessuno di loro era “speciale”, impeccabile, ineccepibile: erano tutti come noi, persone normalissime, che però (loro sì) hanno deciso di seguire Dio a tutti i costi: si sono affidate a Lui, e se cadevano, con grande umiltà si rialzavano, e più risoluti di prima, gli confermavano il loro impegno, la loro fedeltà, il loro amore; sono state insomma delle normalissime persone che hanno vissuto veramente di Dio, con Dio, in Dio. Un valido esempio per noi. Perché solo imitando le loro scelte, vivendo cioè in modo coerente la nostra vita sia spirituale che materiale, potremo scoprire sicuramente anche noi, perenni “indecisi scansafatiche”, il loro stesso entusiasmo, la stessa forza, le loro stesse motivazioni nel servire Dio: un percorso che alla fine assicurerà sicuramente anche a noi una tale quantità di amore e di felicità, da renderci stupenda, meravigliosa, straordinaria non solo la vita futura, ma anche quella presente.
Cristo non toglie nulla, Cristo dà tutto!”: sono parole che papa Benedetto, ancora cardinale, puntualmente mi ripeteva quando ci incontravamo: un concetto fondamentale che egli ha ribadito anche nel discorso tenuto per l’inizio del suo ministero petrino: perché “solo in quest’amicizia con Dio si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che ci libera”. Parole sacrosante che devono motivarci seriamente, perché indicano con quale spirito dobbiamo affrontare il percorso che conduce al Padre; una strada in salita, difficile, ma completamente percorribile. Allora, a questo punto, perché continuare a preferirle scioccamente le facili discese che conducono sicuramente alla morte? Amen.

 

  

giovedì 22 giugno 2023

25 Giugno 2023 – XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
10,26-33 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

Siamo nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli annunciatori del vangelo, nella loro missione apostolica. 
Nei primi anni e nei primi secoli non è stato sicuramente facile essere cristiani! L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le inevitabili gravi conseguenze. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta che determinava la vita.
Oggi per molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù sia esistito o meno, è per loro assolutamente ininfluente, è molto più interessante scegliere in quale supermercato fare la spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le vacanze.
Non è così, invece, per i cristiani che hanno deciso di seguire Cristo.
Il testo del vangelo ci propone infatti una serie di assicurazioni positive proprio per quanti sono preoccupati per ciò che incontreranno durante la loro missione annunciatrice del Regno di Dio: si tratta di quattro contrapposizioni (nascosto-svelato, segreto-manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci rivelano, in qualche modo, lo stile di vita tenuto dai primi cristiani: la loro era infatti un’esistenza di fede profonda, praticata nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto coraggio!
Per noi ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun pericolo, in particolare quello di morire martirizzati: al massimo possiamo subire l’inconveniente di venire guardati con sospetto, con commiserazione, di rimanere soli, di non essere capiti, accettati.
Un niente: ma è una eventualità che mortificherebbe non poco il nostro “ego”, escludendoci dalla possibilità di ottenere riconoscimenti, consensi, attestazioni di stima da parte degli altri; una situazione che ci porterebbe ad assumere un comportamento a dir poco paradossale: essere cioè cristiani a singhiozzo, compatibilmente con le circostanze della vita: credere quando ci fa comodo, quando ci conviene, quando cioè abbiamo un ritorno di riconoscimenti e ammirazione. Salvo poi, quando non ci conviene più, nasconderci, cambiare faccia, cambiare fede e religione con grande naturalezza e disinvoltura!
Ebbene, il vangelo di oggi non ci raccomanda tanto di esibire in pubblico la nostra fede, quanto di condurre una vita semplice, coerenti con noi stessi, con ciò in cui crediamo, con la nostra coscienza; in una parola di essere persone autentiche, persone che sanno fare luce dentro di loro, proprio là dove convivono paura e coraggio, amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale, invidie, risentimenti.
Vogliamo far sapere al mondo chi siamo veramente? Facciamolo praticamente con la nostra vita: perché in questo modo non solo cresciamo come uomini e come cristiani, ma testimoniamo coerentemente la nostra fede.
“Non abbiate paura”, ci rassicura Gesù: ma la paura è la nostra fedele compagna di viaggio; noi abbiamo paura di tutto e di tutti, anche delle cose più insignificanti: di un piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri possano pensare di noi.
Siamo troppo condizionati dal “rispetto umano”, dal giudizio della gente! Al punto da evitare talvolta di compiere per vergogna delle buone azioni: come per esempio di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di esprimere sinceramente in pubblico un nostro parere “cristiano” sulle questioni del momento. Dobbiamo purtroppo riconoscere che la nostra fede è troppo debole, la nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni pericolo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l'anima e il corpo”. Gesù è sempre molto chiaro, paradigmatico, esemplare, non lascia mai spazio a dubbi.
Ci colpisce in particolare l’indicazione di chi e di cosa dobbiamo aver paura: non delle ossessioni personali, non delle nostre idiosincrasie, e soprattutto non di “quelli che possono uccidere il solo corpo”: sappiamo bene, per esperienza, quanto gli uomini possano ferirci: possono umiliarci, farci paura, farci pressioni insopportabili, disonorarci; possono infliggerci qualunque ferita corporale, ma non possono in alcun modo uccidere la nostra anima. C’è qualcosa in noi che è solo nostro, di nessun altro: per quanto possiamo essere vittime di prepotenze, di paure, di costrizioni, ci rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a comandare, dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Lì, nessuno può toglierci l’anima, questo nostro “soffio” divino: nessuno può e potrà mai sottrarcelo, nessuno riuscirà mai a soffocarlo contro la nostra volontà. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non “siamo” il nostro lavoro, i nostri studi, la nostra laurea, la nostra professione; non “siamo” il nostro “status sociale”, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” unicamente la nostra anima!
Non svendiamo allora noi stessi. Perché quando abbiamo perso la nostra coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, non ci rimane più nulla. Purtroppo ci sono troppe persone sprovvedute, anche tra i cristiani, che accettano di svendere la propria anima per i soldi, per la ricchezza, la gloria, il piacere, il benessere, il potere! Sono dei falliti: gente che considera “vita” ciò che è solo “morte”, ciò che è destinato a dissolversi; e considerano morte ciò che invece è “Vita”, felicità eterna.
Per sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini poetiche: quella dei passeri e del numero dei capelli sul capo. In pratica ci dice che nulla può succedere nel mondo senza che Dio lo sappia: né un passero cada, né un nostro capello può cadere per terra senza che Lui lo sappia”. Ciò è per noi di grande consolazione: perché ci assicura che anche nelle “cadute” più insignificanti, in qualunque sofferenza della vita, Dio c’è, non ci lascia mai soli, non ci abbandona a noi stessi; la sua presenza è sempre una “presenza di salvezza”, anche se noi non la percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande importanza.
È comunque rassicurante sapere che tutto quanto ci riguarda è sempre presente al cuore di Dio.
Come possiamo pensare che Colui che ci ha voluti, che ci ha creati, ci possa poi abbandonare a noi stessi? Che Colui che ci ha donato la vita, possa togliercela? Tranquilli, non è possibile: ce lo dice chiaramente, per esempio, il Prefazio della Liturgia dei defunti: “vita mutatur non tollitur”, la vita non è tolta, ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. Quindi perché paure, preoccupazioni, ansie? Viviamo serenamente la vita che Dio ci ha donato, viviamola nel rispetto dei suoi valori evangelici, nella certezza che Egli, anche se non lo capiamo, nell’attesa dell’abbraccio finale, continua a lavorare per noi, ci assiste, ci segue passo dopo passo, perché Egli vuole veramente il nostro bene!
C’è, è vero, un avvertimento molto importante che conclude il vangelo di oggi: “Chi mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò!”. Parole severe che sembrano contenere addirittura una minaccia, una promessa di vendetta, un ritorno all’antica legge del taglione: “Tu mi tratti così? Ti comporti come se io non esistessi? Mi rinneghi con la tua vita? Bene: anch’io ti rinnego!”.
Non una sentenza punitiva, quindi, ma una constatazione: un risultato che non dipende dalla volontà di Dio, ma esclusivamente dalla nostra; un risultato che rispetta autonomamente e rigorosamente il principio di “causa-effetto”: nel senso che noi già sappiamo in precedenza le uniche due possibilità che ci aspettano: se l’essere accolti come “benedetti”, oppure rinnegati come “maledetti”; quindi solo noi, grazie alle nostre attuali scelte di vita, possiamo stabilire quale scegliere, nessun altro: per cui, detto in breve, chi ama sarà amato, chi disprezza sarà disprezzato.
Oggigiorno però, nel nostro cristianesimo annacquato, abbiamo completamente rimosso dalle nostre preoccupazioni, quell’incontro finale con Dio che si chiama “giudizio”, in base al quale conosceremo la nostra destinazione eterna: nell’euforia, nella gioia di saperci sicuramente assolti e perdonati dalla “Divina Misericordia, abbiamo completamente dimenticato di praticare i nostri doveri di cristiani, di essere cioè discepoli “chiamati” a testimoniare il Vangelo di Cristo, con le opere e il buon esempio: ci siamo cioè progressivamente adattati al principio del “fai come ti pare, tanto Dio è buono e ti perdona!”, con cui puntualmente “addomestichiamo” qualunque nostro dovere; del resto, perché preoccuparcene, se poi alla fine Dio, che è “misericordia assoluta”, ci premierà comunque salvandoci? Opinione oggi molto diffusa anche nella Chiesa, grazie ad una lettura del Vangelo partigiana, distorta, incompleta, e da una catechesi che dovrebbe invece esprimersi in maniera più completa, più fedele, più veritiera. Infatti, che Dio sia “Misericordia infinita”, è vero, è innegabile: ma è altrettanto vero e innegabile, e non va dimenticato, che Dio è anche “Giustizia e rettitudine infinita”: se non fosse così, se non agisse con equità, se cioè stabilisse il medesimo trattamento sia per chi ama il prossimo e opera la carità, che per quanti invece vivono oltraggiando, umiliando, odiando e uccidendo i fratelli, Dio si rivelerebbe “ingiusto”, farebbe un torto alle sue creature, e soprattutto a sé stesso, alla sua “essenza” divina: cosa improponibile, inaccettabile, inammissibile. 
In definitiva Gesù, con queste parole così perentorie, vuol dirci: “Fate attenzione: ricordatevi sempre che io vi ho scelto per essere miei testimoni, miei “discepoli”: la fedeltà, il rispetto, l’osservanza dei principi e dei valori che derivano da tale scelta, è l’unica vostra garanzia per poter godere della mia amicizia eterna”: un dato di fatto emblematico, chiaro, inequivocabile!
Amen.



giovedì 15 giugno 2023

18 Giugno 2023 – XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 9,36-10,8: 
In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!». 
Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì. Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

È una constatazione, quella di Gesù: la gente che lo segue per le strade della Palestina è cresciuta a vista d’occhio, è diventata “le folle”: egli tuttavia vede chiaramente in ciascuno dei presenti, le loro sensazioni, la loro stanchezza, il malessere, la delusione, la sfiducia. È gente che per qualche ragione si sente tradita, gente che per cui la vita non ha più un significato, gente che si sente inutile. Gesù vede tutte queste persone sofferenti, si rende conto delle loro necessità e, rivolto ai discepoli, scosso, preoccupato, si lascia andare dicendo: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi!”. Di fronte a quella povera gente, capisce che in futuro, per arrivare a tutto e a tutti, ha bisogno di collaboratori, di persone che continuino ciò che lui ha iniziato, che sostengano il suo progetto di “chiesa”.
A questo punto che fare? chiama il gruppo dei discepoli che già lo seguivano, e tra loro ne sceglie dodici, ai quali conferisce la nomina di “apostoli”, persone incaricate cioè a scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità. 
Nel vangelo di oggi Matteo, nel comunicare i loro nomi , cita anche sé stesso: quel pubblicano di nome Levi, esattore delle tasse per conto dei Romani, malvisto dal popolo per le tangenti che incassava con la sua attività; solo che, nel momento in cui scrive, Levi il pubblicano non esiste più, è diventato Matteo, l’apostolo: un giorno infatti egli aveva incontrato quel Nazareno, ospite di Pietro e Andrea, e aveva visto in Lui la possibilità di un suo riscatto, di condurre una vita diversa, libera, nuova, conquistato soprattutto dalla misericordia, dalla bontà, dall’amore, che trasparivano dallo sguardo sereno di Gesù. Quando inserisce il suo nome tra i dodici, sono passati trent’anni da quell'incontro, ma l’emozione a quel ricordo è ancora la stessa. 
La lista dei dodici “apostoli” è formata da nomi che in parte già conosciamo: “Pietro”, qualificato come “primo” come “capo” (ciò conferma che all’epoca in cui è avvenuta la stesura del Vangelo, Pietro ricopriva già il ruolo di guida, di responsabile del gruppo), e suo fratello “Andrea”; poi “Giacomo e Giovanni”, due fratelli dal carattere focoso, irascibile, soprannominati per questo i “Boanèrghes” cioè i “figli del tuono”. Queste due coppie di fratelli sono stati gli amici più intimi, i confidenti di Gesù, quelli che lui chiamava sempre al suo fianco nei momenti critici, decisivi. Quindi, anche Gesù, pur amando tutti indistintamente, aveva anche lui qualcuno con cui si trovava meglio, di cui si fidava di più, con cui si confidava maggiormente. Ancora: “Filippo” di Betsaida e “Bartolomeo” un ebreo. Quindi “Tommaso”, detto “Dìdimo”, cioè “gemello, duplice”, a causa del suo carattere: uno che non si fermava mai al primo sguardo, ma voleva vedere sempre il rovescio della medaglia. “Matteo” (l’ex pubblicano usuraio Levi). “Simone il Cananeo”, un nazionalista Zelota, antiromano per eccellenza; “Giacomo”, cugino di Gesù (figlio di Alfeo, fratello di san Giuseppe); “Taddeo” (detto anche Giuda di Giacomo) e infine Giuda Iscariota che sarà il traditore. 
Si tratta di un gruppo eterogeneo, formato un po' da tutti i tipi: nazionalisti, pubblicani, peccatori, incolti, istruiti, poveri, ricchi. Ma Gesù non si ferma in superficie, al semplice apparire, o addirittura al “si dice” della gente: egli vede e legge le persone nel profondo del loro cuore, della loro anima; conosce l’infinito bisogno di felicità che ogni uomo porta scolpito nel proprio cuore. È un po’ quello che succede anche oggi: Gesù conosce perfettamente anche tutti noi: le nostre preoccupazioni, la difficoltà di trovare risposte adeguate ai nostri problemi. Egli sa che siamo disposti a vendere anche l’anima per avere un po’ di amore, di serenità, di pace; per sentirci accolti, stimati, considerati, amati.
Ebbene: è proprio questo identico bisogno di felicità, di amore, di pace, innato in ogni uomo, che ci rende tutti simili, che ci unisce, in ogni tempo, in una fratellanza universale.
Gesù vede tutto questo, vede che siamo amareggiati, insoddisfatti, che, pur non ammettendolo, sentiamo un profondo bisogno di Lui, del suo amore, di quella felicità che solo Lui può dare. 
Sì, perché nella delirante e disonesta epoca in cui viviamo, la felicità che cerchiamo è rara, introvabile, viene venduta a prezzo esorbitante, assurdo, incalcolabile; e noi, instupiditi, spaesati, confusi, ingannati, ci adeguiamo all'offerta, finendo col seguire purtroppo le prospettive più seducenti, più luccicanti, più immediate, quelle che sembrano poter appagare il nostro incolmabile bisogno di bene e di verità.
Gesù è lì, fermo, immobile, guarda le folle di allora, le folle di oggi, di domani, e si commuove vedendo quanto devono faticare tutti, per trovare la vera felicità. Il Padre stesso, forse, è stato preso da qualche “perplessità”: in effetti, non era questo il suo progetto quando ci ha donato la libertà, dono molto difficile da gestire, superiore alle nostre forze, per cui troppo spesso deleghiamo le nostre scelte all’imbonitore, all'incantatore di turno.
Pecore senza pastore”: è così che vede le folle il Maestro, commuovendosi. E nel suo amore infinito decide di agire. E come al solito ci spiazza: la pagina del vangelo finisce nel modo più inatteso, più incredibile. Tutti ci saremmo aspettati un Gesù che, mosso dalla compassione, si sarebbe immediatamente offerto Lui, come Buon pastore, come solutore di ogni problema.
Invece no: Gesù, commosso per lo stato precario degli uomini, dispersi nel mondo, inventa la Chiesa! Sceglie cioè dodici persone per iniziare la costruzione del Regno di Dio: dodici che, istruiti da Lui, siano in grado, durante la sua assenza materiale, di condurre i greggi del mondo, a quei pascoli erbosi, nei quali loro stessi per primi, desiderano entrare.
Non sono perfetti, sono purtroppo degli uomini. Ma Egli vede in ognuno di essi, oltre le inevitabili deficienze, la determinazione, la voglia, di trasformarsi in combattenti, in autentici eroi, per la Sua causa. Nella loro poliedrica diversità, nella loro sgangherata unione, rappresentano infatti l'intera umanità.
Nessuno mai si sarebbe sognato di mettere insieme dodici persone così radicalmente diverse per realizzare un progetto divino così impegnativo: riportare al Padre l’umanità peccatrice! Nessuno, eccetto Gesù. E sarà poi Lui, che li illuminerà, li unirà, li indirizzerà, li compatterà in quell’unica realtà della Chiesa nascente, destinata a proiettarsi nel tempo, fino alla fine dei secoli.
Questa è, e rimane, la Chiesa, il paradosso di Cristo! All'umanità ferita e fragile che necessitava di una guida sicura, inflessibile, inossidabile, Gesù ha posto un condensato di umanità, altrettanto fragile e ferita. Ma nonostante le sue carenze, i secoli bui, i suoi alternanti alti e bassi, la barca di Pietro è giunta fino ad oggi, con l’immutata determinazione di continuare il suo mandato nei secoli futuri, grazie all’assicurazione del suo Fondatore e sposo, che l’avrebbe protetta contro ogni ostilità della cattiveria umana.
Questo sicuramente è il suo punto di forza, questo il segreto della sua immortalità, della sua invulnerabilità.
Oggi, però, con rammarico, dobbiamo riconoscere che la Chiesa voluta da Cristo ha cambiato fisionomia: il tentativo di rinfrescarle il volto, di farle rinnovare l’antica veste nuziale, ha prodotto purtroppo degli strappi sostanziali non solo al suo incedere, ma anche alla sua sostanza: ha perduto la sua brillantezza, la sua autorità, la sua intoccabilità magisteriale; si presenta disunita, superficiale, incoerente: troppe le fragilità, troppe le contraddizioni, troppe le omissioni, troppe le svalutazioni dottrinali, troppe le infedeltà. In essa folle intere di cristiani vivono ignorando cosa significhi “credere”. Sono troppi quelli che non condividono certe sue iniziative, apertamente disallineate dall’originale mandato di Cristo, di insegnare, promuovere, difendere con carità ma con fermezza tutti i valori fondanti del suo Vangelo.
I suoi “apostoli”, inoltre, di fronte alla crescita esponenziale dei greggi, sono oggi numericamente insufficienti, burocratizzati, stanchi: si sta riproponendo in maniera più tragica, la stessa situazione lamentata da Gesù: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi!”.
E ripropone anche a noi quel suo pressante invito: “Rogate Dominum messis”, implorate il Padrone del raccolto, perché mandi operai che se ne prendano cura!
In questo particolare periodo di smarrimento, di opacità e sofferenza, la Chiesa ha realmente bisogno di nuovi operai, nuovi “apostoli”, nuove guide: ha urgente bisogno di testimoni “credibili”, di pastori motivati per poter radunare tutti i greggi dispersi nel mondo e ricondurli compatti all'ovile del Padre. È un dato incontrovertibile.
Ma noi cristiani della domenica, che possiamo fare? Certo, non mancano i soliti adulatori idioti, che, forti di tale situazione, ci blandiscono: “Tu, uomo o donna, puoi essere un grande animatore nella chiesa; sei intelligente, preparato, se vuoi, puoi risolvere tanti problemi, datti da fare! Insegui le tue aspirazioni, realizzati, vai e raccogli tutti quegli onori e riconoscimenti che meriti!”. 
Non cadiamo in così false, sciocche, e stupide fantasticherie! Il nostro filiale, rispettoso, personale disappunto sull’attuale cammino della Chiesa, è ben lontano dall’essere motivato da un ipotetico inserimento in una delle tante sue nuove iniziative pastorali molto ambite, ma spiritualmente inutili, religiosamente aride! 
Noi cristiani dobbiamo ascoltare una voce soltanto, quella di Cristo, il buon Maestro: Egli solo riesce a vedere in noi quelle potenzialità operative che noi non possiamo vedere e neppure immaginare: attività che, con determinazione, Lui sfida i suoi nuovi collaboratori a praticare: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”. 
È evidente che per il nostro “nulla”, tali “operazioni” sono non solo impossibili, ma addirittura improponibili. È però altrettanto vero che, sempre a questo proposito, Gesù ha detto anche che “tutto è possibile” a chiunque abbia un minimo di fede, grande almeno “quanto un granello di senape” (Lc 17,6)
Che fare allora? Nulla, facciamo come il giovane Samuele, che nella solitudine della sua camera alla chiamata di Dio risponde: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!” (1Sam 3,10). Abbandoniamoci alla Sua Parola, buttandoci alle spalle ogni nostro dubbio, ogni perplessità: e come Pietro, dopo una nottata di lavoro inutile, obbediamo, prendiamo il largo e gettiamo anche noi le reti! (Lc 5,8).
Se lo hanno fatto gli “apostoli”, trasformati dalla fede, lo possiamo fare anche noi cristiani, chiamati da Dio e guidati dallo Spirito: possiamo cioè anche noi, nel nostro piccolo, correre in aiuto a questa Chiesa debilitata e spoglia; possiamo anche noi rassicurare e “radunare” da ogni angolo della terra, tutte le sue pecore lontane, non con fiumi di parole, ma con una esemplare vita cristiana: perché in realtà è sempre Lui che opera servendosi di noi, è sempre Gesù, l’unico e vero Pastore, che sul nascere del nuovo giorno guiderà le sue pecore ai pascoli erbosi della salvezza: sarà sempre Lui, lo sposo, che condurrà la Chiesa, sua sposa, alla vittoria finale sul male: quella stessa Chiesa che, nel frattempo, noi a gran voce continueremo a proclamare al mondo, con orgoglio e senza timori di “
autoreferenzialismo”, Una, Santa, Cattolica e Apostolica! 
Dio non ha mai “obbligato” nessuno a coprire il ruolo di “pastore” nella sua Chiesa: Egli chiede, chiama, invita, e attende. Siamo noi che accettiamo di diventare degli “strumenti” nelle Sue mani; non ha mai chiesto a nessuno dei suoi “apostoli”, dei suoi collaboratori, interventi gravosi, eccessivi, impossibili; per cui, se un giorno decidesse di chiederci qualche piccola collaborazione, asteniamoci anche noi dal fargli in contropartita richieste impossibili; non pretendiamo mai nulla in cambio. Stare al suo servizio è un dono, un dono elettivo! Non cerchiamo riconoscimenti, pubblicità, onori, non chiediamo corrispettivi! In particolare, se nella piccola comunità in cui viviamo, già prestiamo una nostra modesta collaborazione, evitiamo di primeggiare, di esibirci, di trasformarci in promotori, moderatori, guide di “gruppetti scelti”: perché tali realtà, qualunque sia il loro settore di impiego, grazie ad un loro connaturale spirito elitario, finiscono puntualmente col diventare invalidanti per la normale attività comunitaria della Chiesa. 
Ascoltiamo invece, e mettiamole in pratica, le sagge parole che Pietro, il primo Papa, rivolgeva alla giovane Chiesa nascente: “Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 4,11). 
Sempre e in ogni caso, continuiamo il nostro cammino spirituale con grande responsabilità, perché il “servizio” con cui ci siamo obbligati con Cristo e la Chiesa mediante il battesimo, costituisce già da solo un grande impegno: esso infatti riassume l’intera nostra missione di cristiani, la passione, la gioia, l’amore per la nostra vita di fede. Dio non ci chiede nient’altro: viviamola, dunque, questa nostra umile disponibilità con Dio, facendo il bene, con semplicità e fedeltà, come Lui ci ha insegnato; e soprattutto continuiamo a pregarlo insistentemente, perché mandi nella sua Chiesa dei “veri” operai, gente innamorata di Lui, valida, esperta, e soprattutto santa. Amen