giovedì 27 aprile 2023

30 Aprile 2023 – IV DOMENICA DI PASQUA


Gv 10,1-10 
«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. 
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

 Le parole di Gesù riportate oggi dal vangelo di Giovanni, possono sembrare dolci, rassicuranti, lusinghiere: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un “buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un lungo bastone in mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune pecore belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue parole, vanno poste al contrario in un contesto di dura realtà, sono critiche severe, di aperta denuncia; indirizzate alle autorità religiose, in risposta all’aperta avversione da queste più volte dimostrata nei confronti di Gesù.
Siamo infatti in prossimità del Tempio, esattamente all’ingresso chiamato “Porta delle pecore”, particolare che sicuramente avrà offerto a Gesù lo spunto per parlare di pastori e di greggi. Davanti e intorno a lui si è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, e infine i farisei, gli ultras della fede, i duri e puri.
Gesù, con voce ferma e solenne, si rivolge ad essi con un lungo discorso che potremmo così parafrasare: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni legali, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza poter capire o ribattere alcunché. Avete distorto l’aspetto essenziale della religiosità, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità usurpata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la usate per i vostri comodi. Ora però la gente non vi ascolta più, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione. Io sono quel pastore”.
Questo in pratica è quanto Gesù afferma nella sua requisitoria, consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. Il popolo che lo segue, infatti, è stanco di mercenari senza scrupoli, di pastori ingordi e ladri, di parolai senza vergogna. La gente vuole ascoltare parole nuove, parole che nascono dal cuore, proclamate con amore, con passione, con la forza della verità: vuole ascoltare messaggi positivi, come dimostrano le folle che accorrono ad ascoltare il suo “Vangelo”, il suo annuncio “buono”.
E cosa dice Gesù, il messia-pastore, di tanto importante, di così promettente, a gente tanto provata e demotivata? Che Lui è l’unico pastore in grado di farli uscire da quella “prigione” morale in cui sono rinchiusi, per portarli ai liberi pascoli del Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi lui solo è il pastore “o kalòs”, come dice il testo greco: il “pastore bello”, l’unico in grado di amare, di proteggere il suo gregge, di ridare agli uomini quella dignità che Dio stesso ha riservato loro. Egli è il pastore che conduce verso la vita, verso i ricchi pascoli, verso il nutrimento divino; è colui che difende, che protegge dagli attacchi del maligno, che aiuta nei momenti di difficoltà; è il riferimento che indica dove andare, quale strada percorrere, come arrivarci. È il pastore che chiama le “sue” pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere nostro pastore arriva perfino a conoscere ciascuno di noi in profondità, intimamente, a chiamarci ciascuno per nome. Per Lui non contano i grandi numeri, le assemblee oceaniche; per Lui contano i singoli individui, ognuno col suo nome. I grandi numeri sono anche belli, danno soddisfazione, ma implicano l’anonimato, l’estraneità reciproca, il disinteresse.
Con Gesù invece ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquista con Lui una familiarità, una confidenza tale, da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo cioè in grado di riconoscere la sua “voce” e soprattutto se la seguiamo.
Da notare come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente al vocabolo “Voce”: una voce rassicurante, tranquilla, come in genere quella del pastore; forse perché si rende conto che una “terminologia” più impegnativa potrebbe scoraggiare persone deboli e confuse come noi; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la vicinanza costante di un “pastore” che, come Gesù, sia chiaro, comprensibile, alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che solo chi ha una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro cammino di fede è quindi normale incontrare il Signore, frequentarlo, cercare di seguirlo, ma è fondamentale prima di tutto riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, entrare in confidenza con Lui, capire al volo le sue parole, instaurare con Lui un rapporto diretto di fiducia, di entusiasmo, di amicizia.
Gesù col Battesimo è entrato nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, ci ha chiesto di seguirlo lungo la via che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui tutti noi dobbiamo passare: è il “varco” attraverso cui dobbiamo uscire dal nostro “io”, dal recinto del nostro “egoismo” per seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi dobbiamo riconoscerlo: perché la sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che perdona, che inquieta, che sconcerta.
Che un Gesù-Pastore ci conduca fuori dal “nostro recinto”, è bello, è rassicurante, certamente promettente: Dio non è uno che ci ostacola, non è uno che ci imprigiona dentro; è al contrario il Maestro, che ci vuole fuori, liberi, pronti a seguire docilmente quella strada su cui Egli ci precede dandoci sicurezza. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome proprio per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalle nostre chiusure, per aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva concentrazione su noi stessi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà.
Contemporaneamente però ogni volta Egli ci mette in guardia dai ladri, dai briganti, ci ricorda di essere prudenti, guardinghi: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di volere solo il tuo bene: stai attento perché spesso sono dei briganti, dei ladri, travestiti da pastori!”. Un avvertimento che dobbiamo avere sempre presente nella vita: ecco perché dobbiamo essere fermi, vigili, prudenti, intransigenti con chi cerca di conquistare la nostra fiducia con facili e allettanti prospettive. Non fidiamoci, non facciamoli entrare! Difendiamoci!
Dio ci ha donato la vita per vivere: noi siamo stati creati per crescere, per realizzarci, per diventare sempre più somiglianti a come Lui stesso ci ha pensati. Ogni volta che noi non lottiamo per noi stessi, per la nostra vita, che permettiamo al male di calpestare la nostra dignità, noi umiliamo noi stessi, tradiamo l’originale progetto divino della nostra persona, preferiamo rimanere oggetti manipolabili da chiunque, senza alcun valore. Siamo cioè pecore che invece di passare per la porta dell’ovile, al seguito del nostro pastore, preferiamo buttarci oltre il recinto, verso l’ignoto. Tutt’altra cosa sarà invece entrare nei pascoli della vita passando attraverso la “porta” di Gesù: allora tutto sarà più sopportabile, più agevole da affrontare, perché potremo contare sempre sulla sua presenza, sul suo amore. E saremo felici: sì, perché ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Ci sentiremo cristiani amati e appagati, perché ci sentiremo veramente partecipi di quella Chiesa, sogno del Risorto. E potremo diventare a nostra volta pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare e a condurre i fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi attenti, come guide responsabili nell’indicare in Cristo, con la nostra vita, l’unica porta sicura attraverso cui uscire dal recinto temporale per entrare anch’essi nei pascoli eterni della Vita e dell’Amore assoluto del Padre. Amen.

 

giovedì 20 aprile 2023

23 Aprile 2023 – III DOMENICA DI PASQUA


Lc 24,13-35 
Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, dopo aver tranquillizzato i suoi e aver donato loro la pace, in quello stesso giorno dopo il sabato, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge due discepoli, che lo avevano seguito fino a Gerusalemme, in cammino verso Emmaus.
Tornano a casa loro, scappano da quella città “maledetta” che uccide i profeti. Sono tristi, pensierosi, commentano a bassa voce le ultime tragiche vicende, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l’amarezza sono profonde, insostenibili, terribili, arrivando a mettere in discussione l’operato di Dio.
Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; sono troppo frastornati, confusi dai loro ricordi. Del resto, come potrebbero? Non riescono a rialzare lo sguardo da loro stessi, dalla loro sofferenza, e non possono quindi incrociare lo sguardo amoroso del Signore. Sono così presi dal loro “sacrosanto” dolore, incapaci di uscire dalla spirale di quel nulla in cui sono precipitati dopo la scomparsa del loro maestro, da non accorgersi che Egli è lì, al loro fianco.
Uno stato d’animo destabilizzante che spesso capita anche a noi di sperimentare: quante volte infatti ci sentiamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchierate tra amici, lo scambio delle proprie impressioni, l’amabile conversare del nulla: sono tutte cose che ci irritano; nulla più ci soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, irriverenti, quasi insolenti.
E Lui, di fronte alla nostra idiozia, al nostro vuoto pretenzioso, tace paziente. Tace suo malgrado, perché Dio ama discutere con noi; egli è il nostro moderatore, vuole che riflettiamo, che cerchiamo, che impariamo, che ci documentiamo. Egli, rispettoso e discreto, ci considera intelligenze capaci di capire, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell’interrogarci. Non vuole dei cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Solo che noi, non appena ci accorgiamo della sua presenza al nostro fianco lungo il percorso della vita, diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della “nostra” situazione attuale? Delle “nostre” preoccupazioni, dei “nostri” problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, della situazione internazionale, delle guerre, del terrorismo, del malcostume generale che ci opprime? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti è un dolore che ci rassicura, ci dona identità, ci identifica; finiamo cioè di coltivare il dolore per sé stesso; il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento, ci “esibiamo” nel nostro dolore, vogliamo che tutti ci vedano così, ci compiaciamo scioccamente di inutili cenni di compassione, di improbabili condivisione e benevolenza. Siamo proprio degli illusi! Il dolore non deve mai ridursi ad un fenomeno da baraccone, non è una maschera da indossare per ottenere ammirazione e consensi: il dolore vero nasce dalla constatazione della nostra precarietà, della nostra fragilità, dei nostri tradimenti, dell’essere delle nullità. È la sola via che alla fine ci porta a capire che Dio soltanto può consolarci veramente, che Lui solo può offrirci motivi validi per risorgere dal nostro nulla, dalla nostra fragilità di creature: perché Lui è il nostro Creatore, è Colui che conosce perfettamente il nostro cuore, la nostra anima, è Colui che ci ha plasmati a sua immagine e somiglianza, Colui che, guardandoci, ci ha trasmesso con un soffio il suo amore perenne, la sua vita immortale.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto ai due. “È mai possibile – essi pensano - che questo intruso sia tanto svanito da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Si sentono offesi; e ne hanno veramente motivo, perché il loro lutto è troppo grave: sono rimasti improvvisamente orfani della loro guida paterna, della loro unica speranza di miglioramento. E gli rispondono parlando della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla. Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha affrontato personalmente tutto questo, sembra non sapere nulla.
“Noi speravamo che fosse Lui il liberatore di Israele”: rispondono. Parole che rivelano la loro profonda frustrazione! “Noi speravamo”: solo che la speranza si riferisce sempre ad un futuro, non va mai declinata al passato come fanno loro, perché così significa ammettere un totale fallimento. Nella vita è sempre difficile accettare la fine di qualcosa d’importante: ma il fallimento della speranza è addirittura tragico, perché con la delusione che ne segue, è causa inevitabile della morte interiore. La delusione è la punta estrema del fallimento di ogni prospettiva: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza il sospetto di essere stati ingannati; un dolore che ci destabilizza, che mette in dubbio l’efficacia di ogni nuovo progetto, che ci impedisce di riprendere coraggio, confinati in un cocente pessimismo, tra speranze abbandonate e sofferenze dell’anima insopportabili. Eppure lì, proprio nel più profondo all’anima, alla soglia dello smarrimento finale, Dio ci aspetta con tutto il suo amore: Egli sa, ed è lì per ascoltarci, per soccorrerci, per rimetterci in piedi e camminare insieme a noi.
Noi speravamo” insistono i due: “ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui!”. “Speravamo, ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta lassù, su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro”.
Ebbene: quanti ne abbiamo conosciuti di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E non si accorgono che il Signore, creduto ancora morto, cammina con loro. I due si aspettano comprensione da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece un sonoro schiaffone: “Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro Gesù: “Stupidi, ignoranti!”. La sua è una evidente provocazione: vuole scuoterli, costringerli ad alzare lo sguardo, a guardare avanti. Dobbiamo infatti capire che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene, e non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte nella vita un energico scossone ci distoglie dalla sofferenza, dall’autocommiserazione, e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa, in una prospettiva nuova, più costruttiva.
Essi si scuotono, è vero, ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”. “Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della Sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio, perché i discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte! Il loro sguardo deve trasmettere risurrezione!
Le parole di Gesù, è vero, sembrano offensive: ma dicono tantissimo a loro e a noi, perché il problema, quello vero, non è l’assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di vederlo, di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando ci cammina accanto, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso. Egli è costantemente con noi; cammina sempre al nostro fianco: e continua a spiegarci pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare sé stesso per adeguarsi alla nostra situazione, di abbandonare la sua rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l’immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; ecco perché si è messo in viaggio, quel viaggio lunghissimo che l’ha portato dall’eterno al finito, dall’essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta alla precaria incarnazione umana. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. E continua a “camminare” con noi, perché non può fare a meno di noi: Egli ci ama e, si sa, l’amore è sempre in movimento: e a fronte di quel pochissimo che chiede, ci restituisce di gran lunga, in assoluto,  più di chiunque altro. 
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l’intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo... 
È un momento di grande tensione: i due ─ pur essendo stati amabilmente insultati ─ ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che quel tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il loro cuore finalmente si riscalda. Poi il tepore diventa calore, il caldo diventa fuoco dalle ardenti fiamme incontenibili.
È così che Gesù ci educa; è così che ci insegna a fortificare la nostra fede: non prendendo vigore dallo stupore per i suoi miracoli, ma dal fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto con cui egli trasmette il suo messaggio d’amore. Egli allude proprio a questo quando, alla nostra richiesta di restare con noi, ci mette in condizione di superare ogni tristezza, ogni solitudine, il nostro vuoto, la nostra delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, resta con loro. Si ferma e resta con noi: Egli non ci abbandona, si ferma eccome! Perché è Lui che vuole “fermarsi”, è Lui che vuole “restare con noi”: è sufficiente che noi glielo chiediamo! E Gesù entra con loro.
Se lo invitiamo, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. “Mane nobiscum Domine, rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!”. No, Signore, non andartene! Non lasciarci mai soli, soprattutto in questi momenti, quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
Ed è qui, grazie alla sua presenza, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! “Ma egli sparì dalla loro vista”.
Scompare: noi non lo vediamo, ma Lui non se ne va: non può abbandonarci, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Cristo risorto, vivo, continua pazientemente a camminare al nostro fianco, a fianco di ogni uomo, gli parla con la sua Parola, si dona a lui nell’Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più “tramonti”, quella salvezza illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l’unica luce destinata a non scomparire mai. Amen.

 

 

venerdì 14 aprile 2023

16 Aprile 2023 – II DOMENICA DI PASQUA


Gv 20,19-31
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e a rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare tutti noi, suoi discepoli di oggi: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavandone quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito di annunciare nel mondo la sua Parola e di dare vita alla sua Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per continuare nella Chiesa la stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che ci succede ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: riviviamo cioè, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto; egli è presente in mezzo a noi: non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di cui anche noi abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo distintamente la sua voce salutarci, dentro di noi, con “Pace a voi!”, il saluto rivolto ai discepoli radunati nel cenacolo; lo stesso identico saluto che tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, rivolgono ai fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione Eucaristica.
È dunque con la Santa Eucaristia che possiamo rinnovare ogni settimana il nostro appuntamento con Gesù, e rivivere intensamente quei momenti che sono per noi insieme forza e perdono.
Sono prima di tutto “forza”: quando, soffocati dalle nostre paure, dai nostri segreti, dalle nostre “chiusure”, dai nostri contorti “distinguo”, incontriamo il Risorto, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore, percepiamo che i battiti irresistibili del Suo cuore ci catturano e sciolgono la nostra aridità, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà: e in quel preciso istante sentiamo il nostro cuore ricaricarsi di generosità, di entusiasmo, ritrovando la voglia di vivere, di ripartire, di cambiare vita; la voglia insomma di essere migliori. È solo nell'Eucarestia, insieme a Lui, che possiamo quindi ritrovare il coraggio e l'energia che avevamo perduto, e affrontare serenamente tutto quello che ci sembrava impossibile.
Quei momenti sono anche “perdono”: sappiamo dai Vangeli che Gesù, nella sua vita terrena, ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare.
Ebbene: quando ci presentiamo alla sua Cena, sentiamo di rappresentare un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Per questo ci presentiamo a Lui confidando nella sua misericordia, nel suo perdono.
Prima però di “ricevere”, dobbiamo imparare a “dare”, a perdonare, cioè, sia i nostri fratelli che noi stessi: noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri, proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista, ma esso c’è, e corrode il nostro cuore, la nostra anima, ci incattivisce, e nei momenti più impensati, egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare quell’Amore vero che potremo rivolgere ai nostri fratelli.
È necessario quindi che in ogni santa Messa, la nostra anima raggiunga questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, siamo noi, i peccatori del Vangelo, i “pubblicani”, la prostituta, i farisei: e come loro, ci prostriamo davanti a Gesù per chiedere e ricevere il suo perdono, e potergli esprimere di cuore, come Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. È la nostra intima e sincera esclamazione d’amore, avendo sperimentato, anche noi come lui, la meravigliosa e rassicurante esperienza del Cenacolo.
A questo punto non serve più ascoltare le esperienze degli altri, perché l’incontro con Dio è un evento diretto, personale, esclusivo: tutti lo devono personalmente “toccare”, tutti lo devono incontrare e ammirare con i propri occhi; non ci si può accontentare dei racconti, delle idee, delle intuizioni altrui, impossibile provare quelli che sono i “loro” momenti esclusivi: saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, senza averne mai sperimentato un buon bicchiere, senza aver provato quanto esso sia inebriante ed eccitante; unicamente l'esperienza diretta delle cose può produrre la vera conoscenza, soprattutto quella intima, del cuore.
Non c’è bisogno quindi che le nostre liturgie eucaristiche ci “parlino” di Dio, non devono abbondare in parole e spiegazioni, spesso eccessive e inopportune; esse devono al contrario farci “sentire” Dio che ci parla, devono farcelo sperimentare personalmente; devono trasmettere passione, farci sentire “toccati” da Dio, dalla sua presenza: i canti, i riti, la partecipazione dell’assemblea, le acclamazioni, i gesti, diventano “efficaci” solo se ci mettono in intimo contatto con Dio; perché se non ce lo fanno “sentire”, se non ce lo fanno “toccare”, se non lo fanno “risorgere” nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono assolutamente a nulla, sono inutili: possono essere al massimo piacevoli evasioni dalla quotidianità, momenti di aggregazione fraterna, ma non realizzano il nostro incontro personale con il Dio della Vita, non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui fa vibrare la nostra anima, la nostra sete di Infinito. Noi abbiamo bisogno di queste emozioni, perché sono esse che ci costringono a fare i conti con la nostra realtà, a verificare le nostre risorse, le nostre potenzialità, a toccare con mano tutte le “ferite”, le miserie, le debolezze che ci affliggono, e chiedere umilmente alla sua misericordia di aiutarci a guarire e a risorgere. Se ciò non avviene, purtroppo le nostre belle cerimonie, le nostre belle celebrazioni eucaristiche non raggiungono il loro scopo!
La Messa è incontro, è colloquio, è guarigione. Chi non ha ferite nella vita? Chi non ha bisogno allora di incontrare Gesù nell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere gravemente ferito, non fa di tutto per andare dall’unico medico che può guarirlo? La Comunione della domenica, fatta in grazia di Dio, è esattamente quel balsamo, quella crema, quell’unguento, in grado di guarire le nostre ferite. Andare a Messa allora non è più un “dovere”, un’abitudine da mantenere; ma è il “bisogno” profondo, la necessità improrogabile di incontrare Gesù, di ricongiungerci con Lui, di trarre da Lui Vita e Amore. Provando ogni volta gioia e serenità! Amen.

 

  

sabato 8 aprile 2023

09 Aprile 2023 – SOLENNITÀ DI PASQUA: Risurrezione del Signore Gesù


Gv 20,1-9 
Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

 Maria di Magdala, che aveva amato così tanto Gesù da non poter accettare l’idea della sua morte, la domenica di prima mattina, quando era ancora buio, si reca al sepolcro.
È completamente frastornata: nella sua mente rivive ancora le immagini strazianti degli ultimi istanti di vita del suo Gesù. Arrivata al sepolcro, ancora assorta nei suoi pensieri, nota da lontano che la pesante pietra posta a chiusura del sepolcro non c’è più: qualcuno l’ha rimossa.
Rimane sconcertata: non pensa, non controlla, non ragiona; la sua reazione è immediata: deve avvisare subito i discepoli: il suo cuore batte all’impazzata, ma corre, corre veloce, trafelata e piangente, da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quel Giovanni che Gesù prediligeva.
Singhiozza, urla che qualcuno ha rubato il corpo di Gesù, ma tra i singulti del pianto, non si fa capire molto. Di fronte a tanta disperazione, i discepoli si rendono conto che qualcosa di grave dev’essere successo, e corrono; corrono anch’essi affannosamente, seguiti da Maria, nel silenzio di una città ancora immersa nel sonno.
Il sole inizia pigramente a fare capolino sull’orizzonte, rischiarando appena le pietre color ocra dei fabbricati. I mercanti più mattinieri stanno iniziando pigramente ad esporre le loro merci sui banchi: è il giorno successivo al riposo del sabato. I tre non se ne curano e continuano a correre: lasciano al loro fianco la cava di pietra in disuso, quel Golgota che i romani avevano destinato come luogo per le esecuzioni capitali e le crocifissioni; i pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano ancora sinistramente in alto, aspettando nuovi condannati.
Nulla li distrae, corrono sempre, senza sosta; ormai il fiato manca; la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, in debito di ossigeno, rallenta un po’, mentre gli altri scendono velocemente verso il sepolcro. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba messa a disposizione da Giuseppe di Arimatea, è realmente aperta: la pesante pietra che ne bloccava l’ingresso è rovesciata, rotolata di lato.
Giovanni, giunto per primo, si ferma e aspetta; le tempie gli pulsano, ansima rumorosamente, mentre si china per guardare all’interno; arriva anche Pietro e, in segno di rispetto, gli cede il passo: abbassando il capo, entrano entrambi. Nulla. Non c’è nulla. Gesù è veramente scomparso. Il lenzuolo, afflosciato, e il “sudario”, il telo che fasciava la testa, giacciono entrambi abbandonati, esattamente al loro posto, come se il corpo di Gesù si fosse dissolto. Nient’altro. Gesù è scomparso e nessuno sa che fine abbia fatto! Ma loro, i discepoli, lo sanno bene: lui è risorto come aveva annunciato.
Ecco: Questa è la Pasqua cristiana: Cristo è veramente risorto. La lunga corsa di Pietro e Giovanni e il sepolcro inesorabilmente vuoto, sono le icone della giornata di oggi.
Quella tomba che Maria di Magdala e i due discepoli quel mattino trovarono vuota, è ancora lì, a Gerusalemme, muta testimone della risurrezione di Cristo. La corsa dei discepoli è la nostra corsa, verso colui che ci aspetta sempre a braccia aperte.
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”: è la domanda che Gesù rivolge ai suoi che lo piangono: parole che ci toccano, che devono farci riflettere profondamente, perché anche noi, troppo spesso, ci ostiniamo a cercarlo tra i morti.
Se veramente vogliamo trovarlo, dobbiamo cercarlo dove Lui è vivo, dove lui è presente! Sicuramente non tra i creatori di morte, tra coloro che con i loro pregiudizi uccidono ogni speranza, tra coloro che inquinano la vita e le relazioni umane, tra gli indifferenti, gli egoisti, i pessimisti; certamente non lo troveremo tra coloro che vivono con l’unica preoccupazione di arricchirsi, che si nutrono solamente di crudo individualismo e non di carità e amore fraterni; non lo troveremo tra chi non vuol perdonare, tra chi cerca la vendetta e la ritorsione; non lo troveremo tra coloro che non nutrono alcuna speranza e non credono in una vita futura di pace per tutti i giusti.
Lui, il Dio nudo, appeso, osteso, il Dio umanamente sconfitto, straziato, crocifisso, deposto morto sulla fredda pietra di una tomba, ora non c’è più, è risorto: perché Lui è il vincitore assoluto della morte, della Sua morte, della nostra morte, di qualunque morte! Perché Lui è Vita, vita immortale.
È “risorto”, non rianimato, non ripresosi, non vivo semplicemente nel ricordo. Gesù è veramente vivo, è presente per sempre in carne ed ossa.
Non è facile credere a questa notizia, lo so bene: avremo modo, nei prossimi cinquanta giorni, di verificare la fatica che gli stessi apostoli hanno fatto per convertire il loro cuore a questa sconcertante verità.
Nell’attesa di poterlo anche noi un giorno incontrare, dopo questo nostro difficile cammino, apriamoci oggi alla gioia della risurrezione. Facciamolo con i nostri fratelli, con i nostri cari, rallegriamoci con loro, soprattutto “crediamo” con loro: perché è la fede che, superata qualunque difficoltà, ci aiuterà a gioire fin d’ora, nella prospettiva di quella gioia futura, autentica, unica, immortale; una gioia che dobbiamo conquistare attraverso la croce, attraverso la risurrezione; una gioia che dobbiamo costruire da vivi. Perché è qui, tra i vivi, che Cristo ci sta aspettando.
Non siamo più schiavi della morte, non siamo più dei prigionieri senza scampo: Gesù è risorto! Gesù è vivo: gioiamo! Facciamo che la nostra vita diventi offerta di serenità per quanti soffrono.
Cristo è risorto perché tutti potessimo risorgere con Lui. Lui, l’Agnello senza colpa, ha redento le sue pecore, ha riscattato i peccatori riunendoli al Padre.
Se siamo convinti di questo, capiremo allora che la Pasqua ─ al di là delle uova di cioccolato e delle campane a festa ─ è la vittoria dell’amore, è la pienezza della vita immortale, è il terribile duello con la morte che il Figlio di Dio, vittima sacrificale per la redenzione delle sue creature, ha definitivamente superato e vinto.
Tutto dunque è compiuto come lui aveva predetto! Tocca ora a noi credere veramente, tocca a noi vivere da risorti, testimoniando il Risorto lungo le strade della vita, della nostra “Galilea”.
Noi, discepoli affannati per il correre, discepoli sempre in ritardo rispetto alla forza dirompente di Dio, dobbiamo accettare la sfida della fede; dobbiamo smetterla di cercare Cristo tra i morti, dobbiamo smettere di piangerci addosso e di lamentare un Dio assente: Gesù è risorto, è qui, al nostro fianco! Gioiamo, viviamo, cantiamo, preghiamo: soprattutto dimostriamo a tutto il mondo che Cristo è la nostra Pasqua! Amen.

 

giovedì 30 marzo 2023

02 Aprile 2023 – Domenica delle Palme: Passione del Signore


Mt 21,1-11 
Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma”». I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea» […].

Oggi dunque Gesù fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme. La gente applaude, agita in alto i rami strappati dalle palme e dagli ulivi, stende i propri mantelli al passaggio del Rabbì di Galilea. Breve gloria prima dell’ignominia, fragile osanna prima del delirio. Ma Gesù sa, sente, conosce ciò che sta per accadere. 
Troppo instabile il giudizio dell’uomo, troppo vaga la sua fede, troppo ondivaga la sua volontà.
Ma che importa? Gesù ora sorride, ascolta la lode che la folla rivolge a lui e che egli dedica al Padre. Messia impotente e mite, energico e tenero, affaticato e deciso.
Non entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro bianco, non ha soldati al suo fianco che lo proteggono, nessuna autorità lo riceve: entra in città cavalcando un ridicolo asinello, ricordando a noi, malati di protagonismo, che il potere è tale solo se esercitato nel “servire”, che la gloria degli uomini è solo inutile, breve, effimera.
Osanna, figlio di Davide, Osanna nostro incredibile Dio, nostro magnifico re.
Osanna dai tuoi figli poveri e illusi, feriti e mendicanti, Osanna re dei poveri, protettore dei falliti, Osanna!
Matteo descrive meticolosamente quei momenti, racconta le ultime ore della missione divina, racconta lo scontro titanico tra il Dio rifiutato e le tenebre incombenti sull’umanità che suggeriscono a Gesù di abbandonare l’uomo al suo destino (“Padre mio, se è possibile passi da me questo calice”).
Ma poi, tutto diventa miracolo. La stessa morte di Dio si tinge di inattesa profonda dolcezza.
Chiudiamo gli occhi, smettiamo di leggere e meditiamo.
Sono molti i personaggi che affollano questo racconto e si muovono intorno a Gesù arrestato, processato e condannato. Ci siamo anche noi: ci riconosciamo un po’ in tutti i vari personaggi, e di certo non ne veniamo fuori bene. La cruda verità che emerge, ci coinvolge profondamente, ci costringe a sentire nell’anima il sapore acre e salato del pianto e del rimorso.
Ci sentiamo coinvolti prima di tutto come “credenti”. È vero, siamo dei credenti non credenti, dei credenti “tiepidi”, del “quando mi fa comodo”, del “quando ne ho bisogno”: ma non possiamo assolutamente considerare questa storia di passione e morte come una favola qualunque, una favoletta del “c’era una volta”, e del “vissero tutti felici e contenti”. Non è possibile. La passione di Cristo è una realtà drammatica che ci investe completamente: nel cuore, nella mente, nella vita; oggi, domani, sempre, sia che lo vogliamo, o che non lo vogliamo; sia che ci sia o che non ci sia qualche Sua immagine a ricordarcelo: perché il Cristo in croce è da sempre e per sempre marchiato a sangue nel nostro cuore!
Siamo anche noi gli “apostoli”: quelli che Gesù chiama a preparare e vivere la sua ultima cena, per poi continuare a celebrarla anche quando lui non ci sarà più. Soltanto che ci dimentichiamo che è la cena dell’amore e della condivisione fraterna, e ci perdiamo nei personalismi, nel voler dimostrare il nostro “valore”, i nostri meriti, nella perversa ricerca di essere sempre i primi, i più grandi, i più bravi, quando invece Gesù ci ricorda che il vero potere sta nel servire, che la vera grandezza è di farci piccoli tra i piccoli, poveri tra i poveri.
Siamo anche noi “Simon Pietro”. Abbiamo come lui tanta voglia di credere e di rimanere fedele alle promesse fatte a Gesù: ma basta il cenno di una serva qualsiasi per farci soggiogare dalla paura. Basta un nulla, e ci dimentichiamo immediatamente che Gesù ha bisogno di noi. Ma incrociando il suo sguardo, sentiamo gli occhi riempirsi di lacrime amare, e il nostro viso, indurito dall’indifferenza, ammorbidirsi nell’emozione profonda del pianto e del suo perdono.
Siamo anche noi “Giuda Iscariota”: quante volte pure noi tradiamo Gesù con un bacio! Tradiamo la sua fiducia, tradiamo il suo amore di Padre; anche quando gli siamo più vicini con il corpo, nell’Eucaristia, il nostro cuore continua ad essergli lontano. Signore, c’è ancora possibilità di perdono per noi?
Siamo tutti dei “Ponzio Pilato”. Anche se cerchiamo di liberare Gesù perché qualcosa ci dice che è innocente, ci lasciamo condizionare dal mondo. Siamo tante banderuole che si animano con il vento del momento. Non ascoltiamo la nostra coscienza (che è il luogo vero dell’incontro con Dio) ma ascoltiamo soltanto ciò che proviene dall’esterno, dalla gente, dal potere, dai pregiudizi.
Siamo uno dei tanti della folla che grida “Crocifiggilo, crocifiggilo”. Gli stessi che qualche giorno prima lo seguivano per osannarlo, per chiedergli una guarigione o un miracolo. Quanto siamo veloci nel cambiare idea! Quanto facilmente ci lasciamo influenzare da chiunque, dalla mentalità comune, dai politicanti, dai tanti “si dice”. Nonostante ciò, Gesù sulla croce, invece di maledirci, dirà: “Padre, perdonali, perché non sanno quel che fanno!”
Siamo tanti “Cireneo”: presi per caso e senza preavviso, capita anche a noi di aiutare Gesù a portare la sua croce che, per un piccolo tratto, diventa anche nostra. Questo ci deve servire per imparare ad essere sempre disponibili, ogni volta che qualche derelitto ha bisogno di un sostegno, anche momentaneo. È vero, non risolveremo i suoi problemi, ma almeno gli faremo sentire una vicinanza amica.
Siamo anche il “buon ladrone”, crocifisso accanto a Gesù. Sentiamo che Lui in quel patibolo ha sofferto per noi, e che anche noi dobbiamo condividere, almeno spiritualmente, questa sofferenza con Lui. In modo che quando verrà il giorno in cui il dolore e la caducità della carne piegherà ogni nostra illusione di immortalità, Gesù faccia sentire anche a noi quella stessa promessa, ci faccia sentire nel cuore e nella mente la Sua vicinanza e la Sua pace. Il dolore, anche quando è grande, non ci salva automaticamente: ma in quei momenti, tra le tue braccia del Padre, sentiremo il paradiso più vicino.
Noi tutti abbiamo dunque di che meditare nell’ascolto della Passione di Cristo: perché ci tocca da vicino, ci fa pensare, ci coinvolge emotivamente. Prepariamoci quindi a vivere degnamente questa Pasqua: evitiamo di considerarla soltanto come una gradita occasione di evasione, di divertimento; accettiamo invece con entusiasmo l’invito di Gesù di accompagnarlo e di vivere con lui questi giorni cruciali e conclusivi della sua missione terrena, che lo vedranno sì morire, ma subito dopo gloriosamente risorgere.
Ed è proprio questo il messaggio importante che dobbiamo cogliere: che dopo ogni nostra sconfitta, dopo ogni prova della vita, dopo ogni “passione”, ci aspetta sempre la “risurrezione”. Ogni caduta, ogni crocifissione, deve coincidere sempre con una nuova rinascita, un suscitare nuove prospettive, nuova consapevolezza, nuova determinazione nella nostra vita.
Dobbiamo farci carico delle nostre difficoltà, delle nostre sconfitte, delle nostre debolezze: perché rappresentano la nostra croce. Una croce che dobbiamo caricarci sulle spalle senza recriminazioni, senza ribellarci; dobbiamo invece abbracciarla, dobbiamo superare la sua drammaticità, e trasformarla in occasione di salvezza, di rinnovo, di purificazione, di amore per Cristo, con Cristo, in Cristo.
Perché solo così capiremo cosa significa essere accolti e amati da Dio come figli.
Approfittiamo dunque di questi giorni per meditare con maggior compostezza interiore queste realtà: non rendiamo inutile il nostro vivere, smettiamo di dare ascolto a ciarlatani mediatici affamati di ricchezze, di superiorità, di egocentrismo, gente senza valori, senza riferimenti spirituali, senza principi morali. Non soffochiamo la fede, coltivando nel nostro cuore sogni di terra, narcotizzanti, asfittici privi di speranza. Guardiamo con fiducia a Lui e capiremo che è Lui l’unica strada da percorrere, poiché è l’unico in grado di cambiare il mondo.
Se meditiamo con fede la sua passione, se lo guardiamo inchiodato sulla croce, non possiamo che rimanere allibiti, costernati, ammutoliti di fronte allo spettacolo di un Dio talmente innamorato di noi, da accettare una morte straziante. Pensiamoci! La settimana che si apre davanti a noi è “santa”: possa veramente farci diventare un po’ più santi, per poter vivere con maggior intensità, riconoscenza e amore una Pasqua speciale, immersi nella gioia e nello splendore del Cristo risorto. Amen.


giovedì 23 marzo 2023

26 Marzo 2023 – V Domenica di Quaresima


Gv 11,1-45 
In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. [...].
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». [...].
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». [...].
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Con il vangelo di questa domenica termina la parentesi di quel trittico “battesimale”, che la liturgia ha tratto dal vangelo di Giovanni, nel quale Gesù si dichiara rispettivamente “Acqua” (sorgente di acqua viva), “Luce” (luce del mondo), “Vita” (risurrezione e vita): tre brani impegnativi, non tanto per la loro lunghezza (sono i più lunghi in assoluto, dopo il racconto della Passione) ma per i contenuti particolarmente indicati per le catechesi dei battezzandi nella notte di Pasqua. 
Anche il testo di oggi, che descrive la morte e il ritorno in vita dell’amico di Gesù, Lazzaro di Betania, eccelle puntualmente nella quantità di particolari, nella loro minuziosa descrizione, nel profondo esame psicologico degli animi: un tema, quello della morte in genere, e di una persona cara in particolare, specialmente quando improvvisa, scuote la mente, crea vuoto, dolore, sofferenza incolmabile, nel senso che la morte è portatrice di morte anche per chi rimane in vita, perché sembra spegnere ogni promessa di felicità. Emozioni che, in questa occasione, hanno coinvolto profondamente lo stesso Gesù, provocandone il pianto.
Ma Gesù è Vita, è colui che dà Vita, quella Vita che è ben più forte della morte. Per Lui “chi vive e ama, anche se muore, non muore”, la morte è un semplice sonno, tant’è che è stato sufficiente chiamare per nome l’amico, per svegliarlo dal suo torpore e riportarlo in vita.
Lazzaro non ha fatto nulla per meritare questo privilegio: l’unico suo merito è la profonda amicizia che lo lega a Gesù. La sua morte e il suo risveglio sono quindi per Gesù, fedele esecutore della volontà del Padre, una ulteriore occasione per rendergli gloria, e dimostrare a tutti che egli, suo Figlio, è veramente degno di fede.
Se leggiamo i vari particolari del racconto, e li adattiamo alle nostre esperienze di vita cristiana, possiamo trarre alcune utili considerazioni.
Così, per esempio, la morte di Lazzaro, rappresenta l’immagine di un’altra morte, decisamente meno appariscente, meno percepibile, meno rilevabile ma, per noi cristiani, altrettanto, e forse più, traumatica di quella fisica: è la morte tragica dell’anima, causata dal peccato, che blocca, vanifica in noi ogni slancio di vita spirituale, interrompe ogni rapporto con Dio, ci allontana drasticamente da Lui, dal suo amore, causando inoltre la totale perdita di quello “slancio vitale”, di quella continua “tensione” verso l’alto che, scavalcando l’ostacolo della nostra materialità, ci proietta nel suo amore.
E non solo: perché quando rientriamo in noi stessi, quando realizziamo di aver, come Giuda, tradito l’unica persona che meritava la nostra totale fiducia, piuttosto che buttarci ai suoi piedi e come Pietro “pentirci amaramente”, ci ergiamo addirittura a giudici, rinfacciandogli, con la stessa prosopopea delle sorelle Marta e Maria: “se tu fossi stato qui con me, la mia anima non sarebbe morta!”: quanta presunzione, quanta ignoranza osiamo mettere nelle nostre insulse recriminazioni, nelle nostre accuse a Gesù di abbandono, di mancato soccorso!  
A quale cecità ci spinge la nostra ingratitudine! Non possiamo rinfacciare a Gesù il nostro insolente rifiuto al Vangelo, ai suoi insegnamenti, ai suoi continui inviti ad amare il Padre; Lui non c’entra proprio nulla! I responsabili della nostra morte spirituale siamo sempre e solo noi. Gesù non abbandona mai nessuno; anzi, proprio nel momento del bisogno, Lui è sempre accanto a noi: per aiutarci, per sorreggerci, per consolarci; mentre noi, calamitati dalle voci fasulle del mondo, rifiutiamo di ascoltare la sua Voce. Eppure, il Salmista era già stato chiaro in proposito, ci aveva messo opportunamente in guardia: “Non indurite i vostri cuori alla voce del Signore! Nolite obdurare corda vestra!(Sal 94,8).
Pensare infatti che la costante presenza di Dio risolva da sola, automaticamente, ogni nostra difficoltà, ponga rimedio ad ogni nostra debolezza, è autentica follia.
Prima infatti di qualunque nostra stolta recriminazione, c’è una domanda alla quale dobbiamo sinceramente e necessariamente rispondere: “Credi questo?”. In altre parole, noi “crediamo in Dio?” Come siamo messi con la fede? Quando affermiamo di credere in Dio, è veramente così? La nostra fede è veramente sincera, cosciente, umile, attenta?
Ecco perché non dobbiamo atteggiarci a “vittime”; ecco perché non possiamo vantare alcun diritto, alcuna pretesa, alcun merito; dobbiamo invece munirci di fede, di tanta fede, di quella fede profonda, incondizionata, con cui poter combattere ogni pericolo di morte spirituale. Tutto il resto è solo presunzione umana, stupida ebbrezza di inutile personalismo.
E qui si innesta il secondo grande tema del vangelo di oggi: la nostra risurrezione finale. Perché la morte, qualunque morte, non è definitiva: ce lo dice Gesù, ce lo documenta il Vangelo; ce lo ripete solennemente la Chiesa, quando canta con fede, nella Pasqua di Cristo: “Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Dux vitae mortuus, regnat vivus. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa.
La morte, che tanto temiamo, è quindi solo quel passaggio obbligato che ci permette di entrare in un’altra vita, in una vita intramontabile, in una vita eterna. La vita presente è provvisoria, rappresenta solo quel tratto di strada che dobbiamo necessariamente percorrere, anche se tra mille difficoltà, mille pericoli e sofferenze, per arrivare al traguardo finale. Ecco perché non dobbiamo guardare alla morte, nella sua tragicità, come all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere lapidata: e l’ha salvata.
La nota veramente consolante del vangelo di oggi, è che, nel riproporci con Lazzaro una situazione di morte, ci spalanca completamente la visione della Vita: è un inno alla vita, perché la vita è più forte di tutto, la vita vuole esprimersi, vuole espandersi, non si dà mai per vinta. Quando tutto sembra finito, la vita ci crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di rinascere e di sbocciare nei modi più incredibili e inaspettati.
Ecco perché a tutti i “Lazzari” di oggi, a tutte le vittime della violenza, dell’odio, dell’egoismo, del peccato, Gesù ordina: “Uscite fuori”. In altre parole: “Non siate passivi, non permettete a nessuno di rinchiudervi in un sepolcro, in cui la vostra anima finirà per marcire, per morire. Non vi rinchiudete in voi stessi, nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti. Liberatevene, “Uscite fuori”. Abbiate il coraggio di ribellarvi a quell’apatia spirituale, che vi porta inesorabilmente alla morte. “Uscite fuori”, state con me, seguitemi, perché con me avrete sempre la Vita, perché Io sono la Vita!”.
Dio vuole a tutti i costi che anche noi, come la terra primordiale, emergiamo dalle grandi acque del male, dal caos di un mondo sempre più lontano da Lui, perché il compito da Lui assegnatoci è di irradiare il calore del suo amore su questa umanità fredda e incredula.
Allora, di fronte a tanto amore, a tanta sollecitudine, “risorgiamo” veramente, usciamo dal nostro sepolcro di morte, dal buio della nostra notte di peccato: se abbiamo sbagliato nei Suoi confronti, riconosciamolo francamente, modifichiamo la nostra vita, i nostri atteggiamenti; se abbiamo qualcosa di nascosto da rivelare, facciamolo, con la fiducia di figli profondamente amati, senza paura, senza sentirci distrutti dalla vergogna. Essere credenti, essere fedeli, amare Dio, non significa essere assolutamente perfetti, sempre in regola, non sbagliare mai; non significa andare sempre al massimo, essere sempre irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; essere veri cristiani significa, al contrario, riconoscersi umilmente persone deboli, bisognose dell’aiuto e dell’amore di Dio; significa accorgersi quando sbagliamo, quando operiamo scelte che non portano Vita, ma solo morte; significa rimanere sempre guardinghi, pronti a lottare contro ogni tentazione del maligno. Essere veri cristiani significa insomma “uscire” da qualunque costrizione mortale: anche se siamo “legati mani e piedi e con le bende davanti agli occhi”, dobbiamo trovare la forza per liberarci e raggiungere la Vita. Perché “venirne fuori”, significa amare sul serio, significa poter un giorno vivere, finalmente, con Gesù e come Gesù, nell’amore eterno del Padre! Amen.

 

 

giovedì 16 marzo 2023

19 Marzo 2023 – IV Domenica di Quaresima

Gv 9,1-41 
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. […].

Il motivo di fondo che domina la scena del vangelo del cieco nato, è il “contrasto”: l’opposizione cioè tra luce e tenebre, tra chi vede e chi è cieco. I personaggi coinvolti, come i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, i suoi conoscenti, descritti tutti da Giovanni con abile realismo, sembrano avere tutti altre cose da pensare, altri interessi da seguire, altri problemi da risolvere: il mendicante cieco è solo una delle tante loro preoccupazioni: lui e la sua cecità non meritano una particolare attenzione! Nessuno, infatti, tranne Gesù, “vede” l’uomo; solo Lui comprende gli enormi disagi causati dalla sua infermità, solo Lui si rende conto dei suoi problemi, delle sue esigenze. Tutti, indistintamente, sono assorbiti dalle loro preoccupazioni.
Prendiamo per esempio i discepoli. La loro immediata preoccupazione è: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. La mentalità ebraica di allora era infatti: “Se uno è malato, vuol dire che lui o qualche suo antenato ha peccato”. Quindi per loro il vero problema è: “Chi è il colpevole? Chi ha sbagliato? Chi è il responsabile?”. In pratica sono quelli che in ogni vicenda vogliono individuare il colpevole, la causa, il responsabile; è un modo per sentirsi liberi, per non farsi coinvolgere, per non essere costretti ad intervenire personalmente: “È colpa sua o della sua famiglia; noi non c’entriamo, non ci interessa, non possiamo fargli nulla”.
Così gli amici, i conoscenti, del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui, è quello di prima”; altri “no”; altri “gli assomiglia”. Per la loro mentalità uno non può cambiare: è così e rimarrà per sempre così. Sono quelli, cioè, che etichettano le persone una volta per tutte, che pretendono di sapere tutto di esse, quelli che pretendono di sapere già cosa uno pensa, ciò che dirà, come si comporta.
Ci sono poi i genitori. Povera gente, non abituata a trattare con le autorità: a quel tempo i capi della sinagoga incutevano un vero terrore: una loro scomunica equivaleva alla morte sociale. Essi hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “Ha l’età, parlerà lui di sé stesso”. In altre parole: “Si arrangi; non vogliamo problemi; abbiamo paura di quello che diranno le autorità!”. Sono quelli che si tirano indietro, che non si espongono.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può essere un “Profeta” e operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. Si barricano cioè dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che le cose possono essere molto diverse da come essi le vedono e le predicano. Ciò che li terrorizza, infatti, è soprattutto la prospettiva di doversi ricredere, di dover cambiare il loro atteggiamento sia mentale che emotivo. Quanta gente c’è anche oggi, che per principio nega ogni evidenza: è sufficiente che la verità si discosti minimamente dalle loro convinzioni, per non ammetterla, per non volerla accettare, per combatterla, per travisarla. Pur di risultare credibili, calpestano le più elementari regole della logica, vivono fossilizzati nei loro pregiudizi, nelle loro rabbie, nelle loro paure. Qualunque pacato scambio di opinioni, con loro è impossibile.
Infine, per fortuna, c'è Gesù. Egli è un uomo libero, non è tenuto a giustificare le sue azioni di fronte a nessuno. Libero a tal punto, che arriverà ad accettare di essere addirittura deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, essenza della sua stessa natura divina.
Ecco perché Gesù vuole che la nostra libertà sia come la sua: perché solo imitandolo potremo assomigliargli; solo così potremo anche noi interessarci veramente dei nostri fratelli, riservare loro tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra completa disponibilità, in modo che si sentano a loro volta fratelli stimati, amati, spinti a diventare anch’essi buoni discepoli.
Egli conclude poi il suo discorso con una espressione molto severa, risolutiva, una specie di sentenza finale, che deve farci riflettere seriamente: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato rimane”.
La frase qui ovviamente è riferita al comportamento dei farisei, protagonisti negativi del processo al cieco nato; ma vale anche per l’intera umanità, cristiani compresi. Cosa vuol dire Gesù in particolare? Che la prima condizione per “uscire” dal peccato è di riconoscere umilmente, in coscienza, di essere nel peccato: solo riconoscendoci peccatori, spiritualmente “ciechi”, saremo illuminati da Dio e il nostro peccato verrà perdonato e cancellato. Se al contrario, siamo convinti di “veder bene”, di essere nel giusto, il nostro orgoglio ci pietrifica, ci rende cioè refrattari alla luce divina: per cui il nostro peccato, reso ancor più grave dall’ostinato rifiuto della luce, rimane in noi, non viene perdonato. In altre parole, solo chi si riconosce peccatore può accedere alla misericordia di Dio; chi invece si ritiene superiore, impeccabile, chi si propone come esempio di virtù, chi millanta un’amicizia con Dio che non ha; chi insomma, nella sua stoltezza, è convinto di non avere alcun bisogno di perdono, di mettersi umilmente in discussione davanti a Dio, questi continuerà a vivere nel peccato, lontano dalla misericordia e dall’amore di Dio. E questa è una gran brutta cosa!
Pertanto, parole come “avere gli occhi aperti”, “guardare attentamente”, “vedere la luce”, si riferiscono ad un unico presupposto: “la nostra conversione”; vogliono dire cioè che dobbiamo diventare “figli della luce”, persone che “vedono” bene se la strada che percorrono, conduce effettivamente a Dio; figli che, consapevoli della loro fragilità, non si fermano sulle loro cadute, sui loro fallimenti, ma umilmente si rialzano, e perdonati, riprendono il cammino.
Le parole di Gesù, indirettamente, ci pongono quindi un’altra domanda, altrettanto impegnativa: “Tu che mi chiedi di “vedere”, sei disposto ad accettare e a seguire ciò che vedrai”? In altre parole: “Tu che vuoi conoscermi, sei veramente disponibile a vivere nella mia imitazione? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue false convinzioni, alla tua fede personalizzata, al tuo egoismo, al tuo orgoglio, alla tua sete di onnipotenza? Perché ricordalo: seguire i miei passi non significa “traguardo, riposo, sicurezza”, ma “cammino, fatica, pericolo”.
La parola “Dio”, in sanscrito, vuol dire “luce”: quindi, solo chi vive “collegato” a Lui, in costante contatto con Lui. potrà sperimentare il flusso luminoso della sua Luce divina, la gioia infinita del suo inesauribile amore; solo così potrà superare indenne l’oscurità del percorso, e ammirare finalmente con gli occhi di perdonato, perché amato, il volto del Padre, “così come Egli è”. E questa sarà, per lui, vita eternamente felice. Amen.