giovedì 8 febbraio 2018

11 Febbraio 2018 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1,40-45). 

Riviviamo per un attimo la scena del vangelo: un povero lebbroso si butta ai piedi di Gesù e lo supplica: “Se vuoi puoi purificarmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Lui e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si riconosce malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Egli quindi si abbandona a Gesù: “Se vuoi puoi purificarmi”.
Curiosa questa richiesta: non chiede di venir “guarito” come sarebbe naturale per chi è affetto da una malattia corporale; Marco in tutto il racconto usa sempre il verbo katarìzo, purificare, rendere puro, inducendo a pensare che si trattasse più di una “infermità” spirituale, che di una situazione corporale compromessa: è pur vero che i “lebbrosi” erano ritenuti tali in quanto peccatori, e che quindi per guarire dovevano “purificarsi” dai loro peccati; ma l’insistente ripetizione di questo verbo rende sicuramente ancor più applicabile a noi la morale del racconto.
Oggi infatti possiamo vivere tutti più tranquilli, poiché la malattia della lebbra è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti: una lebbra meno visibile ma molto diffusa, altrettanto grave e invalidante: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri.
In questo senso tutti noi siamo dei lebbrosi; la nostra vita deve misurarsi continuamente con questa malattia devastante, in tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: con la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta la propria vita perché, quando si guarda dentro non trova nulla, nessun ideale per cui valga la pena di vivere; con la lebbra del rimorso di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; con la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; con la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ma dobbiamo soprattutto fare i conti con una lebbra moralmente ancor più invalidante: con la lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…; tutte lebbre deformanti, che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi inattaccabile da queste forme di lebbra? Sicuramente pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Buttiamoci a terra anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, è spinto infatti dalla necessità vitale di amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di sentirsi accolto da qualcuno, che qualcuno lo apprezzi, che non lo eviti. Ha bisogno insomma dell’Amore che salva.
Gesù di fronte a tanta umiltà e fiducia, prova verso di lui un sentimento molto forte, intenso, quasi di simpatia: è “mosso a compassione”; anzi il termine greco “splanknistheis” va più in profondità, spiega cioè questa compassione come espressione dell’amore materno, di un amore viscerale, tenero, infinito, fatto di tenerezza, dolcezza, misericordia, compassione.
E questo è esattamente l’amore di Gesù: un amore “materno”, un amore che da sentimento, diventa soprattutto azione: “ekteino” “stende la mano”: immaginiamo a questo punto la reazione di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga; e quando Gesù, sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro, si muove decisamente nella sua direzione allungando le braccia, a lui, consapevole della sua deformità, viene spontaneo ritrarsi, quasi a sfuggirgli, a scappar via; ma il Maestro “epsato”, più che “toccarlo” “lo afferra”, lo stringe a sé, lo trattiene con forza, dimostrandogli tangibilmente tutto il suo amore, la sua determinazione (“lo voglio”), e gli dice: “sii purificato”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti affranchi dal rancore, dall’amarezza, dalla vergogna, dal rifiuto della gente che ti ha deturpato, riacquisterai la tua luce, la tua bellezza originale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire anche per noi “purificarci”: ritornare ad essere noi stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea, quel progetto meraviglioso che Dio ha previsto per noi, un progetto che i fatti e le situazioni della nostra fragile umanità hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire: “Amico, liberati da tutte queste incrostazioni, torna ad essere ciò che eri, quella creatura divina che Dio ha plasmato con il suo soffio di vita.
Noi “malati terminali”, deturpati e resi irriconoscibili dalla nostra “lebbra”, buttiamoci dunque ai piedi di Gesù: chiediamo a gran voce di tornare ad essere le creature pure delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Dimostriamogli di aver preso la nostra decisione di conversione, e per il resto confidiamo umilmente in Lui: “Sì, io lo voglio!”. Egli è sempre pronto a correre in nostro aiuto; ma siamo noi in ogni caso che dobbiamo fare il primo passo, perché Dio non può fare nulla se noi non lo vogliamo.
Può sembrare impossibile che un malato grave rifiuti l’offerta di una pronta guarigione, ma purtroppo è così. Perché, nel nostro caso, voler “guarire” spiritualmente, significa “riportare luce e brillantezza” nel buio profondo della nostra anima, fare una pulizia radicale, eliminare con forza le incrostazioni della nostra lebbra deformante. E ciò, nonostante l’intervento amorevole di Dio, richiede da parte nostra una seria e concreta volontà, una ferma decisione a rimettere ordine nella nostra vita disordinata.
È impossibile “guarire” senza questa radicale determinazione. Noi vorremmo invece una purificazione piena ed immediata senza far nulla; senza cambiare situazioni e idee, senza rivedere le nostre presunte verità, le nostre certezze, il nostro modo di non vivere. Ma guarire così è impensabile! Significa al contrario insistere nel nostro percorso di autodistruzione, significa lasciarsi decomporre sempre più dalla “lebbra”, significa abbandonarsi al degrado totale fino al punto di non ritorno. “Io voglio purificarti” continua a ripeterci Gesù: ma noi, siamo realmente disposti a farci “guarire”? Amen.





giovedì 1 febbraio 2018

4 Febbraio 2018 – V Domenica del Tempo Ordinario


«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).

Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù, fissata la sua provvisoria dimora, passava i giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre in casa sua e guarire la sua parente. Un normale episodio di quotidianità che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per una naturale curiosità che ci spinge ad andare oltre e a chiederci quale fosse la malattia che ha colpito la suocera.
Marco parla di “febbre”, una febbre talmente alta da costringerla a letto, ma non dice nulla sulla causa di questa “febbre”. C’è però una spiegazione che potrebbe essere molto realistica. Se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva abbandonato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, togliendo materialmente a lei e a sua figlia il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti.
Profondamente angustiata da tali preoccupazioni, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera sì un “testacalda”, ma sempliciotto, credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante della situazione.
La sua “febbre” non è altro quindi che il risultato di una lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è il segno esteriore di quella sofferenza che le sconquassa l’anima e che non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23s). E questo è esattamente il suo comportamento coerente: corre e va subito da lei. E, come dice il vangelo “si accostò, la sollevò e la prese per mano”.
Fermiamo un attimo l’attenzione su questi verbi:
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era una grande distanza spirituale, ma è Gesù che prende l’iniziativa, è Lui che si fa vicino, che riduce questa distanza, e la incontra.
“La sollevò” (egheiro) che significa “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”: la donna è distesa, abbandonata a se stessa, non vuole avere nulla a che fare con Gesù; ma Gesù le parla, le sta vicino, le dimostra comprensione; e la donna alla fine gli dà ascolto, e si “si solleva” dalla paura che la domina, dalla preoccupazione per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è Lui; perché possa fare di Lui una esperienza diretta e “personale”, perché lo possa “conoscere” a fondo, possa “impadronirsi” di Lui.
A questo punto cosa accade tra loro? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo possiamo supporre che la donna, colpita dalla disponibilità, dall’attenzione, dall’umanità di Gesù, abbia finalmente capito che quell’uomo non era un pazzo, né un fuori di testa. E pertanto lo accetta, lo accoglie immediatamente. Anzi, come sottolinea il vangelo, si alza subito dal letto ed inizia a “servirlo”. Tutta la sua rabbia, il suo astio, sono quindi improvvisamente scomparsi.
Appena incontra Gesù da vicino, appena Lui la tocca, in lei avviene una trasformazione fulminea e radicale: il suo è un passaggio istantaneo dall’ignorarlo, al mettersi al suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto; dall’ignorarlo, dallo stargli il più lontano possibile, al volergli stare sempre accanto; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo in cuor suo come un vero amico, un maestro affidabile, uno su cui poter contare, uno sempre disponibile.
Gesù come al solito ci offre anche oggi un insegnamento fondamentale: c’è qualcuno che ce l’ha con noi, qualcuno che prova rancore nei nostri confronti, perché, magari involontariamente, gli abbiamo fatto un qualche torto? Come dobbiamo comportarci? Purtroppo la prima reazione, quella naturale, è quella di stargli alla larga il più possibile. Ma questo non risolve il problema, semmai crea altra diffidenza, ingigantisce le distanze.
Impariamo invece dal comportamento che Gesù ha riservato a questa povera donna che era arrabbiata con Lui. Egli fa immediatamente due cose. La prima: prende l’iniziativa e va di persona a trovarla. Noi invece preferiamo rimanere nella nostra rabbia, continuiamo a fare gli offesi, pensando che lo sgarbo ricevuto sia in assoluto il più grave: quindi non noi, ma è l’altro deve fare la prima mossa, è l’altro che deve venire da noi per fare ammenda. È vero, quando veniamo feriti, è umano chiuderci in noi stessi: ma se continuiamo a rimanere bloccati dal nostro risentimento, annulliamo qualunque possibilità di incontro; se ci isoliamo nel silenzio, se ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo assolutamente nulla. La seconda cosa: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: è arrabbiata con Lui e col genero, senza sapere come stanno realmente le cose; lei non lo conosce, non sa chi sia, come viva; non sa che il suo modo di pensare, di agire, di vivere, è completamente diverso da “quello di tutti gli altri”; Simone nel piantare la famiglia, il lavoro, tutto, per seguirlo, ha fatto effettivamente una scelta radicale, contraria ad ogni buon senso, difficile da capire, una scelta che la suocera da sola non avrebbe mai potuto approvare, condividere. Aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.
Nel mondo purtroppo c’è tanta rabbia, tanto rancore, tanto dolore: è una prerogativa della nostra condizione umana. Quando una persona è arrabbiata, significa che nel suo intimo è profondamente ferita; e con una persona così debole e sofferente, dobbiamo avere tanta dolcezza, tanto riguardo, tanta comprensione, altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona “ammalata”; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo sul piano della rabbia, non facciamo altro che alimentare una guerra stupida, senza senso; se invece ci incontriamo nell’amore, allora ci capiremo, allora verranno meno l’indifferenza, il rancore reciproco.
È quanto faceva Gesù per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
Molti demoni”: ma quanti dovevano essere all’epoca gli indemoniati? Oggi la gente non crede più al demonio. È portata a pensare al demonio come ad una “creatura”, un personaggio vivo e reale, in carne ed ossa, che quando opera lo fa autonomamente, fuori dalla nostra percezione: e poiché non lo vediamo, possiamo stare tranquilli: non è un fenomeno che ci deve preoccupare. È un fenomeno d’altri tempi!
Ma noi sappiamo bene, invece, che non è così. Il demonio è presente eccome! Il Vangelo ci spiega che è un essere spirituale, uno spirito, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci accompagna e ci segue ovunque, uno che merita tutta la nostra attenzione, perché è un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza: perché suo compito è quello di convincere, di persuadere la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che sono contrarie all’Amore, che esulano dall’Amore. “Demoni” sono quindi tutte le affascinanti lusinghe del male, le luci invitanti del peccato che oscurano la ragione. E autentici “demoni” siamo anche noi, quando adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta. “Demoni”, insomma, siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari quando essa è completamente indebolita, profondamente ferita, totalmente incancrenita.
Come combattere questo demonio? Matteo scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto. Perché la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore. È infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che li possiamo vincere, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere come la sua, intensa: umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è con l’arroganza, con la presunzione, che possiamo vincere i nostri demoni! Amen.
  


giovedì 25 gennaio 2018

28 Gennaio 2018 – IV Domenica del Tempo Ordinario


«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafarnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,21-28).

È sabato. Giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, con al seguito lo sparuto gruppetto di discepoli appena scelti, entra nella sinagoga di Cafarnao e senza tanti preamboli inizia ad insegnare.
E che succede? I fedeli presenti lo ascoltano attentamente, e si rendono immediatamente conto che, pur non essendo uno “scriba”, pur non essendo uno “abilitato” ad annunciare e a commentare la Parola di Dio, Egli parla e insegna con una autorità decisamente superiore alla loro; si rendono conto cioè di stare ad ascoltare uno che, a differenza dei “dottori”, è evidentemente ispirato da Dio, in collegamento diretto con Lui, un suo inviato speciale: le sue parole, che fanno vibrare nel profondo i loro cuori, sono infatti cariche di umanità, di amore, di vita, di speranza, di liberazione. E, profondamente ammirati, si dicono tra loro: “Costui non può essere uno “scriba” qualunque!”.
Ma chi erano mai questi scribi? Da semplici tecnici, esperti nella materiale trascrizione dei testi sacri (l’ebraico sôphêr, da cui scriba, significa appunto scrivano, amanuense) sono progressivamente diventati dei personaggi autorevoli, superiori al sommo sacerdote e alle altre autorità, superiori persino alla stessa Torah, di cui si proclamavano gli unici custodi, gli infallibili interpreti, i soli autorizzati a commentarla.
Ebbene: quel sabato Gesù, entrato praticamente in casa loro, di sua iniziativa e senza alcun preavviso, prende in mano il rotolo della Torah e con grande autorevolezza impartisce una magistrale lezione di vita e di stile, una di quelle che avrà modo di ripetere più volte anche in seguito.
Ovviamente, se la folla dei presenti non si fosse apertamente schierata a fianco di questo sconosciuto dalla grande “autorità”, l’iniziativa di Gesù si sarebbe sicuramente risolta con una dura reprimenda verbale e materiale. Ma tant’è; anche se a malincuore, gli scribi devono fare buon viso a cattivo gioco.
Anzi il vangelo, quasi a voler stornare l’attenzione, prosegue annotando che uno degli abituali frequentatori della sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mette improvvisamente a urlare contro Gesù: una singolare annotazione, che ironicamente suggerisce una domanda: come mai questo poveraccio, nelle precedenti riunioni tenute dagli scribi, non si è mai “ribellato”? Tento una spiegazione: perché con loro egli stava bene, si sentiva al sicuro, a suo agio. Del resto erano stati loro, con le loro interpretazioni, con le loro spiegazioni, a inoculare in lui il veleno dello “spirito immondo”. Egli ha dato loro piena fiducia; non si è mai chiesto se ciò che insegnavano rispondesse a verità, se la realtà fosse questa o un’altra. Non aveva mai avuto dubbi, non si era mai fatto domande: “Questo credevano i miei padri, questo mi hanno insegnato gli scribi, questa è la verità”. È quando arriva Gesù che nascono i problemi, che tutto gli si rovescia addosso: percepisce che chi gli sta di fronte ha ben altra “autorità”; sente che Gesù ha la sapienza, la forza e la potenza di Dio (“Io so chi tu sei: il santo di Dio!”), ma non può accettarlo come Dio, perché egli in cuor suo ha già il suo Dio. E quando Gesù, semplicemente guardandolo, sembra dirgli: “Guarda che non è come credi tu! Guarda che Dio non è come te l'hanno insegnato!”, quando cioè si rende conto che Gesù gli sta smantellando le sue certezze, che sta demolendo le fondamenta su cui ha costruito la sua vita, si sente improvvisamente minacciato, e reagisce con violenza: Che vuoi tu da “noi”, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Perché non ci lasci in pace? Perché non te ne torni da dove sei venuto?
Parla al plurale, il malcapitato, perché in realtà sono in due: lui e il suo demone!
Ebbene: quante volte anche noi abbiamo dato spazio al nostro demone, attribuendo a Dio la colpa dei nostri insuccessi, delle nostre sconfitte, dei nostri dolori, delle nostre malattie, dei nostri lutti. Ma non è colpa di Dio; non è Dio che li vuole: sono purtroppo i disagi della vita, le inevitabili zavorre dell'umanità peccatrice, il pesante bagaglio del nostro terreno peregrinare. Dio non c’entra! Etichettare tutto come “volontà di Dio” è molto pericoloso. Perché con l’etichetta “Dio”, individuiamo immediatamente il responsabile di tutto, e ci dispensiamo dall’andare alla radice del problema, della questione, del suo vero perché. Prendersela con Dio ci offre la giustificazione per non fare passi in avanti, per non crescere, per non cambiare, per non impegnarci, per non soffrire, per non evolvere. Questo tipo di etichettatura religiosa, è la più forte resistenza che noi opponiamo a Dio, per giustificare la nostra mediocrità.
Siamo un po’ come l’indemoniato del vangelo di oggi: ce ne stiamo buoni buoni nella sinagoga. Ma quando Gesù ci smaschera, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, allora reagiamo con una forza inaudita e urliamo tutto il nostro rifiuto, il nostro “no”, a Lui e alla Verità: “Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci?”. Ebbene sì! Dio, quando serve, viene per mandare in frantumi le nostre impalcature, i nostri alibi, le nostre scuse, le nostre sicurezze. Dio è la rovina, la distruzione, l’uragano, il vento che spazza via tutto quanto credevamo verità, salvezza, e non lo era.
Ma ascoltiamo attentamente le parole velenose dell'invasato della sinagoga: “Che c’entri con noi?”. Usa il plurale; ora, è vero, l’uomo non è solo, con lui c’è il demonio. Ma qui egli parla anche a nome degli scribi, i creatori del demone che strazia l’uomo. Le parole di Gesù minacciano anche loro, li destabilizzano, mandano in rovina la loro autorità, il loro prestigio, le loro liturgie: “Invano mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti di uomini, annullando così la Parola di Dio” (Mc 7,7.13).
Insomma sono “loro”, sempre “loro”, i lavoratori del sacro. Ma non vi pare che oggi in quel “loro” ci siamo un po’ anche noi? Questo vangelo infatti provoca parecchio anche noi. Noi ci definiamo cristiani, cattolici, osservanti, spieghiamo la Parola e parliamo di Dio agli altri. Dobbiamo stare molto attenti, perché anche noi, nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, potremmo trasformarci facilmente in altrettanti scribi.
Eh sì, non capita forse anche a “noi”, oggi, di sentirci l’unica chiesa autentica, gli unici fedeli, i veri cattolici, quelli che possono tranquillamente sostituire i preti, quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno frequentato corsi di spiritualità, università cattoliche, specializzazioni liturgico teologiche, quelli che organizzano la carità, quelli che sono convinti di sapere già tutto, e non accettano più alcuna direttiva pastorale perché, tanto, sono convinti di aver sempre ragione loro? È una possibilità molto concreta: senza rendercene conto, diventiamo anche noi come “loro”, come i capi della sinagoga di Cafarnao, come l’indemoniato. Nella nostra fragilità spirituale siamo purtroppo tutti infermi, siamo tutti, chi più chi meno, preda dei nostri demoni; quei demoni che non vogliamo vedere, di cui neghiamo l'esistenza, che non vogliamo prendere in considerazione: siamo “ciechi”, ma pretendiamo di essere “guide” per gli altri, rischiando di portare anche loro nelle tenebre.
“Taci! Esci da lui!” urla Gesù all’indemoniato e a ciascuno di noi; parole dure, forti, autorevoli, perentorie. Ma anche risolutorie e salvifiche. Parole in grado di liberarci dai nostri demoni, di strappare dal nostro cuore, dalla nostra mente, quegli spiriti immondi che ci possiedono, e guarirci.
Certo, guarire è una cosa meravigliosa; ci fa sentire finalmente liberi e leggeri, ci fa recuperare la nostra identità, la nostra dignità, la nostra vita. Ma guarire “fa male”, a volte “tanto male”, è doloroso; perché significa staccarsi da ciò che chiamiamo certezza (spirito) e che invece si rivela malvagio, condizionante (impuro). È una esperienza dura, che richiede molto sacrificio, perché va ad aprire delle porte che non vogliamo aprire perché sappiamo che lì dentro c’è qualcosa che ci fa vergognare, qualcosa di doloroso e di terribile. Per questo tentiamo con tutte le forze di evitarlo e di scappare. Per guarire però, per cauterizzare a fondo le nostre ferite, è necessario talvolta scendere nell’inferno del dolore.
Il vangelo dice “straziandolo e gridando forte” (Mc 1,26). Ebbene: il verbo “straziare” (sparassein, tirare fuori, strappare, dilaniare, torturare) rende molto bene l’idea di questo difficile percorso, di questo drammatico distacco dal maligno: è una lacerazione interiore che però ci affranca, ci ridona la guarigione, la felicità, l’Amore, la Vita.
Non aspettiamo allora che il “nemico” ci immobilizzi; perché, come dice Pietro, lui è sempre pronto, e svolge egregiamente il suo compito: “adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret; il vostro nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente cercando qualcuno da divorare(1Pt 5,8).
Resistiamogli saldi nella fede . Amen!