martedì 29 luglio 2025

03 AGOSTO 2025 – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 12,13-21 
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Gesù sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo; forse centinaia o migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie, importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; al contrario verrà tradito, “sconfessato”, portato davanti ai tribunali; ma non deve mai temere di nulla, perché Dio si preoccupa di lui, pensa personalmente a lui; a Dio non sfugge nulla di quanto lo riguarda, ha contato perfino i capelli del suo capo! 
Sono considerazioni profonde, di interesse generale: ma improvvisamente un tale lo interrompe per porgli una questione personale, specifica, di nessun interesse per gli altri, completamente fuori tema. Ciò che preoccupava il tizio era infatti un problema di ordine economico: per poter espandere i suoi commerci, incrementare i suoi utili, le sue ricchezze e darsi finalmente alla bella vita aveva cioè urgente necessità di ampliare i suoi magazzini, insufficienti a contenere i raccolti eccezionali dei suoi poderi; ma c’era un problema: suo fratello non voleva cedergli proprio quella parte di eredità comune, indispensabile all’ampliamento. È chiaro a questo punto che al tizio stanno più a cuore i suoi interessi economici che non gli insegnamenti di Gesù: in pratica gli dice: “Mio fratello sta commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”.
Ma Gesù, che gli legge dentro, di rimando: “Sono forse io il giudice che deve sentenziare tra te e tuo fratello?”. In altre parole: “Tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché sei avido, sei geloso di chi è più ricco di te. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, non interrompermi per i tuoi interessi inutili. Perché ammesso anche che tu ottenga l’intera eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono a nulla; e non ti servono a nulla perché il tuo cuore non è libero, vivi solo per i soldi, vivi solo per accumulare, sei schiavo delle tue ricchezze”.
Attenzione: Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Al contrario Egli vuol sottolineare una triste realtà: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che si comportano come voi, tutti quelli che pensano come voi solo ad arricchirsi, a voler tutto in questa vita, alla fine, quando moriranno, perderanno tutto: perderanno la vita, le ricchezze e soprattutto perderanno l’anima, la parte più produttiva, più feconda, più vera della loro esistenza: poiché era l’unica che poteva assicurare loro la gioia eterna di un’intima relazione d’amore con Dio.
Le parole con cui Gesù spiega questo concetto, sembrano quasi una maledizione divina: “Visto che tu hai accumulato tutto, io ti tolgo tutto!”. È invece una triste considerazione, una anticipazione di quanto realmente accadrà a tutti quelli che durante la loro vita hanno ignorato completamente di “arricchirsi” anche e soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno avuto alcun interesse per la propria anima, che hanno svenduto la propria esistenza soltanto per il lusso, le ricchezze, i “magazzini” stracolmi, le cose materiali: “Chi vive così, finirà così!” sentenzia Gesù. Le illusioni passeggere del presente devono fare i conti con il futuro, con una realtà che abbiamo volutamente ignorato, con quelle certezze che in vita non abbiamo voluto prendere in considerazione.
L'uomo della parabola, preoccupato solo di arricchirsi, è “anonimo” come tutti i “ricchi” descritti nel vangelo. Non viene identificato con un nome proprio, perché non merita una identità personale: tutta la sua attenzione è infatti concentrata unicamente all’esterno; la sua vita è una continua ricerca di quelle ricchezze che ancora non possiede, e che forse mai potrà possedere, ma che egli comunque vuole a tutti i costi; per essi ha svenduto la sua anima, la sua personalità, in cambio di beni effimeri, temporanei. E in questa affannosa ricerca finisce col perdere l'unica cosa preziosa che possiede: sé stesso. 
Gesù l’ha detto chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di chi amiamo, la crescita dei nostri figli, la forza trainante di una vera amicizia? Significherebbe vivere come l’uomo descritto subito dopo dalla parabola, in una situazione tragicamente irreale, con una visione del tempo totalmente sfasata: per lui il presente non esiste, parla e pensa unicamente al futuro: “Farò così, farò colà, demolirò, costruirò, raccoglierò”. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, tutto passerà, perché tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive per sempre. La vita ha una sua durata temporale ben definita e immutabile: inizia, cresce, raggiunge il suo apice, finisce. Ciò che in questo percorso abbiamo rinviato, scartato, perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Incurante di ciò, quell'uomo  continuava ad illudersi: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi darò alla pazza gioia”. 
Quante persone continuano a rimandare continuamente i momenti più importanti della vita, perché c’è il lavoro, la carriera, l’affermazione sociale, i guadagni da aumentare, la corsa al benessere economico. Purtroppo, per l’uomo di ogni tempo, il meglio, quello che conta, quello che desidera nel proprio cuore, è sempre quello più lontano, quello più difficile, più proibito, quello che egli vuole e deve ad ogni costo raggiungere. Tutto il resto, molto più appagante, più a portata di mano, come vivere in pace con la propria coscienza, con Dio, con sé stessi, con la famiglia, con gli amici più cari, tutto può aspettare: per cui rimandano, rimandano, rimandano! Poi, un giorno, improvvisamente, tutti i loro progetti, i loro sogni, i loro traguardi, si frantumano: di fronte ad un evento tragico, ad un contrattempo imprevedibile, ad una malattia fulminante, alla morte! Dalla sera alla mattina, ogni loro ambizioso progetto si rivela una inutile, stupida, irrazionale illusione. 
Purtroppo, per natura, noi siamo portati a desiderare tutto ciò che non abbiamo, e non ci rendiamo conto che possediamo già il meglio, tutto il desiderabile, che dentro di noi abbiamo già “il tesoro” più grande e prezioso al mondo: la nostra anima, lo Spirito che ci inabita.
Inutile illuderci, inutile sprecare il nostro tempo: nessuna ricchezza terrena, nessun prestigio, nessun riconoscimento esteriore potrà mai farci sentire importanti, appagati, se non siamo coerenti, se non siamo spiritualmente onesti, sicuri di noi stessi: nessun “Dio” di questo mondo, infatti, può farci sentire più vivi, più realizzati, più vincitori di quanto riesca a fare la nostra coscienza, quando riusciamo a compiere quelle indicazioni di “vita” che il “nostro” Consigliere, lo Spirito di Dio, con infinito amore, puntualmente ci suggerisce. 
Amen.

 

martedì 22 luglio 2025

27 Luglio 2025 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 11, 1-13 
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era infatti naturale, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile.
Qui Gesù spiega ai discepoli e a noi non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.

«Quando pregate dite: Padre».
“Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione.
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Ecco, Dio è proprio così, figlio mio!”.
Ebbene: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio.
È Gesù stesso che ci ha parlato di Dio come di un Padre. E come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”: è uno che deve soprattutto imparare ad amare come ama Lui, con la sua stessa apertura e accoglienza.
Quella che Gesù ci propone è l’immagine di un Dio decisamente nuova: a Dio infatti non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù propone come modello di credente, un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto, poiché solo lui ha misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i religiosi, gli osservanti della legge, come il sacerdote e il levita, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza materiale, stretta e letterale, a tutte le leggi (il sacerdote e il levita) ma vuole che l’amore che noi riceviamo da Lui, non rimanga infruttuoso, ma al contrario dobbiamo sentirlo, percepirlo, accettarlo, in modo da condividerlo, espanderlo, riversarlo su tutti i nostri fratelli, come fece il samaritano: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Con Gesù, dunque, tutto è cambiato rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, ma è Lui che serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se le religioni dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù (“to eu anghelion” - la “buona notizia”), dice invece ciò che Dio fa per l’uomo: lo ama spontaneamente aldilà di ogni cosa.
San Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15).
Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.

«Sia santificato il tuo nome».
Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva. Noi infatti non “santifichiamo il nome di Dio”, cioè già lo “bestemmiamo”, quando sprechiamo la nostra vita con i suoi doni; bestemmiamo Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, per dipendenza o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; bestemmiamo Dio tutte le volte che i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite prescindendo da lui, senza amore, senza fondamenta, senza ideali: sono vite inconsistenti, inutili, superficiali, banali. Allora possiamo anche confessare di aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio: ma dobbiamo anche e soprattutto chiedere perdono quando con la nostra vita ci rifiutiamo di compiere quelle cose che Dio si aspetta da noi, disprezzando la loro grandezza, la loro bellezza, la loro delizia. Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto conosciamo di Dio. Allora adoriamo il suo mistero; non abbassiamolo, per cercare di capirlo, alle microscopiche possibilità della nostra mente. Dio è infinitamente più grande di ogni nostra possibilità, Dio è oltre, Dio è una tale esperienza d’amore che noi non riusciremo mai di conoscere, di capire, di sperimentare; per quanto ci sforziamo di capirlo, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà continuamente, ci sbalordirà sempre e in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è Santo, è Altro, è Oltre.

«Venga il tuo regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun sovrano ne fu all’altezza! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto, senza la conversione del cuore, si è rivelato inefficace. Quindi si pose in attesa di un intervento diretto di Dio (apocalissi). Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la intransigente osservanza delle leggi (i farisei). Infine venne Gesù che non disse più: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è vicino a noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più autentica la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non ci tiriamo indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.

«Dacci ogni giorno il pane quotidiano».
Gesù, alludendo al pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il pane “che costruisce”; un concetto che (tradotto in greco “epiousion”, e in latino “super-substantialem”), caratterizza quindi un pane che va ben oltre il semplice “cibo quotidiano”, il pane del fornaio; noi chiediamo infatti a Dio un qualcosa di soprannaturale, di decisamente più importante: è quel pane sostanzioso, quel pane vero, miracoloso, che sfama l’anima. Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di questo cibo “particolare”: un po’ di silenzio, un dialogo profondo con noi stessi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio, sull’anima; una parola, una lettura che ci insegnino qualcosa, che ci facciano riflettere; un abbraccio che ci faccia sentire “compresi”, amati; un po’di preghiera con cui rasserenare le nostre preoccupazioni, ascoltando il canto dell’anima che si sente al sicuro, tra le Sue braccia. Noi in questo modo possiamo pian piano nutrire la nostra vita, plasmarla, darle la forma che desideriamo.
Tocca a noi scegliere questo cibo “nutriente”, spirituale: non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta. Dobbiamo fare molta attenzione al nostro disimpegno, perché non voler scegliere, è già una scelta, e spesso problematica!
Non è vero che tutto è uguale, che una cosa vale l’altra: avere per amico una persona o un’altra, non è la stessa cosa; così, se ciò non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere prodotti solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo farlo anche per l’igiene della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita ciò che abbiamo sottomano, qualunque cosa ci capiti davanti; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima. Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici, i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Se invertiamo l’ordine delle lettere alla parola “pane(lehem), essa diventa meleh, cioè “sale, saggezza”: è la “saggezza”, quindi, che deve essere il nostro nutrimento quotidiano, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”, pieni di gusto, di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di Dio, dell’universo.

«E condona (afìemi) i nostri peccati…»
Se poi al termine “saggezza-meleh” (traslitterazione di lehem-pane), sostituiamo la vocalizzazione, allora otteniamo la parola mahol, che vuol dire “perdono”.
Per cui, anche il perdono è il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che noi abbiamo fatto e continuiamo a fare, nonché la forza di perdonare quanti fanno del male a noi. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare sempre che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Ma in particolare dobbiamo perdonare anche gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che prò continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che ognuno possa pensare come meglio crede, accettando la possibilità anche di venire feriti?
“Perdono” in ebraico oltre che mahol si dice anche kafor, che letteralmente vuol dire “coprire una ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono.
Il perdono deve essere il nostro “habitus” giornaliero, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.

«… perché anche noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Noi possiamo condonare, perdonare tutto ai nostri fratelli, solo se noi stessi abbiamo fatto personalmente esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “condonare”.

«Non abbandonarci alla tentazione».
Ritengo più corretta e pertinente l’antica traduzione che diceva “non ci indurre in tentazione”: infatti il verbo greco eisenènkes, e quello latino inducas, esprimono entrambi esattamente lo stesso concetto, cioè non “in-ducere, indurre, introdurre, portare dentro, nella tentazione”.
Nell’Antico Testamento il termine tentazione inoltre non indica mai una “sollecitazione al male”. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo. Pertanto la tentazione, la prova, altro non è che un passaggio obbligato attraverso cui crescere, maturare, e poter andare avanti, ricchi delle nostre esperienze. Infatti nahasc (il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da superare: se noi lo superiamo, la nostra anima si illumina di una luce, di una consapevolezza, di una potenzialità, di una forza, prima completamente nascosta, segreta. Il suo significato quindi è sempre positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo crescere, dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, la generosità che c’è in noi.
Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”; Dio non tenta nessuno! Gli chiediamo invece di risparmiarci qualunque situazione pericolosa; come a volergli dire: “sai che sono debole e povero; vigila tu su di me, affinché le tentazioni e le prove non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che la tentazione del maligno abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano e fa’ che non cada sotto un peso troppo grande per me”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente in linea con la misericordia e l’amore di Dio.
Infine, dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: con la prima ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo inopportuno, anche in modo “sfacciato”. A Dio, cioè, possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere, tutto ciò che siamo, tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà. Con la seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece cosa significa avere Dio come “padre”: ogni padre infatti sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non permetterà mai che la vita ci riservi contrarietà tali da risultare per noi insuperabili. Essere convinti di ciò, anche nelle prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo, o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una tragedia.
In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde alle nostre aspettative; noi cerchiamo e Lui ci fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le strade che noi avremmo gradito, perché in ogni caso noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, mi ama, e questo mi basta”. Consapevoli di ciò, anche noi allora fidiamoci di Dio: tranquillamente. Amen.

 

mercoledì 16 luglio 2025

20 Luglio 2025 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 10, 38-42 
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» 

Continuando il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai tempi di Gesù, che in questo modo ha infranto ancora una volta usanze, schemi e convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante. Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un messaggio “nuovo”. 
Storicamente dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania: è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide di fermarsi a casa delle due donne.
A questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia perfetto, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica, “esteriore”.
Maria, invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta, ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo, quello di Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo insegnamento.
Marta non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.; tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo. Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno? Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di confidarsi.
Marta questo non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le dà una mano; ella purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: lei quindi si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto dando da fare per te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse contro la sorella. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di cuore!”. Ma non succede…
Lei non ha dubbi: Gesù in casa sua deve sicuramente trovarsi bene: è lei che gli ha messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua, per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata, perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco perché dobbiamo imparare a conoscere le nostre necessità, a conoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle sugli altri, pretendendo che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede. Perché Marta non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù dalla sua parte contro di lei?
Purtroppo troppe persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi! Vanno piuttosto dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un altro non serve a nulla, se non a farci compatire.
Maria, al contrario di Marta, coglie al volo il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei che parla, non è lei che deve decidere ciò di cui Egli ha bisogno. Quando Egli arriva, lei non dice una sola parola, semplicemente lo ascolta, e svuota il suo cuore, perché Gesù entri e si senta pienamente accolto.
Quando dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci su come comportarci, su cosa dirgli, di cosa parlare. Impariamo ad ascoltare, e tutto viene da sé. Non pretendiamo di indottrinare e di cambiare la gente secondo i nostri gusti.
Facciamo come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego onnipresente, creiamo spazio, perché chiunque possa entrare, portare sé stesso, sentirsi a proprio agio e mostrarsi serenamente per quello che è. Offriamo agli altri quella stessa accoglienza che tutti noi vorremmo ricevere.
Il vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù: stava cioè a contatto con la terra (humus), e ciò indica prima di tutto un suo atteggiamento di umiltà (humilitas). Ed è così che dobbiamo accogliere i nostri fratelli; dobbiamo cioè far capire loro che siamo lì con la massima disponibilità. Essi questo lo sentono, lo percepiscono subito: e in quello spazio d'amore che offriamo, essi potranno finalmente esprimere le loro paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni impossibili; avranno insomma la possibilità di piangere e di ridere, potranno disperarsi ed essere consolati, sentirsi al sicuro, protetti, capiti, amati.
A loro insomma dobbiamo offrire la stessa opportunità che Gesù ha concesso a Maria: di sperimentare ascolto, carità, amore vero, amore autentico.
Sono queste le cose vitali di cui ha veramente bisogno il mondo; e sono proprio queste, le virtù essenziali che ci impediscono di morire da egocentrici, accartocciati nella nostra arida insensibilità. Amen.

  

giovedì 10 luglio 2025

13 Luglio 2025 – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 10, 25-37 
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 Il vangelo di oggi si concentra sulla parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento, puramente provocatorio, di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in difficoltà Gesù, l’unico vero “Maestro”. Che lui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano seduti e in silenzio le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di cercare una sfida tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”. 
Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: il classico verbo, usato proprio per descrivere le tentazioni del maligno
La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.
La sua, oltretutto, è la classica domanda, una delle domande fondamentali, tipica della gente comune, non particolarmente religiosa: gente cioè il cui principale scopo della vita non è certo quello di amare e onorare Dio e il prossimo con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutta la vibrazione del loro cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante è di trovarsi “in regola”. Nessuno di queste persone, in pratica, cerca veramente Dio, nessuno cerca l’altro, nessuno cerca di “vivere” veramente. Ciò che conta è semplicemente l’osservanza delle regole, “tirare avanti alla meno peggio”. Una domanda, quella del dotto ebreo, che oggi potrebbe suonare più o meno così: “Gesù, cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa suggerisce la Chiesa?”. Una domanda che, se posta diversamente, con umiltà e sincerità, sarebbe stata sicuramente lecita e lodevole. Ma Gesù non cade nel tranello del suo tentatore, capisce bene dove lui vuole arrivare; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; l’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, gli risponde a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: se osserverai la legge, sicuramente otterrai la ricompensa prevista dalla legge”. Chiuso. Tutto chiaro! 
Ma l’esperto dottore non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”. 
E qui Gesù lo confonde completamente: la sua risposta questa volta, per essere capita, richiede una mentalità ben diversa da quella legale, tipicamente fredda, statica, razionale. Egli non avrebbe mai potuto capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità; per lui tutto si riduceva a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni legali, per cui il “prossimo” poteva essere soltanto un famigliare o al massimo un concittadino. Gli altri erano esclusi! L’esatto contrario dell’insegnamento di Gesù, per il quale l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste più la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, ovunque, con chiunque: punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che ordina di amare, non la legge! 
Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico dei poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla politica. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta! 
Il dottore della legge non può capire questo linguaggio. Per questo Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”
Un racconto molto realista: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, è purtroppo nota per la sua pericolosità, piena di agguati, di rapine, di imboscate. Sarebbe preferibile evitarla, ma quell’uomo è costretto a farla quella strada, sfidando i pericoli: per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto, abbandonandolo sulla strada mezzo morto, solo con se stesso, con nessuno vicino, con nessuno capace di capirlo e di accoglierlo. A chi ricorrere? Chi chiamare? Su chi può fare affidamento quel poveretto per essere soccorso? 

È logico pensare che il suo primo pensiero vada sicuramente ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, risponde Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri” nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo in base al suo “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può vedervi come “prossimo”, correndo da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”. 
Questo in pratica ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita dell’anima”. Se non stiamo attenti, il ruolo ci distacca da noi stessi, dalla nostra sensibilità, da ciò che abbiamo dentro; non ci ascoltiamo più; coerenti col “ruolo”, continuiamo a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siamo più noi che sentiamo e decidiamo, ma è il nostro ruolo che sente e agisce per noi in maniera automatica. 
Evitiamo allora di pensare sempre, in qualunque situazione, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli della vita. 
Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il samaritano. 
Egli non ha maschere o funzioni da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.
I due che l’hanno preceduto (sacerdote e levita) vedono entrambi l’uomo ferito, ma continuano per la loro strada. Non così il samaritano: il vangelo sottolinea in lui un particolare, che volutamente ignora per gli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare, che scuote: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.
Come poteva quest’uomo tirare dritto? Come poteva questo samaritano far finta di nulla? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: i cuori del sacerdote e del levita, invece, erano morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.
Noi tutti, del resto, possiamo incorrere nella nostra vita in due tipi di morte: quella fisica e quella spirituale: con la morte fisica, quella che segna la fine della nostra esistenza, moriamo dentro e fuori; con la morte spirituale, invece, viviamo sì all’esterno, ma siamo morti nell’anima. Non dimentichiamoci mai, allora, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; siamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.

 

giovedì 19 giugno 2025

06 Luglio 2025 – XIV DOMENICA DEL T.O.


Lc 10, 1-12.17-20 
[In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.] Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Tutti gli esegeti concordano nel dire che queste parole non appartengono personalmente a Gesù, pur riflettendo scrupolosamente il suo pensiero: sono invece di Luca, il quale, dopo l’ascensione di Gesù in cielo, di fronte a nuove problematiche sorte tra i discepoli, avrebbe fatto risalire direttamente alla sua voce questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, in cui avrebbe condensato, appunto, le sue paterne sollecitazioni rivolte ai suoi. Nel particolare momento storico in cui Luca riporta questo testo, dunque, Gesù non c’è più: spetta quindi ai discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione e nella catechesi, per assicurare a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio. E per farlo, bisogna dotarsi anche di un nuovo stile operativo. 
Sono parole, infatti, che esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per la nuova situazione che si era venuta a creare improvvisamente nella Chiesa nascente: l’urgente necessità di trovare nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”.
C’è, in pratica, urgente bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato al suo commiato da questo mondo: uomini in grado di seguire il suo esempio, soprattutto nel parlare, a suo nome, al cuore della gente. La loro è infatti una missione molto particolare: non servono discorsi didattici altisonanti, dottrinalmente perfetti; non devono dimostrare la bellezza letteraria, l’importanza, il valore del Vangelo che devono annunciare; le loro parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad amare quel “lieto annuncio” di Cristo, e soprattutto imparare a seguire la sua persona, a seguire cioè l’autore di quel Vangelo, Colui che con infinito amore, ha sacrificato sul patibolo della croce la sua vita, per la salvezza dei popoli.
Cosa devono fare, allora, questi nuovi “settantadue”, ossia tutti gli aderenti di allora e di ogni tempo? devono semplicemente ripetere le stesse azioni che Lui, il loro Maestro, ha fatto nella sua vita terrena: cioè guarire i malati e annunciare che il Regno di Dio “è qui, in mezzo a voi”. Non devono proporsi come giudici intransigenti, ma come consolatori degli afflitti, guaritori delle anime e dei cuori in difficoltà.
Il mondo è sempre pieno di persone sofferenti nell’anima, persone che magari sono convinte di essere malate fisicamente, e che cercano affannosamente dei medici in grado di guarirle; non si rendono conto però che la loro malattia è diversa da quelle del corpo, è di un altro tipo, e che quindi per poter guarire il loro malessere, devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, a quella dello Spirito.
Ecco perché, soprattutto oggi, abbiamo bisogno di “medici” dell’anima in grado di far riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi: “medici” che facciano capire che tutti possono “guarire”, perché la Forza guaritrice è dentro ognuno di noi, è nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è infatti fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, è decisamente contagiosa, aggredisce anche il corpo, lo indebolisce, giungendo a causare anche gravi problemi.
Abbiamo bisogno di “medici”, di gente entusiasta, pratica, convinta; di gente che lavora sodo, non dei soliti parolai. Tant’è che Gesù, affrontando il discorso sulla necessità di nuovi operai, usa due verbi molto significativi: prima di tutto un “Pregate”: qualunque impresa, qualunque essa sia, ha sempre bisogno di un continuo intervento di Dio; ma subito dopo aggiunge un perentorio “Andate!”; alla preghiera deve cioè seguire l’azione.
In genere però, noi operai moderni, ci fermiamo alla prima esortazione, al “Pregate”: siamo infatti molto bravi con le parole: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa! C’è bisogno urgente di operai!”. Ma quando passiamo al secondo verbo, al più concreto “andate”, le cose cambiano: perché noi in maniera molto elegante ci defiliamo! In giro si fa un gran parlare della necessità di missioni universali, di sinodalità, di responsabilità personale di ognuno, di collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione corale ecc. ecc.: noi ci tuffiamo anche, ci buttiamo a pesce con le nostre belle parole, con i nostri discorsi accalorati, illustrando ampi e dettagliati programmi; solo che sono rivolti agli altri, a terzi: per la loro realizzazione sono essi che devono darsi da fare: è la manovalanza, secondo noi, a doversene fare carico, noi siamo la “mente direttiva”, siamo gli strateghi, non possiamo abbassarci ai fatti concreti.
Ci lamentiamo perché la società di oggi è disgustosa? Muoviamoci noi per primi, responsabilizziamoci, comportiamoci coscienziosamente, anche nelle piccole cose, diamo per primi il buon esempio. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Nicchiamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri fioretti, fatti solo con le labbra. Dio ci vuole responsabilmente impegnati, ci vuole all’opera! Non per nulla, nel seguito, ci dà una bella serie di comportamenti da tenere.

Certo non è una cosa da prendere alla leggera. È un “sì” a Dio, che non è facile onorare. Si tratta di essere degli agnelli che devono vedersela coi lupi: nel mondo, infatti, sono accolti bene soltanto quelli che organizzano feste, che offrono pranzi, che ossequiano i potenti, che appoggiano indiscriminatamente qualunque loro iniziativa; in altre parole sono quelli che dimostrano sempre e comunque di essere accomodanti, simpatici, che non si espongono mai di persona, che non prendono mai una posizione contro le ideologie del momento, perché nella vita non si sa mai! Chi al contrario “va” nel mondo in nome di Cristo e nel proporre il vangelo come regola di vita, si permette di farlo con un certo vigore, denunciando in maniera chiara e dettagliata la sconvenienza di certe norme sociali, l’indecenza morale di certe iniziative sguaiate, apertamente contrarie a Dio, alla religione, alla legge della natura e al buon gusto, automaticamente deve fare i conti con una massa di lupi inferociti che fanno di tutto per attaccarlo e sbranarlo. Del resto va bene così, è sempre stato così anche con Gesù; la ferocia di una folla aizzata dal male si è sempre distinta per la sua arroganza e prepotenza nel contrapporre le proprie idee!
Quella che Gesù prospetta ai suoi discepoli è una strada lunga e faticosa da percorrere: per questo impone subito la prima regola fondamentale: dovete camminare soprattutto “leggeri”: “se oltre al mio Vangelo, alla mia Parola, vi caricate anche di tutti i vostri interessi personali, dei tornaconti da raggiungere, degli egoismi da difendere, è chiaro che siete troppo impacciati, troppo appesantiti: dovete necessariamente liberarvi dalla zavorra”. È infatti un po’ come andare in montagna: dobbiamo partire con uno zaino il più leggero possibile; perché se pesa troppo, ci rallenta e finiamo col non riuscire più ad andare avanti. Ecco perché: “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Il compito da assolvere è impegnativo e le raccomandazioni si fanno sempre più circostanziate; durante il loro cammino non devono neppure salutare chi incontrano; più che giusto perché se si fermassero a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarebbe anche bello, ma non arriverebbero mai alla meta.
Dobbiamo pertanto essere anche noi cristiani “liberi e leggeri”: solo così potremo viaggiare spediti. Se da un lato la prosperità, il benessere materiale richiedono l’avere grandi quantità, di possedere cioè il più possibile, dall’altro il servire Dio, la spiritualità, impongono l’esatto contrario: avere il meno possibile, il minimo indispensabile.
Dobbiamo inoltre essere rispettosi, caritatevoli, senza imporre nulla a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno poi loro a doversi giustificare con Dio.
Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare due volte”: allora “rispettare” vuol dire guardare, tenere in considerazione, sia le esigenze dell’altro che le sue scelte, anche se sono diverse dalle nostre; significa accettare che nella vita, oltre noi, ci siano anche gli altri. Di conseguenza: dovunque andiamo, portiamo la pace: “Pace a questa casa”. Pace, in ebraico “shalom”, in greco “eirène”, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente: pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro di sé non ha pace, non è serena, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.
Comportandosi dunque esattamente come Gesù aveva suggerito loro, i “settantadue” vanno e tornano entusiasti: “È proprio vero, Signore! Anche noi siamo riusciti a fare quelle stesse cose che tu hai fatto!”.
Ecco: se anche noi ci fidassimo più di Lui che di noi stessi, se camminassimo per le strade della vita ascoltando i suoi consigli, scopriremmo di non essere mai soli, di agire con la sua stessa forza: perché Lui è dentro di noi, con il suo Spirito, e con Lui possiamo arrivare ovunque e a tutto, perché nulla ci è impossibile. Lo sottolinea Gesù stesso: “Non siate felici per il potere che scoprite di avere, per quelle cose che riuscite a fare. Non siete voi, non è merito vostro, ma è lo Spirito che è in voi che compie i vostri prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi saranno comunque scritti nei cieli”.
L’uomo passa: per quanto sia benemerito il suo nome, ben presto verrà dimenticato. Dopo pochi anni dalla sua morte, nessuno più si ricorderà di lui. I nomi scritti sulla sabbia, infatti, vengono ben presto cancellati dal vento; ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre! Amen.

  

domenica 15 giugno 2025

29 Giugno 2025 – SS. PIETRO E PAOLO APOSTOLI


Mt 16,13-19 
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
 

Oggi la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo, averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche senza Dio.
Diciamocelo: per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso. Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio?
Il vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il catechismo su di Lui? cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui? cosa se ne dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente, in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso, significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della nostra vita”.
Gesù non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro, Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo sperimentato la vera vita”.
Questa risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali, dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in gioco la loro vita.
Le grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta. Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare. Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta; perché pianificare e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà dopo. 
Pietro ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo contro tutti quelli di buon senso. E perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più. Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e basta!
Questo è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi, pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il “buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi, ancorati in porto.
Dio è un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge. Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù dice: “Beato te, Simone, perché il Padre mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico, analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti; si danno perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti, risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore: “Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”. La sua è una fede sicura, una roccia; è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”? Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità, il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta può far anche cadere; ma fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta; fa guardare nuovamente in avanti, fa ripartire con decisione, con la stessa passione di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”, fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio, rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione, la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti, noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi, realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile, dell’ozio, dell’indifferenza.
Il nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore, al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori; dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene, respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni” di viaggio e di avventura.
Vivere la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa uomini e donne veri fino in fondo; perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un senso.
Dio ci ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre. Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci” ma non “la fine di tutto”. Il mistero della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha paura.
Solo dopo aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.