“Gesù
passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso
Gerusalemme… Sforzatevi di entrare per la porta stretta,
perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”
(Lc 13,22-30).
Gesù
continua il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del
camminare di Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa
insistenza. Ciò che ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del
muoversi, quanto il riferimento ad una necessaria e irrinunciabile progressione
spirituale dell'anima. Se spiritualmente non siamo in cammino, se non ci
muoviamo, siamo fermi. Se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. Le persone
“vive”, camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono.
Le persone “morte” rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si
intestardiscono, si impuntano.
Ci siamo
mai chiesto perché il Signore dica ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire”
comporta necessariamente un avanzamento progressivo. Non si può seguire il
Signore e rimanere fermi, rimanere sempre gli stessi, fossilizzarsi sulle
stesse idee, sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista. Chi si giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella sua vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni alternative, più appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, più convenienti al suo particolare percorso di sequela.
Vuoto immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta: perché è ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete continuamente senza alcun entusiasmo, passivamente, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di andare al massimo, di trarre il meglio da se stessa; non costruisce il suo percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui. Ma così facendo rinuncia ad essere sé stessa, si lascia trascinare supinamente dal pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale.
Seguire il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale della vita, è quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda chiaramente superficiale, da curioso, di uno che parla tanto per dire qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle poste nelle interviste da tanti cronisti di oggi, fatte con l’intenzione di ricavarne magari uno “scoop” da dare in pasto allo “spettegolare” quotidiano. Ma Gesù non gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà... allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci sul come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri si salveranno o no: il problema vero è se noi riusciremo a salvarci!
Un problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto dura, forte, decisa. Non sono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze. Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente un Dio diverso dal padre buono, dal buon samaritano, dal buon pastore, dal padre che aspetta il ritorno del figlio prodigo, dal padre che ci cerca, che ci ama alla follia, che ci perdona ogni cosa, che accoglie tutti a braccia aperte. È un Dio “intransigente”, da temere e rispettare. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: “Signore aprici!”, Egli non ha dubbi o ripensamenti: “Non vi conosco, non so di dove siete…
È terribile! Eppure questa frase ha un senso profondo: non è Dio che ci rifiuta, che ci condanna: Egli ha creato ciascuno di noi con una sua esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi, strada facendo, abbiamo distorto i nostri lineamenti sovrapponendo tutta una serie di maschere: quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza a tutti, convinto di potersi permettere qualsiasi sopruso; se insomma abbiamo preferito deformare le nostre sembianze originali, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano e ci rendono irriconoscibili, è naturale che Dio, nel presentarci a Lui, ci dica: “Non vi conosco. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!”. Chiaro? “Operatori di iniquità!”. Ma possibile? Proprio noi che ci sentiamo perfettamente in regola, noi, i “grandi”, i “sapientoni”, gli esperti di chiesa, di fede, di vangelo, noi, i cattolici “adulti”, impegnati nel sociale e nelle catechesi; ebbene sì, siamo proprio noi: e ci sentiamo dire: “fuori!”, “esclusi!”. Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, gli orgogliosi discepoli “duri e puri”, siamo al contrario destinati al “pianto e stridor di denti”. Quelli invece che noi deridiamo, quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità, delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’amore e nella gloria di Dio.
Beh, dev'esserci per forza qualche spiegazione che continua a sfuggire alla nostra ottusità di egocentrici! Allora, forse, prima che sia troppo tardi, sarà necessario rivedere subito tutta la faccenda dall’esatta prospettiva evangelica.
È vero, sono immagini di Dio particolarmente dure, di forte impatto emotivo, tipiche dello stile e della cultura del tempo. Immagini comunque che non devono farci erroneamente pensare ad un Dio prepotente e crudele, uno dalla condanna facile e immotivata; un Dio irremovibile, che decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Non è che se talvolta ci comportiamo male, se non seguiamo alla lettera le sue regole, Lui, per vendetta, ce la faccia pagare. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la condanna non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato di certe nostre premesse, una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte finale; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare di fare scelte di “non scegliere”, di condurre un certo vivere senza farsi domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò ha come diretta conseguenza un giudizio negativo.
Le facce della medaglia sono sempre due: da un lato c’è Dio che è grande, misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, e anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci sarà mai quella “presa” che ci salva. Se manchiamo questa “presa” la colpa non è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che dobbiamo aver paura. È di noi stessi: è di noi che non dobbiamo fidarci, del nostro agire fuori regola, dei ritardi delle nostre risposte, delle nostre mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza. Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza. Nessun altro. Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”, dobbiamo fare necessariamente delle scelte, dobbiamo “entrare” in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma la nostra stessa vita ci dirà: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile, impresentabile!”. E anche in questo caso non è una punizione della vita in quanto tale, non è un accanimento del “destino”: è semplicemente la conseguenza delle nostre libere scelte, del nostro agire.
“Sforzarsi”, in greco agonizomai, significa letteralmente “lottare, combattere, gareggiare”.
“Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare; “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
Un verbo che implica delle difficoltà. Nessuno dice infatti che queste iniziative siano facili; ma è giocoforza affrontarle, dobbiamo passarci dentro, perché per varcare quella porta dobbiamo risolverle. Talvolta fanno anche paura; forse ci faranno anche piangere, creeranno tensioni, vere lacerazioni interiori. Ma se le ignoriamo, se le lasciamo lì, se facciamo finta di niente, verrà un giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente. Nessuno ha mai detto che crescere spiritualmente sia semplice: ma dobbiamo comunque entrare “dentro” in quel cammino, dobbiamo oltrepassare quella strettoia determinante.
Molti diranno: “Ma io sono già cristiano: io prego; io vado in chiesa quasi tutte le domeniche; io non ho mai fatto male a nessuno; io mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto: ma è evidente che tutto questo non è sufficiente: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Che vuol dire: “Come mai proprio noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Vuol dire che questo solo non basta poiché siamo rimasti “fuori” dalla nostra anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta che ci introduceva alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva a stretto contatto con Dio. Non abbiamo ascoltato la sua voce e non abbiamo agito di conseguenza.
Se continueremo a seguire la mentalità del mondo, continueremo purtroppo ad ignorare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi, fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere anche la “casa” stessa! È una eventualità che non va sottovalutata!
In conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante
è uno solo: c'è questa benedetta porta da passare, da entrarci dentro. O ci
decidiamo a farlo in fretta, o rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta
per noi irrimediabilmente chiusa. Tocca soltanto a noi scegliere! Amen!