giovedì 10 gennaio 2019

13 Gennaio 2019 – Battesimo del Signore


“Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. 
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” 
(Lc 3,15-16.21-22).

Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione era molto attuale ed efficace e la gente lo seguiva con attenzione. In molti si chiedevano addirittura se non fosse lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre: lo sentivano parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”. Di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente correva da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmetteva è certamente quella di un Dio che ama; ma era anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – faceva capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. È necessario pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige la perfezione, non fa sconti, opera con giustizia, rigore, intransigenza: ripaga i giusti con il premio del paradiso, castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla sua presenza.
Farsi battezzare da Giovanni nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima immergendosi nelle acque del fiume, era quindi per chi lo seguiva l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Dio ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma una volta sceso in acqua, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto il Padre lo ami, di quanto Egli sia importante agli occhi del suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo Vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che il rito del “battesimo d’acqua”, acquista per Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento storico, materiale, di routine; egli tenta qui di riportare una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento profondo, interiore, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso “segni e discorsi” celestiali che tutti avranno modo in futuro di percepire e comprendere: i “Cieli sono aperti”, sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) in stretta, indissolubile comunione, sono aperti per rendere comprensibile qualunque comunicazione.
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; sei unico per me: ti voglio bene!”.
Che cosa in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente siamo, o siamo stati, i destinatari di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata col cellulare e neppure di un “sms”. Ma per tutti, questa occasione è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia quasi esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza per quanto è grandioso e bello.
Se vogliamo capire e dare seguito a questa “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni. Dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutte le nostre miserie, con il nostro nulla, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono spenta la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare, ripulire, tagliare, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: quello Spirito d’Amore che ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere bravi, giusti, perfetti, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, perché così non arriveremmo mai a incontrare e a conoscere l'amore di Dio; non potremmo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “patteggia”, non è soggetto a “conflittualità”, non “pretende” nulla: è solo “a servizio”, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
Fidiamoci della Voce del Padre; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente alla sua “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.


giovedì 3 gennaio 2019

6 Gennaio 2019 – Epifania del Signore


“Alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” (Mt 2,1-12).

Il brano del vangelo di oggi appartiene a quella serie di racconti di Matteo e Luca denominata “Vangeli dell’infanzia”. Uno potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”, se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri trattati teologici: non intendono, cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta delle illusioni”.
I caratteristici personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate dalla Bibbia sempre in negativo, con disprezzo; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del termine “maghi”, in greco, non è del resto molto accattivante: significa “imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi, cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre?
È chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico. Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono assolutamente casuali.
Il primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente personaggio (1Re 9,11.28), in quanto espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano, lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà modo di confermare: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Dio dunque non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli che lo riconoscono e lo accolgono.
Il secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28). Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza: Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa, un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele, il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”, il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di una mentalità religiosa elitaria.
Penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare, da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti.
Quando ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro, da accettare, inconsciamente, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza, un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si spezzi dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto pensare che ciò potesse accadere a noi. Perché il punto è proprio questo: ogni illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; una fede autentica, e non solo: anche autentica umiltà, autentica volontà, autentico carattere: perché con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; bisogna quindi ripartire da zero. 
Quando cade una nostra illusione, pur se fittizia e irreale, non è mai un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa, difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di marcia; perché solo così la “verità ci farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata fiducia. Detto così è facile: invece, com’è difficile il cammino nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche con una piccola notizia. Come è successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo allora con fiducia soltanto a Dio: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero e autentico fuoco d’amore. Amen


giovedì 27 dicembre 2018

30 Dicembre 2018 – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ


“Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava” (Lc 2,41-52).

Nella prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Noi immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita.
Al contrario il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene, non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro unico Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la santa famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che i figli erano cresciuti, che avevano soprattutto bisogno della loro indipendenza.
Il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; come tutti i genitori non erano preparati a vedere il piccolo figlio in prospettiva del suo domani; anche a loro è accaduto e continua ad accadere a tutte le famiglie del mondo.
È la ruota della vita: i figli ne sono il centro. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, cerchiamo di essere il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Stiamo perdendo i nostri figli e non ce ne rendiamo conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma quel bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro proprietà”: pensarlo è un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima. 
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li unisce, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
In realtà è veramente difficile accettare che i figli siano grandi; è difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è difficile lasciare loro spazio; è difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non li aiutiamo a crescere, non facciamo il loro bene.
Quando finalmente Maria e Giuseppe trovano Gesù nel Tempio, gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, il richiamo dello Spirito, la Voce della Sua missione; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
Possiamo dire che la storia di Maria e di Giuseppe è costellata dal non capire, dal non comprendere, da un mistero incomprensibile: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Come mai allora noi vogliamo capire sempre tutto? Perché vogliamo avere sempre una risposta, una spiegazione? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere tutto sempre chiaro? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? Se smettessimo di voler capire tutto, se ci fidassimo un po’ più di Dio?
Una cosa fondamentale dobbiamo capire: che la nostra vita ha un compito ben preciso da assolvere: quello di tornare al Padre, con i frutti della nostra missione.
Per rispondere alla “vocazione” di Dio noi abbiamo delegato molto volentieri alcune persone (preti, suore, frati ecc.), come se loro soltanto avessero il compito di collaborare al grande Progetto di Dio. In questo modo ci siamo sicuramente messi a posto la coscienza, ma non il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in certi momenti, soprattutto quando siamo soli e nel silenzio, siamo tristi? Perché tutti abbiamo un’anima: e la nostra anima, in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti siamo dei “chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso. Possiamo far finta di nulla: nella vita possiamo dedicarci a tutt’altre cose, ma la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per cui è stata creata.
La felicità vera è infatti scoprire e realizzare ciò per cui esistiamo, il compito affidatoci dal Padre, attuare ciò per cui siamo stati pensati da Dio. 
Siamo agli sgoccioli di questo anno solare.
Porgo a tutti gli amici che mi seguono i miei migliori auguri per un radioso 2019.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita.
Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, Lui sì ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.



giovedì 20 dicembre 2018

23 Dicembre 2018 – IV Domenica di Avvento


«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).

Siamo alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica che precede il Natale.
Il vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per ciò che sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze straordinarie; l’una e l’altra hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno in grembo figli “particolari”; l’una e l’altra sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud della Giudea.
Facciamo mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna sola, a quel tempo, era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare attraverso la Samaria, nemica secolare dei Giudei. Insomma, era un’impresa impensabile per chiunque volesse farla da solo.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di riservatezza, di umiltà, di silenzio: una donna dimessa che ubbidisce a tutti e se ne sta zitta e tranquilla, nella sua stanzetta; una madre insomma tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: Maria è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere accusata come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però che arrivata da Elisabetta, entrò “nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. La fretta di abbracciare la cugina è talmente forte da farle dimenticare un saluto al padrone di casa Zaccaria: possibile che durante il viaggio sia diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro, un qualcosa che è successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era muto a causa della sua incredulità all’annuncio di Dio: egli, sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio di Dio.
Maria ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto, immediatamente. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di una profondità che solo loro due possono condividere: una intimità che Zaccaria non può né provare né capire.
In estrema sintesi, Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è innamorato può capire l’amore; solo chi ha la felicità può capire la gioia.
Zaccaria non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha lo stesso cuore delle due donne.
Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di Dio, ed aver fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle logiche finanziarie, della paura.
Il saluto di Maria, piena di Spirito Santo, trasmette ad Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che possiede, ciò che ha. È piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno, nella propria vita, trasmette ciò che ha, comunica quello che è.
Il loro saluto è uno scambio, una comunicazione di percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È un incontro in cui, al di là dei discorsi, i cuori e le anime delle due donne si sfiorano e si toccano.
Ebbene, sull’esempio di Maria permettiamo anche noi allo Spirito del Signore di incontrarci nel profondo del nostro cuore? O lo blocchiamo in superficie, a confrontarsi solo con le nostre esibizioni, col nostro apparire, con le nostre maschere esteriori? Non è certo così che dobbiamo incontrare Dio. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi e Lui. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda al panico, all'angoscia. Tutto questo non ha nessuna importanza, perché se riusciamo a incontrarLo nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo. 
Solo infatti incontrandoLo nella completa nudità del nostro cuore, possiamo trovare la serenità, confidargli le nostre paure, esternargli ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessargli le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo incontrandoLo possiamo aprirci e raccontargli i nostri sogni, spiegargli le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi.
Insomma: è la nostra vita interiore che dobbiamo comunicare a Dio, non vuote parole di comodo; è l’anima che dobbiamo offrirgli quando lo incontriamo nella preghiera, non squallide cerimonie. Allora, e solo allora, avverrà il nostro incontro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità di una vita in unione con Lui. E anche se ciò risultasse talvolta difficile, ci costasse fatica, ci facesse star male, ci facesse soffrire, pazienza, perché solo uniti saldamente a Lui è vivere una Vita vera. Amen.

giovedì 13 dicembre 2018

16 Dicembre 2018 – III Domenica di Avvento: Gaudete


“Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,10-18).

Nel vangelo di oggi la gente va dal Battista per porgli una domanda fondamentale: “Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi una grande quantità di persone si pone molto spesso: “Cosa devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un’iniziativa, un’associazione, un gruppo, qualcuno, a cui rivolgermi per risolvere i miei problemi?”
Cosa non farebbe oggi tanta gente pur di trovare un personaggio veramente carismatico in grado di risolvere i loro problemi! Purtroppo abbondiamo invece di personaggi fasulli che si spacciano per “illuminati”, inviati di Dio, dotati di poteri soprannaturali, paranormali, extrasensoriali; e siccome nei deboli, sia la pressione emotiva della sofferenza, che il desiderio di sollievo spirituale, sono grandi, l'attaccamento a cialtroni del genere è presto concluso.
E visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per star bene spiritualmente, per risollevare la propria anima; si illudono cioè che la felicità, l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta guardarci intorno, per renderci conto di quanto ricco sia il mercato del sacro: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare messe, rosari, preghiere, secondo le nostre intenzioni, per le nostre necessità materiali e spirituali (ovviamente con offerta adeguata); c'è il tour operator che organizza, sempre ovviamente a pagamento, gite e pellegrinaggi nei luoghi sacri, volendo anche, per un ossequio personale, con i rispettivi “mistici” del momento; c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita che abbiamo vissuto prima dell’attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è il santone, in contatto diretto con qualunque santo a nostra scelta, che guarisce a distanza qualunque malattia, previo versamento di un'offerta; c'è una vasta gamma di gruppi carismatici sempre pronti ad accogliere chiunque a braccia aperte, assicurando felicità e benessere, purché facciano donazioni alle loro chiese; c’è infine una folla oceanica di maghi, indovini, fattucchieri, stregoni che vendono i numeri vincenti del lotto, che predicono il futuro, che fanno incontrare l'anima gemella, e via dicendo. 
In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche se non ce ne rendiamo conto!
Quante persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà, non è possibile.
Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe.
Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa.
Noi siamo tutti indistintamente per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per tutte le nostre crisi, ma non c'è! Vorremmo che una preghierina ogni tanto, fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile! Vorremmo che ci fossero delle formulette da recitare ogni tanto, per stare a posto con Dio e con la nostra coscienza; ma non c’è! Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte le nostre difficoltà sia sociali che economiche, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in te, la sua soluzione deve arrivare soltanto da te”. 
Alcuni si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire, per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile girare a vuoto: le occasioni e i punti per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi che in famiglia non ci si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché, ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. Il vangelo è chiaro in proposito: il contadino che divide il grano dalla pula, raccogliendo il primo e bruciando la seconda, è un’immagine molto dura ma emblematica, perché colui che tiene in mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva che deve farci pensare seriamente.
Tuttavia non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la causa della nostra poca carità: siamo noi che sopravvalutiamo le nostre buone azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo modo.
Se nella vita insistiamo ad affrontare tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere ignorando i principi fondamentali dell’esistenza, non capiremo mai che siamo noi gli unici responsabili della nostra vita, che spetta solo a noi, e a nessun altro, dirigerla, coltivarla, indirizzarla!
Giovanni battezza con l’acqua: figura di quei cristiani un po’ tiepidi, che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi scossoni.
Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello di Cristo, quello che sconvolge la vita, che si impadronisce dell’anima, che proietta il cristiano nel divino. È un battesimo di fuoco perché brucia dentro, infonde passione, forza, energia per andare sempre avanti, giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa capire dove possiamo appoggiare il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo tanto seguire; un battesimo che ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza umana. È un battesimo di fuoco perché porta allo scoperto, fa crescere, irrobustire quel soffio divino che ci portiamo dentro, trasformandolo in una forza impetuosa di vita.
Perché il grande “sacrificium” (da sacrum facere, fare una cosa santa), la grande “opera” dell'uomo, è di trasformare una vita materiale, esteriore, vuota, insignificante, amorfa, in una vita spirituale, interiore, piena, vera, sorretta dall’Amore divino.
In una parola, come ci insegna il Vangelo, dobbiamo “rinascere nello Spirito”. Amen.



giovedì 6 dicembre 2018

9 Dicembre 2018 – II Domenica di Avvento


“La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,1-6).

La parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per tutta la regione a predicare.
Quando la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una nascita, un rinnovamento.
Allora: l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia, ci “invia nel deserto”, in noi stessi. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, non siamo più la stessa cosa.
Durante la giornata ascoltiamo un numero incalcolabile di parole! Ma la parola di Dio è un’altra cosa. Nella nostra vita abbiamo detto migliaia e migliaia di parole, molte anche buone ed edificanti, ma la parola di Dio è un’altra cosa. In Chiesa abbiamo “ascoltato” innumerevoli volte il vangelo: ma la parola di Dio è un’altra cosa. Sì, perché la parola di Dio è quella Parola che non scivola via come le altre, ci penetra in profondità, ci scuote, ci spiazza, ci destabilizza, ci tocca l’anima, ci colpisce il cuore. È quella Parola che sconvolge la mente, anche se non sappiamo spiegarci il perché; è quella Parola che ci risuona insistentemente nell’anima, che ci vibra dentro, che ci chiama in causa con un invito perentorio che non possiamo ignorare. È quella parola che ci è impossibile ignorare. È quella parola che pretende da noi una risposta concreta: e prima o poi dovremo dargliela. È quella parola insomma che una volta entrata, una volta che ci ha catturati, ci costringe a girare pagina: non possiamo più permetterci di rimanere quelli che siamo.
Il Battista predica nel deserto.
Deserto (in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma nella Bibbia il deserto è un luogo per cui si deve passare. Non si può giungere da nessuna parte, in nessuna terra promessa se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il proprio deserto.
È stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella babilonese (Is 40,3); è stato un luogo necessario per Mosè (Es 3), per Elia (1Re 19), per Paolo (Gal 1,17), per Gesù (Lc 4,1-13).
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Viene, cioè, un momento in cui bisogna smettere di sfuggire a sé stessi, smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie e pensieri vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte persone hanno il terrore di stare da soli con loro stessi. Molte persone cercano il “tempo per sé”: si riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno, insomma, quello che di solito non fanno mai. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa.
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati
Predicare: kerysso, vuol dire urlare, dire ad alta voce. La radice ker indica il cuore. Giovanni non fa catechesi, lunghi discorsi o omelie; i suoi sono messaggi semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi, appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non ci deve convincere: dobbiamo solo accettarlo perché ci tocca l’anima.
Il battesimo è di conversione per il perdono dei peccati.
Conversione è meta-noeo (“tornare indietro”) e indica il cambiamento di pensiero. Perdono (afiemi) indica il “lasciar andare, il liberare, il mandare via, il rimettere”. Peccato in ebraico è una freccia che non giunge al bersaglio.
Battesimo (in greco baptizein, immergersi) indica l’immersione nelle acque.
È la legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque che contengono la luce e la non luce (le tenebre). Bisogna confrontarsi con tutti i mostri interiori, che noi chiamiamo male, che tendiamo ad isolare, ad eliminare, a mettere in disparte e a non confrontarci.
Tutta la storia della salvezza è il tentativo di entrare dentro queste acque buie, tenebrose, di peccato, per confrontarsi con esse e uscirne, con l’aiuto di Dio, vittoriosi.
Il mondo non è un Eden meraviglioso ma un territorio dove dobbiamo accettare la nostra luce e la nostra non-luce, i nostri lati di splendore e i nostri lati oscuri, quelli di gloria e quelli di tenebra.
Anche gli Ebrei dovettero immergersi nelle acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino, confrontarsi con tutta una serie di nemici per uscirne, con la presenza di Dio, vittoriosi.
Il cammino degli ebrei fu un cammino con grandi fedeltà, grandi luci, ma anche con grandi infedeltà e idolatrie, un cammino d’ombra. E dovettero percorrerlo fino in fondo, tutto, per arrivare alla Terra Promessa.
Anche Gesù si immerge nel Giordano. Anche Gesù è dovuto discendere in questo mondo di luce e di buio, di già e di non-ancora. Anche lui ha dovuto confrontarsi con il buio personale (le tentazioni), le tenebre del mondo e del male che lo ostacolavano, e che alla fine lo uccisero.
Anche noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque del fonte: da lì inizia il nostro cammino di confronto con la luce e il buio che vive dentro ciascuno di noi.
Siamo già figli di Dio, ma solo immergendoci, incontrando il non-ancora che ci fa paura, che respingiamo, che a volte demonizziamo, ma che ci appartiene, potremo diventare tali veramente.
Siamo un seme che può diventare pianta. L’opera è semplice e complessa: dobbiamo raddrizzare i nostri sentieri.
Non è forse vero che siamo aggressivi, crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro bel volto sorridente, dietro a tanto “Dio”, a volte c’è tutto questo?
E tutto questo “storto”, questo irrisolto, dove andrà a finire? Come agirà se lo lasceremo libero dentro di noi?
Come possiamo essere protagonisti della nostra vita con tutte queste scelte non fatte, con tutte queste vie non raddrizzate? Come possiamo essere figli della luce con tutto questo nascosto e questo buio dentro?
Ebbene, se accettiamo che la sua Parola scenda nel nostro cuore, se la facciamo crescere dentro di noi, se la facciamo diventare robusta, se la mettiamo in condizione di produrre fiori e frutta, allora vedremo la Salvezza. Allora vedremo emergere da noi il Figlio dell’uomo, ciò che siamo veramente, la nostra immagine originale in tutta la sua bellezza pura, naturale, divina: perché l’immagine che siamo ora non le assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto ci sarà chiaro: non avremo più dubbi o domande, perché quando si vede, quando c’è la Luce, tutto appare luminoso! Allora nulla ci farà più paura, perché finalmente potremo vedere con i nostri occhi come stanno le cose: ci renderemo conto cioè che tutti (uomini, mondo, universo, bene e male) siamo nelle Sue mani, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo. E mentre noi siamo ancora occupati a perder tempo per conquistare chissà chi e chissà cosa, Lui sorride e ci protegge. Amen.


giovedì 29 novembre 2018

2 Dicembre 2018 – I Domenica di Avvento – Anno “C”


“Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,25-28.34-36).
Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. ciò non deve limitarsi ad un dato semplicemente rituale, cronologico, tradizionale, ma deve costituire per noi un fatto concreto, una realtà, un progetto che prende vita: Dio continua a nascere dove trova spazio e disponibilità. Ecco allora che l’avvento non è tanto un periodo dell’anno liturgico, ma uno stile di vita: è la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi. Dio, con la sua venuta, vuole sorprenderci, vuole meravigliarci, vuole portarci lontano, molto lontano, dalle nostre angosciose, dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca, l’evangelista scelto per il ciclo liturgico di quest’anno, usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche Lui ne descrive il ritorno su questa terra, in maniera apocalittica, alla fine del mondo.
Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo”?
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele 7,13-14, in cui ad un “figlio d’uomo” viene conferito da Dio, il “Vegliardo”, potere, gloria e regno.
Applicandolo a sé stesso, alla sua persona divino-umana, Gesù ha inteso spostare l’attenzione dei contemporanei dall'immagine di un Messia autorevole e glorioso, come lo intendevano gli Ebrei, a quella di un Messia più umano, un “ben adam” (un figlio d’uomo) umile e sofferente, al servo di Jahweh di Isaia, immagine che meglio lo descriveva nella sua missione redentrice del genere umano: rifiutato dai suoi contemporanei, rivendicava comunque per sé una prossima gloriosa rivincita sulla morte (Risurrezione) un suo rientro presso la maestà del Padre (Ascensione) e un suo ritorno nella potenza e nella gloria alla fine dei tempi (Giudizio universale).
Un termine, “figlio d’uomo”, che delinea un programma di vita anche per quanti aspirano a seguire le sue orme: mantenere un atteggiamento da “figli d’uomo” deve essere infatti l’aspirazione di tutti noi, “uomini comuni”, ai quali con il battesimo è stata conferita una personale missione da compiere. Tutti infatti siamo chiamati a vivere qualcosa di grande, a dare alla nostra vita un significato più profondo e meritorio sia per noi che per il mondo.
Qualunque obiettivo vero, grande, potente, ha però un suo costo impegnativo: la vita stessa di Gesù non è stata priva di sconvolgimenti, di ore di “angoscia”, di tradimenti, di sofferenze mortali: al punto che noi, figli d’uomo ben più fragili, guardando questa nostra investitura dalla prospettiva delle difficoltà, dei pericoli, degli obblighi, del nostro personale esporci, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se pensiamo alla gloria, all’Amore, alla dignità divina cui siamo chiamati a condividere con Dio nel suo Regno, allora capiamo che nessuna contrarietà può distoglierci, che qualunque ostacolo diventa superabile. Perché lo scopo primario della nostra vita è meritare quaggiù ciò che potremo vivere in Cielo.
Certo, non è impresa semplice: dobbiamo evitare soprattutto di “addormentarci” sulle difficoltà, sulle fatiche, sulle contrarietà, che sono inevitabili.
Alcune persone dicono di star male, di soffrire tanto, di sentirsi vittime della loro vita. Ma in realtà dimostrano di trovarsi molto a loro agio, non muovono un dito per uscirne, per cambiare, per migliorare. Preferiscono continuare a dormire, auto giustificandosi con i vari “non ho tempo; è difficile, è troppo impegnativo”.
Altri, invece, impostano il loro cambiamento buttandosi a capofitto in mille iniziative: frequentano qualunque corso di catechesi, ogni incontro di spiritualità; sono onnipresenti, super impegnati, senza tregua: ma se si fermano un solo istante per guardarsi dentro, scoprono loro malgrado di essere sempre fermi al punto iniziale, non fanno un passo in avanti. Tutta la loro iperattività risulta completamente inutile, è come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, i percorsi spirituali diventano una droga: ne facciamo tanti, troppi, pensando erroneamente di avere in questo modo maggiori possibilità per migliorare. Succede invece, paradossalmente, che queste iniziative individuali, frequentate al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento, siano al contrario una fuga dalle nostre responsabilità, diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre comunità: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di catechesi in un’altra sede, in quel Centro di spiritualità, al quale non posso sottrarmi! E poi, quanto facciamo qui è troppo elementare, poco istruttivo, non mi attira, non vedo “carismi” particolari, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Sento di poter incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella piccola porzione di Chiesa, in cui Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le nostre “ispirazioni”, non significa essere svegli, vigilanti; non vuol dire vivere nella giusta attesa della venuta di Dio.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).

Il vegliare, lo stare vigili, il non dormire, è il presupposto per poter esprimere un’attenta preghiera.
Il vegliare, lo stare vigili, il non dormire, è il presupposto per poter esprimere un’attenta preghiera.
Il verbo “pregare”, in greco “deomai”, significa pure “aver bisogno, necessitare, desiderare”: quindi noi, oltre che di pregare, abbiamo anche un “bisogno” vitale di stare svegli, di impedire al nostro cuore di prendere sonno e non provare più la gioia di sentirci figli, di chiamare Dio Padre nostro, di godere delle cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per la nostra casa, il luogo dove Dio ci ha chiamati; dobbiamo evitare che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire più la Sua voce proprio là dove Lui ci ha chiamati e dove Lui si aspetta l’impegno laborioso della nostra risposta.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, rimaniamo nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, tra i nostri fratelli più vicini. Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non ci chiederà quanto conosciamo di Lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là seguendo gli inviti di celebri santoni; più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in “casa nostra”, nella nostra comunità, a beneficio del prossimo; su quanto insomma siamo stati attivi nel conoscere, amare, servire Lui, attraverso i nostri fratelli, proprio in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha chiamato. Amen.